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Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione

La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica

Pierpaolo Donati

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1. Il tema

Il tema della costituzione relazionale dell’identità riguarda ogni ente esistente, ma in questo contributo mi concentro sulla persona umana e sulle sue formazioni sociali, dal punto di vista del realismo relazionale critico. Pensiero critico è quello che ci fornisce gli strumenti per pensare il mondo così com’è e come potrebbe essere, anzi la tensione fra questi due modi di essere.

Relazione e identità sono due concetti distinti, ma la loro distinzione non significa separazione, perché essi sono ontologicamente e fenomenologicamente connessi. Il problema teorico e pratico è quello di comprendere come si articola la loro connessione, dal momento che l’identità della persona non può essere definita solo in sé stessa, ma richiede un relazionamento all’Altro, e, viceversa, la relazione non può prescindere dalla identità dei termini che la costituiscono. Le due prospettive non sono scindibili. La persona, come essere “in-Sé”, non trova la propria identità rimanendo in sé stessa, ma la può trovare solo relazionandosi ad Altro-da-Sé. Detto in sintesi, l’identità si forma nella relazione fra il Sé e l’Altro-da-Sé, senza che la relazione assorba interamente la natura propria (sub-stantia) del Sé e/o dell’Altro.

La comprensione di questa realtà è possibile se si riesce a vedere l’enigma della relazione,1 che consiste nel fatto che la relazione unisce i termini che collega (crea condivisione) mentre al tempo stesso rispetta e promuove la loro specifica differenza/distanza. La relazione non dice “Io sono Te” o “Io sono come l’Altro”, se non per sottolineare ciò che accomuna l’Io e l’Altro, la qual cosa solleva immediatamente il problema della loro differenza. Solo così si può comprendere, ad esempio, come l’identità della famiglia (come di altre soggettività sociali) sia quella di un Noi (We-relation) in cui ciascun membro può e deve trovare la propria identità senza annullare o mortificare la propria personalità.

Come persone umane siamo portati a chiederci quale sia la nostra identità più significativa, quella che sostanzia le ragioni della nostra vita, al di là delle identità contingenti che assumiamo nel corso della nostra esistenza (l’identità che abbiamo nella famiglia di origine, nella scuola, nel lavoro, nella vita civile, politica e religiosa). La risposta a questo interrogativo (“Chi sono io e perché vivo?”) non può essere data dalla persona riferendosi solo a sé stessa, ma deve essere trovata nel relazionarsi a qualcosa o a qualcuno che possa conferirle una identità (sub-stanziale) in cui trovare il senso ultimo e più appagante della propria esistenza. Ovviamente la persona può darsi tante risposte diverse, ma di fatto, generalmente, vive in tensione con una appartenenza primaria, cioè la sua esistenza è segnata da una relazione con una realtà simbolica che ne assorbe le energie più profonde. Lo vediamo nelle persone che concentrano tutta la loro identità nel perseguire un interesse materiale o ideale (nel lavoro, nella politica, nello sport, ecc.) che assorbe ogni altra premura e ogni altra appartenenza, e così definisce tutta la loro vita in funzione di una appartenenza incapace di coniugarsi con altre appartenenze.

In linea generale, comunque, tutte le persone nel corso della loro vita, momento per momento, situazione per situazione, hanno una pluralità di identità (sono lavoratori, genitori, cittadini, consumatori, membri di qualche associazione, ecc. ecc.). Alcune sono più importanti e altre meno. Se il soggetto cerca di chiarire la loro importanza relativa, di solito ne esce sconfitto. Tra queste identità c’è una certa confusione. Quando il soggetto si trova a dover rispondere alla domanda sulla sua identità (“Chi sono io?”), attiva necessariamente la sua riflessività interiore e relazionale. La riflessività gioca qui un ruolo fondamentale, che può essere di genere molto diverso. Il più delle volte è una riflessività bloccata o fratturata che non fornisce alcuna risposta chiara, lasciando il soggetto privo di una identità che non sia la banale constatazione di uno fra i vari ruoli sociali.

Riprenderò più oltre questo tema, ma intanto vorrei sottolineare la difficoltà di arrivare ad una identità “profonda”, se non addirittura “ultima”, nel senso di una identità che risponde al senso del proprio fondamento esistenziale. Per raggiungere questa identità, occorre mettere da parte tutte le identità storiche contingenti mediante una operazione riflessiva (detta operazione di re-entry)2 che reintroduce continuamente la domanda “chi sono io?”, una volta scartata la risposta insoddisfacente, in ciò che è appena stato distinto. Molte persone trovano questa identità “profonda” nella relazione con Dio (il totalmente Altro), comunque inteso, o un suo sostituto funzionale. Questa considerazione, che è una constatazione di fatto avvalorata dalla ricerca empirica, dice quanto sia essenziale comprendere l’identità come relazione. Per il cristiano in particolare, la sua identità più profonda e ultima è data dalla relazione di filiazione divina, dal sentirsi ed essere figlio di Dio. Il che rimanda alla importanza della fede coniugata con la ragione in sede antropologica.

La “formazione” (il prendere forma) dell’identità, sia personale sia sociale, avviene con il costituirsi del senso dell’appartenenza (non dell’appartenenza come tale), che è una relazione emergente da un processo in cui il soggetto è insieme generato e generatore. È generatore con l’intenzionalità, la scelta, la riflessività, ma è anche generato perché l’appartenenza dipende da una realtà esterna di cui il soggetto ha bisogno per ricevere riconoscimento e consenso della sua identità.

Così, Ugo Borghello3 sostiene che l’identità personale si costituisce sulla relazione che egli chiama di appartenenza primaria. Ma che legame c’è fra identità e appartenenza? Viene “prima” l’identità oppure la relazione di appartenenza (distinguendo il “prima” in senso ontologico e in senso temporale)? Se l’identità è ascritta, certo viene ontologicamente prima l’identità, e in tal caso l’appartenenza è una conseguenza: per esempio, se Mario si riconosce di sesso maschile (considerando il sesso una caratteristica ascritta), ne consegue l’appartenenza alla categoria sociale dei maschi. Ma se l’identità è acquisita o da acquisire, come vanno le cose? In certi casi l’appartenenza viene ontologicamente e temporalmente prima dell’identità, ma in generale quando l’identità è da acquisire si instaura un certo processo di reciproca interazione fra l’appartenenza ad un gruppo sociale e la definizione dell’identità: pensiamo ad esempio alla formazione dell’identità di genere (gender) nell’adolescenza; qui molto si gioca nelle appartenenze a certi gruppi socio-culturali che influenzano potentemente il senso della propria identità – come orientamento – sessuale.

La formazione dell’identità attraverso l’appartenenza è un processo che congiunge e divide nello stesso tempo. Il problema è comprendere e spiegare il processo di formazione dell’identità (“prendere forma”, “in-formazione” come in-mettere una forma dentro l’identità). Il migliore approccio per comprendere tale processo, a mio avviso, è quello relazionale, che parte dal problema di quale sia il ruolo delle relazioni sociali nel costituire o causare il senso di appartenenza. Per poi, se possibile, incidere su questo processo costitutivo, e a volte causale, dell’identità anche sul piano pratico con interventi relazionali (sistemi di osservazione-diagnosi-guida relazionale).

Vorrei ora chiarire i termini dell’approccio relazionale. Che cosa intendiamo per relazione e per identità? Suggerisco una sintetica definizione di questi concetti, per poi analizzare le loro inter-dipendenze e inter-penetrazioni.

2. Il concetto di relazione

Il concetto di relazione è quanto mai complesso e polivalente, essendo utilizzato in tutte le discipline (teologia, filosofia, scienze naturali e umane, scienze sociali, e così via). La letteratura al riguardo è immensa. In questa sede, mi concentro solo su alcuni dei suoi aspetti.

Aristotele intende la relazione come un concetto “primo”, una categoria logica, il cui significato è quello di indicare una prossimità spaziale. Essere in relazione (pros ti) significa “essere prossimi” fra entità sostanziali. È un accidente, dotato di realtà (ha un “essere”) ma privo di una propria consistenza, perché deve inerire ad altro da sé. Nel corso della storia, le varie culture hanno semantizzato il concetto di relazione in vari modi. Nella semantica latina, la relazione (relatio) significa riferire qualcosa a qualcos’altro (o a qualcuno). Di qui il significato di “relazione” come un riportare notizie o svolgere una narrazione. Questa accezione ha prevalso grossomodo fino all’inizio dell’epoca moderna, quando le scienze sociali a base empirica hanno iniziato a intendere la relazione come legame (religo, bond), ovvero come struttura della vita sociale e dell’organizzazione della società. Le due accezioni di relazione come “riferimento intenzionale-simbolico” (refero) e come “struttura-che-connette” (religo) sono poi state combinate e poste in interazione fra loro, dando vita ad una terza semantica, quella generativa, che concepisce la relazione come un effetto emergente dalle azioni reciproche fra i suoi termini dotato di una propria realtà.4 Questa realtà è l’essere della relazione, l’essere che è nella relazione come tale (being in relation), come sua energia dinamica (la energeia di cui parla Aristotele).

Per fare un esempio, pensiamo al matrimonio. Certamente il matrimonio definisce una relazione di prossimità fra gli sposi. Ma con ciò non entriamo nella sua realtà propria e più profonda. Di fatto, il matrimonio è un riferimento intenzionale-simbolico degli sposi (l’amore reciproco) e una struttura che li connette (il patto o contratto), ma ciò non è ancora sufficiente a comprenderlo fino in fondo. Per comprendere la sua natura (attivata dagli sposi, ma avente una propria consistente realtà), dobbiamo vederlo come un effetto emergente in sé, che sorge dall’agire reciproco degli sposi, ma va oltre le loro individualità, è (ed evolve nel corso della vita come) una realtà da cui dipende l’identità degli sposi. In tal senso diciamo che il matrimonio, quando è veramente tale, è un esempio di “bene relazionale”,5 cioè una relazione che ha virtù proprie, qualità e proprietà causali proprie, in quanto da esso derivano i vari beni della coppia, fra cui i figli (che sono la concretizzazione più significativa di ciò che intendiamo per “bene relazionale” della coppia).

Si deve alla teologia trinitaria cristiana, a partire dai padri della Chiesa (in particolare Gregorio di Nissa e sant’Agostino), l’avere prodotto la discontinuità più forte con la concezione della relazione propria del mondo antico precristiano.6 Certamente Tommaso d’Aquino rielabora le novità portate dal pensiero cristiano circa l’importanza del concetto di relazione a partire dalla definizione delle tre Persone divine come relazioni ipostatiche. Tuttavia, la teologia medioevale rimane centrata sulla relazionalità della sostanza divina, e non viene ancora applicata alla creazione, al mondo, a realtà come la famiglia e il lavoro, se non in modo generico. Invero, la visione della Trinità come pura relazionalità, comportava di per sé la conseguenza, anche se non immediata, di leggere tutta la creazione come realtà intrinsecamente relazionale. Ma quest’ultima elaborazione verrà solo dopo vari secoli, e con svolgimenti sovente distorti e passibili di fallacie di ogni sorta, quali si riveleranno soprattutto nella cultura cosiddetta postmoderna dell’identità basata sulla differenza (mi riferisco ad autori come Martin Heidegger e Gilles Deleuze) anziché sulla relazione.

Fino alla modernità, il concetto teologico di relazione rimane sostanzialmente separato dalla realtà secolare. Certo, Dio è relazione e l’uomo è naturaliter relazionale in quanto animale politico, ovvero animale sociale.7 Ma le connessioni fra questi due ordini di realtà, umana e divina, non vengono a loro volta esplorate “relazionalmente”. Questa svolta viene iniziata dall’idealismo e trova la sua massima espressione in Hegel, il quale introduce la relazionalità divina nel mondo storico permeandolo in toto. Il concetto di relazione viene interpretato in modo sempre più pervasivo e dinamico, arrivando ad essere un eschaton, cioè una realtà ultima in sé. Con la postmodernità, la relazione viene ridotta a pura processualità, ossia a incessante interazione ricorsiva, priva di struttura e di realtà propria, secondo una visione relazionista, anziché propriamente relazionale. Il relazionismo può essere esemplificato con la frase di Richard Rorty:8 «tutto ciò che può servire da termine di una relazione può essere dissolto in un altro insieme di relazioni, e così via all’infinito».

Il relazionismo emerge spinto in avanti dalla realtà virtuale, dalla nuova matrice digitale e da quella che viene chiamata infosfera. Floridi, per esempio, sostiene che il nuovo modello umano (forse oltre-umano) fa delle relazioni il suo nuovo centro, un “antropo-eccentrismo” in cui ci mettiamo fuori dalla centralità, in quanto individui, per lasciare al centro qualcos’altro: la relazione.9 Nella prospettiva di Floridi, se due partner non si considerano più il centro di una realtà, che cosa resta? Floridi dice l’amore. Se due amici rinunciano a considerarsi ‘centrali’ per la loro stessa esistenza, che cosa resta? L’amicizia. Secondo Floridi, in questo processo possiamo quindi percepirci non come esseri evoluti e perfetti ma piuttosto come una realtà non essenziale, ossia come “una eccezione non prescritta” della natura. La nostra identità dunque sarebbe, per questa visione, pura identità di relazione, di connessione, senza una realtà sostanziale.

Più in generale, nel campo delle scienze umane e sociali, le varie forme di costruttivismo prassistico e relazionalistico dissolvono oggi tutta la realtà nelle pure relazioni. Come possiamo rispondere? Occorre adottare una prospettiva di realismo critico, analitico e relazionale.10 Sul piano teologico e filosofico i maggiori chiarimenti si trovano nel pensiero di Joseph Ratzinger (come dirò più oltre), e trovano nuove applicazioni nel pensiero di Papa Francesco.

3. Il concetto di identità

Il concetto di identità è anch’esso polivalente, e pone una serie di problemi.

Nel campo della filosofia, la questione dell’identità prende una forma problematica perché disponiamo di due modelli di identità: identità idem (il medesimo) e identità ipse (il sé stesso).11 Ne propongo una lettura relazionale. L’idem è l’identità di qualcosa che permane nel tempo mentre le apparenze o, come si dice, gli “accidenti”, cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall’antichità, la sostanza. La sostanza è il substrato, il suppositum, il supporto, che è identico nel senso che è costante, e nella sua medesimezza non cambia, è sottratto al tempo anche se passa attraverso le vicissitudini del tempo e può apprendere.

L’ipse, invece, consiste nell’identità di un Sé che ritrova Sé stesso (si re-identifica riflessivamente) di fronte alla constatazione dei propri cambiamenti, dovuti alla variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, delle posizioni assunte nel divenire delle situazioni e circostanze storiche. Ricoeur fa l’esempio dell’identità ipse dell’individuo che mantiene una promessa. Ego mantiene la sua promessa nonostante i suoi cambiamenti di stato interiore, per esempio di umore. Io sono lo stesso, e mi conservo come la stessa persona, nonostante sia cambiato nel tempo per certi aspetti, interiori ed esteriori. A 70 anni sono ancora Io, lo stesso di quando avevo 10 anni (è l’identità ‘idem’), e tuttavia devo ridefinire la mia identità come un me stesso (ipse) che ritrova sé stesso dopo essere passato attraverso innumerevoli esperienze di vita che lo hanno sfidato e modificato in tanti momenti.

Pensando all’esempio della famiglia, è possibile attribuirle l’identità di idem in quanto rimane identica nella sua costituzione di famiglia (nel suo “genoma sociale”), e l’identità di ipse nel senso che si rielabora riflessivamente come relazione-del-Noi (We-relation), che è la sua interna promessa, attraversando i cambiamenti nel tempo. Qui abbiamo l’identità della famiglia che deve essere continuamente recuperata quando deve superare le sue fasi di transizione. La famiglia ha dunque due relazioni identitarie con il tempo: una è in qualche modo di immutabilità (nel senso che ha, di fatto, sempre la sua propria costituzione di famiglia), l’altra è quella di una identità che cambia nel tempo e deve ri-trovarsi, ridefinirsi narrativamente (la “identità narrativa” di cui parla Margaret Somers)12 e riflessivamente13 attraverso le vicende della vita, perché l’età, la malattie, la morte, e tante vicissitudini modificano gli individui, le loro relazioni, e quindi i sentimenti e le percezioni del Noi, di ciò che essi sono (la famiglia “originaria”) nonostante tutto (si pensi alla famiglia descritta da Terrence Malick nel film L’albero della vita).

Nel campo delle scienze psicologiche e sociali, il problema dell’identità della persona umana si pone in relazione a tre tipi di domande diverse.

(i) Quando la domanda è: “Chi sono Io per me stesso? Chi voglio essere per me stesso?”, la risposta è frutto della conversazione interiore, ossia dell’individuo che riflette dentro di Sé su che cosa e come vuole essere (un certo tipo di professionista, o di genitore, ecc.). Parliamo di identità individuale. Nasce come risposta all’esercizio regolare dell’abilità mentale, condivisa da tutte le persone (normali), di considerare sé stesse in relazione al contesto (sociale), e viceversa. A questo livello, la relazione sociale non è ancora costitutiva della definizione del Sé, ma rimane un suo sottoinsieme come attributo riferito ai ruoli sociali ricoperti in maniera contingente (in famiglia, nel lavoro, nelle associazioni, ecc.). L’identità è individuale perché è riferita alle premure ultime (ultimate concerns) della persona, le quali sono selezionate, deliberate e perseguite nell’intimo dell’auto-coscienza individuale.

(ii) Quando la domanda è: “Chi sono Io per gli altri? Che cosa voglio essere per essi?” la risposta è quella dell’identità sociale. Gli altri possono essere familiari, parenti, amici stretti, colleghi di lavoro, oppure un’associazione o comunità, e così via. Se l’identità attribuita ad Ego dagli altri viene elaborata da Ego nella sua mente, l’identità che ne risulta è ancora di tipo individuale. Diventa sociale se l’identità in cui Ego si identifica si apre alla riflessività relazionale,14 cioè diventa il frutto di un esercizio di riflessività compiuta sulla relazione con gli altri per identificarsi con il bene della relazione. Non basta l’uscita dall’attaccamento all’Io (alla propria identità) per attingere l’intersoggettività, seppure questo sia un passaggio importante ed essenziale per istituire la relazionalità.15 Un esempio può essere l’identità che un genitore deve elaborare non in quanto individuo che ha i propri pensieri e sentimenti, ma in quanto è genitore in una relazione di coppia, pensando al fatto che tale relazione ha conseguenze sui figli a prescindere dai propri pensieri, desideri, premure. Deve ridefinire la propria identità in funzione di quale relazione vuole avere con l’altro genitore e il figlio. Contrariamente a quanto sostiene Margaret Archer, l’identità basata sulla riflessività relazionale ha una natura diversa da quella che la persona elabora in sé stessa e per sé stessa16, perché l’identità relazionale risponde all’etica della seconda persona e non della prima persona. Nell’etica della seconda persona il soggetto definisce la propria identità riflessivamente a partire dalla domanda “Come mi consideri Tu? Come Tu mi vuoi? Come devo essere io per Te?”, laddove il Tu non è l’Io che interroga sé stesso, ma è un’altra persona che desidera una certa relazione con Ego. Accettando la relazione con l’Altro come significativa per Sé, Ego è chiamato ad accettare il Tu e a riconoscere il Sé come un Altro, il che comporta una nuova identità,17 ossia è una re-identificazione che spiega i cambiamenti della persona (le persone cambiano perché si re-identificano con altri referenti).18 Senza riflessività relazionale non c’è dialogo, non c’è un vero “incontro” con l’Altro, perché con la sola riflessività individuale l’identità rimane auto-centrata. Non c’è neppure conoscenza del mondo, perché la conoscenza è relazionale.19 E non c’è socializzazione, perché la socializzazione è frutto di processi relazionali in cui il riferimento all’Altro è fondamentale per stabilire un’identità condivisa.20

(iii) Quando la domanda è: “In che cosa mi identifico? Dove colloco l’immagine di me stesso?” la risposta è quella dell’identità culturale. È l’identità come appartenenza ad una cultura, ad un gruppo etnico, ad uno stile collettivo di vita. L’identità culturale risponde alla domanda a quale mondo simbolico (di valori) l’Io sente di appartenere o si riferisce in termini di uno stile di vita che lo accomuna ad altri ed è generativo di senso. Include le aspettative culturali – cioè regole di inquadramento (framing rules) e regole di sentimento (feeling rules) – in base alle quali gli individui verificano il proprio agire morale e i propri sentimenti, e nel contempo sono valutati dagli altri.21

In tutti e tre questi ordini di realtà (individuale, sociale e culturale), l’identità diventa problematica quando le risposte alle domande di cui sopra sono molteplici (il Sé si percepisce come multiple self), cioè nelle situazioni in cui l’Io si identifica o deve relazionarsi a diverse identità, e deve cercare di tenerle assieme mentre fa le sue scelte, pena la frammentazione, l’alienazione e altre patologie.22

Ovviamente, l’identità può essere riferita ad un soggetto personale o collettivo: può essere una persona, un gruppo sociale (più piccolo come una famiglia o più ampio come una comunità locale), una nazione, e così via.

4. Qual è la connessione fra identità e relazione?

La connessione fra l’identità e la relazione è una inter-dipendenza e una inter-penetrazione fra di esse. L’una dipende dall’altra, in modo tale che qualcosa dell’identità entra nella relazione e la relazione va a costituire una parte dell’identità23. L’identità si costituisce con/attraverso/per la relazione mediante un processo di familiarizzazione, cioè rendendo familiari le persone e le cose con cui interagiamo “familiarmente”.

Questo processo riguarda sia l’identità individuale, sia quella sociale, sia quella culturale. In tutti questi casi, la formazione dell’identità ha bisogno di un sistema simbolico di riferimento entro cui effettuare l’operazione di refero-religo-emergenza dell’identità, che potrà essere più o meno relazionale nel senso di ricondurre l’identità alle esigenze della relazione desiderata come tale. È in questo modo che le virtù individuali (frutto di riflessività/identità individuale) generano virtù sociali, cioè l’identificazione con relazioni virtuose (pensiamo all’identità degli sposi nella relazione matrimoniale). Dire che l’identità di Ego implica sempre un Alter significa constatare che esiste una relazione fra Ego e Alter a cui essi danno un loro apporto personale, ma che assume una sua autonomia, imprevedibilità, spontaneità, al punto da diventare una sfida per Ego e Alter che pure l’hanno voluta e generata. Per esempio, dire che Ego è un uomo sposato significa indicare una relazione (con una sposa) da cui deriva quella identità, laddove tale relazione ha una sua dinamica.

Una questione talora sollevata riguarda la domanda se, dal punto di vista ontologico ed epistemologico, “venga prima” l’identità oppure la relazione. L’affermazione di Martin Buber24 secondo cui «in principio è la relazione» ha una valenza teologica e metafisica che dà un primato assoluto alla relazione. Sul piano delle scienze umane e sociali, invece, l’affermazione per cui «all’inizio c’è la relazione»25 va intesa nel senso che l’agire individuale è già sempre inserito in un contesto sociale di relazioni pre-esistenti e deve essere analizzato e compreso (in quanto agire relazionale) in quel contesto, ma senza risolvere l’identità nella relazione o viceversa, perché sostanza e relazione sono co-principi della realtà. L’identità non è data interamente dalla relazione, né la relazione deriva immediatamente dall’identità: se si accetta la prima posizione si incorre nel relazionismo (relativismo), che dissolve l’identità in un indefinito rimando a relazioni di relazioni; se si assume la seconda posizione si incorre in qualche sorta di fondamentalismo, perché l’identità viene in qualche modo “reificata” e usata come “arma” per negare altre identità.

In breve. La persona è costituita dalla relazione, ma non è identica alla relazione. La costituzione della persona non è esaurita dalla sua identità relazionale.26 Dunque, l’identità della persona non può fare a meno della relazione, ma non si esaurisce nella relazione. Bisogna distinguere fra il “costituire” e il “causare” l’identità: per esempio, la statua della pietà di Michelangelo è costituita del marmo di Carrara, ma non è stata causata dal marmo, bensì da Michelangelo, il quale ha dato una identità alla statua operando con/su/attraverso le sue relazioni con il materiale marmoreo.

5. Dal pensiero irrelato e pensiero relazionale: tre semantiche della relazione-identità

Il “pensiero irrelato” si riferisce a quei modi di pensare l’identità che attribuiscono le qualità agli enti esclusivamente sulla base della loro natura sostanziale senza fare riferimento al contesto relazionale (situazione, circostanze, ambiente) in cui si situano. Questo modo di pensare, che attraversa la storia della cultura occidentale, considera le relazioni sociali come “accidenti” che, per quanto reali, non modificano l’identità di un ente. All’opposto il “pensiero relazionale” è quel modo di pensare che organizza le proprie mappe cognitive e simboliche attribuendo le qualità e proprietà causali degli enti basandosi non già su una loro presupposta (o asserita a priori) identità, ma piuttosto definendo tale identità come realtà relazionale di un ente-in-un-contesto.27

Per comprendere il passaggio da un modo di pensare all’altro, è utile distinguere fra tre tipi di semantiche: monistica, dualistica, relazionale (Figura 1).

Nella concezione monistica, tipica del pensiero classico antico, l’identità è intesa come sostanza, come qualcosa che non ha bisogno di mettersi in relazione con altro da sé. L’identità è fondata sul principio di autoreferenza [A = A], per cui l’identità di A è immediata, esiste senza mediazioni. Dal punto di vista storico sociale, l’identità dell’individuo coincide con quella del gruppo sociale di appartenenza (tribù, strato sociale, cultura locale) e viene vissuta in modo quasi automatico attraverso l’interiorizzazione di un habitus. Lo spazio della riflessività personale è molto ridotto e la riflessività relazionale è praticamente inesistente. Sul piano pratico, questa semantica non nega ovviamente l’esistenza e l’importanza delle relazioni nel definire le identità sociali, ma le considera come qualcosa di naturale e dato per scontato (per esempio le identità che provengono dalle relazioni familiari). Dal punto di vista politico, tutti i soggetti sociali (e la stessa società civile) tendono a essere identificati con l’attribuzione data loro dalla comunità o, se già formato, dallo stato. Questo modo di pensare e di vivere l’identità è tipico delle società a differenziazione segmentaria (tribù) e di quelle a differenziazione verticale, stratificata per ceti (come quella medioevale).

Semantica

Monistica

Semantica

Dualistica

Semantica

Relazionale

A = A

A = non (non-A)

A = Relazione

(A, non-A)

L’identità di A è data

da una semplice relazione

di uguaglianza con sé stesso (secondo un codice identitario)

L’identità di A è data

da una relazione di negazione di ciò che non è A

(è una doppia negazione, secondo un codice binario)

L’identità di A è data

da una relazione (azione reciproca) con l’Altro (il non-A) che genera l’identità di A come effetto emergente (secondo un codice generativo)

Identità come IDEM

(Io sono Io, cioè me stesso

“a prescindere” da tutti i cambiamenti e da tutti i confronti con altri)

Identità come ALTRO

dal resto del mondo

(Io sono “altro”

– sono “differenza” –

rispetto a tutto e a tutti)

Identità come IPSE

(Io ritrovo me stesso dopo aver cambiato in certi aspetti contingenti o dopo un confronto con altri)28

Figura 1: Tre semantiche della costituzione relazionale dell’identi

La concezione dualistica di identità, invece, è tipicamente moderna e si basa sul principio della differenza, per cui [A = non (non-A)]: ossia l’identità di A è data dalla negazione di tutto ciò che non è A. L’identità è basata sulla differenza intesa e gestita in modo dialettico o comunque con un codice binario (0/1). Per esempio, la società civile è ciò che non si identifica con lo stato, e dunque la sua identità è negazione della società politica. In questo caso, le relazioni diventano certamente più importanti e soprattutto mobili (in potenziale continuo cambiamento) rispetto a quanto avviene nel paradigma monistico. Ma l’identità di A non ha nulla da spartire con il resto del mondo, dunque la sua identità è non-relazionale come nel caso della concezione monistica.

La concezione relazionale di identità si fonda invece sul principio per cui [A = R (A, non-A)], ossia l’identità di A è data da una relazione (R) fra A e non-A, laddove la relazione non è né immediata né binaria. In questo caso, l’identità è definita non per negazione dialettica, bensì per relazionamento a un’alterità. L’identità di A è la relazione che intercorre fra A e ciò che A non è. In breve, Ego ha una identità diversa da Alter, ma essi condividono una relazione che li unisce mentre rispetta e promuove le loro legittime differenze (ciò in cui consiste l’enigma della relazione). L’identità della società civile, per esempio, si definisce in relazione all’alterità dello stato e sulla base di tale relazione, la quale comporta una distanza ma non comporta per questo una negazione di tipo dialettico.

La concezione relazionale include quella dualistica come caso limite particolare, nel senso che quest’ultima riguarda le identità che si costituiscono in modo conflittuale e dialettico, attraverso il rifiuto dell’Altro, mentre in una concezione relazionale l’identità si definisce attraverso il relazionamento a un’alterità.

L’identità relazionale implica che Ego si definisca attraverso una distanza con sé stesso (spazio e presenza dell’altro), il che significa che esiste contingenza nell’unità stessa dell’identità personale, la quale viene pertanto a essere costruita in modo complesso, attraverso la sua propria complessità interna sollecitata e favorita da ciò che è altro da sé. La società dopo-moderna deve prendere atto della necessità di ridefinire l’identità tenendo conto del bisogno di relazionarsi agli altri in maniera non più funzionalistica, ma sovra-funzionale. L’Io si forma per relazione con l’Altro e attraverso l’Altro da sé (incluso il Sé soggettivato dell’Io). L’Io e l’Altro non debbono più specializzarsi funzionalmente (e quindi distinguersi per separazione dei compiti e delle identità), ma, viceversa trovano la propria identità in un certo modo di stare in relazione con l’Altro, condividendo qualcosa e distinguendosi per qualcos’altro.

Nella semantica dualistica (ovvero dialettica) la distinzione è una divisione – uno slash, per cui si sta da una parte o dall’altra –; nella semantica relazionale la distinzione è una relazione che unisce mentre differenzia i termini. Sia l’identità personale, sia l’identità sociale, vuoi di una persona (soggetto agente) vuoi di una famiglia, sono relazionali.

Scrive Heidegger:29 «In Sein und Zeit è con intenzione e per prudenza che si dice: il y a l’être: “si dà” l’essere. L’espressione il y a non traduce esattamente il “si dà” (es gibt) perché “ciò” (es) che qui “si dà” (gibt) è l’essere stesso. Il “si dà” (gibt) indica l’essenza dell’essere che dà, concedendola, la sua verità. Il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso, è l’essere stesso».

A mio avviso, forzando un po’ la metafisica heideggeriana, è possibile dare un’interpretazione relazionale di questo pensiero e insieme vederne possibili sviluppi. Infatti, dire che «l’essere si dà», significa affermare che l’essere è di per sé “donativo”, che ha le qualità e proprietà della donalità, e in tal senso l’essere non solo è aperto alla relazione, ma è intrinsecamente relazionale. Se l’essere, come dice Heidegger, è «il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso», non si parla forse, in questa definizione, dell’essere come relazionalità? Ma qui Heidegger si ferma. L’essere è per lui ciò che semplicemente «è», come se l’essere (la sua verità) non potesse diventare «altro da ciò che è dato». Invece, se l’essere è atto (atto di essere, con l’energeia di cui parla Aristotele), e questo atto è relazione, proprio in forza di questa sua intrinseca relazionalità, l’essere non è statico (non è morfostatico), ma è dinamico e morfogenetico, ossia si sviluppa (pro-gredisce) nel tempo. Dunque, l’essere ammette la propria trasformazione, alla sola condizione di rispettare la propria intrinseca relazionalità.

È alla luce di questa considerazione che, a mio avviso, possiamo interpretare la prospettiva di Heidegger in Identità e differenza secondo cui l’identità non è uguaglianza. Per la differenza sono necessari due termini, per l’uguaglianza ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale (idem) la diversità svanisce, nello stesso (ipse) la diversità appare».30 Possiamo allora dire, che, mentre nell’idem la diversità svanisce, nell’ipse la diversità si manifesta. Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si co-appartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale co-appartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda.

La semantica relazionale diventa particolarmente importante nell’era delle ICT, perché l’uso delle nuove tecnologie crea un inestricabile intreccio tra online e offline (onlife experience), in cui il Sé si configura come un sistema complesso informazionale che mostra le sue molteplici facce in contesti sociali multipli attraverso un loop ricorsivo. Di qui la necessità di aumentare le capacità riflessive del soggetto relazionale che deve trovare la sua permanenza (l’ubi consistam dell’identità idem) rielaborando continuamente il sé stesso (l’identità ipse) nel mare delle contingenze.

6. La costituzione relazionale della persona umana e della famiglia nel pensiero cristiano

Sulla base di quanto detto, si può comprendere in che senso e in che modo si deve parlare della costituzione relazionale della persona umana e della famiglia come “soggetti relazionali”.31 Un soggetto è relazionale se vive nelle relazioni ed è costituito dalle relazioni di cui si prende cura. La frase «noi siamo ciò che amiamo», che Margaret Archer ha ripreso da Harry Frankfurt32 ponendola alla base della identità soggettiva delle persone, deve essere ben intesa, cioè intesa sul piano fenomenologico e non ontologico: infatti, a mio parere, non significa che la nostra natura umana coincide con ciò che amiamo, ma solamente che la nostra natura umana diventa ciò che amiamo, fenomenologicamente nel tempo. La persona ha un Self relazionale, un Sé dialogico, una identità che ammette narrazione, ma non può essere ridotta a pura narrazione o ad un mero prodotto di una rete di relazioni. La famiglia è un soggetto relazionale in quanto costituita dalla relazione-del-Noi che ha una sua storia.

Negli ultimi decenni, il pensiero cristiano ha esplorato queste realtà con grande profondità. Per Karol Wojtyla33 la società è la relazione che un soggetto, personale o sociale, instaura con un altro soggetto in forza di un’auto-teleologia degli stessi soggetti, quando essi assumono l’ethos della reciprocità, e non già perché siano vincolati a qualche forza esterna cogente. La società è originaria perché nasce come relazione intersoggettiva. Non è un’entità che esista al di sopra e indipendentemente dai soggetti umani, come ritengono tutte le definizioni positivistiche di società. Nella enciclica Centesimus Annus, Giovanni Paolo II arriva a definire la società umana come il tessuto delle relazioni sociali, più o meno formalizzate, che si regolano secondo il combinato disposto della sussidiarietà e della solidarietà nei rapporti sociali concepiti e praticati come realizzazione dei diritti umani nel rispetto della unicità di ciascun soggetto e della pluralità sociale che ne deriva.

Joseph Ratzinger,34 commentando Gen 3,1-13, 17-19, 23-24, scrive:

Dobbiamo di nuovo renderci conto che nessun uomo è chiuso in sé stesso, che nessuno può vivere solo di sé e per sé. Riceviamo la nostra vita dall’esterno, dall’altro, da chi non è noi stessi eppure ci appartiene, e la riceviamo non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. L’uomo ha il proprio sé non solo in sé stesso, bensì anche al di fuori di sé; vive in coloro che ama, in coloro di cui vive e per cui esiste. L’uomo è relazione e ha la propria vita e sé stesso solo nel modo della relazione. Da solo io non sono affatto me stesso, ma lo sono soltanto nel tu e mediante il tu. Essere veramente uomo significa stare nella relazione dell’amore, del da e del per. Invece il peccato significa turbare o distruggere la relazione. Il peccato è negazione della relazione, perché vuole fare dell’uomo Dio. Il peccato è perdita della relazione, turbamento della relazione e per questo non è a sua volta unicamente rinchiuso nel singolo io. Se turbo la relazione, questo evento – il peccato – inficia il tutto. Per questo il peccato significa sempre peccaminosità che colpisce anche l’altro, trasforma e turba il mondo. […] Data questa situazione, possiamo dire: se la struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra da allora in poi in un mondo caratterizzato dal turbamento delle relazioni. […] Ognuno di noi finisce in un intreccio in cui le relazioni sono falsate. Ognuno è perciò turbato fin dall’inizio nelle proprie relazioni, non le riceve così come esse dovrebbero essere. Il peccato si estende fino a lui ed egli ne diviene compartecipe. Questo ci dice anche che l’uomo non può redimersi da solo. Ciò che vi è di errato nella sua esistenza consiste appunto nel fatto che egli vuole soltanto sé stesso. Possiamo essere redenti, divenire cioè liberi e veri, solo se smettiamo di voler essere Dio, solo se rinunciamo all’illusione dell’autonomia e dell’autarchia. Possiamo essere redenti, cioè diveniamo noi stessi solo se accogliamo e accettiamo le giuste relazioni.

Nella Caritas in Veritate35 leggiamo:

La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza sé stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone (n. 53) […]. Il tema dello sviluppo coincide con quello dell’inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell’unica comunità della famiglia umana (n. 54) […]. La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale (n. 55).

In breve, il pensiero cristiano si caratterizza rispetto ad ogni altro pensiero, anche quello delle altre religioni, perché adotta una matrice teologica relazionale36 che le permette di coniugare identità e relazione senza separarli né confonderli. Questa matrice simbolica non ha sostituti o equivalenti funzionali. Proprio questo suo carattere le permette di rinnovare la prospettiva umanistica che, chiamata anche “umanesimo integrale”, possiamo meglio intendere come “umanesimo relazionale”.

Nella lettera Humana Communitas rivolta alla Pontificia accademia per la vita il giorno 1 gennaio 2019, Papa Francesco ha ricordato, ancora una volta, dopo averne già spesso trattato nelle diverse encicliche ed esortazioni apostoliche, il ruolo centrale che la relazione ha nella comprensione della vita umana. La vita umana è forgiata e trova senso nella trama delle relazioni più significative che ciascun essere umano sperimenta nel corso della sua esistenza. Questa verità si constata a partire dai legami famigliari che sono decisivi per costruire le comunità più ampie, fino all’intera umanità, a condizione che queste relazioni abbiano certe qualità e proprietà, che sono appunto quelle dell’ethos famigliare, fatto di dono, reciprocità, generatività, fratellanza tra discendenti dei progenitori. In mancanza di tali requisiti, vengono generati dei mali, anziché dei beni relazionali, che andranno a formare identità malate, fratturate, o addirittura impedite, anziché sane e meta-riflessive.

7. Il riconoscimento dell’identità è una relazione

Come avviene il riconoscimento dell’identità? Avviene per relationem. Paul Ricoeur37 ha indagato l’azione di riconoscimento e ha concluso che essa consiste in tre momenti: (a) l’attribuzione cognitiva di una specificità (per esempio: questa persona parla l’inglese), (b) la validazione dell’attribuzione (è veramente un inglese e non un olandese che parla inglese), (c) la gratitudine (riconoscimento come riconoscenza, cioè sono grato a lei per esserci).

Andando oltre Ricoeur, la prospettiva relazionale rivendica il carattere relazionale di queste operazioni, e afferma che tutto questo è possibile, e di fatto avviene, in un circuito di relazioni sociali che presuppongo una circolazione di doni reciproci, non ristretti solo a chi fa il riconoscimento ed a chi è riconosciuto.

Un esempio pratico può chiarire questa prospettiva. La signora Lucia è una volontaria che opera in un CAV (centro di accoglienza alla vita) nell’ospedale di una grande città che è specializzato nel campo dei problemi femminili e di maternità, con un forte impegno a favore degli aborti volontari. Lucia offre alle donne in gravidanza che vorrebbero abortire la possibilità di far nascere il bambino prendendo una decisione libera e consapevole. Nell’accogliere le donne che chiedono l’aborto volontario, Lucia osserva che esse non hanno una relazione (significativa) né con sé stesse, né con il bambino che si sta sviluppando nel loro seno. Che cosa fa Lucia per aiutare la persona? Fa parlare la donna incinta, le fa raccontare tutto quello che può, in una conversazione che mira essenzialmente a creare una relazione significativa con lei. In questo dialogo, le emozioni della donna incinta diventano le emozioni di Lucia, e nello scambio dei sentimenti cresce l’empatia reciproca. A quel punto la loro relazione diventa il soggetto dell’aiuto. Lucia lascia agire la relazione. Lucia dice che è la relazione il soggetto della cura intesa come care, cioè come presa in carico delle sofferenze della donna incinta. Vivendo in questa relazione, la ragazza incinta che non vuole il bambino scopre la propria identità, anzi, come dice Lucia, rinasce, o addirittura “nasce”, perché non era mai nata come persona, la sua individualità non aveva relazioni significative, costitutive della sua identità. Attraverso la costruzione di nuove relazioni significative, la ragazza diventa consapevole della sua decisione, che in molti casi – quando veramente la ragazza si è costituita come soggetto autonomo – è quella di accettare il bambino come un dono.

Qui si vede il potere causale della relazione nel generare l’identità della persona umana, perché la scoperta di sé stessi, di ciò che siamo e ciò che vogliamo, la chiarezza di ciò che più ci preme (ultimate concerns) viene dall’esperienza di un incontro con un Altro il quale fa scoprire te (“chi sei” come you, ossia come attore in ruolo sociale) a “te stesso” (come self, ossia come coscienza del subjectum). La relazione sociale interumana non è solo un elemento della persona o una sua manifestazione o proiezione, come dicono alcuni. La relazione con l’Altro, quando l’Altro è impegnato a creare una relazione-del-Noi (We relation) alla quale affidare la soggettività dell’incontro, illumina la totalità della singola persona umana e dà “forma” alla sua identità perché è capace di penetrare nel suo essere più profondo. In breve: la maturazione dell’identità è frutto della riflessività relazionale della persona, che non è però la riflessività individuale (la conversazione interiore di cui parla Margaret Archer), ma è la riflessività sulla relazione, con la relazione, attraverso la relazione all’Altro.

La riflessività relazionale è quella del “soggetto relazionale”, che occorre comprendere in modo adeguato, se si vuole capire la connessione fra identità personale e sociale nella reciproca relazione di appartenenza.

Nella vita quotidiana, tutti noi, come individui, parliamo spesso al plurale riferendoci ad un “Noi”. Diciamo, per esempio: abbiamo cenato insieme, abbiamo fatto le vacanze insieme, io e lei abbiamo scritto un libro assieme, abbiamo votato per la stessa persona, e così via. Che cos’è questo “Noi” a cui facciamo riferimento?

Dicendo “Noi”, usiamo un termine che ci evita di specificare le singole identità di chi sta in quel “Noi”. In un certo senso, diamo per scontate quelle identità. Se qualcuno ci chiede a chi ci stiamo riferendo, potremo dare una lista di nomi o un numero indicativo di un gruppo, inclusi noi stessi. In tal modo, nel linguaggio ordinario, l’uso del “Noi” sta per un riferimento ad un aggregato di persone, che apparentemente desiderano, fanno o pensano la stessa cosa. Tuttavia, in modo latente (inespresso), chi parla sottintende qualcosa di più di un aggregato di persone: sottintende delle relazioni fra coloro che fanno parte del Noi. Quando i membri di una famiglia dicono di aver fatto le vacanze insieme in un certo posto, si riferiscono al fatto di avere condiviso una relazione in un contesto spazio-temporale. Non stanno dicendo che, per caso, si sono trovati individualmente lì assieme. Lo stesso vale per chi dice di aver cenato insieme, scritto un libro insieme, votato per uno stesso candidato, e così via. Dietro queste affermazioni ciò che è comune non è l’aver fatto o pensato la stessa cosa, ma avere condiviso una relazione, che è una relazione di reciproca appartenenza. Ciascuno è parte di un intero, non perché l’intero lo risolva, ma solo in quanto sta in una certa relazione con le altre parti che costituiscono l’intero (il Noi).

Molti studiosi, filosofi, psicologi e scienziati sociali, ammettono che il “Noi” (We) non può essere un semplice aggregato di individui che si suppone condividano un’idea, un’azione o uno scopo. Tuttavia, quando essi cercano di dare una spiegazione di ciò che c’è dietro il “Noi”, danno risposte assai diverse, che in genere sono lontane dal concepire il Noi come una relazione. Per esempio, i filosofi analitici come John Searle, Margaret Gilbert e Raimo Tuomela hanno speso anni e anni di lavoro per cercare di rivendicare un concetto del Noi capace di generare l’azione collettiva, la cooperazione, l’impegno comune di un insieme di persone, e tale da creare dei diritti deontici, obblighi, permessi, doveri, e così via. Essi hanno lavorato in parallelo su diverse versioni di un concetto del Noi inteso come intenzionalità condivisa (shared intentionality), che è ben illustrato dal concetto di Searle del we-thinking (secondo cui il Noi si riferisce agli stessi pensieri che sono dentro due o più teste diverse). Ma questa spiegazione del Noi non è per me convincente perché il Noi – secondo questi autori – non è una relazione, ma solo la presenza degli stessi pensieri nelle menti di un gruppo di persone, cosa assai improbabile perché ciascuno interpreta le idee con una mente diversa.

Anche la mia sociologia relazionale cerca di spiegare questo “Noi”, come fanno questi autori, in termini di impegno, cooperazione e azione collettiva, ma sposta l’attenzione dalla mente degli individui alle loro relazioni. Io sostengo che l’“essere-un-Noi” (We-ness) consiste nel generare e vivere in una certa relazione sociale che è ontologicamente reale ed ha proprietà e poteri emergenti propri: proprie come la fiducia, la premura, la reciprocità fra le persone; poteri propri come quelli di generare beni e mali relazionali.38 L’essere-un-Noi (We-ness) deriva dagli orientamenti riflessivi dei soggetti verso questi beni e mali relazionali emergenti, che i soggetti stessi generano. La riflessività da essi esercitata non è solo quella interiore (la conversazione interiore di ciascun soggetto), ma è anche – ed essenzialmente – la riflessività da essi esercitata sulle loro relazioni esterne, sulle quali intervengono esercitando dei feedback relazionali. Il loro oggetto è lo stesso, ma i pensieri che i soggetti hanno su di esso possono essere abbastanza diversi nel modo di osservarli e interpretarli. Ciò accade in una coppia, in un gruppo di lavoro, in una squadra sportiva, in un’orchestra, in un’associazione volontaria o in un movimento sociale. In tutte queste situazioni, il Noi è l’orientamento reciproco che si istituisce fra soggetti i quali guidano le loro azioni in modo tale da produrre un bene relazionale. Il bene relazionale necessita di riflessività relazionale da parte degli attori/agenti, in quanto essi debbono tenere conto riflessivamente degli effetti della loro relazionalità.

Questo “Noi relazionale” (We-relation) si allarga dalla coppia a gruppi più ampi, sia informali sia organizzati, e la sua espansione è la fonte delle organizzazioni di volontariato, della società civile e, in definitiva, del bene comune (diverso dal “bene totale”, come aggregato di interessi individuali), che sono tutti fenomeni emergenti.

8. Prospettive: l’umanesimo o è relazionale o non è

La società cosiddetta postmoderna sta rapidamente trasformando sé stessa verso mete che essa stessa ignora. L’identità – qualunque identità – è messa in causa, al punto che si propone di fare a meno dello stesso concetto di identità per risolverlo nel puro dinamismo delle relazioni,39 come se le relazioni non avessero una loro struttura, con proprietà specifiche e un loro dinamismo causale.

Questa tendenza pervasiva è iniziata con le cosiddette “politiche dell’identità”, secondo le quali saremmo “tutti differenti, tutti uguali” (è lo slogan della ideologia politica del multiculturalismo), che ha alimentato il relativismo culturale ed etico, ha frammentato la società, e creato più conflittualità che solidarietà. Nella loro formulazione più generale, le teorie del multiculturalismo ideologico rifiutano le distinzioni perché le concepiscono come discriminazioni, e pertanto promuovono un indifferentismo culturale che costituisce il terreno fertile su cui cresce il post/trans-umano. Infatti, se la persona umana non ha una identità sostanziale, ma è risolvibile senza residui nelle relazioni, allora cambiando le relazioni con la diffusione delle nuove tecnologie (ICT, intelligenza artificiale, robots, ecc.), è possibile creare un altro mondo, quello degli androidi, degli umanoidi, delle “persone elettroniche”, pensate come sostituti delle persone umane, così da raggiungere un nuovo stadio dell’evoluzione (teoria della singolarità), oltre l’identità umana.

Un esempio di queste tendenze è dato da quelle “teorie del gender” che sostengono la possibilità di una definizione volubile e a piacimento, contingente, della propria identità sessuale. Che ciò sia possibile sul piano dei fatti è indubbio, dato il libero arbitrio. Ma le conseguenze sono del tutto problematiche quando il soggetto deve poi relazionarsi a sé stesso, al mondo, al contesto socio-culturale in cui vive.

Più in generale nella cultura occidentale odierna si osserva una tendenza pervasiva a intendere il nuovo umanesimo come un modo di incorporare il non-umano (animali non umani, piante, tecnologie, cose materiali) nell’umano. Il neo-umanesimo consisterebbe nel valorizzare, ovvero nel “salvare”, l’umano come un “bell’errore della natura”40 che deve ibridarsi con l’ambiente per evolvere in modo sostenibile.

Un altro esempio di questo modo di pensare è dato dall’actor network theory (ANT) di Bruno Latour e seguaci, in cui si fondono materialismo e pragmatismo. Ma pervade anche il pensiero di radice ebraica e poi cristiana. In un articolo su L’uomo e l’eterna sfida del rapporto con l’altro,41 Moni Ovadia inizia affermando: «Il mancato riconoscimento dell’alterità nel suo valore fondativo della relazione umana è la madre delle questioni che si frappongono all’edificazione di una società di giustizia». Su questo punto la sociologia relazionale è senz’altro d’accordo, perché osserva che i mali sociali, così come quelli personali, derivano da un mancato riconoscimento di giuste relazioni fra gli esseri umani.

Tuttavia, Moni Ovadia prosegue analizzando il rapporto fra il senso dell’alterità e il senso della responsabilità, alla luce di quanto sostenuto da Emmauel Lévinas, secondo il quale «l’altro è il senso primo della relazione». Qui inizio ad avere dei dubbi. Vedo il seguente problema. Mentre l’alterità è inizialmente intesa come l’Altro umano, in seguito, per Ovadia, l’Altro diventa qualunque cosa, e il riconoscimento diventa amore per qualunque cosa. Dice il Nostro:

L’amore è un sentimento / comportamento impegnativo che chiede all’ego di farsi indietro per fare spazio al tu e il tu è il simile, l’animale, la pianta, la zolla, l’acqua, l’aria, la terra, il sottosuolo e persino le viscere della terra. […] Bisogna assumere la piena responsabilità del volto altrui, bisogna farsi stranieri a sé stessi, bisogna considerare anche il più piccolo dei privilegi illegittimo.

In breve, l’Altro (umano e non-umano) viene ontologicamente assunto da Ovadia come un te stesso. Il Tu viene ad essere costituito da un Altro che può essere un qualunque oggetto dell’ambiente.

Sulla base dell’equazione per cui la mia identità è quella dell’altro, io dovrei avere l’identità degli animali e piante che amo. Mi chiedo allora se e come si possa considerare come un “tu” (un soggetto come me) qualsiasi oggetto o “cosa”, e come si possa amare un oggetto fisico – animale, vegetale o minerale – così come si ama una persona umana. In realtà, l’amore, in quanto relazione, richiede l’azione reciproca fra termini capaci di agency, il che non avviene se – come fa Ovadia – la parola relazione è intesa come “rapporto” materiale e quantitativo fra due grandezze (Verhältnis). Il fatto è che il concetto di relazione come Verhältnis viene equiparato a quello di relazione come Beziehung, che invece rimanda al significato di azione reciproca (Wechselwirkung), essendo le due nozioni sostanzialmente diverse. E dunque, personalmente ritengo che Ovadia, così come Lévinas, non abbia per nulla compreso la natura della relazione sociale e quindi ci porti fuori strada nell’indicarci il percorso della nostra identità.

Il riconoscimento reciproco fra le persone è essenziale per generare beni relazionali (come la pace sociale, la solidarietà, la coesione sociale), e certamente sperimentare queste relazioni significa sperimentare la dignità umana. Ma le relazioni non “determinano” di per sé la dignità umana dell’Altro, come qualcuno sostiene,42 perché la dignità di ogni essere dipende anche dalla sua natura ontologica.43 In breve, bisogna ribadire che identità e relazione debbono essere coniugate assieme, ma l’una non può assorbire (fondersi con) l’altra.

Alle tendenze che operano per il passaggio al post/trans-umano, si può e si deve obiettare che l’essenza dell’umano si trova nella relazione, perché dal punto di vista antropologico l’umano si origina nella relazione ed è nella relazione che la persona deve apprendere come accettare i propri limiti e nello stesso tempo desiderare di superare la propria finitezza per rispondere al bisogno di trascendenza che la caratterizza nella sua identità più profonda. Ma la relazione deve essere qualificata in tal senso.

In conclusione, possiamo dire che l’identità – personale e sociale – è relazionale non solo in quanto è un riferimento simbolico (refero) e una struttura posizionale che lega soggetti (religo), ma in quanto è la realtà che emerge dalle azioni riflessive reciproche dei soggetti e dà loro una forma.

La relazione così intesa genera l’identità ed è rigenerata dall’identità. L’identità e la relazione si generano e rigenerano a vicenda. Solo un’analisi circostanziata del contesto e delle sue dinamiche può chiarire le fasi del processo, che in ogni caso non è puramente ricorsivo, ma invece è morfogenetico. Possiamo dire che l’identità è ciò che genera la relazione e al tempo stesso ne è generata, così come viceversa. Le persone attivano le relazioni sulla base della propria identità, ma nel tempo le relazioni cambiano e rigenerano l’identità. È possibile cambiare la relazione, e con ciò cambiare l’identità. Così come possiamo cambiare l’identità e di conseguenza cambiare le nostre relazioni. Ma occorre vedere a quali condizioni ciò sia possibile e con quali conseguenze, in termini di beni o mali relazionali che vengono prodotti.

Per non cadere in tautologie o circoli viziosi, dobbiamo vedere l’identità come una “soggettività relazionale”, quella di una sostanza o natura costituita relazionalmente che opera relazionalmente. Il neo-umanesimo non può essere altro che un umanesimo relazionale. Esso ha il compito di comprendere l’identità umana passando dal pensiero irrelato, che reifica o soggettivizza l’identità, al pensiero relazionale, per il quale l’essenza dell’identità umana giace nella relazione. È la relazione all’Altro che mi dice chi io sono in actu. L’umanesimo o è relazionale, o non è. L’umano si nutre di una razionalità relazionale, altrimenti non eccede sé stesso, ma regredisce e degrada nel non-umano.

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1 Cfr. P. Donati, L’enigma della relazione, Mimesis, Milano-Udine 2015.

2 L’operazione della re-entry (che significa rientrare la stessa distinzione in ciò che è stato appena distinto) è stata formulata da George Spencer-Brown e ripresa da Niklas Luhmann.

3 Cfr. U. Borghello, L’appartenenza primaria. Una teoria generale, Cantagalli, Siena 2017. Si veda anche la recensione di Antonio Malo in cui egli osserva che in questo volume «la questione della distinzione fra un’appartenenza primaria positiva o negativa, cioè l’aspetto etico della struttura relazionale dell’appartenenza, è solo accennato […]. Mi sembra che manchi ancora l’evidenza del criterio secondo il quale tale appartenenza possa divenire luogo di giudizio, o luogo giudicato, rispetto a ciò che sarebbe veramente umano» (A. Malo, L’appartenenza primaria, «Acta Philosophica» 28 (2019) 171-173, citazione p. 171). Dal mio punto di vista il problema è capire come si costituisce l’appartenenza primaria (a cui è annessa l’identità primaria) nei termini di una teoria relazionale del processo che porta a “costituire” l’identità primaria di un soggetto (uso il termine “costituzione” nel senso di L. Rudder Baker, Why Constitution is Not Identity, «The Journal of Philosophy», 94 (1997) 599-621). Una siffatta teoria è necessaria per rispondere alla domanda: di identità primaria ce n’è una sola? O ce ne sono varie e diverse fra loro (per esempio: una candela accesa per Dio e una per il Diavolo)? Dal punto di vista fenomenologico, il fatto che una identità sia “primaria” dipende molto spesso sia dalla situazione (contesto socioculturale) sia dal momento temporale, ed è proprio per questo che si richiede un’analisi relazionale.

4 P. Donati, Sociologia della relazione, il Mulino, Bologna 2013, 87-92.

5 P. Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano 1991, 150-171.

6 G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2013.

7 M. Sodi, L. Clavell (a cura di), “Relazione”? Una categoria che interpella, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.

8 R. Rorty, Philosophy and Social Hope, Penguin Books, London 1999, 54.

9 L. Floridi, The Logic of Information. A Theory of Philosophy as Conceptual Design, Oxford University Press, Oxford 2019.

10 P. Donati, An original relational sociology grounded in critical realism, in F. Dépelteau (ed.), Palgrave Handbook of Relational Sociology, Palgrave Macmillan, New York 2018, 431-456.

11 Mi avvalgo del pensiero di Paul Ricoeur (Parcours de la reconnaisance, Éditions Stock, Paris 2004), ma mi discosto da lui per alcuni aspetti connessi al fatto che questo autore parla dell’identità dell’individuo senza una vera e propria visione relazionale, come ho cercato di mostrare in Donati, L’enigma della relazione, 24-26.

12 M.R. Somers, The narrative constitution of identity: A relational and network approach, «Theory and Society» 23 (1994) 605-649.

13 P. Donati, Sociologia della riflessività, il Mulino, Bologna 2011.

14 Ibidem, 295-306.

15 La “psicoanalisi relazionale” presenta un certo interesse dal punto di vista del paradigma relazionale, ma rimane ancora piuttosto legata alla soggettività individuale, anche quando mette l’accento sulla importanza della intersoggettività con l’Altro. Il fatto è che la “svolta relazionale” negli sviluppi più recenti della psicoanalisi (S. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività. Raffaello Cortina, Milano 2002; S. Seligman, Lo sviluppo delle relazioni. Infanzia, intersoggettività, attaccamento, Raffaello Cortina, Milano 2018) sottolineano la fondamentale “relazionalità” della mente umana, ma non vedono il carattere emergente delle relazioni sociali al di là della intersoggettività.

16 Secondo Archer, la riflessività interiore è della stessa natura di quella relazionale perché ella utilizza in modo esclusivo la prospettiva della prima persona, rifiuta la prospettiva della terza persona, e non conosce la prospettiva della seconda persona (cf. M.S. Archer, Varieties of Relational Social Theory, in P. Donati, A. Malo, G. Maspero (eds.), Life as Relation. A Dialogue between Theology, Philosophy, and Social Science, Routledge, London 2019).

17 P. Ricoeur, Sympathie et Respect: Phénoménologie et Éthique de la seconde personne, «Revue de Métaphysique et de Morale» 59 (1954) 380-397.

18 A. Pizzorno, Spiegazione come reidentificazione, «Rassegna Italiana di Sociologia» 30 (1989) 161-184.

19 A.P. Fiske, N. Haslam, Social Cognition is Thinking About Relationships, «Current Directions in Psychological Science» ٥ (١٩٩٦) ١٤٣-١٤٨.

20 G. Van de Walle, “Becoming familiar with a world”: a relational view of socialization, «International Review of Sociology» 21 (2011) 315-333.

21 J.E. Stets, M.J. Carter, A Theory of the Self for the Sociology of Morality, «American Sociological Review» 77 (2012) 120-140.

22 G. Gambino, Patologie dell’identità e ipotesi di terapia filosofica, Edizioni Jus Quia Justum, Roma 2017.

23 Ho cercato di indagare questo processo mostrando che le identità si ibridano attraverso la dinamica frattale della relazione: cf. P. Donati, Lo sguardo relazionale. Saggio sul punto cieco delle scienze sociali, Meltemi, Milano 2021, pp.149-165.

24 A. Metcalfe, A. Game, “In the Beginning is Relation”: Martin Buber’s Alternative to Binary Oppositions, «SOPHIA» ٥١ (٢٠١٢) ٣٥١-٣٦٣. Insisto nel distinguere fra Buber e la mia sociologia relazionale. In Buber, la dizione «in principio è la relazione» fa riferimento alla Bibbia (Genesi), mentre il mio «all’inizio c’è la relazione» ha un carattere fenomenologico e di ontologia sociale.

25 Donati, Teoria relazionale, 25.

26 Rudder Baker, Why Constitution is Not Identity.

27 Donati, Teoria relazionale, 14.

28 Detto in altro modo, è l’identità del Sé che si auto-comprende quando è posto in relazione ad “altri Sé” e si confronta con essi, ovvero quando il soggetto opera la re-entry della propria identità all’interno delle reti sociali concrete di cui è parte. Questa prospettiva relazionale deve essere considerata diversa dalla versione relazionista per la quale l’identità del Sé è determinata dalla rete di relazioni con altri.

29 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, 287.

30 M. Heidegger, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, 58.

31 Donati, L’enigma della relazione, 241-244.

32 H.G. Frankfurt, The Importance of What We Care About, Cambridge University Press, Cambridge 1988, 91.

33 K. Wojtyla, Perché l’uomo. Scritti inediti di antropologia e filosofia, Mondadori, Milano 1995.

34 J. Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, 98-100.

35 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.

36 P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.

37 Ricoeur, Parcours de la reconnaissance.

38 P. Donati, Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019: Idem, Discovering the Relational Goods: Their Nature, Genesis and Effects, «International Review of Sociology» 29 (2019) 238-259.

39 Cfr. R. Brubaker, F. Cooper, Beyond “Identity”, «Theory and Society» 29 (2000) 1-47.

40 L’espressione “nature’s beautiful glitch” è di Luciano Floridi: «We are special because we are Nature’s beautiful glitch» (L. Floridi, The Logic of Information, 98).

41 M. Ovadia, L’uomo e l’eterna sfida del rapporto con l’altro, «Avvenire», ١٥ settembre ٢٠١٩ ٢٥.

42 Cfr. F. ScamardellaLa dimensione relazionale come fondamento della dignità umana, «Rivista di filosofia del diritto» 2 (2013) 305-320 – la quale vede l’emergere dell’identità dalle interazioni e relazioni di un contesto, che lei definisce “flussi comunicativi esterni”, e afferma che «la partecipazione a questi flussi comunicativi esterni determina l’identità individuale» (ibidem 311). A me sembra che la semplice partecipazione non sia sufficiente a generare una identità, la quale richiede l’esercizio della riflessività da parte del soggetto in tale flusso.

43 A. Collier, Being and Worth, Routledge, London 1999.