Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione
L’identità nell’approccio costruttivista: coerenza, coesione e continuità nell’evoluzione della persona
Davide Armanino
Negli ultimi decenni il tema dell’identità è diventato sempre più centrale nello studio della psicopatologia e della strutturazione della personalità, sia sul versante del benessere e del buon funzionamento sia sul versante patologico. A seguito di un dibattito internazionale che ha coinvolto i più autorevoli clinici dei principali approcci terapeutici i sistemi diagnostici maggiormente riconosciuti, quali il DSM dell’American Psychiatric Association e l’ICD della World Health Organization, stanno virando con decisione verso una concezione dimensionale della diagnosi. Tale concezione, sostenuta da una considerevole mole di studi empirici, vede nei processi di costruzione, sviluppo e mantenimento del Sé e della Relazione interpersonale i due assi portanti della personalità e del suo buon funzionamento. La patologia si configura così come una compromissione o potremmo dire un irrigidimento, una restrizione o un impoverimento dei normali meccanismi di funzionamento, collocandosi a diversi livelli lungo un continuum dimensionale, un gradiente di una scala che procede idealmente da un funzionamento ottimale con le sue caratteristiche di ricchezza, flessibilità, capacità di integrazione e di sintesi unitaria e, all’altro polo, una compromissione estrema del Sé e delle Relazioni con perdita dei confini, confusione, incapacità di stabilire e perseguire obiettivi personali e di entrare in relazione con l’altro.
Nel DSM in particolare viene delineata una griglia di funzionamento composta dal Sé nelle sue dimensioni di Identità e Autodirezionalità e dalle Relazioni Interpersonali nelle sue dimensioni di Intimità ed Empatia.
Non è questa la sede per esplorare in modo approfondito questo sistema che in realtà presenta notevoli spunti e indicazioni di osservazione e cura della persona. Piuttosto sembra qui rilevante notare come il concetto di identità costituisca l’asse portante di un intero sistema diagnostico, ossia una modalità di concettualizzare la persona nelle sue dimensioni di benessere e malessere. Di più, con questo sistema diagnostico si esce da una concezione della patologia come qualcosa di intrinsecamente altro dalla salute, come agente patogeno estraneo ed esterno, la cui natura ed essenza risultino in qualche modo aliene rispetto alla persona. Di conseguenza si concettualizza la cura come un tentativo di ristabilire le proprietà intrinseche di ricchezza e flessibilità di funzionamento interno, piuttosto che come azione di contrapposizione al malessere. In estrema sintesi a scopo di chiarezza il male viene qui concepito come una assenza di bene, reindirizzando potenzialmente sia la concezione della persona sofferente sia la direzione del trattamento.
Questo orientamento risponde in realtà anche ad una crescente consapevolezza ed esperienza clinica. È sempre più evidente in fatti che per occuparsi delle sindromi e dei sintomi che si presentano all’osservazione clinica è prima necessario un percorso di consolidamento della conoscenza e della padronanza di sé nel paziente. Diversamente si rischia di costruire su un terreno franoso. Giungono in misura crescente alla consultazione psicoterapeutica persone che hanno un incompiuto senso di identità personale ed insufficiente conoscenza e padronanza di sé. Per estensione, pur con le dovute cautele e le debite differenziazioni, viene da chiedersi se questo problema possa riguardare in qualche misura anche le realtà educative e formative. Qual è la qualità e la natura della relazione ove questa sia vissuta da una persona che non presenti un senso di sé stabile e coeso? Come si differenzia una proposta formativa forte dall’intrusione nel senso di sé e dalla violazione dei confini personali in alcuni casi già labili o assenti? A che livello di consapevolezza e profondità si lavora nel formare ossia dare una forma ad una persona che si presenta a monte come indeterminata, intermittente o con un’identità ed un senso di sé per così dire liquido o informe? E quale può essere in questo caso l’affidabilità e la durata degli esiti formativi?
Alcune riflessioni sembrano accomunare l’ambito clinico a quelli educativo e formativo. Se la diagnosi come discernimento chiama ad una competenza tecnica e scientifica sulla natura ed i meccanismi della patologia essa deve non di meno essere utile indicazione per il processo terapeutico ossia anzitutto e soprattutto indicare quali sono le risorse disponibili su cui fare leva per un processo di cambiamento e cura. Immediatamente successiva alla comprensione del problema si presenta la responsabilità della scelta della modalità e della direzione dell’intervento. L’approccio alla persona deve essere processuale, prospettico, evolutivo, superando un atteggiamento più tradizionalmente medico di tipo nosografico, tassonomico e classificatorio. Approccio questo più tradizionalmente attento all’individuazione del malfunzionamento ed alla messa in atto di una terapia come forma di contrasto al principio patogeno, all’origine eziopatogenetica. In modo simile alcuni approcci educativi e formativi rischiano di essere prematuramente correttivi, potremmo dire quasi ansiosamente vincolanti ed anticipatori degli esiti e delle direzioni di crescita auspicate. Anche in ambito educativo e relazionale in senso lato l’unica possibilità concreta di raggiungere la persona e promuoverne la crescita sembra quella di avvicinarsi il più possibile alla persona per come è, valorizzandone realmente e consolidandone le caratteristiche e le peculiarità. Si parte dunque dall’identità personale e non dalla validità della proposta formativa. Più che al termine formazione sembra opportuno in questo senso fare riferimento al concetto più alto di educazione, intesa come e-ducere, condurre fuori, promuovere l’identificazione e lo sviluppo delle caratteristiche personali ed identitarie della persona.
Questo non significa affatto rinunciare alla proposta di un modello che si ritenga valido, anzi potremmo dire che nessuna forma educativa può considerarsi neutra. Al contrario il meccanismo di imitazione ed identificazione con un modello è la forma più potente ed efficace di apprendimento, vero e proprio motore di sviluppo e crescita. Tale efficacia è comprovata da secoli di educazione alla virtù alla base dello sviluppo delle società occidentali, è stata confermata dagli studi di psicologia dell’età evolutiva e trova oggi ulteriore conferma nella scoperta dei neuroni specchio in ambito neuropsicologico. Ma proprio la consapevolezza di questa forza deve indurre ad un senso di responsabilità grave nella proposta di un modello educativo. Spetta a chi si propone come modello la consapevolezza dell’efficacia e della forza trasformativa dell’azione educativa. Per questo è ancora più necessario partire dalla e tenere conto della identità della persona formata.
Allo stesso tempo, non essendovi la possibilità di un’educazione neutra non risulta plausibile ipotizzare un’educazione che non influenzi. Simulare una neutralità impossibile può avere esiti confusivi e manipolatori che di fatto portano a risultati esattamente contrari a quelli auspicati da una educazione efficace, quali la non consapevolezza e la non piena padronanza di sé, in ultimo una mancanza di fiducia e libertà. Chi entra in una relazione educativa dovrebbe piuttosto essere consapevole di questa non neutralità e mantenere elevate quote di autenticità e messa in gioco di sé quali antidoti e contrappesi al potere esercitato. Anzi potremmo dire che una relazione autentica espone necessariamente al rischio del dolore, della delusione e di una trasformazione di sé. La relazione avviene fra due termini. Se la relazione è vera entrambi sono esposti al cambiamento. Come in chimica l’unione di due elementi produce una natura terza che è altro da entrambi.
La relazione autentica costituisce un delicato crinale che espone a due possibili scivolamenti, da un lato l’illusione di trasmettere informazione, formazione e modelli senza esporsi alla potenzialità del cambiamento, rimanendo come non contaminati e distaccati dal processo. Dall’altro quello di poter davvero trasmettere questi contenuti senza tenere conto e conoscere a fondo (o forse dovremmo dire amare?) l’altra persona, come se si potessero “applicare sopra” alla struttura di base della personalità, aggiungersi senza essere metabolizzati. In questo secondo caso si creano identificazioni adesive che sembrano svolgere il compito di vicariare momentaneamente un’identità incerta piuttosto che produrre un risultato trasformativo sorprendentemente unico, consapevole e duraturo nel tempo poiché interiorizzato.
La concezione della personalità esposta all’inizio ci viene in aiuto nel comprendere le condizioni necessarie e fondamentali del processo di sviluppo della personalità. Da un lato identità e autodirezionalità. Una direzionalità autonoma e autodeterminata, non governabile e non prevedibile dall’esterno, basata sulle caratteristiche di differenziazione di sé in termini di identità personale unica e irripetibile. Dall’altro una relazione basata su intimità ed empatia, duratura e potenzialmente critica e trasformativa per entrambi i soggetti in gioco.
1. Contributo del Costruttivismo: un caso clinico
Al fine di comprendere più approfonditamente le dimensioni sopra trattate procederemo con una esemplificazione clinica tratta dall’esperienza professionale. Il caso esposto è una ricostruzione di fantasia, ma inerente temi e vissuti ripetutamente riscontrati nella prassi clinica. L’inquadramento teorico clinico che useremo è di tipo cognitivo costruttivista.
Maria è una ragazza di 22 anni. Studentessa universitaria fuori sede vive attualmente in un collegio universitario dove si è integrata bene, socializza con le compagne e partecipa attivamente alle attività di formazione proposte dal collegio. È carina di aspetto, ha movenze e modi femminili, sorride spesso, è educata e tendenzialmente gentile, appare moderatamente estroversa, ma brillante e sufficientemente assertiva. Si applica molto nello studio con ottimi risultati, è in corso e ha una media alta nelle votazioni degli esami. Recentemente, a seguito di una bocciatura ad un esame si è chiusa in sé stessa e ha smesso di mangiare, suscitando la preoccupazione di coloro che vivono con lei.
Maria proviene da una famiglia composta da papà, mamma e un fratello minore di anni 16. Il padre è un professionista stimato e ben inserito nel tessuto lavorativo e sociale della sua città, ma il lavoro lo porta spesso ad essere assente da casa. Nel corso dello sviluppo fino all’adolescenza Maria ha stretto con il padre un rapporto che potremmo definire privilegiato: il padre è diventato per lei il modello di riferimento, specie per il prestigio professionale ed il conseguente riconoscimento sociale ottenuto. Con il progredire degli anni, tuttavia, il loro rapporto si è progressivamente raffreddato e distaccato. L’eccessiva e quasi esclusiva attenzione del padre verso i risultati scolastici e sportivi della figlia e i lunghi periodi trascorsi fuori di casa per lavoro hanno ristretto progressivamente i temi e i contenuti di dialogo e autentico confronto fra di loro. Maria sente forte l’aspettativa di papà, che le ha concesso di studiare fuori, e nutre grandi speranze sul suo percorso di studi, parlandone apertamente ad amici e colleghi in ogni occasione.
La madre di Maria si occupa quasi a tempo pieno della famiglia. Dopo essersi diplomata e aver lavorato come impiegata per qualche anno, alla nascita del fratello minore la madre rinuncia al lavoro per occuparsi della famiglia e dei figli. Attenta, premurosa e sempre presente, a tratti un po’ intrusiva e controllante, la madre non è per Maria un modello con cui identificarsi. Maria è infatti desiderosa di dimostrare il suo valore nel percorso di studi e sogna un inserimento lavorativo pienamente soddisfacente ed una naturale emancipazione dalle relazioni e dall’ambiente familiare. Con il passare del tempo la madre rappresenta sempre meno la figura con cui potersi confrontare e confidare come invece è stata in passato. Il fratello minore, d’altro canto, è sempre stato troppo distante e diverso per età ed interessi da Maria. Il loro legame è connotato da un sincero affetto, ma da una vicinanza relativa.
In questo quadro, che potremmo definire comune e normale per percorso e caratteristiche, si inseriscono alcuni episodi che segnano lo sviluppo di Maria e che ci spingono a osservare meglio e più a fondo alcune delle sue caratteristiche di personalità.
Il primo è un incidente sportivo avuto giocando a tennis a 15 anni, in cui riporta la rottura del polso proprio durante le gare finali di un importante torneo interscolastico. Durante queste gare il padre accompagna quasi sempre Maria ed è molto coinvolto emotivamente, elemento questo inconsueto e che contribuisce ad alzare la tensione nel vissuto della ragazza. L’incidente interrompe bruscamente questa sequenza di vissuti ed il padre fatica a celare la sua amarezza e delusione. A seguito di questo episodio Maria si chiude relazionalmente, appare spenta, distaccata e disinteressata a quelle che sono le normali attività ed interessi della sua età, suscitando la progressiva preoccupazione dei genitori. Questo lieve stato depressivo si risolve nel giro di qualche mese, ma Maria non giocherà mai più a tennis, rispondendo con rigidità e durezza al fallimento vissuto. A nulla valgono i tentativi da parte dei genitori e del maestro di tennis di sdrammatizzare l’episodio nello sforzo di integrarlo nel normale percorso esperienziale di un’attività sportiva svolta a livello agonistico.
A 18 anni Maria viene corteggiata da Luca, un compagno di scuola di due anni più grande che da diverso tempo ha interesse nei suoi confronti. La relazione consiste in un lungo corteggiamento da parte di Luca in cui Maria, pur fantasticando con piacere ed eccitazione sulla possibilità di avere una relazione con lui, fatica a fidarsi e a manifestare apertamente il suo interesse nei suoi confronti. Le sue emozioni oscillano fra la fantasia di un amore perfetto e pienamente soddisfacente e una paura, quasi un rigetto, all’idea di avvicinarsi a lui, specie fisicamente. Non riesce a mettere a fuoco le sue emozioni in modo netto e distinto, finendo col dipendere emotivamente dagli episodi, ora esaltanti ora deludenti, che via via si susseguono e facendosi costantemente influenzare dalle valutazioni delle amiche. Sembra più ansiosa di comprendere quanto le altre ragazze trovino attraente Luca piuttosto che cercare di sentire cosa lei stessa provi. Inebriata dal manifesto interesse di Luca prolunga la fase di corteggiamento, sentendosi al centro della scena e dell’attenzione nella compagnia che entrambi frequentano. Nel comprendere il valore di Sé dal suo essere desiderata cerca contemporaneamente di comprendere il valore di Luca dal suo essere “oggettivamente” desiderato dalle altre. In questo modo è come se cercasse di dare corpo e definizione ai suoi sentimenti dall’esterno, vivendo come nel riflesso dello sguardo altrui. Una continua ricerca di conferme esterne che finisce paradossalmente per aumentare la sensazione di indefinitezza e confusione interiore fino ad un possibile senso di vuoto. Questo episodio si prolunga finché “improvvisamente” Luca avvia una relazione con una amica di Maria appartenente alla stessa compagnia. La delusione è talmente forte che Maria si ritira dalla compagnia non volendo più incontrare nessuno, come se fosse stata “vista”, messa a nudo nella sua inadeguatezza. Se Maria avesse un funzionamento mentale ancora più rigido questa situazione potrebbe dare luogo ad un rimuginio in cui la ragazza immagina di essere derisa, presa in giro e disprezzata dalla compagnia. Elemento questo che non potrebbe essere disconfermato proprio in virtù del comportamento evitante di ritiro dalla compagnia da lei stessa agito.
In generale la delusione provata è talmente forte da costituire una profonda disconferma della propria identità e parallelamente minare le relazioni interpersonali. Questo episodio modifica il senso di Sé in termini di autostima e amabilità personale e aggrava la sfiducia ed il timore che Maria già provava nel mettersi in relazione con l’altro. Tutto questo avviene in un’apparente inconsistenza dei fatti, dal momento che all’esterno non è successo nulla di rilevante. La storia affettiva con Luca non è neppure incominciata. Non sono i fatti esterni a contare quanto l’interruzione del senso di continuità personale, il prendere forma interiormente di una sfiducia verso di Sé e verso gli altri, un senso di inadeguatezza personale che può assumere i toni dell’indegnità e la modalità del disprezzo. Invece di cogliere gli elementi che lei stessa ha messo in atto e che hanno portato a questa sofferenza o, in alternativa, verificare i sentimenti ed i pensieri altrui tornando in compagnia o parlando a Luca, Maria ripromette a se stessa che non presterà più attenzione ai suoi sentimenti, precludendosi la possibilità di crescere nella conoscenza di sé, di lasciarsi sbagliare, fidandosi di sé. Reagirà allo scacco subito in termini di amabilità personale con un sovrainvestimento sull’autostima, aumentando con la volontà, l’intelligenza e la determinazione la sua competenza e bravura. Da qui aumenterà il suo perfezionismo e la sua rigidità. Nello stesso tempo aumenterà il suo timore del giudizio altrui e la sua attenzione ad evitare possibili altre delusioni, evitando di mettersi in gioco e precludendosi così l’esplorazione progressiva di Sé e del mondo.
Per la seconda volta, dopo l’incidente subito giocando a tennis, il sistema risponde con un restringimento ed un irrigidimento del suo funzionamento. Una perdita di ricchezza e flessibilità come precedentemente delineata. Ma mentre si può fare a meno di giocare a tennis nella vita, non si può fare a meno di fare i conti con i propri sentimenti e con l’amore, vissuto o negato che sia.
Giunta all’età universitaria Maria, fedele al suo impegno con sé stessa, supera brillantemente le selezioni di ingresso all’università e al collegio universitario dove deve risiedere. È veloce, brillante, molto attenta a non mostrarsi e a non lasciar spazio a emozioni negative che possano essere colte dall’altro. Permane il suo bisogno di sentirsi giudicata positivamente dall’altro e adeguata, anzi adeguatissima al contesto. Socializza in modo superficiale e fugace con tutti, quanto basta per essere apprezzata. In realtà non ha relazione intime, durature e profonde, non è disposta a farsi mettere in crisi da un’amicizia profonda. Non sa realmente cosa prova, la sua identità è basata sul fare, sulla prestazione, molto più affidabile, oggettiva e soprattutto molto più sotto il suo controllo e alla portata delle sue capacità previsionali. Tutto sembra procedere al meglio fino al primo fallimento universitario. Di nuovo all’esterno non succede nulla di rilevante, nulla che non faccia parte di un normale iter di studi. Al primo evento disconfermante tuttavia Maria reagisce come sempre chiudendosi e ritirandosi e questa volta con un comportamento di restrizione alimentare.
Quello che si vede dall’esterno è di nuovo un elemento di apparente ed inspiegabile discontinuità nel comportamento e nel vissuto di una ragazza brillante, socievole e determinata. Le responsabili del suo collegio universitario tentano comprensibilmente di avvicinarsi a lei e di motivarla. Nello sdrammatizzare l’episodio, tuttavia, rischiano di farla sentire ancora più inadeguata. Reiterano la sensazione di essere vista e messa a nudo nella sua incapacità, resa ancora più evidente dall’inconsistenza dell’accaduto. Cercano di dare forma a questo malessere, ponendosi come modelli e cercando di trasmettere la loro esperienza. Nel farlo non possono sapere che il problema origina proprio dall’allocentrismo di Maria, dal suo derivare il suo sentire dall’esterno. Dal suo prendere provvisoriamente forma dal contesto per sentirsi momentaneamente adeguata, salvo perdere così l’opportunità di sentirsi veramente, mettendo timidamente a fuoco le prime indeterminate emozioni. Maria distoglie il suo sguardo da questa opportunità, non si conosce e non si sente e cerca di evitare l’inquietudine e lo smarrimento provocato dal suo mettere a fuoco le emozioni. Chiunque da fuori cerchi amorevolmente di “salvarla” dandole una forma, offrendole un modello, di fatto le preclude la possibilità di crescere. Le figure di riferimento rischiano di reiterare in qualche modo il comportamento che le amiche avevano avuto nell’episodio di Luca, aumentando inconsapevolmente il senso di inconsistenza e inadeguatezza di Maria e spingendola verso uno stato di confusione e disorientamento crescente.
Se guardiamo invece da dentro il paradigmatico caso di Maria cogliamo il senso del suo vissuto, la coerenza con cui lei risponde agli eventi invalidanti, il suo strutturarsi in organizzazione di vita e del sentire, il suo sempre più disperato e arroccato tentativo di escludere le sue emozioni, di diventare perfetta eliminando ogni sbavatura e flessibilità nella risposta alle disconferme. Maria conosce un solo modello di risposta e continua a metterlo in atto in modo sempre più rigido e pervasivo.
La scuola cognitivo costruttivista chiama queste organizzazioni di personalità “contestualizzate” o “psicosomatiche”. Tali organizzazioni sono connotate da un generale senso di inconsistenza di sé ed indefinitezza e faticano ad accedere alle proprie sensazioni ed emozioni. Ciò che si perde è l’immediatezza, la spontaneità e la vividezza del sentire, fino a configurare un basilare disturbo dell’autoconsapevolezza. Le sensazioni che provengono dal mondo interno della persona restano vaghe, incerte e confuse dando luogo ad una labilità emotiva, una continua oscillazione emotiva che si traduce in cicli di idealizzazione e delusione nei confronti di sé e del mondo. In questa sofferente incertezza la ricerca di una regolarità e prevedibilità si rivolge completamente al mondo esterno. Nel tentativo di ristabilire un senso di coesione, coerenza e continuità personale la persona rivolge la sua attenzione selettiva alla lettura del giudizio altrui, nell’aspettativa costante di critiche e incomprensioni e nel tentativo di evitarle adeguandosi adesivamente al contesto e ai desideri altrui. Il recupero di un senso di valore e amabilità personali viene così affidato all’approvazione altrui. Sentirsi ammirati e desiderabili da parte dell’altro diventa la bussola che orienta nella nebbia dell’indefinitezza interiore. Ne consegue che l’atteggiamento verso di sé dipende direttamente dalle conferme o disconferme esterne, oscillando fra il valore assoluto e la critica più spietata. La persona risulta ipersensibile ai momenti di approvazione ed eccessivamente vulnerabile alle disconferme. Il mondo diventa ambiguo, in quanto potenzialmente foriero di attesissime conferme e temutissime delusioni. La delusione in particolare diventa l’emozione, cifra del sentire personale declinata nella doppia accezione del timore di deludere gli altri o essere delusi dagli altri. A queste vulnerabilità la persona con organizzazione contestualizzata risponde con la riduzione dell’esposizione di sé, cui consegue la perdita di quote crescenti di autenticità e spontaneità. Il recupero del controllo viene così affidato da un lato all’immagine fisica di sé e al controllo del proprio corpo nei suoi bisogni primari, a cominciare dal cibo e dalla magrezza e dall’altro lato ad un perfezionismo rigido ed una adeguatezza formale in termini di comportamento. Entrambe queste dimensioni risultano maggiormente controllabili e oggettivabili garantendo un momentaneo ed apparente recupero di stabilità in situazioni di potenziale scompenso del sistema.
Ciò che sembra opportuno sottolineare è che il sistema si organizza da dentro e mantiene una coerenza ed un senso di continuità personale a dispetto delle apparenti discontinuità mostrate esternamente. L’organizzazione e la processualità di questo sistema hanno basi affettive ed emotive. Qualunque altra componente del sé e dell’esperienza vissuta passa in secondo piano. Quando il sistema non riesce ad integrare all’interno della sua coerenza le emozioni che prova o gli eventi a cui è esposto arriva a piegare il mondo esterno alle esigenze di quello interno. Dall’autoinganno fino al delirio abbiamo prove costanti di questo principio. In ordine al mantenimento dell’identità personale la persona può rinunciare alla sua stessa vita, confinando il principio di sopravvivenza dell’individuo o della specie al ruolo di driver secondari rispetto a quello del mantenimento della coesione e dell’identità personale. Il sacrificio di sé dei martiri cristiani, la scelta di una madre di dare alla luce un figlio sacrificando la propria vita personale, ma dando piena espressione alla propria identità di madre, il decidere da parte di un paziente di lasciarsi andare o non mangiare più per affermare la propria esistenza ed identità ne sono alcuni emblematici esempi.
Qualunque intervento che dall’esterno tenti di imprimere una forma o di trasmettere informazioni ed esperienza resta nel migliore dei casi periferico, nel peggiore dei casi iatrogeno e lesivo. L’unica strada affidabile e percorribile è la conoscenza da dentro di come si costruisce ed evolve la coerenza interna basata sulle emozioni di stato ricorrenti. Ha poco senso tentare di sfondare a spallate una porta di cui si possono possedere le chiavi.
Il costruttivismo insegna che la mente costruisce e ricostruisce continuamente qualunque stimolo interno ed esterno. Credere ingenuamente in una comunicazione che si trasmette in modo fedele e didascalico mantenendo lo stesso senso e contenuto nei due interlocutori coinvolti significa, in ultima istanza, non conoscere le modalità di funzionamento della mente. Solo a titolo di esempio se si considera che la stessa tridimensionalità della visione viene ricostruita dalla corteccia occipitale, in quanto l’occhio presenta in origine una visione bidimensionale, si ha un’idea del contributo attivo e ricostruttivo della mente già a livello percettivo e sensoriale. Risulta evidente, di conseguenza, quanto i vissuti ed i significati cambino completamente a seconda delle persone, acquisendo sensi e salienze profondamente differenti e non di rado antitetici.
La conoscenza in termini di competenza psicologica sicuramente è un’ottima base di partenza per orientarsi. Se Maria si presentasse nel mio studio cercherei di destrutturare sistematicamente ogni pensiero precostituito, ogni forma, conformazione e ruolo da lei momentaneamente assunto. Con delicata fermezza la porterei a riappropiarsi lentamente delle sue sensazioni fisiche di base, a cominciare dal porle domande apparentemente semplici e banali sulla sua percezione di quanto caldo o freddo c’è in studio e come percepisce la sedia, morbida o rigida. Già le categorie di comoda o scomoda riferite alla sedia sarebbero rischiose, perché implicherebbero un suo potenziale giudizio sull’adeguatezza dello studio e potrebbe temere di deludermi essendo inappropriata. Un esempio questo semplice, ma che ci fa comprendere quanto si lavori a livello di basilare costruzione del vissuto ed appropriazione del proprio sentirsi. Maria probabilmente non sa se la sedia è comoda o scomoda, è abituata ad avere accesso alla sua esperienza passando dalla mente, in modo disincarnato e sempre riferito all’interlocutore. Il suo dato sensoriale non è rilevante e saliente nella costruzione della sua esperienza personale. Partendo da queste semplici basi cercherei di ricondurre Maria ad appropriarsi del proprio sentire, allargando la base della propriocezione e focalizzando la sua attenzione cosciente, ed in seguito la sua osservazione di sé nella vita quotidiana, sulla costruzione di un dizionario somatosensoriale ed emotivo sempre più ampio e differenziato. Maria ha bisogno di ricostruire un accesso diretto a sé, di poter ridere di pancia, dire delle sciocchezze senza giudicarsi, giocare, esplorare, sbagliare e crescere. In una parola essere libera di vivere a partire da come è e da quello che realmente sente, di cui non porta responsabilità. La responsabilità intesa come respons-abilità, ossia capacità di risposta, si declina solo in un secondo momento. Preso atto di ciò che provo sono poi libero di declinare le mie azioni in modi molto diversi. Mi dovrò in un secondo momento riappropriare di queste modalità di azione assumendomene progressivamente la responsabilità. Non si può controllare ciò di cui non si ha padronanza e non può esserci libertà e responsabilità nell’inconsapevolezza.
Nell’accompagnare Maria in questo percorso la relazione con lei sarà un fattore determinante, illuminando almeno parzialmente lo snodo esistente fra identità personale e relazione interpersonale, al centro delle nostre riflessioni. La relazione con Maria dovrà contenere quote rilevanti di autenticità da parte mia. Abituata alla strumentalità della relazione e a mettere l’altro al centro del suo pensiero per mettersi lei al centro, ossia ad usare l’altro come specchio della sua adeguatezza, Maria dovrà fare esperienza di un altro significativo, allo stesso tempo, libero di essere sé stesso e liberante nei confronti dell’altro. Per sgomberare il campo dalla strumentalità e dal formalismo dell’adeguatezza dovrò trasmetterle il mio interesse per lei, per ciò che prova e per come si vive al di là e ben oltre l’adeguatezza del suo comportamento. Dovrò riuscire a trasmettere la continuità della sua identità per me al di là della discontinuità e mutevolezza del suo agire. L’identità della persona conosciuta affettivamente è qualcosa che va ben oltre il suo comportamento. Se una persona che conosco e amo fa una sciocchezza non assume automaticamente ai miei occhi l’identità di uno sciocco, bensì continua ad essere la persona che amo e conosco che ha fatto una sciocchezza. Questa permanenza, questa continuità e coerenza del sentire è la cifra ed il filo dell’identità personale e la relazione può esserne il tessuto di costruzione o la forbice che la taglia interrompendone la continuità. È così che l’identità nasce, nella relazione ed in una incessante oscillazione fra similarità e differenziazione, entrambe necessarie. Solo l’altro può donarmi la potenzialità di riconoscermi. Ma per farlo dovrà partire dalla conoscenza e dal rispetto del mio sentire, non sovrapponendo il suo sentire al mio, bensì rispecchiando ed amplificando il mio sentire in una relazione che molti studiosi attuali definiscono analogica, ossia un risuonare dell’altro in modo analogo al mio sentire.
A ben guardare, la relazione costituisce lo stesso tessuto della coscienza e della coscienza di sé. A titolo esemplificativo chiunque venga posto in una condizione di isolamento e privazione sensoriale sviluppa dopo circa 72 ore sintomi dissociativi ossia perde le caratteristiche di sintesi ed unitarietà psicologiche. Il dissociare permetterà allo sventurato di entrare in relazione con parti di sé come se fossero altro da sé, vicariando la relazione interpersonale che è necessaria per il funzionamento del normale flusso di coscienza.
Tornando alla relazione con Maria l’autenticità liberante sarà il requisito per lei di riconoscersi e incominciare a tratteggiare la sua identità di cui l’altro diventa momentaneamente garante e custode.
Accanto a questo fondamentale ruolo l’altro dovrà, allo stesso tempo, stare attento a non invadere Maria con i propri contenuti emotivi. Maria è estremamente permeabile e condizionabile e i suoi confini del sé sono scarsamente delineati. Nei disturbi alimentari questo tema sovente si concretizza nel sintomo, dove il cibo come elemento esterno ed estraneo a sé invade intrusivamente la persona e deve essere espulso mediante il vomito o l’uso di lassativi. Maria si adegua immediatamente all’altro assumendone valori e perfino sembianze, ma questi contenuti, non metabolizzati e fatti realmente propri a causa di una mancanza di identità, diventano ben presto elementi estranei da rigettare una volta raggiunto il silenzio della sua solitudine.
Come possiamo coniugare l’autenticità dell’essere se stessi con il non invadere l’altro con le nostre emozioni? Partendo dall’altro, dal suo sentire e dal significato che ha per lui e non dalla giustezza o dalla forza o dalla bontà delle nostre convinzioni. Esiste un modo di essere autentici e, allo stesso tempo, profondamente aperti all’altro, ma il punto di partenza deve essere la comprensione dell’altro. Si parte dal non pensare di sapere, in quella che alcuni hanno definito una dotta ignoranza. Una onestà emotiva, una sincerità emotiva non facile da tenere se si considera che il modello didattico ed educativo a cui implicitamente facciamo riferimento è basato sulle diadi maestro/allievo, esperto/inesperto, specialista/paziente, ecc.
Se non si parte dall’identità non ci può essere una vera relazione e senza una vera relazione l’altro non può integrare nella sua identità ciò che ci sta a cuore trasmettergli.
Prima di concludere è opportuno sottolineare che quello di Maria è solo un esempio di organizzazione di personalità. Certamente è un’organizzazione di personalità tipica e talmente frequente da portare alcuni clinici a considerare la sua diffusione una sorta di pandemia. Forse potremmo definirla una vera e propria conformazione dell’identità giovanile nella cultura attuale. Esistono tuttavia diverse altre organizzazioni oggi conosciute nel loro percorso di strutturazione e sviluppo. Ne conosciamo le emozioni prototipiche e la loro oscillazione ricorsiva, i temi di vita ed i significati con cui vengono elaborati, le configurazioni relazionali più frequenti e fortunatamente anche le porte di accesso, le “chiavi” che permettono da un lato di avvicinarsi e comprendere profondamente il loro sentire e la loro coerenza interna, dall’altro di essere consapevoli dei rischi e degli ostacoli che si dovranno superare all’interno della relazione e del loro percorso di individuazione personale.
In ultimo per completezza riprendendo la griglia di lettura che si era proposta all’inizio possiamo guardare il caso di Maria attraverso le categorie della diagnosi di personalità alternativa del DSM-5. Si elenca di seguito, in sintesi, una valutazione del grado di compromissione presente in ciascuna delle quattro dimensioni della sua personalità:
Dimensione del Sé
Identità – disfunzione moderata. Dipende eccessivamente dagli altri per definirsi. Ha un’autostima vulnerabile, controllata da preoccupazioni esagerate di giudizi esterni, con desiderio di approvazione. Ha un senso di inadeguatezza con autovalutazioni compensatoriamente gonfiate o sgonfiate con senso di minaccia e presumibili emozioni di rabbia e vergogna.
Autodirezionalità – disfunzione lieve. È eccessivamente orientata all’obiettivo ed in qualche misura inibita rispetto agli altri obiettivi con limitazione di alcuni aspetti di realizzazione personale. Sopravvaluta un singolo aspetto di autoconoscenza (intellettuale- cognitivo) a discapito di altri (emotivo).
Dimensione Interpersonale
Empatia – disfunzione minima/lieve. Risulta capace di comprendere le esperienze e le motivazioni degli altri, ma resiste a farlo. In talune situazioni tende a vedere gli altri come aventi irragionevoli aspettative o un desiderio di controllo su di lei. Nella relazione con Luca fatica a decentrarsi da sé e a comprendere il punto di vista dell’altro.
Intimità – disfunzione grave. La capacità di creare legami positivi e duraturi appare compromessa. Le relazioni sono basate sulla convinzione di un forte bisogno di intimità dell’altro, ma, allo stesso tempo, su aspettative di abbandono che la portano ad oscillare fra sentimenti di coinvolgimento intimo e sentimenti di paura/rigetto. Le relazioni intime sono prevalentemente basate sul soddisfare bisogni auto-regolatori e di autostima.
2. Considerazioni conclusive
Il tema della permanenza e della continuità del sentire personale in termini affettivi ed emotivi costituisce l’asse portante dell’identità. Solo la qualità e la natura di alcune relazioni permettono alla persona di sentirsi, conoscersi e riconoscersi, attraverso l’oscillazione ricorsiva che si crea nel continuo movimento di avvicinamento e allontanamento dall’altro, alternando vissuti di similarità e differenziazione. È così che viene a delinearsi la tessitura del Sé.
Alcune relazioni, non solo quelle primarie con i genitori, sono in grado di raggiungere questo livello di profondità e di orientare ed influenzare profondamente la struttura e lo sviluppo dell’identità personale. Sebbene la psicologia clinica sia in grado oggi di comprendere i meccanismi di origine e sviluppo di tali processi, come si è cercato brevemente di mettere in luce, il tema di queste relazioni e dello sviluppo dell’identità investe ed è a pieno titolo inerente gli ambiti educativi e formativi.
Si tratterà allora di acquisire piena consapevolezza del portato e della cruciale importanza di questi processi.
Facendo brevemente riferimento a categorie fenomenologiche potremmo dire che le emozioni ed i valori sono la chiave per comprendere le azioni e le esperienze personali. Le emozioni strutturano l’autostima, l’amabilità personale, l’immagine di sé, il senso di continuità e l’identità nonché, a dispetto di quanto si riteneva non molto tempo fa, i processi di pensiero ed il funzionamento della memoria. Esse inoltre motivano e direzionano il comportamento e giocano un ruolo centrale nel situare la persona ed orientarne la ricettività. Questa funzione di orientamento nel mondo della vita è ciò che forse meglio coglie l’oggetto e la funzione dei processi educativi.
Le emozioni stabiliscono la qualità e la natura dei significati che imprimono ordine all’esperienza, strutturandoli in valori personali, ossia ciò che veramente conta per la persona. Nell’esperienza soggettiva i valori possono essere letti come emozioni che si stabilizzano nel tempo, orientando nella persona la coscienza e la scelta del suo destino. Spesso gli aspetti etici e razionali sono posti in primo piano nell’azione educativa. Le emozioni, tuttavia, costituiscono la materia e la stessa possibilità di un’azione educativa, una sorta di a priori da cui non si può prescindere. Si tratta di piani diversi e non necessariamente conflittuali, ma con un preciso ordine di priorità oggi più che mai chiaro. Nei fatti questa priorità viene sovente messa in secondo piano.
La speranza e la potenzialità di una azione educativa che raggiunga questi livelli di profondità e influenza porta alla responsabilità della conoscenza e della consapevolezza del loro funzionamento e conseguentemente alla responsabilità di proteggere e favorirne lo sviluppo.
Non tutti i modi di definire l’identità e non tutte le forme di relazione posseggono in fatti queste caratteristiche.
Quando si hanno idee e progetti educativi forti, ad esempio, il rischio è quello di cercare di imprimere questi contenuti ritenendoli validi e funzionanti a prescindere dal contesto, dalle situazioni e soprattutto dalle soggettività cui le si propone. Come si diceva all’inizio, l’illusione qui è quella di pensare di sovrapporre questi contenuti alla persona. A volte la convinzione è così forte da dare luogo ad apparenti successi, con fenomeni di adesione anche molto duraturi nel tempo. Le personalità che derivano la loro stabilità personale dall’esterno o dalla ricerca di criteri oggettivi assoluti, come nell’esempio del caso di Maria o in altre specifiche e diverse conformazioni, sono molto frequenti e diffuse. Purtroppo, non di rado il percorso di individuazione personale porta queste persone a prendere consapevolezza di sé molto tardi nel corso di vita, con esiti dolorosi che rendono difficile la ricomposizione di queste esperienze in una storia di vita unitaria e sufficientemente coesa e sensata.
Un altro profilo di rischio riguarda lo stesso strutturarsi in organizzazione delle agenzie educative. È questo un tema che per vastità ed implicazioni meriterebbe un approfondimento a parte. Molto spesso le organizzazioni muovono da valori fondativi originari chiari e definiti. La vita e le modalità di azione delle prime persone coinvolte nella storia organizzativa crea una cultura condivisa cui i membri del gruppo aderiscono con entusiasmo e forte motivazione. Ovviamente questo porta a vantaggi e svantaggi. Procedendo esclusivamente dal punto di vista della nostra analisi inerente l’identità, il rischio qui è che i processi di imitazione ed identificazione con il messaggio e con le prime figure storiche siano talmente forti da non lasciare spazio alle declinazioni personali di tale messaggio, che sono inevitabilmente diverse e tante quante sono le persone che lo colgono.
La ricchezza e la varietà di queste declinazioni possono essere lette come pericolosa distanza e deviazione dal tracciato originario.
Proprio in questo senso viene facilmente a crearsi un clima di implicita verifica all’adesione e all’adeguatezza rispetto alla cultura organizzativa, con codici spesso impliciti e non esplicitati e che può consistere nell’induzione di un fare, ossia di una serie di comportamenti, oppure di un sentire, nel dover inibire alcune emozioni e manifestarne altre. A volte questo porta a curiosi fenomeni di gemellarità fra i membri del gruppo. È evidente quanto questo contrasti ed ostacoli lo sviluppo di quella autenticità ed unicità necessarie all’interiorizzazione personale e alla libera espressione che sono alla base della solidità e durevolezza della crescita individuale.
Una riflessione analoga può essere fatta attorno al tema del ruolo. Per organizzare è necessario stabilire dei ruoli. Quando questi vengono violati lo stress e l’angoscia indotta è molto forte, poiché il ruolo è un’identità. Ma è un’identità nel senso dell’idem, una medesimezza, un essere sempre uguali. Potremmo dire che è una continuità definita da criteri esterni. Questa sorta di garanzia e difesa del proprio ruolo è un sigillo identitario rigido che tende a collocare sé stessi e gli altri in una posizione predefinita. Si creano così distanze codificate ed immodificabili, il contrario di quel movimento di avvicinamento-allontanamento necessari alla promozione dell’identità personale intesa come permanenza del sentire e riconoscimento dell’unicità.
In generale, per concludere, qualunque “strumentalità” delle relazioni, un volere qualcosa, un voler produrre oppure ottenere un esito dall’altro costituisce una minaccia alla relazione di riconoscimento come qui intesa. Innumerevoli sono le declinazioni della strumentalità relazionale, anche in ambito affettivo. Il rischio qui è quello di fare scivolare l’altro dalla posizione di soggetto a quella di oggetto, seppur con le nostre migliori intenzioni, non rispettando quei meccanismi auto-generativi di libertà e indeterminatezza altrui che soli possono garantire il loro autentico bene.
Le relazioni intime ed empatiche in cui sia possibile riconoscersi, esprimere e consolidare l’identità personale costituiscono la più importante fonte di felicità o di sofferenza nella vita di ciascuno di noi. Lungo questo crinale si gioca la possibilità di esperire indicibili sofferenze che a volte appaiono soverchianti, insensate ed interminabili o, al contrario, quote di gioia, pienezza e soddisfazione personale tali da arrivare ad evocare le categorie della meraviglia.
Chi, come me, ha fatto esperienza di queste relazioni in ambito formativo ne conosce l’inestimabile valore e l’enorme influenza nel suo essere uomo in ambito personale, affettivo e professionale. Questo incommensurabile dono ricevuto si trasforma in una grave e positiva responsabilità. Vale la pena studiarlo. Vale la pena proteggerlo.
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