Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 21 marzo 2024
Intervento: Lucas Buch (Universidad de Navarra)
In occasione del seminario tenutosi il 21 marzo 2024 il Professor Buch dell’Università di Navarra ha condiviso con il ROR alcune interessanti riflessioni sul rapporto tra arte d’avanguardia e teologia dell’icona. Posta la critica all’ontoteologia di Heidegger, la spoliazione decostruttiva dell’arte contemporanea è stata messa a confronto con l’arte epifanica e sensitiva delle icone. Certa arte contemporanea non ama la realtà materiale e per questa ragione tenta di abbatterla: in questa prospettiva essa è perciò molto distante dal cosiddetto “accesso alla sophia”. Cionondimeno la demolizione che si accompagna al senso di nostalgia, propria di alcune altre forme di arte astratta, caratterizza una ricerca del ritorno all’essenza, che stabilisce un contatto significativo tra l’arte d’avanguardia e l’arte delle icone. Ad esempio, nell’arte di Kasimir Maleviĉ questo contatto è chiaramente percepibile. Il suo “quadrato nero”, secondo Massimo Carboni, è “l’ultima icona”. Qui l’artista non cerca di rappresentare la vita ma di provocarla. Il quadrato nero rappresenta una realtà embrionale, è il germe di ogni possibilità.
L’arte ha conosciuto vari momenti espressivi; in quella rinascimentale, e successivamente nel barocco, il realismo percettivo e il sensualismo hanno “pietrificato” l’osservatore perché nell’espressione artistica il significante ha finito per prendere il posto del significato. Lo svuotamento e la ricerca di minimalismo nell’arte contemporanea, così come l’evocazione del sacro, inaugurano un ruolo nuovo del modo di porsi dello spettatore di fronte all’opera d’arte: per accostarvisi è richiesto uno sguardo attivo, non più passivo. Il vuoto raggiunto dà la vita a un uomo nuovo: l’arte arriva al silenzio potendo con ciò esprimere il sacro. In artisti come Fontana, Rothko, la mistica dello svuotamento – ovvero l’incontro con la piena luce – è profondamente distante dall’accettazione del nulla o dalla mera provocazione di Duchamp con la sua “fontana”. La Casa Farnsworth di Van der Rohe sembra richiamare le parole di Guardini nel suo Lettere dal lago di Como: qui il nulla, il quasi-nulla, richiama un atteggiamento apofatico, in cui lo svuotamento diventa sacramento, espressione viva del sacro. Anche nell’arte delle icone accade qualcosa di simile.
Nell’arte rinascimentale il realismo percettivo e il sensualismo finirono per rendere ogni rappresentazione autoreferenziale – il significante prese il posto del significato (così Florenskij). In questa fase la raffigurazione produceva dei temi religiosi ma non rimandava ad un “oltre”. Questa prospettiva appare rovesciata tanto in certa parte dell’arte contemporanea che in quella delle icone, dove l’arte nasce dal silenzio e il punto di fuga siamo noi.
L’icona, però, ha delle peculiarità proprie. Sin dagli albori è indissolubilmente legata al Nuovo Testamento e all’Incarnazione, tesa nello sforzo di evitare una ricaduta nell’idolatria. Non ogni rappresentazione iconografica è accettata dalla Chiesa nascente ma solo quella fedele al canone iconografico del Vangelo. L’icona costituisce un punto d’arrivo di un processo anche traumatico che interessò altresì la storia conciliare. La posta in gioco non era l’arte ma la vera confessione del dogma dell’Incarnazione e dell’antropologia cristiana. L’icona fa un’opzione per la laconicità e la semplicità: vuole rappresentare la persona di Cristo (ciò che è visibile), che è al contempo luogo dell’invisibile (la divinità unita all’umanità). Per tale ragione quest’arte è necessariamente simbolica, ci mette in contatto con una realtà che è salvezza che si dona. Lo spirituale nell’arte ci mostra la realtà: bloccando l’iperrealismo dal visibile prende forma l’invisibile.