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Vittime e oppressori

Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 11 dicembre 2024

L’11 dicembre 2024 si è svolto un pomeriggio di studio dedicato all’opera di Antonio Malo (PUSC, Roma) Vittime e oppressori a cui hanno preso parte Benedetto Ippolito, della Facoltà di Filosofia, insieme al collega e Luis Romera (PUSC, Roma), e a Giulio Maspero (PUSC, Roma) e Ilaria Vigorelli (PUSC, Roma). Antonio Malo ha risposto alle osservazioni e alle domande dei colleghi e dei dottorandi presenti al dibattito.

A tutt’oggi, sembra che l’ideologia “woke” o del “risveglio” si sia affermata nel nostro tempo come una pseudo-religione. Il suo successo, tuttavia, non è giustificato soltanto dalle forme di oppressione che, nella storia, hanno lasciato il segno su persone, gruppi e comunità, o dalla relativa lotta per una maggiore giustizia sociale. Secondo l’analisi di Malo, la woke culture è il frutto di una lenta gestazione ideologica, unita ad un supporto mediatico pervasivo, che ha utilizzato a suo favore le dinamiche proprie della globalizzazione. Essa affonda le sue radici nelle visioni filosofiche di Hegel, di Marx e di Gramsci. La caduta del marxismo segnò un’evoluzione del pensiero marxiano e l’inizio del nuovo millennio è testimone di una evoluzione ideologica post-marxiana che è approdata alla critica di ogni forma di potere. Il risultato è la messa in discussione di tutte le componenti della società, intesa secondo la logica del patriarcato e accusata di essere in se stessa causa di oppressioni

La woke culture ha cambiato i connotati alla teoria critica di radice marxiana, ma non ne ha mutato il fondamento dialettico Il globalismo pseudo-religioso che ne viene, ha attivato un meccanismo di opposizione dialettica omnipervasiva che, nell’intendere le relazioni sociali come intrinsecamente connotate come oppressive o vittimarie, attiva nei “privilegiati” una richiesta quasi ossessiva di ammissione di colpa. Questa lotta, pur avendo le sue radici in episodi reali di detestabile violenza, scatena un vittimismo senza via di uscita con esiti profondamente lesivi della dignità umana, della percezione dell’identità e della salute relazionale di tutta la compagine sociale. La woke culture non sembra conoscere il perdono, ma solo processi di opposizione serrata in cui l’istanza di libertà dei singoli e dei gruppi appare autoreferenziale e lontana da ogni bene relazionale.

Il discorso filosofico sull’essere umano non può prescindere oggi dal recupero della categoria di identità personale, e per far questo bisognerà tornare a considerare l’attuarsi della libertà, perno sempre presente di ogni movimento culturale improntato sulla rivendicazione. Nel postmoderno, tuttavia, la libertà è stata essenzialmente compresa, sulla linea dell’eredità nicciana, come volontà di potenza o come forza. Ciò impedisce di determinarne i contenuti teleologicamente. Diversamente provare a ripensare la libertà come atto significherebbe non solo attingere ad uno spettro di infinite determinazioni possibili ma ad esplorarla come incremento di sé, come incremento di attualità, che non si compie mai totalmente se non è posta in rapporto ai beni relazionali. Del resto, un’istanza di libertà limitata alla potenza, non arriva mai ad attingere ai beni relazionali.

Vale la pena dunque chiedersi, suggeriva Romera, da dove parta quest’istanza di vittimismo, e, soprattutto, dove intenda arrivare senza il bene del perdono. La stessa rivendicazione di libertà che si blandisce e che allo stesso tempo vittimizza, da quale istanza antropologico è attuata? Un impulso, una reazione emozionale o un sentimento? Il problema è capire da quale istanza di interiorità della persona si viva questa richiesta di libertà.

L’ultimo Habermas, che diceva di sé di non avere il senso del religioso, suggeriva di prestare ascolto ai discorsi dei leader religiosi, anche qualora non tutti i contenuti rispondessero alla ragione pubblica condivisa. Questo perché egli stesso era convinto che vi si potessero trarre elementi utili per il bene sociale. Il problema, dunque, è anche ricominciare a pensare a partire dal bene comune: ricordare non si agisce solo per tornaconto personale legittimo ma anche per il bene collettivo. Libertà è, dunque, non solo affermazione di sé ma anche apertura a ricevere un dono che ci viene recapitato dal vivere stesso: questo non può che cambiare radicalmente la prospettiva, per pensare il mondo e le dinamiche sociali in termini relazionali e non dialettici.

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