Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione
Identità relazionale e vocazione
Ilaria Vigorelli
La questione del rapporto tra l’identità, nella sua evoluzione relazionale e dinamica, e la continuità nella vocazione è una questione che si apre sempre più frequentemente nel contesto della società liquida.
Dove le strutture sociali sono state descritte dalla sociologia come “morfogenetiche”, anche la stabilità vocazionale – e dunque l’istituto matrimoniale, sacerdotale e religioso – appare soggetta a morfogenesi. Che cosa significa? Margareth Archer1 ha inteso la morfogenesi come una modalità di interazioni tra strutture e azioni secondo la quale le strutture socioculturali, che stanno tra loro in relazioni logiche intrinseche e necessarie, esercitano la propria influenza causale sull’interazione sociale e culturale, la quale è caratterizzata, dal canto suo, dalle relazioni causali tra i gruppi e gli individui. Archer denomina tale processo “tripla morfogenesi”, perché durante il mutamento del livello sistemico-strutturale accade anche una trasformazione della geografia sia dei gruppi che delle personalità degli individui che costituiscono il livello sociale.
Possiamo chiederci, perciò, come l’identità relazionale che si costituisce nell’ambito della struttura vocazionale dell’esistenza sia posta oggi nella dinamica morfogenetica che emerge dalle trasformazioni socioculturali dei gruppi e degli altri individui. Assistiamo di fatto al diffondersi di abbandoni dello stato clericale e delle vocazioni religiose e secolari, in modo simile a quello della sempre più frequente instabilità matrimoniale che sfocia nelle note ibridazioni della famiglia;2 anche nel mondo del lavoro assistiamo a una carenza di appartenenza crescente, con grossi problemi di retention nel mondo delle imprese, non soltanto dovuta alla fluidità del mercato del lavoro, ma anche alla facile disaffezione dei lavoratori da una unica identità professionale.3 Dobbiamo allora parlare di Big Quit anche nella Chiesa, o di vocation warming?
Vorrei affacciarmi sulla questione senza dover approfondire eccessivamente il fenomeno sociale ma, tenendolo sullo sfondo, vorrei interrogare la concezione di sé e di Dio sottesa a questi approcci fluidi.
Mi chiederò allora che cosa permetta di permanere nelle trasformazioni morfogenetiche del nostro tempo, considerando che nella vocazione i soggetti in relazione sono sempre almeno tre: uno eterno, immutabile e semplice (Dio), che si fa presente tra gli uomini in modo simbolico e reale nella comunione operante tra i suoi amici (Chiesa), e uno umano (io), costituito in una forma identitaria che è sottoposta alle caratteristiche mutevoli dello spazio tempo e che è a sua volta una realtà emergente strettamente unita alle relazioni di comunione, che in quanto soggetto costituisce con gli altri proprio in ragione della chiamata e che al contempo è capace di trascendere.
Per esemplificare: penso ad una coppia nella quale i coniugi divengono, in virtù del matrimonio, la vocazione – uno dell’altra, una dell’altro – nel cammino verso Dio.4 Ciascuno è radicato in se stesso secondo un’identità relazionale che nella propria immanenza porta le storie dei genitori e tutto il bagaglio di amicizie e disamori, soddisfazioni e traumi, frustrazioni e talenti che la propria vita gli ha tributato nel tempo; al contempo ciascuno è sempre capace di trascenderle, di essere libero di amare o di cessare di amare. Tutto ciò funge da sorgente per la reciprocità sponsale, che è terza e insieme indivisibile dalle relazioni in cui i soggetti si incarnano, ma è pure il modo più concreto di attingimento al divino e alla trascendenza di sé di cui gli sposi dispongono.
Altrimenti pensiamo al portatore di una vocazione celibataria e alla comunione che crea con chi condivide nella Chiesa la stessa vocazione: la comunione è terza rispetto alle identità di ciascun componente ma, analogamente al matrimonio, essendo la risultante “emergente” delle identità relazionali dei membri che la compongono è anche luogo della promessa intima e soggettiva della presenza del Regno di Dio in mezzo a noi (cfr. Lc 17,21); è vero, inoltre, che la relazione tra i membri di qualsivoglia comunione agisce retroattivamente sulle identità strutturate e percepite delle persone che la compongono, e che strutture e azioni sono dunque così intimamente unite e al contempo distinguibili – nei gruppi o negli insiemi dei gruppi – che la morfogenesi dell’uno e dell’altro strato può dare adito a fenomeni del tutto inattesi e imprevedibili, nei quali e attraverso i quali non cessa di operare la libertà degli esseri umani e la misericordia di Dio.
Il punto teologico che ricorre come questione aperta è relativo, per tutti gli stati di vita, alla immutabilità di Dio e del suo disegno di amore in rapporto alla mutabilità dell’essere umano che risponde alle sue chiamate e si trova immerso non soltanto nella storia, ma anche nella morfogenesi dei gruppi di appartenenza e dei vari strati della società sui quali opera.
Le domande che potrebbero essere rivolte al teologo in tale contesto sarebbero allora: Dio ha una volontà immutabile su di noi (cfr. Ef 1, 3-14)? Il suo disegno è un disegno di amore che cambia con noi man mano che la nostra libertà cresce e si configura nel tempo secondo successive autodeterminazioni? Dal punto di vista antropologico esistenziale, la riflessione potrebbe evolvere così: se per essere felice devo essere fedele anzitutto a me stesso, come è possibile la fedeltà a un’identità e a delle relazioni che non sento più come significative o determinanti per me? Infine, sul piano sociale la domanda si riformula in tal senso: se sono fedele a me stesso, e perciò anche al Dio che mi vuole felice, con questo stesso non sono anche fedele alle relazioni che mi hanno costituito e mi costituiscono nella mia interiorità e nella mia storia fino ad ora?
Per tentare una risposta su che cosa permetta di permanere nelle trasformazioni morfogenetiche che paiono inevitabili, proporrò alcune considerazioni teologiche che ci provengono dalla patristica del IV secolo, e più precisamente da Gregorio di Nissa.
Autore che ha rivoluzionato il modo di intendere l’umano, intuendo ben prima della psicanalisi che le relazioni interiorizzate sono quelle determinanti la moralità e dunque la felicità dell’essere umano,5 Gregorio ha considerato il cambiamento come una dimensione che può essere santificata dall’ingresso di Dio nella storia. Egli riconosce l’incarnazione come l’eterno che fa proprio – ovvero illumina, salva, conduce a vita infinita – colui che è limite, contingenza, peribilità e mutevolezza, rendendo così ciò che è instabile e finito saldo in Cristo e aperto a ricevere la vita che non ha termine.
Il Nisseno prospetta la vocazione umana come un continuo accrescimento.6
L’essere umano viene all’esistenza creato κατ’εἰκόνα θεοῦ (Gn 1, 26) “secondo l’immagine di Dio”, per divenire partecipe dei beni divini; è perciò fatto in modo tale da poter entrare relazionalmente in comunione con i beni divini, quali la vita, l’amore, la sapienza e l’eternità; creato con il desiderio di ciò che gli corrisponde, l’essere umano è storico, ossia soggetto al divenire, ma secondo un senso, una direzione non soggetta alla ripetizione circolare dell’identico, come per il greco. Il suo primo mutamento è dal non essere all’essere, ma poi il desiderio lo spinge verso l’unione con il Bene da cui è creato e che per primo gli si fa incontro.7
Da ciò consegue, per Gregorio, che il divenire cui è soggetto l’essere umano non sia soltanto il mutamento temibile della corruttibilità che prima o poi porta alla morte, ma «un’ala adatta al volo verso le cose più grandi».8 In questo senso per il Nisseno la più bella manifestazione della mutevolezza è rappresentata dalla crescita nel bene.9 Il Bene è infatti la destinazione, il destino, del mutamento. In tal modo – punto antropologico importantissimo anche se forse qui liminale – la perdita dell’impassibilità del corpo, ovvero l’irrompere della morte e di ogni sorta di sofferenza dell’anima e del corpo nell’armonia dell’essere creato10 non è opera di Dio bensì riprova del fatto che l’uomo e la donna non sono stati privati, col peccato (Gn 3), del bene più bello e prezioso: vale a dire della «grazia dell’autodeterminazione e della libertà».11
In conseguenza della libertà, allora, il male può ingenerarsi nella volontà umana quando essa si ritrae dal bene a lei connaturale, per scegliere come oggetto del suo desiderare ciò che è peggio piuttosto di ciò che è meglio;12 ma il carattere mutevole del desiderio umano resta sempre anche segno del dono della libertà come carattere di somiglianza con il divino, che pertanto cerca la relazione con l’infinito. La libertà presentata in tale prospettiva ontologica, come fa Gregorio di Nissa, ci permette di vedere che le identità liquide e perfino i cambiamenti rispetto alla propria vocazione sono pur sempre segno della grandezza degli esseri umani, in quanto tutti siamo orientati all’infinito. Il discrimine è dato dalla destinazione: quando la libertà, con i suoi chiaroscuri, serve l’identità relazionale, essa rinvia al mistero; quando invece cede alla suggestione dell’idolatria e rompe l’identità relazionale, allora nuoce. In fondo la libertà è relazione in senso ontologico e il discrimine non è dell’ordine del giusto o dello sbagliato, ma dell’essere e del non essere.
Per questo, ciò che possiamo aggiungere alla prospettiva di Gregorio è che il desiderio del bene è soggetto alle “torsioni” della relazione. Che cosa intendo con questo è presto detto: il desiderio non è una realtà lineare, soprattutto perché intercorre tra due esseri viventi, l’uno temporale e l’altro eterno. Il desiderio è soggetto a metanoia, torsione della mente e del cuore, perché l’infinito si porge al finito secondo una modalità che porta il finito al continuo auto-trascendimento e ciò suppone – in noi che siamo limitati – lo sviluppo della capacità di permanere nella frustrazione (dell’immagine di sé, dell’altro, del soddisfacimento immediato del bisogno), affinché il desiderio cresca. Da qui si intravede la via per una risposta antropologica ed esistenziale alle domande incoate sopra.
Il desiderio di quel Bene che è la causa del proprio essere porta il segno, sempre più evidente lungo gli anni, che proveniamo da un limite, dal nulla, dalla polvere, cioè il segno che la fonte della vita umana è in un Altro. Rivela però anche l’affinità degli esseri umani con quella realtà infinita e increata che dà loro la vita in un atto di libertà e di amore, e ci insegna che la nostra volontà di reciprocità non basta mai per raggiungere l’oggetto del desiderio, il quale nella frustrazione sembra ritrarsi, ma perché è infinito. In qualche modo, la frustrazione ci rende nota l’idolatria e ci permette di compiere nella libertà la torsione del desiderio verso il Bene.
Queste considerazioni conducono a vedere due esiti della continuità e discontinuità nell’identità vocazionale: da una parte la possibilità della consegna a Dio del proprio limite, ovvero dell’instabilità del proprio desiderio e del proprio volere; dall’altra l’apertura all’esperienza concreta della potenza del divino che, sebbene attraverso la frustrazione del limite, si manifesta come capacità di amare gratuitamente la vita in chi si affida alla sua grazia.
Il desiderio e il mutamento che caratterizzano la vita umana per la nostra condizione storica e corporale non sono dunque causati originariamente dalla concupiscenza, bensì dalla connaturalità con il divino da cui proviene l’umanità. La pienezza dell’umanità, allora, consiste nella capacità di desiderare e attuare l’unione con l’infinito secondo la disposizione della propria libertà, che sorge da dentro, da un luogo che resta inattingibile da fuori; possibilità che viene illustrata nelle omelie di commento al Cantico dei Cantici come frutto della comunione che proprio in virtù della nostra umanità possiamo avere con il Verbo incarnato.13
Se, dunque, solo posteriormente al peccato appare nel mondo la concupiscenza, cioè il disordine nel desiderio e nella volontà causato dalle passioni per ciò che “è di meno”, la logica da ricomporre è proprio quella intima del desiderio, non tanto quella delle passioni, e il male dell’identità relazionale non risiede primariamente nelle realtà desiderate, ma nel modo di desiderare, ovvero di stare nella relazione.
Il problema del giudizio fallace, quindi, non si trova nel corpo, ma nella disposizione dell’anima, quando segue solo il modo di sentire del corpo senza seguire la relazione con l’infinito, dal momento che la condizione ormai mortale rende ambivalente il desiderio e vuole l’appagamento immediato. Il male che affligge l’identità relazionale non scaturisce dalla condizione instabile e mutevole, ma dalla perdita della relazione: dalla rottura della comunione.
Nell’antropologia di Gregorio, la nostra condizione ontologica appare dunque come relazionale in modo duplice. Per un verso, infatti, l’essere umano è creato, cioè voluto e amato da Dio che lo fa essere nella libertà dell’auto-trascendimento ed in questo si trova il segno di provenire da Dio; per un altro verso, il segno di essere stati tratti dal nulla si manifesta in noi secondo i molteplici modi dell’essere mutevole: come tendenti al Bene infinito, ma anche come da Lui distinti e fallibili.
Anche questa duplice relazionalità, infine, appare ambigua: la libertà, infatti, costituisce l’essere umano a immagine di Dio, ma la morte, che dalla libertà è stata inserita nella creazione, sembra inficiare la possibilità definitiva dell’unione con Dio e così anche la sovranità di cui la stessa libertà è immagine14. Ora, le disposizioni umane, ricordavamo, sono distinte dalla concupiscenza a motivo della volontà: essa stessa, infatti, si muta interiormente nello stabilire la relazione tra desiderio e bene desiderato. Dal punto di vista ontologico, esser dotati di libertà non emerge, dagli scritti di Gregorio, anzitutto come arbitrio, ma come possibilità di permanere nel Bene15. Dal momento, quindi, che tale duplicità è radicata nella volontà di Dio che crea e che poi con la sua incarnazione assume la morte come via per ricondurre tutto nuovamente al Padre, il desiderio dell’origine è ricondotto da Dio stesso alla relazione con il Bene, mediante il corpo di Cristo che muore e risorge.
La prima volontà a ristabilire la relazione è quella di Dio che si incarna, passa attraverso la frustrazione somma della morte e risorge. In tal senso è possibile che la volontà umana si fidi del proprio desiderio. In caso contrario, la prospettiva termina con la morte.
Ricordo un film che si intitola Ida,16 in cui la protagonista chiedeva all’amato dopo una notte di passione, “e poi?”; e dopo ogni prospettiva offerta a lei dall’uomo, la domanda si ripeteva dolcemente ma inarrestabile: “e poi?”.
Negli anni ho assistito a diverse modalità dinamiche di rottura e di grandi crescite nella comunione, sia di sposi che di celibi, e ho sentito il bisogno di riflettere sull’identità in gioco nelle relazioni in cui si generano alternativamente rottura o rinsaldamento dei legami. Non penso che si possano trarre regole scientifiche e ripetibili da quanto ho osservato, ma si può senz’altro acquisire una più grande consapevolezza del mistero di libertà che sempre avvolge le identità relazionali in rapporto a se stessi e alla propria vocazione.
La soluzione alla volontà deludente e instabile della nostra identità è infine la relazione con Colui che solo è buono: in questa rientrano gli slanci e le delusioni, la gioia e la sconsolatezza, la noia e il sogno e ogni disposizione che riluce da dentro il cuore delle persone rese buone dalla Sua bontà. Nella dinamica della libertà con Dio, infatti, non si è mai da soli e si è sempre accompagnati dal suo Spirito.
Bibliografia
Aristotele, Metaphysica.
M. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Franco Angeli, Milano 1997.
Centro Internazionale Studi Famiglia, La famiglia nella società post-famigliare. Nuovo Rapporto CISF 2020, San Paolo, Milano 2020.
L. Curti, Why The Big Quit Is Happening And Why Every Boss Should Embrace It,, «Forbes» June 30 2021.
P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (edd.), Ecologia integrale della relazione uomo-donna: la prospettiva relazionale, Edusc, Roma 2018.
D. Gemmiti, La libertà e i fondamenti metafisici dell’antropologia di Gregorio Nisseno, in C. Braidotti, E. Dettori, E. Lanzillotta (edd.), Οὐ πᾶν ἐφήμερον: scritti in memoria di Roberto Pretagostini: offerti da colleghi, dottori e dottorandi di ricerca della Facoltà di Lettere e Filosofia, Quasar, Roma 2009, 209-245.
Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, trad. intr. e note di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1996, 111-115.
Idem, Omelie sul Cantico dei cantici, introduzione, traduzione e note a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1988.
Idem, Discorso catechetico, introduzione e note a cura di R. Winling, EDB, Bologna 2016.
Idem, Fine, professione e perfezione del cristiano, trad. intr. e note di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1996.
Idem, Discorso sui defunti, G. Lozza (a cura di) Corona Patrum, Società editrice internazionale, Torino 1991.
A. Spira, Le temps d’un homme selon Aristote et Grégoire de Nysse: stabilité et instabilité dans le pensée grecque, «Colloques internationaux du CNRS», 604, Paris 1984.
I. Vigorelli, La relazione: Dio e l’uomo, Città Nuova, Roma 2020.
1 M. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Franco Angeli, Milano 1997.
2 Il rapporto CISF sulla famiglia in Italia del 2020, porge all’attenzione della società il rischio del family warming, ossia di un “surriscaldamento della famiglia”, per via della crescente ibridazione dell’istituto famigliare per via legale e artificiale. Come ci si chiede quanto sia ecologicamente sostenibile il global warming, così gli autori si interrogano su quanto possa essere socialmente sostenibile il family warming. Senza voler limitare i diritti fondamentali della persona umana, l’invito è a concepirli relazionalmente anziché individualisticamente. La suggestione induce a considerare, prima di abbandonare la famiglia nucleare, che l’alternativa di una famiglia “oltre la natura” porta la nostra società a configurarsi sulla base di una famiglia post-umana. Cfr. Centro Internazionale Studi Famiglia, La famiglia nella società post-famigliare. Nuovo Rapporto CISF 2020, San Paolo, Milano 2020.
3 In situazione post-pandemica si è rilevato, inoltre, il fenomeno USA del “Big Quit” o “Great Resignation” che sta vedendo un vertiginoso aumento delle dimissioni dei lavoratori che si identificano nell’acronimo “YOLO”, dall’inglese You Only Live Once. Cfr. L. Curti, Why The Big Quit Is Happening And Why Every Boss Should Embrace It, «Forbes» June 30 2021.
4 Sull’identità relazionale originaria e l’ampiezza della vocazione alla cooperazione di maschile e femminile, si veda in questa stessa collana P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (edd.), Ecologia integrale della relazione uomo-donna: la prospettiva relazionale, Edusc, Roma 2018.
5 I. Vigorelli, La relazione: Dio e l’uomo, Città Nuova, Roma 2020.
6 Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, trad. intr. e note di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1996, 111-115.
7 Or Cat, GNO III/4,18, 4, in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, introduzione e note a cura di R. Winling, EDB, Bologna 2016, 182.
8 Perf, GNO VIII/1, 214, in Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, 114.
9 Su questo tema si veda A. Spira, Le temps d’un homme selon Aristote et Grégoire de Nysse: stabilité et instabilité dans le pensée grecque, «Colloques internationaux du CNRS», 604, Paris 1984, 288-289.
10 Cfr. Or Cat, GNO III/4,19,1, in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, 184.
11 τῆς κατὰ τὸ ἀδέσποτον καὶ αὐτεξούσιον χάριτος. Or Cat, GNO III/4,19,20 in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, 186.
12 ἡ ἀβουλία τὸ χεῖρον ἀντὶ τοῦ κρείττονος προελομένη. Or Cat, GNO III/4,20, in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, 188.
13 Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici, introduzione, traduzione e note a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1988.
14 Cfr. Gregorio di Nissa, Discorso sui defunti, G. Lozza (a cura di) Corona Patrum, Società editrice internazionale, Torino 1991.
Si veda in merito D. Gemmiti, La libertà e i fondamenti metafisici dell’antropologia di Gregorio Nisseno, in C. Braidotti, E. Dettori, E. Lanzillotta (edd.), Οὐ πᾶν ἐφήμερον: scritti in memoria di Roberto Pretagostini: offerti da colleghi, dottori e dottorandi di ricerca della Facoltà di Lettere e Filosofia, Quasar, Roma 2009, 209-245.
15 La Metafisica di Aristotele cominciava così: «Tutti gli uomini tendono per natura al sapere (Πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει)» (Metaphysica, 980a,21) mentre il De mortuis non esse dolendum di Gregorio di Nissa comincia così: «Tutti gli uomini hanno una naturale inclinazione al bene (φυσική τις πρὸς τὸ καλὸν ἔγκειται σχέσις)» Mort, GNO IX,29,9-10 in Gregorio di Nissa, Discorso sui defunti, 37.
16 Ida: film a regia Paweł Pawlikowski, del 2013. Nel 2015 ha vinto il premio Oscar per il miglior film straniero (polacco).