Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione
Educare l’identità relazionale
Nicolò Terminio
1. Dalla clinica all’educazione
Vorrei partire da tre punti. Il primo riguarda un episodio avvenuto durante una delle prime riunioni di un gruppo di ricerca sull’educazione affettiva e sessuale (un gruppo con cui ho collaborato per tre anni). In quell’occasione avevo sottolineato che il lavoro educativo sull’affettività è estremamente importante anche in funzione preventiva rispetto a tutte le forme di dipendenza patologica che possiamo osservare in ambito clinico. Rispetto a questa osservazione una docente mi chiese in che modo l’educazione affettiva fosse collegata con la tossicodipendenza o l’alcolismo. Le risposi che l’irresistibile compulsione verso le sostanze deriva da una disregolazione emotiva e affettiva che scaturisce dalle difficoltà relazionali incontrate dal soggetto durante la sua crescita.
Il secondo punto riguarda una frase dello psicopatologo Gaetano Benedetti che sosteneva che la psicosi ci mostra ciò che ci rende umani proprio nel momento del suo dissolvimento.1 La psicosi è una delle forme psicopatologiche più gravi, ma anche tutti gli altri sintomi psicopatologici ci permettono di osservare in statu detrahendi quali sono gli elementi imprescindibili per l’umanizzazione della vita. Inoltre, possiamo aggiungere che nella prospettiva psicodinamica e fenomenologica i sintomi sono sempre il segnale di un problema che coinvolge il soggetto e l’Altro: non possiamo comprendere un sintomo se non lo colleghiamo al campo relazionale (e sociale) del soggetto. Nella descrizione di un caso clinico si deve sempre considerare il rapporto tra il soggetto e l’Altro e il modo in cui il soggetto ha l’occasione per vivere il proprio slancio desiderante.
Con il concetto di desiderio inconscio in ambito psicoanalitico si indica l’esperienza della vocazione. Come la vocazione il desiderio è una chiamata, una chiamata di cui non siamo padroni e che rimane sempre come un mistero, un mistero che non può essere del tutto compreso e che piuttosto siamo chiamati a vivere.
Il terzo punto ci permette di sintetizzare i primi due. Si tratta di una citazione che ho ritrovato in uno scritto di Jacques Lacan2 e poi anche in un libro del filosofo dell’educazione Duccio Demetrio.3 È una frase di François de La Rochefoucauld che dice: «vi sono taluni che non sarebbero mai stati innamorati, se non avessero mai sentito parlare dell’amore». Senza un incontro generativo – che può avvenire nella vita familiare, in altri percorsi educativi o in altre esperienze relazionali e sociali – è possibile che un essere umano non diventi mai un soggetto capace di vivere l’amore. Sebbene l’essere umano sia predisposto per amare, dobbiamo considerare questa possibilità non come una condizione di partenza, ma come l’esito di un percorso relazionale ed educativo. In breve, senza una relazione sufficientemente buona con l’Altro e senza un percorso educativo capace di trasmettere la “generatività del desiderio”4 è possibile che un soggetto rimanga impantanato in relazioni disfunzionali e in pratiche di godimento che anziché essere generative sono dissipative. È un insegnamento che traggo dalla mia esperienza clinica e soprattutto dal lavoro terapeutico con i giovani e le famiglie, un lavoro che mi ha portato a formulare alcuni punti essenziali per l’educazione di un’identità relazionale.
2. Il compito della famiglia
Nel mio lavoro clinico osservo sempre più delle situazioni familiari caratterizzate da dinamiche relazionali confusive. In modo sempre più frequente mi ritrovo ad ascoltare storie familiari dove il primo tempo della cura consiste nel dare trama a ciò che non fa trama. Se prendiamo come riferimento la psicopatologia fenomenologico-dinamica, sappiamo che ciò che non fa trama è il trauma.5 Con il termine trauma non dobbiamo immaginare solo degli eventi gravi, ma tutti quegli eventi che nelle storie delle famiglie limitano la possibilità di costruire una trama. Possiamo dire che costruire una trama è un modo per connettere i traumi: essi sono tali perché interrompono la costituzione della trama.
Più precisamente, nella pratica clinica vediamo che da un lato ci sono delle famiglie che non trasmettono una trama perché la loro storia è caratterizzata da micro-eventi che impediscono di dare una rappresentazione alla traumaticità della vita, mentre dall’altro lato osserviamo delle famiglie dove non viene introdotta quella mancanza necessaria perché possa sorgere la dimensione del desiderio.
Per intendere l’esperienza del desiderio possiamo riprendere l’analogia con la vocazione perché il desiderio come la vocazione è qualcosa che ci chiama, noi ci sentiamo chiamati dal desiderio. Nella vita familiare e nella sfida educativa il compito di ogni genitore in fondo è quello di aiutare i figli a entrare in rapporto con la propria vocazione. Credo che sia la cosa più importante che oggi debba fare un genitore per proteggere un figlio dalle insidie della vita, dall’imprevedibilità della vita.
La psicoanalisi suggerisce che in quest’epoca dove i riferimenti sociali sono meno stabili e duraturi è ancora più importante puntare sulla dimensione della vocazione singolare di ciascun soggetto. Puntare sulla singolarità non vuol dire però fare a meno del legame dell’Altro, ma investire diversamente il proprio slancio desiderante verso l’Altro.
3. La credibilità della testimonianza
Oggi i genitori fanno fatica a essere credibili con la generazione successiva perché a differenza di qualche decennio fa quello che funzionava per la generazione precedente non funzionerà più per quella successiva. Quindi il deposito di tradizione, di informazioni, di conoscenze che le generazioni precedenti hanno accumulato nel corso della loro storia familiare non garantisce più il futuro, il benessere e il successo dei figli. La cosiddetta “evaporazione del padre”6 implica il non credere più che quello che viene tramandato dalle generazioni ci garantirà nell’incontro con il Reale, con qualcosa che ci spiazzerà. È lì che la sfiducia dei giovani verso gli adulti, soprattutto in epoca adolescenziale, inizia a comparire: quello che mi viene insegnato non mi orienterà nell’affrontare la vita, nell’affrontare le sfide della vita.7
Nell’epoca del tramonto di ogni visione del mondo il compito dei genitori sembra più arduo perché sono cambiati i parametri sociali con cui i genitori si confrontano. Nella società del XXI secolo ciò che sembra orientare la progettualità di ciascuno è il criterio di performance e affermazione di sé. Anche la vita affettiva e familiare sembra doversi riferire a nozioni di competenza sociale e comunicativa, adattamento e flessibilità. In tal modo il criterio dell’autostima e della consapevolezza delle proprie capacità entra in gioco anche nel campo dei legami familiari. Essere genitori diventa così un lavoro nuovo che si deve a sua volta confrontare con i vincoli ideali vigenti.
Come si fa a essere considerati dei buoni genitori? Ad affrontare il giudizio del proprio bambino? A evitare il fallimento in questo compito così essenziale? Ecco solo alcune delle domande che alimentano le preoccupazioni dei genitori contemporanei. Queste preoccupazioni sono però fuorvianti perché rischiano di rendere il rapporto tra genitori e figli come un ulteriore banco di prova per le proprie competenze personali e sociali. Abbracciando questa prospettiva si capovolge la fisiologia della trasmissione intergenerazionale perché i genitori dipendono dai figli, dalla valutazione che i figli fanno dei genitori. E così possiamo trovarci di fronte a casi limite dove i genitori non riescono a dire di “no” ai propri figli per paura di scontentarli, per paura che una qualche forma di privazione possa nuocere al loro sano sviluppo. In realtà, in questi casi i genitori cercano nei figli una conferma per il proprio narcisismo abdicando però al vero compito genitoriale che è quello di trasmettere la funzione virtuosa del limite e di testimoniare l’apertura verso il desiderio. Se il genitore è troppo preso dal conseguire un buon livello di autostima genitoriale darà priorità al consenso che può ottenere dai figli e non al conflitto intergenerazionale dove entra in gioco la difficile trasmissione del valore dei limiti.
La nostra società non è più orientata dalla funzione del limite, i messaggi sociali dominanti rimandano semmai a un imperativo che promuove la spinta al soddisfacimento. La cosiddetta rinuncia pulsionale appare come una questione obsoleta e addirittura come una negazione della libertà dei singoli di scegliere la propria strada. L’esperienza clinica di chi pratica la psicoanalisi mostra però quanto l’assenza dei limiti lasci i soggetti smarriti e privi di riferimenti simbolici in grado di tracciare un percorso verso la propria singolarità. Il ricorso compulsivo e senza filtri alla soddisfazione immediata non consente infatti ai figli di scoprire il proprio desiderio.
Ogni percorso educativo deve mirare alla promozione dell’esperienza virtuosa del limite, un’esperienza virtuosa perché costituisce il presupposto per poter avventurarsi nella scoperta di un desiderio inedito, un desiderio non omologabile a nessun imperativo sociale o familiare. Il compito genitoriale rimane ancora oggi quello che ogni generazione deve svolgere per quella successiva: garantire una cornice simbolica (tradizione) che possa custodire le occasioni in cui ciascun figlio può rinnovare ciò che gli è stato trasmesso rilanciandolo in un viaggio soggettivo che costituisce una pagina inedita nella trama delle generazioni.8
Durante alcuni incontri di formazione dedicati ai genitori mi capita spesso di citare alcuni versi con cui Khalil Gibran ricordava che le anime dei figli dimorano nella casa del domani e ai genitori non è concesso di visitarla neppure in sogno.9 Ecco la radice del mistero che riguarda il destino di ogni figlio. E si tratta di un mistero di cui i genitori possono prendersi cura – come suggerisce Alessandro D’Avenia nel suo libro L’arte di essere fragili – invitando i figli non a essere sicuri di se stessi ma stimolandoli a essere sicuri di essere se stessi.10 Questo è un punto cruciale per ogni trasmissione intergenerazionale: la funzione del limite può diventare virtuosa soltanto se si nutre della testimonianza del desiderio.
A questo proposito ho sempre trovato illuminante l’ultima pagina del libro Le piccole virtù di Natalia Ginzburg dove possiamo leggere che se vogliamo salvare i nostri figli dobbiamo cercare innanzitutto di avere noi stessi una vocazione, perché solo l’amore per la vita genera amore per la vita.
E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a servirla con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell’amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l’abbiamo, o se l’abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si è installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente e senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a procrearli lungo la vita intera. Vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell’ombra e dello spazio che richiede il germoglio d’una vocazione, il germoglio d’un essere. Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l’amore alla vita genera amore alla vita.11
Testimoniare il desiderio vuol dire riuscire a trasmettere ai propri figli l’esperienza di essere soddisfatti della propria vita anche nei momenti dove la nostra pazienza se n’è andata da parecchio tempo. Allora proprio quei momenti in cui i bambini fanno i capricci o gli adolescenti ci mettono in difficoltà sono l’occasione migliore per mostrare il nostro gusto di vivere con loro perché una relazione educativa non è soltanto un esercizio fatto di sacrificio dove mettiamo da parte le nostre esigenze per sopportare quelle dei nostri figli. Vista così l’educazione sarebbe una mera riproposizione del sacrificio e non invece l’opportunità per sentirci pienamente realizzati mentre ci accostiamo al vissuto dei nostri figli. Il desiderio non è un momento extra rispetto alle situazioni di tensione, ma è la via principale che ci permette di attraversarle con lo spirito giusto per sentirci realizzati mentre ci sintonizziamo con la tensione dei nostri figli, mentre siamo lì per dare un ritmo (e un destino) diverso a quel vissuto emotivo. Non si tratta soltanto di simbolizzare gli eventi emotivi che risultano insopportabili, non è solo una questione di pazienza amorevole, ma si tratta innanzitutto della spinta desiderante a dare una direzione e un senso a un nuovo al modo di vivere le emozioni e gli affetti.
4. L’amore di coppia e la funzione paterna
Diversi psicoanalisti legano l’assenza di riferimenti valoriali del nostro tempo alla crisi del significato simbolico del padre, nell’epoca ipermoderna sembra che debba essere ripensata la figura del padre, però credo che la vera questione sia recuperare la dimensione dell’amore di coppia.
Secondo la psicoanalisi ogni figura del padre trae forza e credibilità dalla capacità di esercitare la funzione paterna. Essenzialmente la funzione paterna consiste – così come ha efficacemente sottolineato Massimo Recalcati – nell’unire Legge e desiderio, ossia la dimensione universale dei vincoli sociali con la singolarità della propria vocazione.12 La funzione paterna non è trasmessa soltanto dalla figura del padre, ma anche da tutte le altre figure educative che ciascun soggetto può incontrare nel proprio percorso di formazione.
La crisi attuale del significato simbolico del padre riguarda non solo la figura del padre, ma ogni altra figura deputata a trasmettere il legame virtuoso tra Legge e desiderio. Possiamo infatti osservare come ogni padre che voglia trasmettere la funzione paterna debba affrontare la sfida educativa senza il sostegno del discorso sociale dominante. Quello che osserviamo oggi nella pratica clinica è uno smarrimento sempre più marcato dei padri a interpretare e veicolare la funzione paterna. È una condizione che riflette un andamento ancor più generale che investe il discorso e l’immaginario sociale contemporaneo. Persino i cartoni animati che vanno per la maggiore e che sono seguiti da intere famiglie (si veda per esempio la serie di Peppa Pig) mostrano ripetutamente un padre inabilitato a rappresentare la portata incisiva della funzione paterna. Il padre viene semmai rappresentato come il principale esponente di una impotenza radicale a vincere e a superare gli inciampi dell’esistenza. E la madre viene di conseguenza consegnata in modo esclusivo a una funzione critica verso il padre. Il padre debole e la madre che ironizza su questa debolezza è ormai uno schema narrativo che va dai cartoni animati alla pubblicità, dai romanzi ai film, dalla concretezza della vita quotidiana alle astrazioni più sofisticate. Grazie a tutto questo il mercato dei consumi spiega, addolcisce e, soprattutto, utilizza il declino della figura del padre.
Oggi bisogna trovare un punto di appoggio per la figura del padre nell’ambito del legame di coppia tra padre e madre. La pratica psicoanalitica ci insegna che nella vita di ciascun soggetto un padre è stato in grado di trasmettere la funzione paterna soprattutto se la madre ha fatto posto alla parola del padre. Ogni volta che pensiamo al rapporto tra padre e figlio dobbiamo verificare lo sfondo della relazione della coppia genitoriale. Come ho già avuto modo di approfondire, il bambino recepisce la funzione paterna attraverso la declinazione particolare con cui la parola del padre entra in rapporto con la madre.13 La funzione paterna è dunque effetto del legame tra padre e madre, effetto del modo in cui i genitori si amano e si sono amati come marito e moglie. Nell’epoca contemporanea va dunque valorizzata ancor di più la dimensione dell’amore di coppia come elemento imprescindibile per non perdere il significato simbolico della funzione paterna. Se consideriamo la funzione paterna come l’effetto del modo in cui padre e madre testimoniano il loro incontro d’amore, allora gli sforzi futuri andranno concentrati non verso la riabilitazione di padri deboli, ma nel sostegno dei legami di coppia. È attraverso questa via che si potrà fare del legame di coppia non lo scenario del declino della funzione paterna, ma lo spunto per l’invenzione di un modo attuale di darne testimonianza.
Per immaginare cosa voglia dire mantenere la dimensione del desiderio negli inciampi della vita di coppia possiamo fare riferimento al ballo del tango. Come suggeriva lo psicoanalista argentino-triestino Aldo Becce, nel tango ci sono dei momenti in cui si inciampa: se li si affronta cercando subito di addossare la colpa all’altro, allora il ballo si ferma, ma se invece si fa prevalere il desiderio di continuare a ballare allora quel momento di inciampo diventa l’occasione per inventare insieme un nuovo passo, un nuovo modo per ritrovare il ritmo del desiderio grazie alla relazione con l’Altro.
5. Il vincolo della Legge
Dal punto di vista della psicoanalisi la Legge è un vincolo che introducendo un limite apre la possibilità del legame con l’Altro. Nell’opera di Massimo Recalcati la Legge è un’occasione per un godimento generativo. La prospettiva etica che Recalcati recepisce dall’insegnamento di Lacan pone l’esperienza del desiderio in relazione all’esperienza del godimento. In tutto il suo lavoro Recalcati si interroga sulla possibilità di un rapporto di alleanza tra desiderio e godimento, superando una visione moralistica che vedrebbe il desiderio come una rinuncia al godimento, come mera apertura relazionale che intenderebbe esorcizzare la scabrosità Reale del godimento; allo stesso tempo evita di celebrare la retorica idealizzante di un godimento fine a se stesso e senza senso. Il godimento che viene messo in gioco nell’etica psicoanalitica sa mantenersi connesso alla “trascendenza del desiderio”.
La posta in gioco della psicoanalisi, secondo Recalcati, risiede nella possibilità di raggiungere un godimento nuovo «che renda la vita risorta, ricca, generativa nella sua presenza su questa terra».14 Il desiderio è la via attraverso cui giungere a questa possibilità umana di vivere l’esperienza del godimento, godimento che si manifesta sempre sotto il segno dell’intemperanza, della dismisura, dell’eccesso, della singolarità che non è mai disgiunta dall’atto etico con cui ciascun soggetto si assume la responsabilità del proprio desiderio e del proprio essere di godimento. Il desiderio è allora un’esperienza dove viene vissuto un godimento che non è chiuso su se stesso, ma si apre in modo assoluto alla vita. Ecco perché «la promessa analitica si fonda sulla Legge del desiderio».15 E la Legge del desiderio va pensata non come una canalizzazione morale del proprio slancio pulsionale, ma come l’opportunità di trovare nel desiderio di avere un proprio desiderio un Vincolo che «non opprime la vita, ma la rende generativa».
6. La funzione temporale della Legge
Nel mio lavoro clinico ho seguito diversi pazienti giovani che andavano bene al liceo, ma che all’università si sono bloccati perché la loro modalità di gestione del tempo, basata sul fare un compito solo quando ci si trova in prossimità della scadenza, non gli aveva più permesso di affrontare lo studio senza essere inondati dall’angoscia. Lo studio del liceo gli aveva consentito di affrontare le prove all’ultimo minuto esprimendo il massimo potenziale in quel breve tempo che era richiesto per le interrogazioni o per l’esame di maturità. All’università però questa modalità di gestione del tempo non funzionava più perché era diventata necessaria un’organizzazione del tempo che andasse oltre l’impegno a breve termine.
In ambito psicoanalitico lacaniano la Legge indica quella funzione psichica che ci consente di modulare il nostro modo di vivere il tempo. All’università alcuni ragazzi si bloccano perché non sanno fare il passaggio da un’organizzazione delle proprie attività dal breve al lungo termine e solitamente raccontano di esser cresciuti in un contesto familiare dove nessuno gli ha dato dei limiti. Ma cosa vuol dire limiti? Non vuol dire punizioni, privazioni o castighi, ma vuol dire innanzitutto avere dei vincoli sul modo di vivere il tempo perché di fronte a un esame della facoltà di ingegneria bisogna saper dosare il proprio impegno, giorno per giorno.
Se vogliamo capire come vive intimamente una persona possiamo chiedergli semplicemente come vive il tempo. Il modo in cui una persona vive il tempo mostra non solo la sua capacità progettuale, ma anche il ritmo tipico in cui persegue la propria soddisfazione. Pensiamo, per esempio, alle persone che fanno fatica ad addormentarsi la sera perché non riescono a uscire da un tempo iperattivo o a trovare un tempo in cui non sono orientati verso alcun obiettivo. Oppure proviamo a pensare al momento in cui rimaniamo incantati di fronte alla bellezza di un tramonto o di un’opera d’arte: sono momenti che avvengono quando ci troviamo in una certa condizione interiore dove grazie al fatto di non essere accelerati diventiamo disponibili all’incanto.
Purtroppo, nel lavoro clinico con le famiglie osserviamo che oggi la vita familiare tende verso un’accelerazione che non consente la possibilità di sostare sulle cose. L’accelerazione è un modo per riempire il tempo e per evitare di confrontarsi con un tempo apparentemente vuoto. Non è difficile collegare le difficoltà nello studio di alcuni ragazzi con la cattiva abitudine appresa in famiglia di riempire ogni istante: basta pensare a tante serate in pizzeria dove gli adulti riescono a conversare tranquillamente mentre i propri figli sono ipnoticamente catturati dallo schermo di un dispositivo tecnologico.
In diversi lavori sull’adolescenza e sui legami virtuali viene sottolineato quanto l’accelerazione del tempo non permetta di tollerare l’attesa: ciò che viene considerato come attesa viene ridotto a un vuoto da riempire.16 I sintomi della contemporaneità mostrano la fatica soggettiva di entrare in sintonia con il proprio tempo, perché entrare in sintonia con il proprio tempo vuol dire entrare in sintonia con un mistero, con una mancanza, con un’attesa.
7. Il tempo della preghiera
Da questo punto di vista l’educazione alla pratica della preghiera diventa un’occasione per vivere una modalità temporale che non è finalizzata al raggiungimento di nessun obiettivo, ma è soltanto apertura verso il mistero.17 Nell’esperienza continuativa e praticata con costanza vengono costruiti i neurosentieri che portano all’esperienza del sacro.18 La preghiera non è improvvisazione di una pratica, ma è una pratica che predispone all’imprevisto dell’incontro.
Fare pratica della preghiera vuol dire dare un ritmo al nostro funzionamento, imparando così a entrare in quella concentrazione profonda che ci permette di gustare la sintonia con le parole della preghiera. Possiamo chiederci fino a che punto noi esercitiamo un’attenzione cosciente su quello che stiamo recitando nella preghiera. In che modo avviene il passaggio dallo sforzo attivo nell’esercitarsi nella pratica della preghiera al momento in cui ci si apre a un incontro che disabilita la padronanza dell’Io cosciente? Questo passaggio credo che la psicoanalisi lo possa spiegare come un possibile passaggio d’amore. Io amo quando mi faccio prendere dall’amore. Nell’amore vivo quell’eternità di passaggio, quella “vibrazione d’eternità”,19 quell’esperienza dove «durano nel tempo solo le cose / che non furono del tempo».20 Possiamo compiere questo passaggio se abdichiamo innanzitutto al potere dell’Io. Ecco il modo in cui la pratica della preghiera diventa un esercizio di apertura all’esperienza di amore, se per amore intendiamo l’abbandono delle proprie abituali difese e l’abbandonarsi con fiducia all’incontro con l’alterità radicale del partner. È solo per questa via che il partner (anche Dio è un partner) può veramente sconvolgere la nostra esistenza spingendoci a essere ciò che non saremmo mai stati.
Non credo che questo passaggio, come nell’amore, sia garantito. L’annullamento del tempo nell’esperienza mistica non si verifica sempre, non è un qualcosa che si può ottenere attraverso una procedura cognitiva.
Troviamo scritto che ci sono tanti modi di pregare quante sono le persone che pregano. Non è un caso che nella Chiesa cattolica si parla di metodo di meditazione e di dono della contemplazione: il metodo è qualcosa che applichiamo ed è un modo con cui gestiamo il tempo allenandoci ad avere quel ritmo e solo attraverso questo forse si può verificare in maniera del tutto imprevista l’incontro con il mistero dell’Altro.
8. La trama delle generazioni
Se il desiderio è una vocazione, la Legge è una sintassi che vincola la vocazione a trovare una forma. Sintassi vuol dire organizzazione di elementi che segue una successione temporale, cioè un ritmo che non può essere schiacciato nell’istante altrimenti si perde la possibilità stessa che la sintassi generi un momento di senso e soddisfazione.
Molte storie familiari sono esasperate non soltanto perché ci sono dei ritmi frenetici, ma anche perché i giovani non vengono educati a conoscere la propria storia, a conoscere il loro essere agganciati a una trama intergenerazionale. Se oggi si prova a chiedere a un adolescente quanti anni hanno i nonni, la storia familiare dei nonni, il modo in cui i nonni si sono incontrati, perché si sono sposati, la storia dei propri genitori, addirittura l’età dei propri genitori, allora ci si accorgerà che per il giovane che stiamo incontrando questi interrogativi sembrano del tutto irrilevanti. La storia familiare non sembra più strutturare la soggettività. A questo proposito possiamo pensare ai pazienti borderline che rappresentano il caso più eclatante di un disancoraggio del soggetto da una trama narrativa fondata sull’appartenenza ai legami intergenerazionali. Il borderline vive in una condizione di “stabile instabilità”: la sua vita non segue una progettualità perché nella sua storia familiare non ha incontrato la sintassi dell’Altro. L’Altro del borderline è semmai una nebulosa che non si condensa; allo stesso tempo il borderline non è capace di tollerare l’attesa perché vive sempre con i nervi a fior di pelle ed è sempre pronto a litigare con tutti, a spaccare tutto, pur di trovare un argine esterno a una tensione emotiva che lo incalza in quasi tutti i momenti della sua quotidianità.
Come sottolineavo all’inizio del mio discorso, i casi clinici ci mostrano l’importanza di alcune funzioni psichiche proprio nel momento in cui ci permettono di osservarne il deterioramento: l’ascolto di storie cliniche ci insegna quali sono gli ingredienti irrinunciabili per la strutturazione della soggettività umana. Una trama storico-familiare-narrativa entro cui collocarsi è uno degli aspetti fondamentali per poter diventare soggetti di un’esperienza umana. I traumi che caratterizzano le storie familiari dei borderline impediscono oppure ostacolano la costruzione di una trama soggettiva, e non è solo una scelta stilistica se nella cura di queste forme di psicopatologia si parla di “umanizzazione”.21
9. L’istante della profondità
Per cogliere gli effetti di una sintassi estremamente frammentata non è necessario rivolgersi alle forme psicopatologiche contemporanee. Fermiamoci un attimo e pensiamo al nostro utilizzo dello smartphone. Quanto tempo passiamo a cliccare per verificare informazioni che sappiamo irrilevanti, ma che allo stesso tempo cerchiamo compulsivamente? E con quale frequenza? Quanti genitori mangiano insieme ai figli senza rispondere al telefono?
Per accordare la vita familiare al desiderio basterebbe molto poco, innanzitutto aprire uno spazio e un tempo non saturato dalla voglia di riempimento compulsivo che attanaglia non soltanto la quotidianità dei soggetti borderline, ma anche un po’ tutti noi, ormai ostaggio dei vari dispositivi tecnologici che predispongono la cornice dei nostri incontri e addirittura del nostro modo di funzionare: mentre ci sentiamo padroni dei contenuti mentali che cerchiamo o produciamo non ci accorgiamo che la forma e il ritmo con cui li trattiamo non sono più vincolati da un nostro ritmo interiore, ma da un’accelerazione talmente alienante che ormai la sentiamo come una nostra seconda natura, alcuni la osannano come una possibilità evolutiva. Eppure, se riflettiamo un attimo sul nostro modo di funzionare, a breve termine e compulsivo, possiamo notare quanto questo assetto mentale ci influenzi nel sopportare ogni minimo contrattempo che diventa un momento di esasperazione soltanto perché ci manca la capacità mentale – speriamo solo in modo transitorio – di vedere quello che ci sta succedendo soltanto come un frammento di un arco temporale più ampio. I momenti di esasperazione possono trovare una cura desiderante se vengono inseriti in una sintassi relazionale dove ci muoviamo cercando soluzioni che si sviluppano attraverso una trama e non nell’istante fulminante dove tutto si sistema con un clic.
Ci sono due tipi di istanti. Un conto è il tempo dell’incanto, in cui io guardo una donna e la riscopro come per la prima volta, e quello è l’istante dell’incanto; altra cosa è invece l’istante di chi non è capace di fermarsi su quella esperienza e deve passare irrefrenabilmente a una successiva. Per cogliere la dimensione del desiderio bisogna introdurre un intervallo che interrompa questo scorrimento incessante che fa passare sempre alla cosa successiva senza possibilità di soffermarsi. Certo, gli psicoanalisti lacaniani ricorderebbero che Lacan dice che «il desiderio è una metonimia»,22 lo slancio del desiderio sposta sempre in là il momento in cui sentiamo di raggiungere quello che vogliamo, la caratteristica del desiderio è di non farsi mai bastare quello che si ha, di volere sempre qualcos’altro. Non dobbiamo immaginare però che il saltare di fiore in fiore farà fiorire il desiderio. La dimensione Reale del desiderio scaturisce dalla possibilità di assaporare l’esperienza, non dal surfare senza concedersi quell’intervallo in cui la vita ci tocca e ci trasforma. Il momento del desiderio non è un’occasione fugace, è un incontro che lascia una traccia, la traccia di una soddisfazione che ci rimane addosso, ma che non acciuffiamo mai. Se non ci diamo il tempo di assaporare un’esperienza fino in fondo, non possiamo neanche distinguerla dall’altra: l’intercambiabilità del partner, dei momenti, degli oggetti, delle persone, dei legami, è data dal fatto che quei legami non sono coltivati in profondità, perlomeno fino al punto da sentirci autenticamente coinvolti.
Se la vita familiare non viene vissuta in profondità, diventa una vita come tutte le altre, non diventa espressione del desiderio, non diventa la possibilità per incontrare un mistero. Ecco perché parlare della Legge del desiderio non è il richiamo nostalgico a vecchie tradizioni, ma è solo il rimando alla dimensione strutturante (anche a livello neurobiologico)23 della soggettività umana.
10. Il tempo della scuola
Nel tempo dell’eterno presente caratteristico dei social, che ha radicalmente riformulato la nostra dimensione relazionale, sembra che occorra ripensare anche l’insegnamento. Nelle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar troviamo una frase che può aiutarci nel concepire la funzione dell’insegnamento: «il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri».24 Quando siamo giovani i libri ci parlano perché c’è stato un insegnante che ha fatto da tramite, che ha dato testimonianza della propria passione e ha favorito il transito verso la lettura costruendo i presupposti per un incontro con la tradizione (l’Altro). Ebbene, è questo tipo di esperienza che la scuola dovrebbe favorire sin dalla prima infanzia: deve cioè stimolare il bambino e l’allievo nella ricerca di qualcosa di sé, una ricerca soggettiva che passa attraverso l’esplorazione e la “lettura” del mondo dell’Altro. La scuola è la chance perché questo incontro possa avvenire.
La scuola oggi però è presa dalla preoccupazione di promuovere innanzitutto l’adattamento alla realtà e ai tempi ipermoderni. La scuola si trova a competere con una società dove il modello vincente viene rappresentato da un cervello playboy, capace di navigare tra diversi input e diverse informazioni, che necessariamente non possono che essere superficiali.25 La profondità del tempo della lettura e dello studio non viene più concepita come funzionale allo sviluppo delle competenze adatte per vivere nell’epoca contemporanea. Se le richieste e i modelli socio-culturali dominanti privilegiano la capacità di oscillare nella molteplicità degli stimoli, come farà un insegnante a chiedere ai suoi allievi di studiare? In che modo la scuola e il discorso educativo che la attraversa potrà svolgere la sua funzione di formazione?
La scuola rischia di diventare uno specchio della realtà sociale e virtuale: una scuola aperta e flessibile che sta al passo con i tempi, dove però non è sempre custodita la possibilità per il giovane di incontrare la testimonianza del desiderio dell’insegnante.
In un tempo dove il disinvestimento sulla scuola italiana si fa più marcato e nel tempo dell’evaporazione dell’Ideale, Recalcati ha ribadito il valore testimoniale dell’ora di lezione.26 L’ora di lezione si realizza quando la lezione si apre al tempo dell’inconscio. Il tempo dell’inconscio è il tempo in cui le certezze dell’Io si indeboliscono e il desiderio dell’Altro si fa più evidente. In questo scenario l’insegnante è chiamato a dare testimonianza del proprio amore per il sapere. Non si tratta di trasmettere semplicemente il sapere, ma di portare il fuoco che accende il desiderio di sapere. Il maestro deve svuotarsi del sapere di tipo universale e cumulativo e deve mostrare piuttosto la passione con cui interroga l’Altro del sapere. Il sapere del maestro non è il sapere cumulativo, ma traspare innanzitutto dall’atteggiamento verso il sapere. Il maestro non travasa il suo sapere nella coppa vuota degli allievi, ma mostra la sua mancanza di sapere, ossia il modo in cui a partire dalla propria mancanza si rivolge al sapere. Nell’ora di lezione il sapere non riempie il vuoto, ma lo mantiene vivo, come un vuoto causativo che permette al sapere di essere aperto verso il nuovo. È la vocazione del maestro che attiva e contagia la vocazione degli allievi. «Perché vi sia desiderio di sapere è necessario un contagio, un incontro con un testimone di questo desiderio».27
Lo stile dei maestri che sono rimasti indimenticabili è sempre espressione di un rapporto singolare con il sapere. Un maestro durante l’ora di lezione offre agli allievi la testimonianza del proprio modo di soggettivare il sapere. È questo movimento desiderante del maestro che rende il sapere non ripetitivo, ma aperto alla contingenza dell’ora di lezione.
Per rendere presenti gli allievi nell’ascolto, è necessario che il maestro sappia innanzitutto rendere presente a se stessa la propria presenza. […] La presenza dell’insegnante assume le forme di uno stile. Perché quello che conta innanzitutto è lo stile singolare del maestro. Capita ogni volta che un insegnante parla. Al di là di ciò che dice, conta da dove dice ciò che dice, da dove trae forza la sua parola. Qual è il punto singolare di enunciazione da cui scaturiscono i suoi enunciati? La forza dell’enunciazione coincide con la sua presenza presente.28
Mentre il maestro spiega un argomento con parole nuove impara qualcosa di nuovo. Il maestro trasmette qualcosa se ha imparato lui stesso dalla lezione, se produce un’opera che supera il sapere dell’Io ed esprime un movimento verso ciò che ancora non si sa, verso ciò che nel campo del sapere rimane inesauribile, impossibile da sapere del tutto. Il vero maestro entra in un rapporto erotico con gli oggetti del sapere, trasforma i libri in corpi e trasforma l’allievo da recipiente ad amante del sapere. Ecco perché secondo Recalcati – che a questo proposito cita Pier Paolo Pasolini – la scuola è il più grande vaccino contro il godimento rovinoso: se la scuola sa far sperimentare l’esperienza dell’innamoramento verso il sapere permetterà all’allievo di fare esperienza della trascendenza del desiderio, permetterà all’allievo di far transitare il godimento sulla giostra del desiderio.
Nell’epoca della crisi del significato simbolico del Maestro l’unica possibilità per tenere vivo il desiderio di sapere è puntare sul Maestro-testimone, testimone del suo amore per il sapere, testimone del suo stile singolare di rivolgersi al sapere. Perché non esiste un modo generale di rivolgersi al sapere, ciascuno ha il suo modo unico di rapportarsi al sapere.
Si può sostenere la scuola senza necessariamente introdurre altre professionalità, come per esempio gli psicologi. La prevenzione è la scuola, non la psicologia nella scuola. È l’ora di lezione in quanto occasione di trasmissione del desiderio di sapere che potrà continuare a rendere la scuola un luogo generativo. «Un’ora di lezione può sempre aprire un mondo, può sempre essere il tempo di un vero incontro».29
Il desiderio va inteso non come una facoltà tra le altre, ma come quell’apertura verso l’esistenza che permette a tutte le altre facoltà di crescere e migliorare. Senza il desiderio la scuola rischia di essere schiacciata sui protocolli, sulla burocrazia, su un discorso istituzionale anonimo che invece di favorire l’emersione della soggettività, degli insegnanti e degli allievi, la uniformizza in procedure e dispositivi desoggettivanti.
La proposta di Recalcati non intende trascurare le questioni relative al dispositivo istituzionale della scuola o le necessarie evoluzioni della didattica che bisogna affrontare. Recalcati si focalizza sulla posizione etica, prima ancora che metodologica, dell’insegnante. All’interno del dispositivo istituzionale della scuola, l’ora di lezione si configura come il possibile evento trasformativo, per insegnanti e studenti, che fa emergere la dimensione generativa della scuola. Una scuola che può così diventare un luogo d’incontro con quel sapere che causa il desiderio di sapere.
11. Le nuove generazioni e l’eredità di Telemaco
In un tempo dove l’autorità simbolica del padre sembra irreversibilmente tramontata siamo sempre più confrontati con una trasformazione dello scambio intergenerazionale. Secondo Recalcati le nuove generazioni assomigliano alla figura di Telemaco perché invocano la presenza di padri-testimoni, testimonianze paterne che sappiano mostrare l’annodamento singolare tra Legge e desiderio. Per illustrare la particolarità della posizione soggettiva dei figli Telemaco, Recalcati propone una differenziazione rispetto alle figure dei figli-Edipo, dei figli Anti-Edipo e dei figli Narciso.
Il figlio-Edipo sfida le vecchie generazioni e vede nel padre un Ideale e un rivale. L’ambivalenza edipica risiede nella tendenza nevrotica a confrontarsi con la Legge paterna solo come limite al proprio soddisfacimento, salvo poi mantenerla strenuamente come protezione irrinunciabile di fronte al non-senso della vita. Quindi il figlio-Edipo cova odio verso il padre perché viene considerato come un padre-padrone che ostacolerebbe la libertà di esprimere il desiderio. Allo stesso tempo però fa di tutto per mantenere intatta la figura del padre, non ne può fare a meno perché il padre garantisce comunque una protezione rispetto alla minaccia del Reale senza-senso.
L’errore di Edipo non è la rivendicazione del sogno come diritto, ma quello di aver frainteso la Legge vivendola solo come un ostacolo nel cammino che conduce alla realizzazione del proprio desiderio. Questo comporta la riduzione della sua libertà a pura opposizione nei confronti della Legge che finisce per nutrire il mito del desiderio come liberazione da ogni limite. In questo senso Edipo porta già paradossalmente con sé il germe dell’Anti-Edipo.30
Il figlio Anti-Edipo vorrebbe fare a meno della Legge e la considera come un’inutile reliquia del passato. La posizione del figlio Anti-Edipo trova il suo perno nella forza acefala della pulsione promuovendo la «potenza anarchica del corpo che gode ovunque, al di là di ogni limite, al di là di ogni Legge».31 Si tratta però di un’apparente liberazione del desiderio perché seguendo questa prospettiva la trascendenza del desiderio, privata dall’effetto vitalizzante del Simbolico, si richiude in una forma di godimento cinico e dissipativo dove l’abolizione della Legge si trasforma in passione per l’abolizione, in tendenza incestuosa verso un godimento rovinoso.
Il figlio-Narciso è espressione della trasformazione della gerarchia rigida dei rapporti tipici della famiglia patriarcale che si trova oggi rovesciata nell’orizzontalità speculare dove genitori e figli sono catturati dalle stesse esigenze narcisistiche. L’accudimento del bambino produce un figlio-Narciso quando le leggi simboliche della famiglia vengono unilateralmente piegate sulle necessità e i bisogni dei figli. Il figlio-Narciso non facendo esperienza simbolica del limite ricerca costantemente delle gratificazioni narcisistiche a cui non può rinunciare. Il rischio dei figli-Narciso non è soltanto quello di essere assorbiti da un desiderio capriccioso ed egoistico, ma innanzitutto è quello di non poter accedere alla dialettica del Simbolico perdendo così «la forza generativa del desiderio».32
Il figlio-Narciso non è allora solo il figlio autorizzato a coltivare il sogno della propria realizzazione e della propria felicità, ma è anche il figlio senza desiderio, plastificato, apatico, perso nel mondo fagico degli oggetti, insofferente a ogni frustrazione, è il piccolo re-vampiro insensibile alla fatica dell’Altro e al suo debito simbolico.33
«Nell’Odissea di Omero Telemaco è il figlio di Ulisse».34 Nell’attesa che il padre faccia il suo ritorno, Telemaco è costretto ad assistere alle violazioni del Simbolico inferte dai Proci. L’attesa di Telemaco non è soltanto attesa del padre, ma del ritorno della Legge dell’ordine Simbolico. Il figlio-Telemaco è il paradigma delle giovani generazioni che attendono che qualcosa del padre torni dal mare. È questa la nuova figura con cui Recalcati interpreta il disagio della giovinezza nell’epoca contemporanea. «Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo».35 Nell’epoca del tramonto del padre le nuove generazioni guardano al mare come Telemaco e attendono che «qualcosa del padre ritorni».36
Telemaco non si limita però ad attendere il ritorno del padre. Ciò che contraddistingue Telemaco come “giusto erede”37 è il fatto che oltre a invocare la presenza del padre si mette in moto e inizia un viaggio cercando tracce del padre. In questo viaggio rischia di perdersi, si confronta con il suo passato e assume la sua condizione di erede scoprendosi orfano, potremmo dire orfano del padre Ideale. È sulla base di questo essere orfano che Telemaco potrà incontrare il padre. «L’incontro col padre è una possibilità del nostro essere figli. Nel racconto omerico esso diventa possibile solo dopo il viaggio di Telemaco».38
Il viaggio di Telemaco ci insegna che l’eredità è possibile solo attraverso un processo di filiazione simbolica, in un movimento in avanti dove un soggetto assume la mancanza dell’Altro e proprio grazie a questa assenza di garanzia ha occasione per riconoscere il debito simbolico verso l’Altro. Ecco l’aspetto decisivo del Telemaco di Recalcati: ciò che ritorna dal mare non è il padre Ideale, ma la traccia singolare della sua testimonianza che, in molti casi, viene ritrovata nel silenzio, soltanto retroattivamente, perché solo dopo il viaggio della soggettivazione è possibile riconquistare la propria eredità.
12. Cosa ci rende figli generativi
Essere figli è la condizione degli esseri umani, nessuno di noi può evitare di essere figlio, ossia nessuno di noi è padrone delle proprie origini. La vita del figlio prende origine dall’Altro. «Portiamo su di noi la scrittura dell’Altro senza mai poterla leggere chiaramente, né decifrare compiutamente».39 Ognuno porta su di sé le tracce delle aspettative dei genitori, l’impronta con cui il desiderio dell’Altro ha dato forma alla vita del figlio.
Nel primo tempo della vita ogni figlio ha bisogno che l’Altro lo faccia sentire accolto e amato. C’è un momento però in cui la vita del figlio inizia a non nutrirsi soltanto del desiderio dell’Altro perché la vita inizia a chiedere di avere una forma propria, una forma che può anche entrare in contrasto con quella desiderata dall’Altro. Nel tempo dell’adolescenza la vita non si soddisfa più nel soddisfare le attese dell’Altro. In adolescenza, la relazione con l’Altro va incontro a notevoli perturbazioni, che esprimono esigenze ambivalenti: il soggetto oscilla infatti tra la spinta verso la separazione e la necessità del vincolo. L’esigenza di separarsi dal vincolo che lo lega alle aspettative dell’Altro è concomitante alla necessità di sentirsi ancora integrato nel contesto familiare. L’adolescente vuole scoprire attivamente il significato di ciò che assomiglia alla felicità: vuole cioè comprendere fino in fondo quello che desidera e cerca di distinguere ciò che dipende dai consigli o dalle attese dell’Altro (famiglia, amici, insegnanti) e ciò che invece esprime la sua verità. In questo senso, l’adolescente incarna una sorta di eroe-poeta che è rapito da un genuino interesse per la verità. L’adolescenza è un viaggio che richiede tempo e creatività, e soprattutto non ammette facili soluzioni come quella dell’imitazione dei coetanei o dell’identificazione negli idoli proposti di volta in volta dai mass-media. Scoprire la propria autenticità vuol dire innanzitutto confrontarsi con ciò che ancora non è stato detto, ma anche con la possibilità di smarrirsi.
La famiglia non può esaurire l’orizzonte del mondo. Come la vita umana necessita dell’accoglimento, della casa, della famiglia, così, con la stessa intensità, necessita di andare altrove, di separarsi, di coltivare il proprio segreto. Appartenenza ed erranza sono due poli egualmente fondamentali del processo di umanizzazione della vita.40
Nel Segreto del figlio Recalcati riprende dal Vangelo di Luca la parabola del “figlio ritrovato”, meglio conosciuta come quella del figliol prodigo, per mostrare l’intreccio famigliare tra appartenenza ed erranza. La vita ha necessità dell’erranza e nella parabola lucana il figlio secondogenito scalpita per avere la propria quota di eredità, per ottenere ciò che gli spetta e inoltrarsi al di là del recinto familiare. Qui Recalcati mostra che nella parabola il padre non risponde assumendo una posizione simmetrica al conflitto con il figlio, evita di replicare specularmente il conflitto. È un padre che si rifiuta di impugnare il bastone, non interpreta la Legge solo nella sua versione punitiva e patibolare. Il padre risponde in modo asimmetrico e accetta la richiesta imperativa del figlio perché «l’alterità del figlio ribadisce che la paternità – come la maternità – non è mai un’esperienza di appropriazione ma di decentramento».41 Ma ancor di più questa figura di padre mostra che un padre non deve offrire solo ciò che ha, “la metà del suo patrimonio”, ma deve anche esporsi in un atto di fiducia verso il desiderio del figlio. Ecco perché lo lascia andare. «Dona al figlio, come Abramo dona a Isacco, la possibilità di perderlo».42
La parabola ci fa anche vedere – come mette in luce Recalcati – che la colpa del figlio primogenito, che non tollera l’accoglienza e la gioia del padre verso il secondogenito al momento del ritorno, è stata quella di aver interpretato l’eredità come fedeltà passiva, come ripetizione della vita del padre. Nonostante l’iniziale rivolta il secondogenito è il giusto erede perché ha avuto il coraggio di essere eretico e smarrirsi. L’eretico, infatti, si assume la responsabilità del viaggio, chi rimane fermo invece è colpevole di una interpretazione scorretta dell’eredità. Il compito di ogni figlio è quello di saper ereditare e l’eredità implica la realizzazione della singolarità del proprio desiderio. «L’erede non è stabilito dall’ordine naturale della successione, ma da qualcosa che lo distingue e che concerne il coraggio dell’esposizione alla dimensione singolare del desiderio».43
La parabola del figlio ritrovato mostra che la vita del figlio ha diritto alla differenza e che il vero dono della genitorialità è amare il figlio nella sua differenza. Un genitore ama nel figlio non il fatto che egli sia un suo replicante, ma ama proprio ciò che non comprende del figlio, ama il suo segreto. Quando nella parabola il padre perdona il figlio non introduce soltanto una eccezione alla Legge, ma umanizza la Legge: «il padre si rivela madre nell’atto del perdono perché rinuncia all’esercizio della Legge nel nome di un’altra Legge che è quella dell’amore per il nome proprio del figlio».44 Nella lezione cristiana il perdono è la prova più alta a cui è esposto l’amore umano. Il perdono non risponde a nessuna logica di scambio, non è effetto della simmetria speculare e non è neanche una fuga dal trauma dell’offesa. Il perdono non restaura ciò che si rotto, non ripristina la situazione così come era prima, ma converte l’offesa nella possibilità di un nuovo inizio.
Il perdono dona la possibilità di un’altra occasione, di un’altra possibilità, di un nuovo cominciamento. Non dichiara persa, morta, quella vita – la vita del figlio – che sembrava definitivamente persa e morta. Il dono del padre è il dono di una fede che resiste al fallimento e alla sconfitta. Il padre con il suo abbraccio “misericordioso” dona una seconda possibilità, […] la parola “misericordia” in ebraico significa, non a caso, “generare di nuovo”.45
Anche per la psicoanalisi il cuore della soggettività umana è costituito dalla possibilità di frequentare il futuro generando il nuovo. Ciò che accomuna la psicoanalisi, l’educazione e l’amore è questa apertura generativa verso il futuro. Il soggetto non è solo il risultato di ciò che è stato, non è già scritto dai condizionamenti che lo hanno determinato. Il soggetto del desiderio si rivela sempre come un’eccedenza rispetto al già stato, anzi configura la possibilità e il compito etico di riprendere costantemente ciò che è avvenuto provando a soggettivare il mistero della vocazione che lo abita e lo trascende.
Bibliografia
A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, Roma 2006;
Idem, The Game, Einaudi, Torino 2018.
G. Benedetti (1992), La psicoterapia come sfida esistenziale, ed. it. a cura di G.M. Ferlini, Cortina, Milano 1997.
J.L. Borges (1975), “Eternità”, in T. Scarano (a cura di), La rosa profonda, Adelphi, Milano 2013.
A. D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016.
D. Demetrio, Silenzi d’amore. Scrivere i sentimenti taciuti, Mimesis, Milano-Udine 2015.
J. Escrivá (1955, 1967), L’intimità con Dio. Due omelie sull’orazione, pres. di F. Capucci, Ares, Milano 2005.
F. Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, pref. di C. Sgorlon, Astrolabio, Roma 2010.
G.K. Gibran (1923), Il Profeta, trad. it e cura di T. Pisanti, Newton, Roma 1995.
N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1984 (1ª ed. 1962).
M. Giorgetti Fumel, Giovani in Rete. Comprendere gli adolescenti nell’epoca di Internet e dei nuovi media, Red!, Milano 2013.
J. Lacan (1953), Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in G.B. Contri (a cura di), Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974.
J. Lacan (1957), L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Contri (a cura di), Scritti.
Idem, Nota sul padre e l’universalismo (1968), «La Psicoanalisi» 33 (2003) 9.
V. Lingiardi, F. De Bei, La terapia come processo di umanizzazione: sogno e memoria nell’analisi di una paziente traumatizzata, in V. Caretti, G. Craparo (a cura di), Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo-relazionale, introd. di N. Dazzi, Astrolabio, Roma 2008, 308-332.
P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma 2004.
M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011.
Idem, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012.
Idem, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013.
Idem, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014.
Idem, Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2017.
D.J. Siegel (2012), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, trad. it. di L. Madeddu, Cortina, Milano 2013.
N. Terminio, La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico, pref. di C. Pontalti, Franco Angeli, Milano 2011.
Idem, Siamo pronti per un figlio? Amarsi e diventare genitori, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015.
Idem, A ciascuno la sua relazione. Psicoanalisi e fenomenologia nella pratica clinica, pref. di M. Rossi Monti, Alpes, Roma 2019.
Idem, L’eredità creativa. Preghiera e testimonianza tra Bibbia e Psicoanalisi, Il melangolo, Genova, in stampa.
M. Yourcenar (1951), Memorie di Adriano, seguite da Taccuini di appunti, a cura di L. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 2002 (1ª ed. 1963).
1 Cfr. G. Benedetti (1992), La psicoterapia come sfida esistenziale, ed. it. a cura di G.M. Ferlini, Cortina, Milano 1997.
2 Cfr. J. Lacan (1953), Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in G.B. Contri (a cura di), Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974, 257.
3 Cfr. D. Demetrio, Silenzi d’amore. Scrivere i sentimenti taciuti, Mimesis, Milano-Udine 2015, 7.
4 Cfr. N. Terminio, La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico, pref. di C. Pontalti, Franco Angeli, Milano 2011.
5 Cfr. Idem, A ciascuno la sua relazione. Psicoanalisi e fenomenologia nella pratica clinica, pref. di M. Rossi Monti, Alpes, Roma 2019.
6 J. Lacan, Nota sul padre e l’universalismo (1968), «La Psicoanalisi» 33 (2003) 9.
7 È possibile leggere in questa prospettiva anche le tesi sviluppate da Baricco a proposito dei barbari e della nuova civiltà digitale quando sottolinea che non esistono più i sacerdoti del sapere. Cfr. A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, Roma 2006; Idem, The Game, Einaudi, Torino 2018.
8 Si tratta di una prospettiva che è comune anche all’approccio relazionale-simbolico della scuola di Scabini e Cigoli. Per un intreccio tra il modello psicoanalitico lacaniano e quello relazionale-simbolico mi permetto di rimandare a due miei lavori già citati: La generatività del desiderio e A ciascuno la sua relazione.
9 G.K. Gibran (1923), Il Profeta, trad. it e cura di T. Pisanti, Newton, Roma 1995, 29.
10 A. D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016, 34.
11 N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1984 (1ª ed. 1962).
12 M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011.
13 Mi permetto di rimandare a N. Terminio, Siamo pronti per un figlio? Amarsi e diventare genitori, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015.
14 M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012, XVII.
15 Ivi, 333.
16 Cfr. M. Giorgetti Fumel, Giovani in Rete. Comprendere gli adolescenti nell’epoca di Internet e dei nuovi media, Red!, Milano 2013.
17 È un tema che ho approfondito in un libro di prossima pubblicazione: N. Terminio, L’eredità creativa. Preghiera e testimonianza tra Bibbia e Psicoanalisi, Il melangolo, Genova, in stampa.
18 Cfr. F. Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, pref. di C. Sgorlon, Astrolabio, Roma 2010.
19 J. Escrivá (1955, 1967), L’intimità con Dio. Due omelie sull’orazione, pres. di F. Capucci, Ares, Milano 2005, 18.
20 J.L. Borges (1975), “Eternità”, in T. Scarano (a cura di), La rosa profonda, Adelphi, Milano 2013, 53.
21 Cfr. V. Lingiardi, F. De Bei, La terapia come processo di umanizzazione: sogno e memoria nell’analisi di una paziente traumatizzata, in V. Caretti, G. Craparo (a cura di), Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo-relazionale, introd. di N. Dazzi, Astrolabio, Roma 2008, 308-332.
22 J. Lacan (1957), L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Contri (a cura di), Scritti, vol. I, 523.
23 Cfr. D.J. Siegel (2012), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, trad. it. di L. Madeddu, Cortina, Milano 2013.
24 M. Yourcenar (1951), Memorie di Adriano, seguite da Taccuini di appunti, a cura di L. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 2002 (1ª ed. 1963), 32.
25 Cfr. P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma 2004.
26 M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014.
27 Ivi, 61.
28 Ivi, 101.
29 Ivi, 7.
30 M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, 101.
31 Ivi, 104.
32 Ivi, 109.
33 Ivi, 110-111.
34 Ivi, 111.
35 Ivi, 12.
36 Ivi, 13.
37 Ivi, 133.
38 Ivi, 134.
39 M. Recalcati, Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2017, 32.
40 Ivi, 79.
41 Ivi, 77.
42 Ivi, 78.
43 Ivi, 102.
44 Ivi, 100.
45 Ivi, 99.