Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 16 settembre 2022
Intervento: Karen Kilby (Durham University)
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Kilby durante l’incontro organizzato dal Gruppo di Ricerche di Ontologia Relazionale (ROR) ha condiviso la sua prospettiva principale che concerne la sconfitta della sofferenza e della morte, non la riconciliazione con la sofferenza e la morte. Egli ha ragionato sul rischio della sacralizzazione della sofferenza in alcuni approcci teologici e ha inteso dimostrare che, partendo da una simile prospettiva, la vita e gli insegnamenti di Gesù potrebbero essere meglio compresi.
Il Vangelo di Giovanni è di per sé un’obiezione alla sacralizzazione della sofferenza. Gesù è innalzato sulla croce, la croce è elevazione e gloria. Gesù soffre? Per certi versi sì: ci sono fatti dolorosi che lo riguardano. Per altri, no: Egli è calmo; è il vero giudice; è colui che comprende veramente ciò che sta accadendo tutta la situazione è significativa; domina gli eventi, non si lascia guidare da essi, li accetta; non è mai solo. Tutto sommato, quando Gesù è innalzato sulla croce, la sofferenza è già sconfitta.
San Paolo, a sua volta, ha offerto un’apporto interessante per la lettura cristiana della sofferenza. Per lui, la sofferenza è il costo del discepolato. Il discepolo non sceglie la sofferenza, ma sceglie di seguire Cristo, e questo dà senso a ciò che accade.
Con questo argomento Kilby ha focalizzato la riflessione sull’importanza del significato cristiano della sofferenza. Gesù vive la croce come una situazione significativa, la sequela di Cristo dà senso alla sofferenza del discepolo.
Questa visione ha implicazioni per le situazioni quotidiane. Ad esempio, quando il dolore è integrato in relazione ad altri obiettivi (quindi è significativo), spesso non viene inteso come sofferenza.
Nell’Occidente moderno tendiamo a isolarci dalla sofferenza, ma la Croce ci aiuta a capire che non è questa la strada.