Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione
Formazione dell’identità e relazione interiorizzata: prospettiva teologica
Giulio Maspero
«Ma il valore del dono dipende da colui al quale viene offerto»1.
(A. de Saint-Exupéry)
1. Introduzione
La frase in esergo al presente testo è tratta da Cittadella, testo di Antoine de Saint-Exupéry meno noto rispetto a Il Piccolo Principe o a Volo di Notte, ma in un certo senso più fondamentale per l’autore, il quale non arrivò mai a pubblicarlo perché portava sempre il manoscritto con sé continuando a lavorarlo lungo tutta la sua vita. Contiene una sorta di libro della sapienza berbero, saggezza ruvida del deserto, profondamente spirituale e, in un certo senso, metafisica. La frase citata lo rivela: il dono non si esaurisce in sé, ma il suo essere è nella relazione. Qual è l’identità di un dono allora? Esso è un oggetto, una cosa, oppure rinvia oltre la sostanza donata al soggetto donante e al soggetto che riceve il dono stesso? Secondo l’autore una sostanza può cambiare radicalmente venendo donata a una persona piuttosto che ad un’altra, cioè essa dipende ontologicamente dalla relazione che la costituisce come dono. Oltre alla cosa bisogna, dunque, considerare proprio tale relazione.
Questa prospettiva può risultare utile nel rivolgere l’attenzione all’identità e alla formazione all’identità stessa dalla prospettiva relazionale. L’approccio teologico necessariamente deve muoversi su un piano metafisico e non meramente di linguaggio. Il punto è cosa è l’uomo e cosa è Dio e, ancor più, cosa è la relazione tra di loro. La domanda è la stessa della metafisica. Ma la rivelazione cristiana ha portato alla scoperta che le relazioni stesse hanno una densità ontologica, per cui l’identità non può più esaurirsi a livello sostanziale, ma richiede la considerazione delle relazioni che stanno tra le e nelle sostanze. E questa rivelazione consiste proprio in un dono assoluto, inimmaginabile.
La proposta sarà, così, articolata in tre passi: dalla posizione del problema a partire dall’etimologia del termine identità e dalla sua connessione metafisica con la sostanza (i), si passerà a mostrare come la Bibbia obblighi il lettore a cambiare prospettiva, suscitando un pensiero per il quale la relazione abita l’immanenza di quell’unica sostanza che è la Trinità, come si vedrà attraverso l’esempio del pensiero di Gregorio di Nissa, con le conseguenze che questo ha per l’identità dell’uomo in quanto immagine di Dio, come si mostrerà attraverso il riferimento ad Agostino (ii), per concludere con delle considerazioni pastorali sulla formazione in generale e la direzione spirituale a livello ecclesiale in particolare, ambito radicalmente costituito e definito da quel dono ontologico che è la grazia (iii).
2. Problematica etimologico-filosofica
Il termine italiano identità deriva dal latino idem, calco del greco ταὐτότης, con l’ambiguità intrinseca legata all’essere lo stesso rispetto a sé o rispetto ad un altro. Quindi già a livello etimologico si presenta implicitamente la domanda sulla possibilità che l’identità si fondi sull’unità o sulla molteplicità.
Di per sé il tema è al cuore della metafisica stessa, in quanto la domanda fondamentale che le ha dato origine è la ricerca di che cosa fonda ciò che vediamo, quello che esiste. Il punto di partenza di tale viaggio, che è una vera e propria “navigazione”, fu la natura, con l’individuazione della causa prima del reale in un elemento cosmico come l’acqua o il fuoco,2 ma la ricerca successiva riconobbe la necessità di andare oltre τὰ φυσικά per rinvenire il primo principio al livello delle realtà intellegibili, quindi nell’essere stesso.
La questione fondamentale discussa da Platone ed Aristotele è, così, ancora legata alla diatriba tra Parmenide ed Eraclito: l’essere è uno o molteplice? Il primo aveva risposto identificando la molteplicità con il non essere, mentre il secondo parla dell’essere come continuo divenire. Appare evidente come tali questioni possano venire tradotte in termini di identità: cosa è un ente, infatti, rinvia al suo fondamento, che ne costituisce l’identità stessa. Se ha ragione Parmenide, l’identità consiste nella staticità di un essere che non può conoscere mutamento e quindi permane nella propria unicità, mentre, se ha ragione Eraclito, l’identità è nella legge del mutamento, cioè nel logos al di sotto dell’apparenza, quindi di fatti nella molteplicità. L’ambiguità di ταὐτότης può essere, così, riconosciuta al cuore della domanda metafisica.
Platone, infatti, entrerà in questa discussione evidenziando come Parmenide riduca il molteplice a puro non essere, cioè a ciò che è contrario all’essere stesso, mentre si dà anche il non essere inteso come molteplice.3 Non essere l’Essere con la maiuscola non significa non essere, perché ciò che è molteplice per la partecipazione all’Essere, pur non identificandosi per la sua unicità, è qualcosa: è essere senza essere l’Essere stesso. Tale è il messaggio del Sofista, dialogo che evidenzia immediatamente il valore della questione non solo perché discute l’identità della figura che dà ad esso titolo, ma anche per la connessione del contenuto con l’educazione e, quindi, con la formazione, perché lo scopo dell’autore è far emergere la differenza tra il sofista e il filosofo. Nel dialogo lo straniero di Elea compirà una specie di parricidio nei confronti di Parmenide perché, con la sua arte sofistica, mostrerà come essente ciò che non è, mentre il maestro di Elea affermava che il non essere non si può né dire né pensare.4 In termini contemporanei diremmo che il sofista dà esistenza a quello che non ha essenza. Platone, così, mostrerà che l’essere non può venir trattato in senso univoco, secondo la prospettiva parmenidea, ma che ogni ente è sé stesso in quanto non è un altro. Non essere ed essere altro sono così distinti nell’approccio platonico, che fonda lo stesso metodo dialettico.
L’identità è definita, dunque, da Platone in senso negativo, a partire dalla molteplicità dell’essere che rimanda alla molteplicità delle idee, in ultima analisi ricondotta alla coppia Uno-Diade, se si accetta l’interpretazione secondo le dottrine nascoste. Conclusione è che l’essere è molteplicità, quindi che l’identità è necessariamente connessa all’alterità.5
Cruciale, nel procedimento, è l’identificazione di ciò che è con l’essere intellegibile, cioè con la dimensione eidetica in Platone. Aristotele criticherà il maestro, rimanendo però sostanzialmente nella stessa identificazione, dove all’idea viene sostituita la forma intellegibile. Egli ricondurrà la questione dell’essere a quella di cosa è la sostanza attraverso l’analisi delle categorie, che separa gli accidenti dalla sostanza stessa, fondamento di tutta la costruzione. Questa può essere intesa come sostanza prima o seconda, cioè come individui o come generi e specie, cui gli individui stessi appartengono. Quindi, un uomo concreto è una sostanza prima, cioè sostanza nel senso più pieno, mentre la nozione di uomo che a lui deve essere attribuita è sostanza seconda.6 Così nella Metafisica egli definisce l’identità in senso proprio, e non meramente accidentale, in modo parallelo alla definizione di unità:
Due realtà sono dette essere la stessa se la loro materia è unica in specie o in numero o se unica è la sostanza, in modo tale che l’identità è una certa unità di essere o di una pluralità di enti o di un ente ma trattato come molteplice, come quando si dice che una cosa è identica a sé stessa.7
Come si vede, al centro del suo concetto di identità si rinviene la sostanza, che però continua a rinviare alla molteplicità come già in Platone. Metafisicamente il punto è che alla coppia Uno-Diade è stata sostituita quella tra l’atto e la potenza, in quanto l’identificazione è ricondotta al sostrato materiale puramente potenziale che viene attualizzato dalla forma intellegibile costituendo la sostanza prima. La tensione tra uno e molteplice permane, così come il riferimento all’ambiguità presente nell’etimologia di identità.
La tensione è evidente a livello antropologico nell’Etica a Nicomaco, dove l’identità stessa viene applicata alle relazioni famigliari, spiegando come l’unità dei fratelli è una forma di identità che dipende dall’identità tra fratelli stessi e i genitori, che per loro sono i medesimi.8 Può essere interessante notare che la trattazione dello Stagirita unisce lo stato, l’amicizia e la famiglia, nel tentativo di offrire una soluzione intellettuale a quelle tensioni che la grande tragedia greca aveva magistralmente fatto emergere. La riflessione metafisica ha purificato l’eredità mitica, ma non riesce a sfuggire all’enigma di cui essa è latrice, come Edipo di fronte all’oracolo di Delfi.
Nel ciclo che a lui si riconduce, il contrasto tra il genos e la polis nell’Antigone può essere citato come fulgido e lacerante esempio di quanto qui si cerca di mostrare. Nel testo le relazioni fondamentali dell’uomo, come la filiazione, la fraternità e la sponsalità, collidono, producendo il disfacimento ontologico della realtà sociale.
Quindi, anche se per lo Stagirita l’identità è metafisicamente fondata nell’unità che si dà in grado massimo nella sostanza, nel confronto con le relazioni umane e con la famiglia o lo stato sorge una tensione legata al fatto che gli esseri umani che le compongono non formano una sostanza sola, ma ciascuno è necessariamente distinto dagli altri. Detto in termini metafisici, il superamento di Parmenide attraverso il passaggio ad una concezione di essere non univoca, ma partecipativa e, quindi, intrinsecamente fondata nella molteplicità, si scontra con il polemos, cioè con la tensione del molteplice stesso, che nell’approccio platonico-aristotelico viene gestita attraverso l’identificazione dell’essere con l’intellegibile. La dialettica viene elevata a livello del pensiero. Ma essa è presente anche nel reale, dove non può venir risolta in termine di identità ed opposizione senza conseguenze per le sostanze prime concrete, cioè per gli esistenti. Il punto è che nella trattazione aristotelica le relazioni sono considerate accidenti, proprio perché non possono essere in se ma solo in alio, eppure l’essere non può venire risolto né nella purezza univoca di Parmenide, né nella molteplicità eraclitea. Si ha una tensione ontologica che rimane aporetica.9
Quale differenza c’è tra l’unità accidentale di Socrate e del suo essere filosofo o ateniese rispetto a quello di un fidanzato e di una fidanzata? La difficoltà emerge chiaramente quando si analizza la trattazione aristotelica dell’amicizia e ci si lascia provocare dalla delusione che essa suscita nel lettore contemporaneo, perché la ragione dell’unità è posta nella virtù e non nell’unicità, nell’identità, diremmo ora, dell’altro.10
Vale la pena, per questo, di fare un passo indietro e tornare all’enigma proposto dalla tragedia greca, che attraverso l’arte poetica purifica e quasi cristallizza la questione. Si rilegga il dialogo tra Creonte, tiranno di Tebe che ha condannato a morte Antigone per aver seppellito entrambi i suoi fratelli, sia quello che difendeva la città sia quello che l’attaccava, e il figlio Emone, che di Antigone è il fidanzato. Domanda il padre:
O figlio, forse, ti avvicini pieno d’ira a tuo padre perché hai udito il verdetto inappellabile che ha condannato la tua fidanzata? Oppure conservo il tuo affetto, qualunque cosa io faccia?11
La pretesa del genitore è che l’affetto del figlio sia indefettibile. E questi effettivamente afferma la superiorità della relazione con il padre rispetto a quella con la fidanzata:
Ti appartengo, e tu coi tuoi avveduti consigli mi indichi la retta via: sempre li seguirò. Nessun matrimonio sarà mai per me più prezioso della tua guida sicura.12
A questo punto la reazione di Creonte si fa solenne, perché parla del principio inviolabile dell’obbedienza al padre e al sovrano, spiegandone la ragione a partire dalla sopravvivenza della polis:
Proprio questo, figlio, è il principio: che devi tener saldo dentro di te: assecondare in tutto la volontà paterna. […] Si appelli pure a Zeus protettore dei consanguinei; ma se lascerò crescere l’insubordinazione nel seno stesso della mia famiglia, cosa dovrò tollerare dagli estranei? Chi è saggio verso i propri familiari si mostrerà giusto anche verso i cittadini; ma chi trasgredisce e viola le leggi, o presume di dare ordini ai capi, non avrà mai il mio consenso. No a chiunque la città abbia affidato il potere, a costui si deve obbedienza nelle cose piccole e grandi, giuste o non giuste. E sono convinto che un uomo disciplinato saprà ben comandare, come ha saputo ben obbedire, e nel turbine della battaglia resisterà al posto assegnatogli da vero, intrepido compagno. Non c’è male più grave dell’anarchia, che rovina le città; turba le famiglie, spezza i ranghi e provoca la fuga nel corso della battaglia. Fra i vincitori, invece, è proprio la disciplina a salvare il maggior numero di vite umane. Perciò bisogna sostenere le disposizioni dell’autorità, e a nessun costo lasciarsi vincere da una donna.13
L’identità del figlio sta, dunque, nell’appartenere al padre, nell’essere definito da lui. Qui il nodo tragico del pensiero greco è espresso con compiutezza. La grandezza dell’umanesimo ellenico è stata proprio quella di dichiarare i propri limiti onorando le vittime dello scontro tra legge universale e concretezza individuale, quindi tra unità e molteplicità, mediante l’arte poetica più elevata o il dialogo filosofico più profondo. Infatti, come Antigone, anche Socrate cade vittima dell’impossibilità di raccordare il bene della polis, cioè della società più elevata del tempo, e la relazione con il vero del singolo.14 Creonte ha le sue ragioni. Se Emone non obbedisce, come potranno i soldati seguire il sovrano in battaglia? Come si sosterrà la città senza cadere nell’anarchia? Ma Emone stesso richiama il valore della ragione15 e dice al padre di non arroccarsi in una posizione per la quale solo quello che lui dice e null’altro sia vero.16 L’uomo saggio, infatti, continua ad imparare.
Il pensiero greco è, dunque, aperto, rinvia all’oltre, ma non riesce a sfuggire allo scontro tra le leggi. Quella più universale deve necessariamente prevalere, ma anche le leggi del sangue e quelle del pensiero devono essere tenute presenti. È qui importante non fraintendere anacronisticamente tale conflitto, come se riguardasse la tensione tra universale e personale. Nel mondo greco la questione in gioco è lo scontro tra leggi necessarie che appaiono incompatibili, pur essendo valide. Creonte, Socrate ed Antigone ipostatizzano delle idee. La tragedia nasce dalla loro tensione. Noi sappiamo che in ultima analisi questo dipende dal rapporto tra essenza ed esistenza, ma allora il conflitto si manifestava come irriconciliabilità di una legge più generale rispetto ad una più vicina alla dimensione esistenziale, ma comunque legge generale.
La soluzione aristotelica è collegare l’identità con l’unità attraverso la sostanza per riportare tutto al livello di pensiero. L’essere coincide con l’intellegibile in modo tale che la forma intellegibile, in quanto universale, è la dimensione ontologicamente più vera, mentre l’individuazione materiale è sempre concepita come riduzione della densità metafisica attraverso un principio potenziale. Così l’identità perfetta è quella del puro atto del primo motore che è pensiero di pensiero, in quanto sostanza in massimo grado. Ogni motore mosso è distinto dal primo per un grado di potenzialità, che ne riduce la semplicità e la perfezione. Ogni motore mosso può essere analogamente accostato ad Emone che deve sottostare a Creonte come se questi fosse il primo motore. Ma egli non è il primo principio, come non è un’idea platonica, che comunque potrebbe entrare in contrasto con altre idee. Anche a livello antropologico si vede come la perfezione umana è intesa come autarchia del sapiente che contempla da solo, ancora una volta in parallelo con il primo motore, perché la molteplicità comunque introduce un elemento potenziale.17 L’identità greca si trova, così, in tensione rispetto alla molteplicità, cioè rispetto proprio a quella dimensione insita nelle relazioni umane di paternità, filiazione, amicizia ed amore. In ultima analisi, la tensione tra le due accezioni di ταὐτότης permane, ponendo il fondamento metafisico nell’identità solitaria del primo principio che si raccorda con il molteplice, quindi con il secondo significato di identità, solo a prezzo di una riduzione intellettualista che lascia scoperti i conflitti reali che sorgono nella molteplicità degli individui concreti.
Per cogliere la profondità della questione basterebbe accostare il Fr. n. 3 di Parmenide, riportato da Plotino in Enneadi V,1,8, «lo stesso è il pensare e l’essere» (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι)18 e l’affermazione aristotelica che «il pensiero non è relativo a ciò di cui è pensiero» (οὐκ ἔστι δ΄ ἡ διάνοια πρὸς τοῦτο οὗ ἐστὶ διάνοια).19 Da ciò discende immediatamente che il primo principio, cioè l’Essere che è puro atto e pensiero di pensiero, non può essere relazionale, lasciando le tensioni presenti a livello antropologico in balia del non essere. L’aporia consiste, dunque, nella pretesa di includere in un unico ordine ontologico il primo principio e il mondo senza riuscire, però, a declinarne il rapporto di unità e molteplicità. Si vede, così, come il percorso metafisico riguardo l’identità tocchi le questioni metafisiche più profonde e indichi un punto di crisi ontologica che rimane in attesa di una redenzione, di un logos divino capace di sciogliere il nodo tragico rivelando che l’enigma è in verità Mistero.
3. Prospettiva teologica
Dal punto di vista teologico tutto il pensiero muove dalla dottrina della creazione, che a poco a poco il popolo di Israele è andato sviluppando. La stessa identità di quest’ultimo è fondata proprio sull’incontro con Uno che afferma di essere il Creatore e, quindi, pretende di essere l’unico Dio poiché le altre divinità sono solo ipostatizzazioni di forze cosmiche e, quindi, mere creature. A partire da tale evento, un clan di tribù nomadi, senza una terra propria, inizia a pensarsi a partire dalla relazione con un’entità parlante che non ha altro nome che quello di Dio dei padri, Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. L’identità del Dio degli ebrei è, così, relazionale fin dal primo momento. Di più, è tanto relazionale da generare relazioni e fondare l’identità del popolo chiamato ad allearsi con Lui.
Questo Dio è riconosciuto come superiore agli altri dèi a partire dal suo essere Creatore, in quanto tutto ciò che esiste è stato tratto dal nulla: l’acqua, il mare, il cielo, il sole e le stelle ed ogni realtà che l’uomo stesso di volta in volta aveva chiamato dio. Quindi, nella rivelazione biblica, il punto fondamentale è una differenza: Dio non è come le realtà naturali, ma è radicalmente diverso. Lo stesso atto creativo è espresso attraverso il verbo barà, che ammette come soggetto solo Dio stesso e che significa tagliare. Si potrebbe dire che, proprio perché Dio è radicalmente trascendente, cioè distinto rispetto al mondo, il suo agire può creare distinzioni. Ma ciò implica che Dio e il mondo costituiscono due ordini ontologici diversi e distinti.
Nella Genesi, dunque, l’identità delle diverse creature è fondata in una doppia relazionalità: quella verticale con il Creatore e quella orizzontale con le altre realtà del mondo. Il mare è definito rispetto all’asciutto e viceversa, le acque di sotto rispetto a quelle di sopra, e così via, tanto che il diluvio sarà presentato come chiudersi di queste distinzioni, cioè disfacimento delle relazioni fondanti, che sono lo spazio che permette la vita dell’uomo. Nella creazione di quest’ultimo si osserva uno scarto teologico, perché Dio non si limita a dire sia, come nei giorni precedenti, ma passa alla prima persona plurale, rivelando che l’identità dell’uomo con la sua relazionalità è in qualche forma legata all’identità di Dio stesso e alla sua relazionalità, pur nella differenza assoluta tra creatura e Creatore.
La storia dei Patriarchi e dei Profeti fino alla venuta di Cristo può essere letta proprio come fedeltà di Dio a queste relazioni da Lui poste, nonostante il continuo venir meno dell’uomo. Attraverso un percorso realmente pedagogico il Creatore conduce il suo popolo ad una comprensione sempre più profonda della propria identità e di quella dell’uomo, che ha una valenza profondamente metafisica. Si pensi all’incontro narrato in Es 3,14, dove Dio rivela di avere un nome e che questo nome è Io sono, cioè un Essere assoluto non limitato dal tempo e dallo spazio, in quanto sorgente di ogni essere. Mosè si deve porre la domanda su cosa è quello che si trova di fronte nel roveto ardente, scoprendo che è un Io che è senza limiti, fino al punto da poter esserci anche nel deserto, anche quando il popolo viene meno. Così la domanda sul cosa è diventa teologica, come colsero i traduttori della Bibbia ebraica in greco ad Alessandria tra il III e il II secolo a.C. quando resero il nome di Dio proprio con la formula usata da Platone per indicare l’Essere. E la questione metafisica si presenta, così, come inseparabile rispetto a quella teologica, perfino a livello letterale, perché il popolo di fronte alla manna si domanda man hu (Es 16,15), che cosa è, ripercorrendo in modo inconsapevole il cammino dei grandi autori greci.
Da tale storia discende un allargamento della questione metafisica alla vita concreta dell’uomo, di ogni uomo, perché l’Essere stesso è entrato in relazione con lui, gli ha dato del tu. Come Dio dice a Mosé di togliersi i sandali perché la terra su cui sta è terra sacra, così alla luce del rapporto con il suo Creatore, l’esistenza concreta dell’uomo, la sua pelle, la sua carne, le sue speranze e le sue paure, perfino la sua fame e i suoi desideri più elementari, assumono una rilevanza metafisica. Il deserto, infatti, regione della solitudine perché meno adatta alla vita, diventa il luogo dell’incontro con l’Essere stesso, con la Vita senza limiti. Qui l’Essere si coniuga a partire da un Io che in quanto tale rinvia a un tu. L’ontologia della relazione si intravede, così, già in questa fase.
E con il Nuovo Testamento la dimensione metafisica dell’annuncio cristiano si presenta con ancora più forza, perché la questione non è solo comprendere cosa è Dio e cosa è l’uomo sua creatura, ma un uomo stesso dice e dimostra di essere Dio violando in apparenza quella radicale differenza che il popolo ebraico aveva dovuto apprendere a fatica lungo i secoli. La questione dell’identità di Gesù assurge in tal modo a questione metafisica fondamentale, come dimostra la croce stessa, che può venire letta come un grande giudizio ontologico. Lo scandalo di un falegname che nasce, ha fame, piange e muore, dicendo di essere il Creatore, trova il suo compimento in quel patibolo che negando la relazione con Lui finisce paradossalmente per scoprire cosa e chi Lui davvero sia. Questo redoublement della domanda, che si articola in cosa e chi, inaugura la questione trinitaria, perché il cosa è Gesù dipende radicalmente da chi Lui è. Ancora più radicalmente, il suo essere la stessa cosa del Padre è fondato nel suo essere un chi distinto.
Come il Dio incontrato da Mosé era il Dio dei padri, così ora Gesù rivela di essere Dio chiamando Dio suo Padre mediante quel termine abbà, che aveva imparato da Maria a rivolgere a Giuseppe. La differenza tra padre e abbà è radicale e comune a tutte le lingue indoeuropee: il primo indica origine in generale e si può predicare degli dèi, degli antenati, dei capi politici e così via, mentre il secondo implica la connaturalità che unisce il papà a suo figlio.20 Cristo rivela, dunque, la sua identità attraverso una relazione umana che Lui applica a Dio, al Creatore. E la cosa più sconvolgente è che dimostra la verità della sua pretesa risorgendo.
Da qui il pensiero cristiano, e umano più in generale, ha imparato a distinguere la domanda sul chi dalla domanda sul cosa. Il Padre e il Figlio sono un’unica sostanza eterna che è l’Essere stesso, quindi che è la Bellezza, la Verità, la Bontà e così via. Ma il Padre e il Figlio sono Persone diverse, la cui identità coincide con la loro relazione. Qui il confronto con la tensione metafisica abbozzata nella prima parte diventa cruciale, nel senso anche etimologico del termine. Infatti, l’insolubile aporeticità dell’identità rispetto all’uno e al molteplice, evidenziata nel percorso da Parmenide ad Aristotele, viene qui illuminata da una nuova ontologia, la quale rivela l’incompletezza del pensiero greco che, però, con grande pietà e rettitudine, era rimasto in attesa. In un certo senso, il confronto di Platone con i sofisti può essere riletto da qui come impegno per non nascondere la piaga, per tener aperta la ferita.
Nel Cristo, infatti, la relazione è rivelata come immanente all’Essere stesso, mostrando sulla croce e nella risurrezione che proprio l’intrinseco e mutuo rinvio di un padre al proprio figlio costituisce, per le Persone della Trinità, i due differenti chi come la stessa cosa. Il Padre, infatti, è sé stesso non nel dare qualcosa al Figlio, cioè nel comunicargli qualcosa di sé, ma nel donargli tutto sé stesso, cioè l’infinita, assoluta ed eterna Vita che è Dio. E il Figlio è tale, cioè Immagine del Padre, proprio nel ricevere questa Vita e nel ridonarla alla prima Persona. Così Egli è sé stesso nel ridonare sé stesso al Padre. E tale dono è così perfetto e assoluto da essere un terzo chi, in quanto la Vita donata e ridonata è Dono infinito, assoluto ed eterno, quindi la stessa cosa delle prime due Persone. Qui l’ambiguità del ταὐτότης greco è risolta, perché l’identità dell’unicità e quella della molteplicità sono ontologicamente raccordate.
Si noti che il riferimento al dono è qui necessario, come accennato nell’introduzione, per evidenziare come il fondo dell’essere non può essere identificato con l’intelligibilità secondo l’approccio metafisico greco. Dono indica, infatti, libertà, gratuità, quindi una dimensione distinta da quella della necessità cosmica. L’essere e l’intellegibile si distinguono, in quanto non solo l’essere creaturale stesso è un dono tratto dal nulla, come nell’Antico Testamento, ma ancor più radicalmente il Primo Principio ha un di dentro, un’immanenza, costituito da tale eterno e perfetto Dono reciproco che è l’Essere stesso. L’eccedenza di Dio rispetto al pensiero dell’uomo si gioca, dunque, non solo sull’asse verticale tra il Creatore e la creatura, ma anche su quello orizzontale nell’immanenza trinitaria stessa, dove le tre Persone sono sé stesse nella relazione reciproca che le unisce e distingue nello stesso tempo.
Ciò non implica divaricazione alcuna tra Dio e la conoscenza, in quanto la seconda Persona divina è il Logos, cioè il Pensiero, la Conoscenza e la Parola del Padre. Ma tale Logos è Dio stesso, cioè appartiene ad una dimensione attingibile solo nella relazione. Gregorio di Nissa lo esprime con grande forza:
Questo Logos è distinto da Colui del quale è Logos: in certo modo anch’esso appartiene all’ambito della relazione (τῶν πρός τι λεγομένων), poiché è assolutamente necessario intendere con il Logos anche il Padre del Logos: non sarebbe infatti Logos, se non fosse Logos di qualcuno.21
La terminologia è tecnica e fa riferimento proprio alla categorizzazione aristotelica. Il Pensiero, che per Aristotele non poteva essere relativo a ciò di cui era pensiero, nell’eternità divina è invece proprio relazione pura, eterna ed immanente. Così anche il Padre è ricompreso in termini relazionali, in quanto, secondo Gv 14,10, il Figlio è in Lui, ma anche Lui è nel Figlio. Il punto è sorprendente se letto sullo sfondo dell’ontologia greca, perché l’essere in veniva considerato caratteristico degli accidenti, che hanno bisogno di inerire ad una sostanza per essere in pienezza. Gregorio ricorre proprio al testo giovanneo per dimostrare che non solo il Figlio è relativo al Padre, ma che anche la prima persona è relativa alla seconda, segnando una vera e propria rivoluzione ontologica.22
Il punto è fondamentale nel contesto della polemica teologica nella quale il vescovo di Nissa è immerso, perché il suo avversario richiama metafisicamente la relazionalità come prova della differenza sostanziale tra il Padre e il Figlio: se la loro identità è relazionale, allora devono essere sostanze diverse, tanto che ci deve essere stato un tempo nel quale Dio non era Padre, cioè era libero dalla relazione con la seconda Persona divina che, in quanto creatura, non sarebbe esistita da sempre. Di fatti, si è ancora di fronte alla tensione metafisica tracciata nella prima parte: se l’Essere è tale, la sua identità deve essere solitudine, unicità che nulla ha a che spartire con la molteplicità. Dio sarebbe onnipotente proprio perché solo. Qui, invece, la visione è mutata in profondità, perché l’essere non è più identificato con l’intellegibile, ma è presentato nella sua eccedenza radicale che solo la relazione può attingere.
Così Gregorio introduce la relazione nella stessa immanenza divina, trasformando la relazione proprio nel fondamento del fatto che Gesù e il Padre sono una cosa sola. E ciò ora si dà non nonostante siano due differenti chi, ma proprio perché lo sono.23 Da qui, posto che la prima Persona divina genera la seconda ed è origine anche della terza, Gregorio fa un ulteriore passaggio essenziale per la declinazione di quanto visto a livello dell’ontologia divina rispetto alla creatura. Infatti se il Padre è la stessa cosa del Figlio e dello Spirito, ma un chi diverso relazionalmente identificato nella sua caratteristica personale rispetto agli altri due, allora il suo essere loro causa si dovrà giocare ad un livello puramente relazionale, perché non si ha differenza di sostanza come normalmente avviene tra la causa e l’effetto.24 Si tratta di uno sviluppo assoluto rispetto alla metafisica classica dove la causalità implicava sempre degenerazione ontologica e differenza sostanziale, come nella catena dei motori che secondo Aristotele connetteva il Motore immobile al mondo.
Ma se in Dio la relazione è causa, allora quanto è causato da Dio al di fuori di sé porterà l’impronta di tale dimensione relazionale, in modo tale che le relazioni stesse potranno essere riconosciute a livello creaturale non come elemento degenerante, ma come traccia della perfezione. Ilaria Vigorelli ha studiato con grande profondità le conseguenze di ciò a livello antropologico ed epistemologico.25 Rinviando al suo lavoro per un’analisi più dettagliata, qui sarà sufficiente mostrare come la novità ontologica introdotta da Gregorio di Nissa a livello di relazione permetta di individuare un’analoga immanenza umana, abitata anche qui da relazioni fondanti, che ne costituiscono l’identità. In primo luogo, ciò si esplica nel rapporto costitutivo rivelato dal desiderio di infinito che alberga nel cuore dell’uomo finito. Si tratta di un vero e proprio paradosso ontologico che il riferimento alla misura del mondo greco non è riuscito a temperare. Oggi, nella postmodernità consumistica, tale tensione diventa sempre più acuta fino a portare alla rottura o scomposizione della psiche e dell’esistenza dell’uomo. Dice Gregorio dell’anima:
conformata alle proprietà della natura divina, imita la vita superiore (τὴν ὑπερέχουσαν ζωὴν), in modo tale che non le rimane null’altro che la disposizione d’amore (τῆς ἀγαπητικῆς διαθέσεως), che tende naturalmente al Bene. Infatti l’amore è questo: la relazione interiore (ἐνδιάθετος σχέσις) a ciò che si desidera nel cuore (τὸ καταθύμιον).26
Si tratta di un passo dalla grande forza che riconosce il senso del desiderio senza limiti dell’uomo nell’immagine ontologica in lui impressa dall’atto creativo ad immagine e somiglianza di Dio, che fa dell’amore, e quindi del dono, una legge intrinseca e non estrinseca del suo essere. Come Dio è relazione immanente di eterno mutuo dono che ha origine dal Padre e si compie grazie al Figlio per riposare nella perfezione dell’atto di dono che è lo Spirito, così l’uomo porta in sé una relazione immanente che lo spinge sempre oltre il finito. Si tratta di un punto strutturale nell’antropolgoia nissena, che recupera anche la dimensione del piacere e della passione:
L’amore (φίλτρον) è la relazione interiore (ἡ ἐνδιάθετος σχέσις) a colui che è desiderato nel cuore causata dal piacere o dalla passione.27
In tal modo la dimensione emotiva e passionale viene ancorata a quella relazionale per dimostrare che, nonostante il peccato che distoglie dalla sorgente per far abbeverare alle pozze degli idoli, i quali creano dipendenza nel cuore dell’uomo, questi tende in modo ineludibile verso l’oltre che è l’immanenza del suo Creatore.
E tale relazionalità diventa principio di conoscenza, anzi il vero fondamento delle possibilità conoscitive dell’uomo, in un creato il cui essere non è più automaticamente intellegibile come l’intellettualismo greco voleva. Infatti, per la sposa del Cantico, che sempre di nuovo inizia nella ricerca del suo Amato, l’intima relazione (ἐνδιάθετον σχέσιν) con Lui, cioè la propria passione, è l’unico nome che lei può riconoscere come appropriato a Lui.28
Se Dio è separato da un infinito iato ontologico rispetto al creato, diventa impossibile la conoscenza intellettuale che risale di causa in causa seguendo i nessi necessari che nella lettura metafisica greca connettevano in un unico ordine ontologico il primo principio e il mondo. Ma ciò non implica un esisto relativista, perché la conoscenza può e deve seguire i nessi della causalità relazionale che, in quanto immanenti, saranno attingibili solo nella libertà e nel dono.
In occidente sarà Agostino a sviluppare la dimensione antropologica di tale nuova ontologia relazionale.29 Basta gettare un semplice sguardo alle sue Confessioni per cogliere la radicale novità che la luce trinitaria permette al vescovo di Ippona di scorgere nell’uomo. Un sommario confronto con opere letterarie coeve mette immediatamente in evidenza come l’immanenza dell’uomo passi ora in primo piano, come non era mai avvenuto.30 Ma è il De Trinitate il testo dove Agostino elabora il fondamento della sua rilettura antropologica. Qui egli non cerca di dimostrare la Trinità, ma solo di rappresentare la Vita divina con la vita umana a partire dalla dottrina biblica della creazione ad immagine e somiglianza, per mostrare come non sia assurdo affermare nello stesso tempo l’unità e la trinità di Dio. In un certo senso si tratta ancora di rispondere alla tensione metafisica classica, che non riusciva a conciliare ontologicamente unità e molteplicità, per evidenziare, però, anche come il riduzionismo antropologico dei greci dovesse essere superato. Questi rinvenivano una tensione insuperabile nella relazionalità umana che non poteva conformarsi all’ideale autarchico e solitario del primo motore. In tal modo, pur preservando il vero attraverso il pio omaggio dell’arte, finivano per negare filosoficamente alcune dimensioni dell’uomo, in particolare la tensione inesauribile del suo desiderio e la valenza conoscitiva delle sue passioni. Il vescovo di Ippona, invece, rilegge l’uomo alla luce della relazionalità di Dio, riconoscendo il valore non solo dell’intelletto, ma anche della volontà. Egli, infatti, sviluppa una lettura antropologica alla luce della nuova ontologia trinitaria, nota come analogia psicologica. Spesso si dimentica che essa si articola su tre diversi livelli dell’essere:
- dal più fenomenologico livello sensibile, studiato anche dalla psicologia empirica, costituito dalla triade memoria-intelligentia-voluntas,31
- egli risale attraverso la causalità relazionale alla triade propriamente spirituale mens-notitia-amor,32
- per giungere a riconoscere la radice ontologica delle precedenti triadi sensibili e spirituali nello stesso rapporto con Dio come memoria Dei-intelligentia Dei-amor in Deum.33
L’ultima dimensione riguarda propriamente l’ambito della contemplazione e la relazione con la sorgente divina, della cui immanenza lo spirito dell’uomo è immagine. Alla luce della causalità relazionale introdotta da Gregorio di Nissa tale articolazione può essere riconosciuta come lettura doppiamente relazionale. Infatti, l’attenzione alla corrispondenza di unità e trinità di ciascun livello è resa possibile dalla concezione relazionale del rapporto tra i diversi livelli. In altri termini, è come se dall’immanenza divina della Trinità la dinamicità relazionale si comunicasse allo spirito dell’uomo e da qui alla sua psiche.
Tale rilettura relazionale della res congitans umana si può accostare a quella della res extensa da parte di Gregorio di Nissa. Questi, definendo l’uomo “immagine dell’Immagine”,34 cioè figlio nel Figlio, mostra come anche la sua materialità e corporeità è configurata dalla relazionalità del Logos divino. Infatti, come già visto in un volume precedente di questa collana,35 la posizione eretta, espressione della sua identità in quanto immagine del Creatore, ha permesso, nella rilettura nissena, che gli arti anteriori, i quali negli animali sono zampe, rimanessero liberi per realizzare quei compiti svolti in questi ultimi dalle fauci della bocca. Ciò avrebbe liberato gli organi fonatori per lo sviluppo della capacità di parola.36 La relazionalità del Logos divino si esprime, così, sorprendentemente rispetto all’eredità greca, proprio nella relazionalità corporale che rende possibile il logos umano.
Il contributo di questi due Padri della Chiesa permette di tracciare alcuni tratti di un’antropologia trinitaria, cioè di una rilettura dell’umano nelle sue diverse dimensioni alla luce della relazionalità che l’ontologia trinitaria ha permesso di rivenire. Da qui sorge in modo naturale la domanda su come questo si raccordi con l’esperienza e la pratica a livello pastorale, che necessariamente e sempre più richiede il confronto con la psicoterapia.
4. Rilettura pastorale
Uno dei consigli più preziosi che ricevetti appena ordinato sacerdote fu quello di leggere un trattato di psicopatologia. Ebbi la fortuna di poter parlare con don Giambattista Torrellò, psichiatra e sacerdote, il quale immediatamente mi evidenziò la differenza tra l’identità del sacerdote e quella dello psicoterapeuta. Da brianzolo la questione era per me già abbastanza chiara, perché il sottoscritto non riceve compenso pecuniario alcuno per il suo ascolto. Ma l’approfondimento della prospettiva patologica mi aiutò grandemente anche sul fronte teologico.
Infatti, la combinazione tra la ricerca universitaria, l’attività pastorale e le letture che mi erano state consigliate mi portò a notare come la mente umana diventa prevedibile solo quando si ammala. Mi sembra che ogni persona umana debba sviluppare delle difese, per la semplice ragione che è un essere vivente e la sua identità è definita da una distinzione tra un dentro e un fuori. Ciò vale in primo luogo a livello fisiologico, ma si ripercuote evidentemente anche nella dimensione psichica, come la scoperta dell’inconscio dimostra, ed è fondato nell’ambito spirituale, se è vero quanto visto nelle sezioni precedenti.
Infatti, in quanto immagine del Dio uno e trino, l’uomo è dotato di un’immanenza spirituale dalla quale sgorga la sua libertà e, quindi, la capacità di desiderare l’infinito, stabilire relazioni e donarsi. La domanda su cosa è l’uomo dipende, così, radicalmente da quella su chi è l’uomo, proprio perché questi è caratterizzato da una immanenza, analoga a quella divina, che è esattamente l’ambito del chi. Tale immanenza, cioè tale fondamento dell’identità, richiede di essere preservata. Ma nello sviluppo della persona, particolarmente nelle prime fasi o nei momenti di maggior fragilità, sorgono dei meccanismi difensivi che nel corso della vita possono giungere a imprigionare la persona stessa. Se per un bimbo trascurato dai genitori la tendenza depressiva può essere un fattore difensivo, perché è meglio pensare di non valere nulla e, quindi, che i genitori abbiano ragione, piuttosto che essere in balia di un’assenza, con il passare degli anni tale “armatura” può arrivare a soffocare, perfino letteralmente come avviene nei casi di suicidio. Così la sindrome di Stoccolma presenta un processo analogo in una condizione di estrema vulnerabilità, dove la psiche sviluppa la teoria dell’amore del rapitore, che si prenderebbe cura della persona rapita, per superare la radicale incertezza della situazione vissuta.
Da tale prospettiva, l’esperienza pastorale mi ha portato a verificare come la salute fosse legata ad una elasticità e adattabilità delle difese, mentre la patologia rinviasse ad una rigidezza che diventava carcere. Alla luce dell’antropologia trinitaria proposta, l’esperienza poteva essere letta come irrigidimento della dimensione relazionale dell’immanenza personale. In un certo senso ciò potrebbe essere tradotto come ritorno ad una metafisica greca, dove il mondo è retto da leggi necessarie deterministiche, senza spazio per la libertà dell’immanenza umana. Non è un caso se gli esiti sono in alcuni casi tragici. Tale analogia sarebbe rafforzata anche dalla priorità della lettura mentale sulla relazione con il reale. In un certo senso la patologia rende intellettualisti e razionalisti.
A volte ho dovuto dire a qualche ragazza anoressica o dappica, secondo la terminologia di Vittorio Guidano,37 che pensava in modo “nazista”, perché realmente non ammetteva altra lettura di sé o del mondo che non corrispondesse alla teoria che aveva innalzato a propria difesa.
Ma ciò implica un ulteriore passaggio, perché quanto detto evidenzia anche che la lettura del reale è sempre mediata dalle nostre relazioni interiorizzate. Ne ho avuto esperienza nel primo caso di persona abusata che ho avuto modo di seguire a livello spirituale. Questa persona leggeva continuamente le azioni di cura messe in atto dalle persone che la circondavano come attacchi. Io avevo la possibilità di verificare il contesto relazionale in cui si muoveva, per cui notavo una evidente discrasia. Le sue narrazioni non coincidevano con le narrazioni degli altri, ma soprattutto contenevano dei salti, delle incongruenze. Alla fine ebbi l’intuizione del trauma che poteva causare (relazionalmente) tutto ciò rendendomi conto che il movimento di un ceffone e quello di una carezza sono esattamente gli stessi, mentre cambia la velocità di esecuzione. Evidentemente, una persona abituata a ricevere sberle legge anche le carezze come tali e mette in atto le difese senza verificare la differenza, perché è troppo rischioso farlo.
Come ha scritto Pierpaolo Donati, noi conosciamo attraverso relazioni, in modo tale che la matrice relazionale in cui siamo immersi e i beni/mali relazionali ai quali siamo esposti configurano il nostro rapporto con il mondo.38 Per questo è estremamente interessante rileggere la definizione di psicoterapia formulata da Giovanni Liotti come offerta di una nuova relazione da interiorizzare che possa aiutare a riformulare i propri schemi interpretativi della realtà, in particolare nella sua dimensione relazionale.39 Si tratterebbe, dunque, di una relazione che cura o corregge le ferite relazionali che hanno configurato la lettura dei rapporti della persona con il reale.
Nella prospettiva di Liotti tale concezione della psicoterapia è fondata sul suo lavoro per mostrare la dimensione interpersonale della coscienza,40 la quale si costituirebbe attraverso la capacità di identificazione affettiva con l’altro permessa dalla metacognizione. Questa consiste nella possibilità di pensare sé stessi e le altre persone come soggetti conoscenti in modo intenzionale.
In particolare, essa si svilupperebbe verso i nove mesi. Infatti, prima di tale età un bambino, vedendo un filmato nel quale due altri bimbi sono di fronte a due scatole e uno dei due nasconde una mela in una delle sua scatole, alla quale però cambia di posto mentre l’altro bimbo esce un attimo dalla stanza, se viene interrogato su dove il bimbo che era uscito cercherà la mela, risponde dicendo che si dirigerà verso la scatola dove la mela è, perché non riesce a mettersi nella relazione con il bimbo che era uscito, leggendo quello che questi sa o non sa.41 Nella linea interpretativa proposta, ciò può essere descritto come insufficiente sviluppo di quell’immanenza psichica che permette di riconoscere la relazione. Il bimbo prima dei nove mesi vede solo la sostanza, la mela appunto, ma non percepisce la relazione fondamentale per mettersi nei panni altrui e coglierne l’intenzione.
Lo stesso si può dire della strange situation, in quanto l’osservazione delle reazioni di un bimbo lasciato da una figura di attaccamento da solo con un estraneo e di quanto accade nel successivo ricongiungimento può essere considerata, dalla prospettiva illustrata, come analisi della resistenza e resilienza delle sue relazioni, in altri termini della loro consistenza e della loro elasticità, quindi esplorazione dell’immanenza psichica e delle difese poste ai suoi confini.
L’antropologia relazionale permette di riconoscere il valore ontologico di tali indagini fenomenologiche. Qui il termine ontologico non è inteso in senso meramente ermeneutico o costruttivista, perché alla relazione è riconosciuta un’autentica densità metafisica. Infatti, essa è un co-principio dell’essere insieme alla sostanza, ma non è traducibile in termini concettuali come quest’ultima. Eppure, la relazione stessa è reale e conoscibile attraverso altre relazioni, come avviene nella psicoterapia appunto, ma anche più in generale in ogni forma di cura della persona, dall’accudimento fino alla formazione.
È chiaro che tale approccio esula dall’ambito di un’epistemologia di taglio cartesiano, fondata sulla separazione tra res cogitans e res extensa. La psicopatologia, infatti, mostra con estrema evidenza l’insufficienza di tale approccio, in quanto si tratta di una sofferenza che si estende al corpo, la cui causa, però, non si trova al livello di res extensa, ma di res cogitans. Dalla prospettiva teologica, invece, non si ha problema epistemologico, perché si dispone della causalità relazionale.
Questa può essere utilizzata proprio per spiegare il ruolo della metacognizione che si estende dalla formazione del linguaggio fino alla costituzione delle convinzioni morali. Michael Tomasello ha mostrato, infatti, come proprio lo sviluppo di tale capacità sarebbe il guadagno che avrebbe rappresentato un punto di non ritorno nell’evoluzione umana.42 Quando un bimbo inizia ad indicare al padre una realtà terza rispetto ai due, sta utilizzando proprio la metacognizione, operazione impossibile ai primati. Da qui si svilupperebbe l’apprendimento del linguaggio, in quanto i nomi convenzionali utilizzati dalla comunità umana vengono a poco a poco condivisi in questo spazio relazionale.
Tale condivisione dell’attenzione può essere letta da una prospettiva trinitaria in chiave ontologica, perché di fatti il triangolo tra il padre, il figlio e la realtà indicata costituisce uno spazio di comunione tra l’immanenza personale dei due, che, pur giocandosi a livello cognitivo, può essere interpretata come manifestazione della dimensione spirituale, secondo l’approccio agostiniano.
È importante qui notare che tale processo è alla base anche della costituzione dei primi giudizi morali, poiché i bambini più che dalle leggi imperative degli adulti, sono mossi dalla capacità di identificazione relazionale con i propri coetanei, dei quali colgono il dolore, possibile effetto di un comportamento cattivo.43 E anche nel caso di comandi espliciti da parte di un adulto, l’eziologia relazionale indica la ragione dell’adeguamento all’indicazione più nell’autorevolezza affettiva della figura di attaccamento che nella forza del comando stesso.
In termini più semplici, quando io da piccolo cercavo di mettere le dita nella presa, forse mostrando le prime inclinazioni alla ricerca come fisico che poi ho intrapreso per un periodo della mia vita, mia madre mi diceva che non andava fatto perché era cacca. Lei non mi spiegava la differenza di tensione o il ruolo degli elettroni, ma io comprendevo in quel triangolo relazionale che la mia esplorazione toccava un limite pericoloso perché mia madre era attendibile, in quanto mi dava la pappa. Io producevo la cacca che non mi piaceva, lei produceva la pappa che mi piaceva. Per le mie capacità cognitive di quel momento questo era convincente.
Evidentemente qui era essenziale il tipo di relazione, cioè di attaccamento, che io avevo nei confronti di mia madre. Essendo questo di tipo sicuro, l’indicazione non era da me recepita come costrizione. Infatti, la struttura e, quindi, la grammatica relazionale si sviluppa sostanzialmente nei primi due anni di vita, producendo dei modelli operativi interni che sono vere e proprie matrici relazionali, dalle quali dipende il rapporto con la realtà e, quindi, anche l’insorgere di patologie psichiche quando le difese sviluppate in tale rapporto prendono il sopravvento.44
Qui può risultare illuminante la prospettiva teologica con la connessione tra il rapporto uno-molteplice, vera crux dell’identità, con il fondamento ontologico. L’antropologia relazionale, conseguenza dell’ontologia trinitaria e della scoperta della causalità relazionale, legano l’identità stessa al Padre che eternamente e perfettamente genera il Figlio nel loro Amore. L’aporia metafisica, che è tutto tranne che astratta, come si può osservare nelle numerose tragedie che caratterizzano la nostra patoplastica contemporaneità, viene infatti ricomposta dalla rivelazione di un Padre infinito ed eterno che è sorgente. Creonte è un padre finito che rinchiude in una categoria, ma a sua volta è stato figlio di suo padre, come Emone lo è di lui. Questi giustamente rinvia il genitore all’eccedenza del reale rispetto alla teoria a lui imposta in nome della polis, quindi rispetto a modelli operativi interni di tipo riduzionista ed intellettualista. Creonte cerca il bene e non trova altra strada che quella percorsa, così Emone, pur richiamando l’insufficienza e l’ingiustizia della scelta, non ha altra possibilità che adeguarsi al fato, come ogni greco pio. Ma la ferita è esposta, il limite è dichiarato ed affidato alla potenza eternizzante dell’arte.
E qui si presenta la questione cruciale anche dalla prospettiva pastorale: ogni uomo, proprio perché creato ad immagine e somiglianza di Dio, ha un desiderio infinito, pur essendo finito. Dal punto di vista antropologico questo è un paradosso che solo il ricorso al mistero trinitario riesce ad illuminare. Infatti, non solo chi ha subito un abuso o un trauma da bambino si porta dentro una ferita relazionale, ma ogni essere umano è segnato da una radicale sproporzione che rende insufficiente ogni amore dato e ricevuto. Generare, educare, curare, sono azioni che pongono il soggetto in una posizione di inevitabile inadempienza e inadeguatezza. In un certo senso, ogni padre ed ogni amante è chiamato a chiedere perdono per il suo agire. Ma non c’è altra via per essere sé stessi, come Gesù con forza ha indicato. Siamo chiamati ad amare il nemico non perché si tratti di un caso particolare di amore, che in alcuni casi estremi si può dare, ma siamo chiamati ad amare il nemico perché ogni persona amata diventa necessariamente nemico per la sproporzione tra limite creaturale e desiderio personale, espressione della relazionalità all’oltre trinitario.
Così ogni formatore, ogni genitore, ogni care-giver realizza sé stesso rinviando oltre sé stesso alla sorgente relazionale che è l’unico Padre che non è figlio. Per questo l’atto d’amore del generare un’identità può essere compreso solo come rinvio relazionale alla sorgente dell’identità stessa. In un certo senso, secondo quanto magistralmente mostrato da René Girad, ogni padre è destinato ad essere capro espiatorio, come Edipo, in quanto ipostatizzazione simbolica dell’insufficienza del limitato rispetto al desiderio del figlio. Il vantaggio è che la reazione dialettica che caratterizza, ad esempio, l’adolescenza, momento per eccellenza centrato sulla costituzione dell’identità propria del soggetto, è destinata al fallimento, in quanto, in modo simmetrico rispetto all’imposizione di Creonte, si gioca sul piano meramente ideale. Se è vero quanto visto a livello di ontologia e di antropologia trinitaria, il passaggio all’eccedenza del reale sarà richiesto da tutto l’essere della persona. L’iniziazione, oggi praticamente scomparsa dell’orizzonte culturale, aveva proprio la funzione di segnare il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, trasformando i figli in soci dei padri. Attraverso di essa, il limite veniva spostato dalla dimensione ideale a quella reale, permettendo di riconoscere il padre stesso come colui che mostra la possibilità di trarre profitto non solo nonostante il limite, ma proprio dentro di esso. In tal modo formazione e paternità si presentano come relazioni che generano relazioni, perché supportano la relazione del soggetto con il reale. In altri termini, paternità e formazione non si giocano solo a livello sostanziale, ma anche nella dimensione relazionale.
In base all’esperienza, mi pare essenziale sottolineare che non si tratta di un aut-aut, ma di un et-et, perché l’uomo è sia sostanza sia relazioni. Il pericolo che vedo oggi molto diffuso, in quanto è principio fondamentale di una postmodernità che reagisce al razionalismo moderno, è quello di negare la dimensione concettuale, in una dialettica che sposta l’identità in una deriva relazionalista e non relazionale. Non basta uccidere Creonte per salvare Antigone, come il parricidio di Parmenide non ha liberato il sofista dall’aporia metafisica. La dimensione sostanziale è essenziale nell’uomo e questa esige una traduzione concettuale. Nello stesso tempo questo passaggio non è automatico, ma si gioca attraverso le relazioni. È fondamentale non assolutizzare in modo idolatrico le rappresentazioni per mantenerle sempre aperte all’incontro con il reale. Un esempio può aiutare: ogni esploratore ha bisogno di carte nautiche per partire, come il genovese Cristoforo Colombo, non importa se esse sono imperfette o addirittura in parte erronee, come nel suo caso, quello che importa è che rendano possibile il viaggio e, quindi, la relazione con il reale. Sulla via del ritorno le mappe saranno ridisegnate, corrette e completate. Il buon padre, allora, dà le mappe senza assolutizzarle, trasformandole così in un dono che permette la relazione. Il formatore è sempre socio delle persone che gli sono affidate, come ogni genitore lo è di coloro che ha generato.
Quando questo non avviene, lo spazio interiore dove abitano le relazioni rimane chiuso e sottosviluppato, arroccato nel confronto con un’identità estrinseca. La dimensione cognitiva ne risulterà ferita. Ad esempio, una volta mi sono trovato in un dialogo di direzione spirituale con una ragazza che si rivolgeva regolarmente a me. Le chiesi come stava e mi rispose bene. Allora le domandai se c’era qualche novità nella sua vita e mi raccontò una serie di eventi dolorosi, tipo la bocciatura ad un esame, un incidente automobilistico e la rottura con il fidanzato. Non potei fare a meno di dirle che, io al suo posto, mi sarei sentito addolorato e triste, quindi allora, e solo allora, lei mi disse che effettivamente, ora che io glielo facevo pensare, si rendeva conto di non stare bene. Era come se da sola non potesse accedere alle proprie emozioni e ai propri sentimenti, in particolare a quelli negativi, ma avesse bisogno della relazione con un adulto che le facesse da ponte. Una metafora che può descrivere questa situazione è quella del camaleonte, che si difende assumendo il colore dello sfondo, ma solo quando serve. Invece, se una persona non potesse fare a meno di nascondersi nello sfondo, rimarrebbe intrappolata senza poter più accedere al proprio colore, alla propria identità e, quindi, al proprio desiderio, come una ragazza che in gelateria non riesce a scegliere i gusti che preferisce, ma introietta le scelte degli altri.
La situazione mi pare seria, perché la cultura in cui siamo immersi, con il consumismo emotivista che la caratterizza, provoca tale degenerazione cognitiva. René Girard stesso, nel suo libro sull’anoressia, ha citato l’esempio di una regione delle isole Fiji, dove prima che arrivasse la televisione via cavo, l’essere in carne era ritenuto segno di bellezza e salute, mentre era insorta l’anoressia dopo l’esposizione ai nuovi modelli mediatici.45 Oggi veniamo bombardati da stimoli emotivi che continuamente cercano di “programmare” il nostro desiderio. La persona non impara poesie a memoria, non si trova mai a dover riassumere, cioè disegnare mappe, non ha uno spazio interiore dove conservare le memorie emotive per poterle richiamare nella sua relazione con il reale. In un certo senso siamo spinti a funzionare come mera risposta compulsiva a stimoli emotivi che si trovano nel cloud mediatico. Ciò innalza sia il livello di autismo, sia il panico causato dalla mancanza di mappe. Oggi il Super-Io non è assente, ma invisibilmente attivo. Non c’è neppure la possibilità di prendersela con lui, come fa Emone. In un certo senso si potrebbe dire che siamo di fronte ad un meta-Super-Io, cioè il Super-Io di un Super-Io, molto più infido, perché esclude anche la possibilità della reazione dialettica, come nell’attaccamento inverso tra genitori e figli. Ne è dimostrazione il prolungamento indefinito dell’adolescenza, dalla quale non si riesce ad uscire, coerentemente con l’assenza di iniziazione, cui si è accennato.
L’antropologia trinitaria permette di leggere, qui, il valore funzionale ed ontologico della corrispondenza tra emozioni, sentimenti e relazioni. Le prime si giocano sul confine tra soma e psiche, come dimostrano le farfalle nello stomaco e analoghe reazioni fisiche, ma la loro radice è nei sentimenti, i quali, invece, si situano sul confine tra psiche e spirito. Essi, infatti, possono rivelare disposizioni spirituali profonde come l’amore e la compassione. Infine, le relazioni sono la causa ultima di tale sequenza, costituita proprio dalla causalità relazionale. Si noti, infatti, come quanto detto sia sintonico rispetto alla lettura del rapporto tra corpo e logos di Gregorio di Nissa e all’analogia psicologica di Agostino.
Tutto ciò va tenuto ben presente nell’educazione e nella formazione spirituale, dove la trasmissione di una mappa è essenziale per la costituzione dell’identità. I cristiani, infatti, hanno ricevuto tale nome per la prima volta ad Antiochia, nel momento in cui hanno iniziato a convertirsi dei pagani.46 Prima un discepolo di Gesù era semplicemente un ebreo che aveva riconosciuto in Lui il Messia, come nel caso di Saulo-Paolo. Ma quando il primo non ebreo ha seguito Cristo, si è posto seriamente il problema della sua identità e, quindi, del nome. La risposta è stata relazionale: il cristiano è definito da un nome che dice relazione con Cristo, perché la sua identità è proprio tale relazione e non meramente una dottrina, una morale, una tradizione. Ancor di più, l’identità del cristiano è la relazione a Cristo che a sua volta è relazione al Padre, cioè relazione di relazione.
Così, se ogni atto formativo esige la compresenza di mappe e relazioni, quindi di identità e molteplicità, nel caso del cristianesimo tale compresenza è essenziale e dipende radicalmente dal fondamento trinitario della fede. Quindi, a rigor di logica, non si può formare l’identità cristiana perché essa consiste nella relazione con il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. L’identità cristiana è, infatti, sempre opus Dei, opus Trinitatis. La tradizione, il dogma, la morale e così via, non ne sono il contenuto, ma la forma, la mappa. Con un’immagine si potrebbe dire che formare l’identità cristiana è come insegnare una lingua: la validità del processo dipenderà dalla capacità di relazione con la corrispondente comunità linguistica, relazione grazie alla quale crescerà la capacità stessa di esprimere sé stessi, perché nessuno può avere la pretesa di possedere e comunicare tutta una lingua, realtà relazionale e sociale per eccellenza. E ciò non significa che non bisogna imparare termini a memoria o studiare la grammatica, solo che tali passi sono funzionali allo sviluppo della relazione. Ciò vale a maggior ragione ed eminentemente per l’identità cristiana, in quanto Dio è Mistero infinito e l’unica lingua che permette di conoscerlo è il Logos stesso, cioè l’Unigenito che è nel seno del Padre.47
Se sempre la formazione deve mirare ad educare esploratori, questo è essenziale nell’ambito spirituale. Un errore tipico sarebbe quello di sacralizzare non la relazione ma la mappa, cercando di riprodurre un’identità estrinseca e formale, magari copia dell’immagine di un santo o di un fondatore. Ciò equivarrebbe, infatti, a idolatrare la propria origine, tradendola perché non se ne riconosce la dimensione generativa e, quindi, relazionale. Non si tratta, invece, di ripetere quello che chi ci ha generato ha detto o fatto, ma di continuare a stare nella relazione con Cristo nella quale Egli ci ha introdotto. E questa è la volontà di Gesù stesso, il quale ha detto: «In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre».48 Il testo è estremamente significativo, perché il discepolo farà cose più grandi di Cristo, proprio per Cristo, cioè nella Sua relazione al Padre. Nessun libro conterrà mai la relazione, perché «il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere».49
Quindi la formazione all’identità cristiana non può assolutamente essere la trasmissione di una forma, perché significa introdurre ad una relazione eccedente rispetto alla realtà del formatore stesso, in quanto relazione con il Padre infinito, il Padre dei padri, il Padre di tutti i padri che sono anche figli.
La formazione spirituale avrà, dunque, in primo luogo una funzione diairetica, perché dovrà distinguere delitto, peccato e malattia. Il primo obbedisce alla legge di necessità estrinseca, che non si può violare senza incorrere in una sanzione, ed è l’ambito del diritto. Il peccato, invece, riguarda l’ambito della libertà, dove il riferimento è alla giustizia. Se la differenza tra i due scompare, si è in un regime totalitario, dove non si ha più spazio per l’interiorità dell’uomo e la sua libertà. Infine, si ha l’ambito della malattia, dove nuovamente il riferimento è alla legge di necessità, questa volta intrinseca al soggetto. Ad esempio, un ossessivo può percepire come peccato e come delitto un comportamento che tale non è. Così Edipo non doveva confessarsi per quello che aveva compiuto. Il primo atto di cura della formazione spirituale sarà, dunque, la protezione dell’immanenza relazionale della persona, fondamento della libertà. E questo è oggi quanto mai urgente, perché il sistema mediatico punta a invadere in modo manipolativo ogni spazio interiore delle persone, creando dipendenza, cioè patologia.
Ma un ragazzo una volta mi ha detto di sentirsi più confuso di un camaleonte sulle M&M’s. Se il fondo è assolutamente polimorfo e multicolore, il meccanismo difensivo va in crisi. Mi sembra una magnifica metafora della postmodernità e dell’opportunità che essa offre. Le crisi di panico derivano anche da qui. Ma il sintomo è l’unica via di salvezza e nella formazione cristiana, come nella psicoterapia, risulta essenziale percorrere la via del sintomo. La malattia, infatti, ha anche una funzione evolutiva. Anche i greci lo avevano intuito come dimostra l’endiadi sofferenze-insegnamenti (παθήματα-μαθήματα) che risale ad Esopo.50 Anche Eschilo, nell’Agamennone, ha scritto: «Zeus, che conduce i mortali sulla via della conoscenza, Zeus il quale ha stabilito che la saggezza si conquista attraverso la sofferenza».51
In questa tragedia di Eschilo il ritorno del re dopo la vittoria a Troia è annunciato alla sua sposa Clitennestra dalla vedetta sul tetto della casa, a lei che attende il ritorno del marito per vendicarsi di aver sacrificato agli dèi la bellissima figlia Ifigenia per ottenere venti favorevoli e con essi la partenza per l’impresa bellica. Radicalmente simmetrico rispetto a questa immagine tragica, che produce morte, è quella del padre del figlio prodigo, il quale scruta l’orizzonte per scorgere il figlio che torna e correre a perdonarlo.52 Tale narrazione può essere considerata il paradigma della formazione dell’identità cristiana, perché il padre non vuole evitare che il figlio minore sbagli, né vuole preservare le sostanze. Nemmeno si sente responsabile come Creonte. Ma il suo atteggiamento è una disposizione indefettibile di conferma al figlio che rivela la forza superiore alla morte della loro relazione reciproca. In questo modo il figlio può tornare perché conserva la relazione interiorizzata con il padre anche nell’esperienza del limite e della miseria e, tornando, scopre che il suo vero patrimonio è proprio quella relazione che fonda la sua identità di figlio.
Così la dimensione esodica, essenziale per l’identità cristiana, come per quella ebraica,53 è via di accesso alla realtà più profonda che non è concettuale, ma relazionale. Per questo Cristo stesso «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (καίπερ ὢν υἱός, ἔμαθεν ἀφ’ ὧν ἔπαθεν τὴν ὑπακοήν).54 Torna qui l’endiadi citata con ἔμαθεν-ἔπαθεν. Il Logos è, infatti, entrato nei delitti (si pensi alla sua condanna e al buon ladrone), nei peccati (l’adultera, il pubblicano) e nelle malattie (ciechi, lebbrosi, storpi) degli uomini. Nel deserto delle nostre miserie, Egli è Sé stesso, cioè Figlio del Padre che è sorgente, perché porta nel limite la relazione con l’infinito e la sua presenza. Il Vangelo, la Buon Novella, è che le difese concettuali, le rigidità che proteggono l’immanenza, non sono l’ultima parola, perché l’identità è più forte, tanto da creare crepe e fessure nei nostri muri attraverso le quali l’eccedenza del reale può farsi presente. Imparare dall’obbedienza alla sofferenza è il cammino non solo del criminale, del peccatore o del malato, ma di ogni figlio di uomo che non può sfuggire alla tensione tra il proprio limite creaturale e il proprio desiderio di infinito. Così il sintomo è via alla libertà. Ogni criminale, ogni peccatore, ogni malato, e radicalmente ogni uomo, è un figlio, destinato alla libertà e dotato di eredità come il figliol prodigo, che deve attraversare il deserto per essere sé stesso. Obbedienza, infatti, deriva da ob-audire, dal verbo che indica l’ascolto profondo del reale e quindi anche della tensione che costituisce la propria identità. Ogni formatore e ogni terapeuta svolge, dunque, un ruolo analogo a quello sacerdotale, perché come Mosè accompagna il popolo sulla via difficile, aiutando a superare la tentazione idolatrica, dal ricordo della carne e dei cocomeri dell’Egitto fino al vitello d’oro, per portare sulla soglia della terra promessa, dove però il discente deve entrare da solo, perché solo giocando la propria libertà può davvero entrare in relazione, sfuggendo la prigione delle proprie rappresentazioni mentali. Allora, il padre, il formatore, lo psicoterapeuta mostrano nella loro vita, nello stare in relazione con chi è stato loro affidato, che la penombra non si spiega a partire dall’ombra, ma dalla luce, perché la penombra stessa è relazione reale alla luce.
Solo così può non essere condanna quella tensione tra finito ed infinito, che dalla prospettiva antropologico-trinitaria costituisce l’identità più profonda e ineludibile di ogni uomo. Infatti, come spiega Pierpaolo Donati, la relazione è un effetto emergente, cioè, in termini ontologico-trinitari, è un surplus di essere che costituisce la relazione stessa e tiene anche laddove le costruzioni concettuali e le difese di coloro che sono in relazione giungono al limite.
La critica biblica all’idolatria è qui fonte essenziale. Creonte stesso si pone di fronte ad Emone come un idolo e il figlio manifesta la grandezza dello spirito greco tentando di purificare tale atteggiamento attraverso il richiamo alla ragione e al rapporto con il reale. In ciò il percorso della tragedia è parallelo a quello della metafisica, come la morte di Socrate dimostra. Il sintomo, la sofferenza, la delusione dell’esistenza concreta, tutto questo entra in tale processo, perché ogni uomo tende a sostituire il soggetto esistente concreto con un oggetto mentale rivestito di un valore ideale infinito. Ma tale difesa sempre fallisce per la finitezza del soggetto che inevitabilmente delude, provocando sofferenza. Eppure, l’unica via è proprio stare nel finito grazie alla relazione che è nuovo essere che sorge dentro il limite. Tra l’idolo e la relazione non c’è altra scelta, in modo tale che psicoterapia e formazione spirituale, pur nella loro differenza, possono essere considerate alleate. Si noti che l’approccio proposto è formulato in termini laicali attraverso il ricorso alla relazione. Da una prospettiva di fede l’effetto emergente si chiama grazia in quanto, come dice Gesù, il Regno di Dio è in mezzo, tra, di noi,55 mentre più in generale si può chiamare comunità, comunione, relazione, e ogni realtà più grande della propria.
Tutto ciò è fondamentale per la formazione all’identità, perché senza relazionalità l’identità è percepita come determinazione, e quindi limite che condanna. Se l’unica possibilità è quella imposta da Creonte, o la simmetrica reazione dialettica a questa, non si esce dalla dimensione intellettuale e non si accede a quella sorgente di essere che l’effetto emergente della relazione porta dentro il limite. Si noti, infatti, che, se i beni relazionali sono veri beni, genereranno altri beni relazionali, perché bonum diffusivum sui. Quindi una vera relazione diventa sempre relazione di relazioni, aprendo al reale. Obbedire ad esso non è, così, più condanna ad una legge estrinseca, ma sviluppo di una legge intrinseca. L’identità non è più statica, de-terminata da concetti, ma, a partire da una rappresentazione concettuale, che svolge la funzione di una mappa, essa si configura come viaggio, nel reale e in Dio.
Infatti, se l’identità è relazione di relazioni, allora essa è sempre già e non ancora. Come per il seme, una dimensione essenziale è data, ma in verità essa è donata, cioè è relazione libera al donante che, nel momento in cui è accolta, si fa dono ridonato, generando relazione. Questa, quindi, è e non è insieme, senza violazione alcuna del principio di non contraddizione, ma esattamente come il seme non è l’albero ma lo è già e l’albero non è il seme ma è ancora il seme stesso. Si vede qui il superamento dell’aporia metafisica e la forza dell’ontologia relazionale e di un’antropologia che si richiami ad essa, per mostrare che tale essere e non essere non è contraddittorio in quanto rinvia alla vita, all’essere insieme, ad un’identità relazionale, appunto. Questa è nello stesso tempo come una freccia e come una traccia, non come un concetto statico. Ciò si rivela proprio in dimensioni eminentemente relazionali oggi segnalate dalle patologie, quali il corpo o la narrazione del sé, che teologicamente richiamano il legame tra l’ontologia trinitaria e la teologia del corpo e della storia.
La formazione non deve, dunque, essere razionalista, ma relazionale. E il padre, il formatore o il terapeuta non può fare di sé stesso un idolo, ma deve rinviare al Padre (o laicamente al reale) che è sorgente, di ogni bene e di ogni relazione, perché solo questa riesce a tenere conto del fatto che l’identità c’è già, ma deve ancora essere sviluppata. Non è tutto determinato dall’inizio, ma è dato tutto all’inizio, così come non tutto è determinato dal soggetto, quasi potesse essere indipendente dai rapporti con gli altri.
Una categoria – teologica nella sua origine – che può aiutare è proprio quella di dono, richiamata dalle parole di Antoine de Saint-Exupéry poste in esergo, poiché essa è intrinsecamente relazionale. L’identità è dono e in quanto tale non dipende solo dal donante, né solo dal ricevente. Da questa prospettiva, formare all’identità significa, dunque, aiutare a stare tra la determinazione dell’impegno e l’eccedenza della missione attraverso la cura dell’apertura relazionale. Questa, nell’educazione, è rinvio al reale come fondamento di quanto si insegna, mentre nella formazione spirituale è più radicalmente rinvio al Mistero del Dio uno e trino cui si ha accesso nella relazione con lo Spirito Santo, il Quale permette di riconoscere la presenza del Risorto, via di accesso al Padre, che, come sorgente, riversa vita in ogni limite, in ogni situazione, per quanto dura sia, delitto, peccato o malattia.
Così, a livello estremamente pratico, mi sembra che i formatori dell’identità cristiana debbano ispirarsi al rapporto tra la Scrittura e i Padri della chiesa, perché, come ha detto Joseph Ratzinger, il senso della Parola si può cogliere solo nella relazione tra chi ha parlato e chi ha ricevuto e pensato per primo quella Parola.56 Per questo non basta la Scrittura da sola, che rischia sempre di essere ridotta in termini concettuali, ma bisogna stare nella storia della relazione. Ciò significa imparare a lavorare su quella relazionalità che fonda l’identità cristiana ed ecclesiale. Più in generale il rapporto formativo può essere inteso come aiuto a percepire e curare la relazione in tutte le sue forme. Storie, teatro, letture, dialogo e domande sono elementi fondamentali di tali processi. Ad esempio, oggi non si pratica più a livello scolastico il riassunto, mentre esso può rivelarsi estremamente importante per formare uno sguardo capace di riconoscere le relazioni narrative. Allo stesso modo, nella direzione spirituale, la domanda aperta è uno strumento potente, perché rinvia all’oltre del reale e non rinchiude in una teoria già precostituita. Più in generale, un’indicazione pratica offerta dall’antropologia trinitaria è quella di far emergere la dimensione performativa e narrativa delle mappe, mettendo la persona in grado di non trasformarle in un idolo o in una difesa che blocca l’esplorazione, ma in punti di partenza del viaggio dell’identità.
Nella presente rilettura pastorale ho fatto riferimento principalmente all’approccio cognitivo-comportamentale, perché più spesso, in questi anni, ho avuto modo di interagire con terapeuti di tale orientamento. Però quanto detto può essere riletto anche dalla prospettiva psicoanalitica, in particolare se si considera l’inconscio come dimensione relazionale dell’uomo, che Freud interpreta in modo più pulsivo, Jung da una prospettiva più simbolica e Lacan in chiave linguistica.57 Il cammino proposto permette di rileggere tale percorso, spesso percepito come alieno alla metafisica e, per certi versi, anche alla religione, proprio come approfondimento di una dimensione autenticamente ontologica che la relazione ricompresa alla luce del pensiero trinitario permette di percepire. Non è casuale che proprio il lavoro per riconoscere la teologia come episteme sviluppato dai Padri Cappadoci, tra i quali Gregorio di Nissa stesso, si sia rivelato utile per confermare lo statuto epistemologico della psicanalisi stessa, che, per quanto detto, non ha spazio in un approccio cartesiano.58
5. Conclusioni
Il percorso proposto ha preso le mosse dalla metafisica greca, mostrando come essa fosse gravida di un’insolubile ed enigmatica aporia, quella del rapporto con il fondamento dell’essere dell’uno e del molteplice. Tale aporia è implicita nella definizione stessa di identità, in quanto questa è sospesa tra l’idem e l’ipse, cioè tra l’essere sé stessi in riferimento ad un altro, come nell’identità categoriale, o nell’essere sé stessi da sé, in una solitudine metafisica che non ammette relazioni, come nel caso del motore immobile aristotelico, l’ipsum esse subsistens. Nei termini dell’Antigone, la tensione irresolubile è tra Emone e Creonte: per il primo l’identità dipenderebbe totalmente dal padre, di cui egli dovrebbe essere replica depotenziata, mentre il secondo si pone come fondamento di sé stesso, senza riferimento ad un reale più grande. Nel mondo greco questo era possibile e logico, perché le coordinate ontologiche, sia di Dio sia del mondo, erano l’eternità e la finitezza. Il primo principio è finito ed eterno, come il mondo, cui è legato attraverso una catena di cause necessarie, attraverso l’identificazione dell’essere con l’intellegibile.
La rivelazione cristiana portò ad un ripensamento della metafisica alla luce della Trinità, in base al quale Dio ha un di dentro dove si situano le tre Persone divine, conoscibile solo attraverso la relazione perché la relazione stessa le costituisce. Questa, che per Aristotele era un accidente, anzi, il meno denso ontologicamente degli accidenti, in quanto nel suo caso non basta una sola sostanza perché possa sussistere ma ne servono due, viene ora riconosciuta nell’immanenza divina, cioè nel puro atto eterno e, adesso, infinito. Il dare origine alle altre due Persone divine da parte della prima viene, così, riletto in termini di causalità relazionale, in quanto il Padre, il Figlio e lo Spirito sono la stessa sostanza, non nel senso di idem, ma in quello di ipse. I tre sono l’ipsum esse subsistens, ma ciascuna è idem rispetto all’altra, in quanto ciascuna è Persona relazionalmente identificata dal rapporto con le altre due. In tal modo l’aporia della metafisica greca viene risolta, attraverso lo sviluppo di una nuova ontologia, prolungamento di quella precedente. Ora l’essere non si identifica più con l’intellegibile, poiché solo il Logos, quindi la seconda Persona divina, è la conoscenza di ogni cosa, nel suo rapporto inseparabile rispetto alla terza Persona, che è l’Amore. La causalità non può più essere ridotta al rapporto necessario tra causa ed effetto, in quanto l’origine di ogni cosa è personale e ha la sua origine ultima nell’immanenza della sostanza divina, terra inconoscibile dalla ragione dell’uomo, se non attraverso l’incontro con il suo Dio.
Nella nuova ontologia trinitaria sviluppata dai Padri della Chiesa, come Gregorio di Nissa e Agostino, l’identità non è più legata al rapporto tra forma e materia o tra atto e potenza che aristotelicamente costituisce ogni sostanza, tranne il motore immobile nella sua ipseità. Ma Dio stesso, in quanto Trinità, è l’identità relazionale del Padre e del Figlio e dello Spirito, secondo la quale ciascuna Persona è sé stessa nel rapporto con le altre due. Tale nuova concezione dell’identità, attraverso la causalità relazionale, passa all’uomo, creato ad immagine e somiglianza del suo Dio unitrino. Così sia il corpo, sia la psiche, sia lo spirito della creatura razionale sono segnate dalla relazionalità e, dunque, da un’identità che non può essere ridotta all’appartenenza ad una categoria concettuale, né alla negazione dialettica di tale appartenenza, ma che nello stesso tempo e per la stessa ragione, cioè per la relazione, rinvia a sé e agli altri, ad ipse e ad idem.
L’uomo è, infatti, dotato di un’analoga immanenza rispetto a quella divina, immanenza che ancora è la dimensione dove le relazioni abitano. Solo che per la creatura tali relazioni non si identificano con una persona (secondo l’idem) e con una sostanza (secondo l’ipse). Eppure, ciascuna di esse rinvia a persone reali, che in questo caso sono anche sostanze diverse, attraverso l’interiorizzazione delle relazioni con loro. L’essere umano è, così, dotato di un di dentro, di una dimensione da proteggere, che è quella dove nascono la libertà e il dono.
L’esperienza pastorale o formativa in generale, che solo è chiamata a riconoscere, ma non a curare le patologie, suggerisce che queste possano essere considerate difese sclerotizzate. La teologia, in particolare la sua dimensione antropologico-trinitaria, dovrebbe aiutare a sviluppare la dimensione di dono, quindi a proteggere in modo relazionale, e non razionalistico-concettuale, l’immanenza personale. Ciò significa proprio prendersi cura dell’identità intesa come relazione. Ma questo implica che l’identità stessa sia fondata nello stesso tempo nell’uno e nel molteplice. Questo è il punto per il quale il superamento teologico dell’aporia metafisica greca risulta fondamentale. Infatti, l’eccedenza del reale rispetto al pensiero dell’uomo dipende dalla relazione fondante dell’essere creato rispetto all’unitrinità del suo Creatore. L’uno e il molteplice dell’identità umana possono non collidere nell’ambito extra-mentale perché sono in relazione ontologica con il fondamento stesso, che trinitariamente è uno e molteplice. Ciò significa che la relazione fa passare essere e vita, è canale di un dono reale, che permette di riconoscere il limite come luogo di incontro con l’oltre di Dio e dell’altro.
Formare all’identità relazionale vuol dire allora esercitare la paternità educativa, spirituale, terapeutica, o di ogni tipo, come figli nel Figlio, cioè sottraendosi ad ogni riduzionismo idealizzante che riporterebbe alla rigidezza intellettualista del mondo greco, per rinviare relazionalmente all’unico Padre che non è figlio, perché è la sorgente di ogni paternità in cielo e in terra.59 Tale compito si esplicherebbe nel fornire nello stesso tempo mappe e relazioni, mappe che possano essere riconosciute come doni proprio attraverso la capacità relazionale che permette di riformulare continuamente e originalmente quanto si è ricevuto. L’identità relazionale così promossa permette di essere sé stessi non nonostante il limite, ma attraverso di esso, perché il dono del padre, di ogni padre, è la scoperta che il limite può essere luogo del profitto. La tensione ineludibile tra la finitudine creaturale e l’infinitezza del proprio desiderio può, così, rivelarsi terra promessa e luogo di sviluppo dell’identità. L’ontologia e l’antropologia relazionali possono, allora, contribuire alla scoperta che «l’uomo è ricco anche delle proprie miserie».60
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1 A. de Saint-Exupéry, Cittadella, Borla, Roma 2013, 46.
2 Si pensi al famoso testo di Platone dove descrive il proprio pensiero come seconda navigazione dopo il primo tentativo dei filosofi naturalisti: Platone, Fedone, 85.cd. Pare estremamente rilevante come in questo stesso passo la ricerca sia aperta alla possibilità che una rivelazione divina (ἐπὶ λόγου θείου τινός) possa guidare il cammino in modo più sicuro.
3 Cfr. J.A. Palmer, Plato’s Recepion of Parmenides, Clarendon, Oxford 1999.
4 Cfr. Platone, Sofista 241d.
5 Cfr. ibidem, 256e e 258e-259b.
6 Cfr. Aristotele, Categorie 2ab.
7 Idem, Metaphisica, V,9 1018a.5-9. In 1021a.11 l’identità metafisica di due enti è ricondotta all’identità di sostanza.
8 Cfr. Idem, Ethica ad Nichomacum, VIII,14, 1161b.29-33.
9 Cfr. F. Croci, Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele, «Il Pensare» 3 (2014) 46-53.
10 Cfr. G. Maspero, Dell’amicizia con Dio nel pensiero greco: paradosso e paradigma dell’amore tra filosofia e teologia, in M. D’Avenia, A. Acerbi, Philia. Riflessioni sull’amicizia, Edusc, Roma 2007, 271-294.
11 Sofocle, Antigone, 632-634 (tr. it. F. Ferrari, Bur Rizzoli, Milano 1982).
12 Ibidem, 635-637.
13 Ibidem, 639-640 e 658-671.
14 Cfr. V. Solov’ev, Il dramma della vita di Platone, in Idem, Opere I: Il Significato dell’amore ed altri scritti, La casa di Matriona, Milano 1988, 195.
15 Cfr. Sofocle, Antigone, 683-684.
16 Cfr. ibidem, 705-706.
17 Cfr. Aristotele, Etica a Nicomaco, 1176b-1177b. Nella Politica, lo Stagirita dice anche che l’uomo perfetto non avrebbe bisogno della città (cfr. Politica, 1253a.28). Si veda anche Etica a Nicomaco, 1133a.27.
18 Cfr. Parmenide, Fragmenta 3,7.
19 Cfr. Aristotele, Metafisica 1021a.31-32.
20 Cfr. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, I, Munit, Paris 1969, 210-211.
21 Gregorio di Nissa, Oratio Cathechetica Magna, 1, 73-77: Srawley, 11, 8-12.
22 Cfr. Idem, Contra Eunomium, III, 7,53,1-54,1: GNO II, 233,25-234,6.
23 Cfr. Idem, Contra Eunomium, I, 412, 1-11: GNO I, 146,23-147,3.
24 Cfr. Idem, Ad Ablabium, GNO III/1, 56, 13-57,2.
25 Cfr. I. Vigorelli, La relazione, Dio e l’uomo, Città Nuova, Roma 2021.
26 Gregorio di Nissa, Dialogus de anima et resurrectione, PG 46, 93BC.
27 Idem, In Ecclesiasten, GNO V, 417, 13-14.
28 Idem, In Canticum canticorum, GNO VI, 61, 1-17.
29 Sulle differenze tra i due autori per quanto riguarda l’ontologia relazionale, si veda G. Maspero, Relazione e ontologia in Gregorio di Nissa e Agostino, «Scripta Theologica» ٤٧ (٢٠١٥) ٦٠٧-٦٤١.
30 Si veda l’acutissima analisi di come la Scrittura introduce una novità radicale nella narrativa umana, dando rilievo alla vita quotidiana: E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956.
31 Agostino, De Trinitate, X, 11, 18.
32 Ibidem, IX, 3, 3; 4, 4 e 5, 8.
33 Ibidem, XIV, 12, 15.
34 Cfr. Gregorio di Nissa, De Perfectione Christiana, GNO VIII/1, 196,12.
35 Cfr. G. Maspero, Non c’è due senza tre: relazione e differenza tra uomo e donna alla luce del Mistero di Dio uno e trino, in P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (a cura di), Ecologia integrale della relazione uomo-donna. Una prospettiva relazionale, ROR Studies Series 4, Edusc, Roma 2018, 167-203.
36 Cfr. Gregorio di Nissa, De hominis opificio, 8, PG 44, 144AB.
37 Sul cognitivismo post-razionalista, cfr. V. Guidano, La Complessità del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1988 e Il Sé nel suo Divenire, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
38 Cfr. in proposito, P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010 e Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.
39 Cfr. G. Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma 2007, 269-274.
40 Cfr. ibidem, 22-25.
41 Cfr. A. Semerari, Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2000, 164.
42 Cfr. M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, Il Mulino, Bologna 2005, 113-117.
43 Cfr. ibidem, 215-216.
44 In generale, su questo cfr. V. Guidano, G. Liotti, Cognitive Processes and Emotional Disorders, Guilford, New York 1983.
45 Cfr. R. Girard, Anoressia e desiderio mimetico, Lindau, Torino 2009.
46 Cfr. At 11,26.
47 Cfr. Gv 1,18.
48 Gv 14,12.
49 Gv 21,25.
50 Si tratta dell’epitimio della favola Il cane e il cuoco, in cui un cane domestico invita un cane randagio nella cucina di casa, ma il cuoco, pensando voglia rubare, lo bastona.
51 Eschilo, Agamennone, 177. Anche Erodoto dice di Credo di Lidia «Il disastro è stato il mio maestro» (Erodoto, Le storie, 1,207).
52 Cfr. Lc 15,11-32.
53 In ebraico, ebreo si dice ivrit, che significa “colui che attraversa”, in modo tale che l’ebreo errante è, di fatti, portatore e custode dell’identità ebraica stessa.
54 Eb 5,8.
55 Cfr. Lc 17,21.
56 Egli mette in evidenza il gioco di parole in tedesco tra Wort (Parola) e Antwort (risposta), presentando i Padri come quella risposta che è essenziale per la comprensione della domanda posta dalla rivelazione della Parola. Si veda, J. Ratzinger, Natura e compito della teologia, Jaca Book, Milano 1993, 157.
57 Il passaggio dalla Wille zur Lust di Frued, alla Wille sur Macht di Adler e, quindi, alla Wille zum Sinn di Frankl può essere letto in chiave relazionale come un’estensione progressiva dell’analisi psicoanalitica ad un dominio più generale, non limitato alla patologia, dove, come detto, il pensiero è retto dal determinismo della difesa sclerotizzata. In particolare, l’approccio logoterapico presenta una naturale prossimità all’ambito teologico per la valenza della categoria di logos, che l’ontologia trinitaria permette di rileggere in chiave relazionale. Lo stesso si può dire di Jung e Lacan, le cui prospettive sull’inconscio ricorrono a categorie, quali il simbolo e la parola, fondamentali nello sviluppo del pensiero teologico.
58 Cfr. G. Maspero, Remarks on the Relevance of Gregory of Nyssa’s Trinitarian Doctrine for the Epistemological Perspective of 20th Century Psychoanalysis, «European Journal of Science and Theology» 6 (2010) 17-31.
59 Cfr. Ef 3,14-21.
60 A. de Saint-Exupéry, Volo di notte, Mondadori, Milano 2005, 6.