Vai al contenuto

Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione

Identità e intimità: educazione in famiglia

Mariolina Ceriotti Migliarese

Scarica l’articolo in pdf

1. Premessa

Credo che separare nella riflessione il discorso educativo dal discorso psicologico sia una semplificazione che risulta oggi particolarmente fuorviante: si educa infatti sempre nel contesto di una relazione. Possiamo tranquillamente affermare che gli aspetti psico-relazionali nella loro complessità costituiscono lo sfondo, il clima (positivo o negativo/costruttivo o distruttivo) nel quale si costruisce ogni rapporto educativo. Anche di fronte al sorgere di difficoltà o distorsioni nel corso del processo di sviluppo, non è sempre facile decidere se l’origine principale dei problemi sia da ricercare in errori di tipo educativo, in problematiche psico-relazionali, o se, come più probabile, veda in gioco entrambe le questioni.

Chi come me ha la fortuna di svolgere il bellissimo lavoro dello psicoterapeuta ha il privilegio di poter riflettere in modo approfondito non solo su ciò che serve al suo paziente nell’hic et nunc della terapia, ma anche su tutto ciò che riguarda la sua storia e su ciò che in quella storia ha e non ha funzionato, e dunque su ciò che sarebbe stato possibile fare (sia dal punto di vista relazionale che da quello educativo) per prevenire e forse evitare i danni e le fatiche incontrate dal paziente. È una riflessione che potrebbe fornire spunti davvero interessanti in un’ottica preventiva.

Nel confronto con la storia di ciascuno, si osserva come la personalità si costruisca sempre intorno a due dimensioni principali: da un lato c’è la dotazione personale, con le sue caratteristiche innate sia biologiche che psichiche; dall’altro c’è il polo delle relazioni che hanno contribuito e continuamente contribuiscono a dare forma all’identità stessa; ne fanno parte le relazioni più prossime (quelle familiari), ma anche tutte le altre, allargate secondo centri concentrici: si parte dalle relazioni primarie di cura, per proseguire con quelle parentali, amicali ed educative, i diversi rapporti lavorativi e sociali, fino ad arrivare al contesto culturale di appartenenza.

Dall’intersecarsi di queste due complesse dimensioni emerge poco alla volta un quadro unico; in questo quadro il “modo di funzionare” di ciascuno (sia esso un modo adeguato o un modo invece problematico o disfunzionale) rappresenta sempre la migliore strategia vitale che la persona ha potuto adottare fino a quel momento, cercando di conciliare le risorse e i bisogni personali con il modo in cui si pone nei suoi confronti l’ambiente di riferimento.

È fondamentale però collocare tutte queste riflessioni all’interno di un’ottica “evolutiva”, che tenga conto cioè delle differenze cruciali che si incontrano nelle diverse età di sviluppo: il bambino (anche in questo caso con variabili legate all’età), l’adolescente e l’adulto non possono leggere e interpretare nello stesso modo ciò che sperimentano di sé e della realtà: le differenze sono sostanziali proprio per la progressiva maturazione del pensiero, che rende il bambino e l’adulto profondamente diversi sul piano qualitativo. Proprio per questo, il nostro mondo psichico è popolato prevalentemente non tanto dalla oggettiva realtà dei fatti accaduti, quanto soprattutto dall’interpretazione che di quei fatti abbiamo potuto dare nel momento di sviluppo in cui si sono verificati: momento che ci rende più o meno recettivi, più o meno vulnerabili, più o meno capaci di comprendere e di far fronte a quello che accade.

Per stabilire buone relazioni e per mettere in atto processi educativi efficaci, è molto importante perciò conoscere queste differenze e farne oggetto di riflessione; si tratta infatti di differenze e specificità che riguardano sia le risorse, che i bisogni, che i “compiti evolutivi” di ogni fase della vita. Questo richiede di affiancare ad un pensiero più generale (relativo agli orientamenti e alle modalità di fondo necessarie per una buona relazione affettiva ed educativa) un pensiero più specifico e articolato per età, soprattutto per quanto riguarda le competenze relazionali ed educative necessarie all’adulto per supportare adeguatamente le diverse fasi dello sviluppo.

Se si tiene conto di questa premessa, risulta molto difficile parlare in modo esauriente degli interventi educativi utili a supportare fase dopo fase lo sviluppo dell’identità e dell’intimità nel contesto familiare.

È possibile invece fornire alcune piste di orientamento, che richiedono però prima di tutto un chiarimento sulla relazione esistente tra identità e intimità.

2. La questione dell’identità

Alla nascita il bambino non è dotato di alcun senso della propria identità e non potrebbe raggiungerla se non attraverso un lungo processo che passa attraverso le relazioni; si tratta di un percorso sostenuto in primo luogo dalle identificazioni con le figure genitoriali, e che si rende più complesso attraverso il costante “rispecchiamento” che riceviamo dall’ambiente; “essere visti” ci rimanda qualcosa di noi, e l’immagine che ogni relazione ci rimanda agisce e ci condiziona con una intensità che è proporzionale al valore che quella relazione riveste.

Quando il bambino dice Io e quando parla di sé si appoggia dunque prevalentemente alle immagini che ha ricevuto, nel modo in cui le ha percepite e interiorizzate anche in rapporto alle possibilità del suo pensiero in quel momento; è importante in ogni caso ricordare che il desiderio di essere amato, apprezzato e riconosciuto dalle persone significative guida e modella l’agire in modo determinante per tutta l’età infantile.

Lo sviluppo massiccio delle competenze cognitive e la nascita delle capacità autoriflessive dell’età puberale segnano un passaggio cruciale: con l’adolescenza si avvia un processo progressivo di “disidentificazione” dal mondo parentale, cui si accompagna la necessità di nuove identificazioni e di nuovi rispecchiamenti, diretti ora verso un mondo più allargato; il mondo familiare, che forniva un supporto importante alla prima identità, viene messo in discussione e sostituito (in modo solo parziale nei casi di sviluppo più fisiologici) da appartenenze nuove, a loro volta necessarie per supportare il processo di crescita. Tali appartenenze vengono ricercate soprattutto nel gruppo dei coetanei, che si riconoscono aggregandosi intorno a modelli simili, fortemente connotati e riconoscibili.

L’identità è perciò un processo che ha uno snodo cruciale proprio nell’adolescenza; in adolescenza infatti le competenze cognitive, le capacità di astrazione, le modalità di gestione delle emozioni si modificano drasticamente, in conseguenza di un importante rimodellamento della struttura cerebrale (meccanismi di neurogenesi, di apoptosi o morte cellulare programmata, di mielinizzazione, di elaborazione e retrazione dendritica, di sinaptogenesi, di eliminazione di sinapsi).

Assistiamo qui alla meravigliosa novità della nascita di un pensiero auto-riflessivo, come porta di accesso al mondo unico della propria intimità: una competenza nuova, che permette di mettere in discussione anche le immagini di sé precedentemente assimilate e di rimaneggiarle in modo profondo; è possibile ora mettere a confronto in modo critico le proprie sensazioni, sentimenti, impulsi, pensieri con i rimandi e i messaggi su di sé che arrivano dal mondo esterno. Ogni esperienza viene valutata ora anche in base alla risonanza che provoca nel mondo interno di ciascuno.

L’adolescente ha fame di nuove esperienze e di nuovi rispecchiamenti, si confronta con nuove possibilità e con nuove immagini, e ha la possibilità preziosissima di inaugurare un percorso nel quale l’esperienza può trasformarsi in pensiero e in parola, divenendo così parte sempre più integrante della consapevolezza di sé.

Dire “possibile” però non significa dire automatico, né sicuro: l’adolescenza è “per sua natura” un tempo di inquietudine intorno al tema dell’identità, ma può divenire luogo di dispersione invece che tempo di consolidamento; la prima questione è dunque proprio quella di come sia possibile trasformare l’inquietudine in domande, evitando che si disperda in innumerevoli rivoli di emotività fine a se stessa.

In assenza di ciò, l’adolescente rischia di strutturare un “Io senza profondità”, smarrito e frammentato nelle innumerevoli immagini identificatorie che di volta in volta lo colpiscono e lo attirano, facendo leva sulla sua forte emotività: potremmo dire in questo senso che “il fallimento del processo di identificazione è conseguenza del mancato accesso dell’esperienza al livello dell’intimità personale”, intesa come luogo nel quale l’esperienza vissuta viene lasciata risuonare, fino a rivestirsi di parole e a trasformarsi in domanda. Domanda che dovrà essere personale, alla ricerca di una risposta unica e altrettanto personale, perché nata dal contatto con il Sé.

3. La questione dell’intimità

Parlando di intimità, dobbiamo avere in mente due diverse accezioni della parola: “l’intimità come il luogo più vero della propria identità” (luogo del Sé, inteso come la parte più profonda e personale dell’esperienza) e “l’intimità come il luogo più vero dell’incontro e della relazione con l’altro”.

Ritengo che la difficoltà a dare spazio e valore alla propria dimensione interiore e la difficoltà a prendere consapevolezza piena di sé siano anche all’origine della difficoltà a costruire relazioni di vera intimità con l’altro e a comprenderne l’alterità inalienabile. Se l’identità personale non raggiunge una sufficiente stabilità, coesione e profondità, non è neppure possibile comprendere pienamente l’altro come “altro-da-sé”, dotato del proprio pieno diritto ad essere se stesso; la relazione rischia allora di trasformarsi in un gioco di proiezioni in cui il compito principale dell’oggetto è quello di continuare a rispondere ai nostri bisogni, soprattutto a quello di vedere confermato il nostro valore attraverso un costante rispecchiamento.

Credo che l’esperienza angosciante di “vuoto” così frequente negli adolescenti e negli adulti di oggi, e che è la causa prima delle moltissime “dipendenze” con cui dobbiamo confrontarci (dipendenze da cibo, droghe, farmaci, gioco, relazioni affettive simbiotiche ecc.) dipenda in buona parte proprio dallo smarrimento del contatto con la propria intimità, e dunque con il proprio Sé. Stiamo assistendo sempre più allo sviluppo di identità di superficie, prive del nutrimento essenziale che nasce dal contatto con la propria intimità. Il vero benessere psichico nasce invece proprio dalla possibilità di sperimentare il Sé come stabile e soddisfacente, come una sorgente interiore di creatività, dalla quale è possibile muovere per stabilire obiettivi e dare direzione alla propria vita, e per costruire relazioni di incontro autentico con gli altri.

La questione posta al mondo adulto riguarda a questo punto la domanda: cosa facilita o al contrario ostacola la possibilità per il bambino prima e per l’adolescente poi di incontrare se stesso, di scoprire la dimensione della propria intimità, di apprezzarla, di alimentarla, e di raggiungere quindi il senso pieno della propria identità?

Cosa favorisce lo sviluppo di una identità coesa, che non si riduca ad un caleidoscopio di immagini “di superficie” che lascia inquieti, smarriti e privi della percezione di poter contare su un proprio baricentro personale?

Il percorso che porta a scoprire e coltivare la propria intimità non avviene da solo, ma richiede l’acquisizione di una progressiva consapevolezza personale. Se da un lato possiamo affermare che nessuno di noi può fare a meno di contenere in sé un luogo “intimo”, è invece del tutto possibile non conoscerlo, non frequentarlo, non coltivarlo. È del tutto possibile ignorarlo rimanendo alla superficie di sé, anche se questo comporta, come risposta, quella di “ammalarsi”.

La parola “intimo” è il superlativo assoluto di “interiore” e indica qualcosa che si trova “il più all’interno possibile”. L’intimità è un luogo silenzioso, uno spazio segreto, qualcosa che può essere raggiunto solo da chi ne è il proprietario; uno spazio prezioso, dove far riposare ciò che di noi è più personale, più delicato, più profondo. Nell’intimo di una persona si trovano le tracce vive dei suoi ricordi e della sua esperienza, con la loro colorazione personale e mai completamente condivisibile. È lì che il sé di ciascuno ha le proprie radici e il proprio fondamento. L’intimità è anche un luogo legato alla nostra corporeità: un luogo di esperienza più che di pensiero, il luogo dove origina la nostra vitalità.

Ma perché questo luogo ricco e segreto possa diventare vera sorgente creativa, è necessario che possa prendere forma attraverso un linguaggio: è necessario che ciò che percepiamo, sperimentiamo, “sentiamo” attraverso le nostre emozioni possa venire espresso.

Noi possediamo pienamente (e dunque possiamo anche condividere) solo ciò che sappiamo nominare; abbiamo bisogno di un linguaggio che ci aiuti a prendere consapevolezza di noi stessi: abbiamo bisogno di parole perché ciò che sentiamo acquisti pieno significato.

Noi possediamo la nostra storia nella misura in cui riusciamo a narrarla a noi stessi e dunque abbiamo anche la possibilità di condividerla.

4. Identità: spunti operativi

Il percorso identitario segue in qualche modo un suo iter “spontaneo” (positivo o negativo che sia) perché le identificazioni e i rispecchiamenti si verificano in modo naturale e inevitabile nello stesso momento in cui il bambino/adolescente si trova immerso in un contesto relazionale. La questione, a questo livello, è dunque articolata su due punti: come favorire rispecchiamenti corretti e positivi, e quali modelli identificatori mettere a disposizione delle generazioni che ci seguono.

La “questione educativa” mostra in questo caso tutta la sua disarmante semplicità: educare è soprattutto “essere per trasmettere”.

Tutti coloro che si occupano e si sono occupati di bambini e di adolescenti sia dal punto di vista psicologico che da quello educativo ripetono la stessa cosa: ciò che serve ai ragazzi è soprattutto che ci siano adulti che si prendano la responsabilità di fare gli adulti. Fare gli adulti significa incoraggiare la sperimentazione dei ragazzi (sperimentazione anche cognitiva e intellettiva); fissare confini di sicurezza al loro comportamento; testimoniare con le proprie parole ed azioni che la vita ha un senso e un valore; insegnare che ciò che ha valore va curato, rispettato e conquistato, se serve anche con fatica.

Purtroppo la mancanza attuale di un contesto adulto capace di riconoscere un valore incondizionato alla vita comporta inevitabilmente per i ragazzi una grave perdita di senso e di direzione: non c’è più niente da cercare, niente da contestare, niente da conquistare che vada al di là del puro successo e benessere personale.

Dovremmo riflettere sull’enorme successo di serie Tv come quella recente di “Euphoria” su Sky, che rappresentano il disorientamento identitario di una generazione alle prese con un mondo senza più adulti.

I ragazzi si riconoscono in questo smarrimento, che diventa per loro una nuova bandiera: l’identità di chi rinuncia persino all’idea di identità, la non-identità come nuovo modo (e disperato) di stare nel mondo.

Ciò che dunque il mondo adulto in generale e ogni singolo adulto in particolare (genitore o educatore che sia) deve fare da subito è perciò interrogarsi seriamente sulle ragioni del proprio vivere, perché solo il riconoscerle può orientare in modo significativo ed efficace anche ciascuna delle sue macro o micro-scelte educative.

Il ruolo degli adulti nel processo di identificazione dei figli può essere riassunto in alcuni brevi punti, che sarebbero naturalmente da approfondire uno per uno:

  • esserci (prima e indispensabile condizione, che richiede anche tempo e presenza);
  • prendere consapevolezza di quali modelli di identificazione stiamo offrendo;
  • permettere all’adolescente il processo di disidentificazione, senza temere le aree di conflitto;
  • trasmettere ai ragazzi una fiducia sempre rinnovata;
  • indicare senso e valori;
  • dare regole chiare che orientino e fissino i confini all’agire dei figli, ricordando che con la crescita ogni regola deve lasciare progressivamente il posto al raggiungimento di un’autonomia;
  • non sostituirsi a loro, ma permettere esperienza e giudizio, commisurati all’età.

5. Intimità: spunti operativi

Una riflessione diversa si apre se pensiamo in modo più specifico al “tema dell’intimità”.

Ciò che permette di coltivare lo spazio dell’intimità personale, ma anche di trasformare i semplici “vissuti” in esperienza feconda passa attraverso “la trasformazione dell’emozione in parola”:

  • parola per definire (le cose, i sentimenti, le sensazioni, le emozioni…) che è insieme modo per conoscere e per appropriarsi dei contenuti;
  • parola per interrogare, per fare domande su di sé, sul mondo, sul senso, sulla vita;
  • parola per definirsi, detta con libertà e accolta/ascoltata con libertà;
  • parola che cerca una oggettivazione, come nella scrittura;
  • parola detta a noi stessi, come nella riflessione;
  • parola sospesa, come nel silenzio;
  • parola capace di costruire la narrazione della propria storia.

La parola è per definizione sempre rivolta ad un “tu”: è per definizione sempre relazionale. La parola, e con lei il pensiero, non si sviluppano in assenza di un altro che si definisca come colui che ascolta, che ci ascolta.

Lo sviluppo di una buona identità, quello basato sul rapporto con la propria intimità, nasce dunque anche dalla possibilità di condividere con l’altro ciò cui stiamo cercando di dare forma: la parola che si va scoprendo su di sé. Abbiamo bisogno di dirci e di venire ri-conosciuti.

È questo bisogno di venire riconosciuti per riconoscersi ciò che spinge tra l’altro oggi i ragazzi (ma non solo…) alla sovraesposizione della propria immagine in rete: si attende con ansia una risposta sotto forma di like o di commenti: si attende la conferma che qualcuno ci ha visto, e che dunque esistiamo.

Ma cosa mostriamo agli altri in questo modo se non un caleidoscopio di immagini di superficie?

La domanda inconsapevole è una domanda identitaria (Cosa mi dici di me? Che valore mi dai? E dunque: Chi sono?). Ma la risposta, impersonale e fugace, non può essere soddisfacente: per sapere chi siamo abbiamo bisogno di relazioni personali.

Cosa può dunque fare il mondo adulto?

Aiutare a coltivare l’intimità (e dunque il senso unico del Sé e un’identità coesa e personale) significa lavorare ogni giorno sullo spazio dato alla parola e al pensiero nel rapporto con i figli.

Il terreno va preparato ben prima dell’adolescenza, perché nel momento in cui il figlio cercherà se stesso possa avere a disposizione gli strumenti che gli sono necessari.

Anche in questo caso posso provare a fornire spunti in ordine sparso, che necessitano di approfondimento:

  • Si può iniziare a parlare ai propri figli già nel grembo: il bambino è già un “tu”, un “altro-da-sé”. La nostra voce gli è necessaria.
  • Favorire l’allenamento di tutti i sensi all’ascolto; i nostri sensi sono le nostre porte sul mondo e il dato sensoriale costituisce la base percettiva del Sé: è fonte di una ricchezza non sostituibile.
  • Non temere le domande, e non soffocarle: ascoltare le gioie, le paure, i perché dei bambini con curiosità autentica.
  • Non soffocare “la” domanda (di senso). Non soffocare il naturale senso religioso dei bambini, e non eludere le loro domande impegnative. Il “Tu” di Dio è per tutti, anche per chi non ha avuto la fortuna di un tu umano coerente e affidabile.
  • Dare ascolto vero a ciò che viene detto dal figlio, così come lui lo dice: il bambino impara a pensare parlando, ma anche l’adolescente affina il proprio pensiero parlando a qualcuno che abbia davvero interesse ad ascoltarlo.
  • Favorire la capacità di ascolto (la voce che narra, le favole, le immagini interiori).
  • Favorire la scrittura, che è un importante strumento di riflessione e di pensiero, spesso un parlare con sé.
  • Favorire la lettura, che arricchisce il linguaggio e dunque aumenta la possibilità di avere le parole per dire le cose, in tutta la loro complessità.
  • Allenare al silenzio (si pensi a Maria Montessori: le “lezioni di silenzio”).
  • Favorire la “contemplazione” (la capacità di “osservare amorevolmente” le cose).
  • Ritrovare lo spazio del gioco libero: il gioco simbolico, che è prima espressione della creatività naturale del bambino (si pensi a Winnicott): essere bambini non può essere considerato solo come un apprendistato della vita adulta (o adultescente)!
  • Far riflettere su un uso responsabile dei media, prendere consapevolezza di ciò che vogliamo trasmettere di noi e perché (immagini e parole).

Bibliografia

M. Ceriotti Migliarese, La famiglia imperfetta, Ares, Milano 2010.

Eadem, L’alfabeto degli affetti, Ares, Milano 2021.

E. Erikson, I cicli della vita, continuità e mutamenti, Armando, Roma 1999.

A. Freud, Normalità e patologia del bambino, Feltrinelli, Milano 1970.

V. Gheno, B. Mastroianni, Tienilo acceso (posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello), Longanesi, Milano 2018.

P. Jeammet, Adulti senza riserva, Raffaello Cortina, Milano 2008.

C. Mencacci, G. Migliarese, Quando tutto cambia. La salute psichica in adolescenza, Pacini, Pisa 2017.

M.-A. Martì Garcìa, L’intimità, conoscere e amare la propria ricchezza interiore, Ares, Milano 2004.

C. Risè, Guarda, tocca, vivi, Sperling & Kupfer, Milano 2011.

D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.