Ror Studies Series | Identità relazionale e formazione
Formazione all’identità in relazione: prospettiva antropologica
Antonio Malo
Anche se il termine postmodernità può avere diversi significati, come mostrano i diversi saggi sul tema, penso di poter affermare che la postmodernità in un modo o nell’altro – come tentativo di negazione, superamento o decostruzione – sia sempre in rapporto inscindibile con la modernità.1 Ne deriva che per trattare l’argomento dell’identità nelle nostre società occidentali si debba necessariamente fare riferimento all’identità moderna.
Sommariamente, si può affermare che – secondo la postmodernità – il concetto d’identità moderno corrisponde alla coscienza, o ancora meglio all’autocoscienza. E, siccome la coscienza riduce tutto il resto a oggetto, l’autocoscienza o coscienza di sé cancellerebbe qualsiasi differenza nella sua ricerca incessante di una coscienza assoluta, trascendentale o come dir si voglia. Il risultato finale è la distruzione di tutto quanto distingue le persone e le culture, come appare con evidenza nei processi di globalizzazione in corso. Le differenze sono così assorbite e trasformate in uniformità: un unico credo religioso, politico ed economico. Ecco, dunque, che – sempre secondo la postmodernità – l’identità moderna implica necessariamente violenza, sopruso e, addirittura, quel totalitarismo che ha seminato e continua a seminare di cadaveri il mondo. Ne deriva che per molti nostri contemporanei si sia stabilita, in modo più o meno conscio, un’equazione fra identità e totalitarismo, per cui combattere il totalitarismo equivale a combattere l’identità e viceversa.
1. Difficoltà nel capire l’identità nella postmodernità
La postmodernità, o almeno quella parte rappresentata dal post-strutturalismo, il post-umanesimo e le teorie di genere, si propone di decostruire l’identità moderna per portare alla luce le differenze, in essa nascoste, le quali a loro volta sono maschere del desiderio umano, un desiderio polimorfo su cui si baserebbe la società e la cultura.2 Di qui il tentativo di mostrare come i diversi tipi d’identità (uomo-donna, famiglia, umano-animale, naturale-artificiale) sono in realtà una pura costruzione sociale e, perciò, possono essere sostituiti da nuove categorie in grado di mescolarli o ibridarli. Certamente, attraverso tale decostruzione, si arriva alla negazione anche dello stesso concetto di categoria, come fa Judith Butler con quella del genere,3 poiché ogni categoria rappresenta in ultima istanza un’identità per quanto generica e raccogliticcia essa sia.
Nel fare del desiderio il principio cardine, la postmodernità trasforma le vere differenze fra le persone, le culture e i popoli, in diversità radicali, incapaci di vere e proprie relazioni, come si osserva nel fallimentare progetto multiculturalista delle società occidentali, che è stato una delle principali cause della mancanza d’integrazione di generazioni di immigranti appartenenti ad altre culture e religioni. Ciò ha portato alla loro emarginazione, al loro risentimento e, infine, alla loro violenza. Il risultato finale di questo processo conduce a una società frantumata, divisa fra integralisti e cittadini fluidi, con un’identità liquida, secondo l’espressione coniata da Baumann.4 All’integralismo si oppone una tolleranza che rifiuta le identità forti (almeno dal punto di vista della ragione pratica), promuovendo al loro posto il diverso, cioè qualsiasi tipo di gruppo umano ai margini delle norme finora vigenti, sempre che esso non infranga la libertà degli altri. Così, fuggendo dal totalitarismo dell’identità moderna, si cade nella dittatura della tolleranza, il cui unico divieto è quello di vietare alcunché, simile al “proibito proibire” del maggio ’68. In tal modo, però, non solo si rifiuta l’esistenza di norme necessarie a una buona convivenza sociale, ma utili soprattutto a proteggere l’umano dalle nuove invasioni barbariche che minacciano la dignità della persona dalla nascita sino alla fine.
E poiché, come spiega bene Byung-Chul Han, questi divieti sono necessari, in quanto non tutto ciò che si può fare si deve fare, quando essi non vengono accettati portano a ciò che egli ha chiamato la società della stanchezza, in cui quelli che non riescono a poter fare tutto ciò che vorrebbero sono i nuovi perdenti, gli emarginati della società dei consumi; e anche se non vengono più puniti con misure repressive esterne, sono essi stessi a punirsi per la loro debolezza con una serie di patologie psichiche: stress, stanchezza cronica, depressione e, nei casi più estremi, suicidio. L’individuo liquido della società consumistica diventa così allo stesso tempo padrone-servo, carnefice-vittima di se stesso.5
Di fronte a questa tensione fra identità e diversità, fra integralismo e individuo liquido, che cosa si deve fare? Aggrapparci a un’identità rigida, inamovibile, che è alla base dei nuovi nazionalismi, integralismi religiosi, sociali e politici, o annegare nel pantano delle diversità fluide, che minaccia di distruggere la libertà delle persone?
Penso che una terza via sia possibile: capire l’identità in senso relazionale, ossia come la relazionalità del sé fatta di relazioni e che, proprio perciò, cresce e si sviluppa con le buone relazioni, o beni relazionali. Per giungere a quest’identità, non è necessario distruggere le differenze trasformandole in diversità, bensì riscoprirle come un dono da integrare relazionalmente. Infatti, come vedremo, solo le differenze possono dar luogo a buone relazioni e unicamente queste – ad incominciare dalla differenza uomo-donna – sono generative.
2. Elementi strutturali dell’identità umana: corpo, coscienza e alterità
Prima, quindi, di esaminare in che cosa consista l’identità umana in senso relazionale, è necessario analizzare gli elementi strutturali che la costituiscono. Si tratta di una serie di elementi che, in un modo o in un altro, sono stati individuati lungo la Storia. Anzi, la scoperta di ognuno di essi ha segnato una tappa della filosofia occidentale: il corpo, quella classica; la coscienza, quella moderna; e l’alterità, quella postmoderna.
Infatti, a grandi linee, l’identità umana appare inizialmente legata al corpo, per cui l’essere umano è un essere puramente naturale (sofisti), oppure ha una corporità in cui si manifesta la trascendenza di un principio non naturale, l’anima immortale (Socrate, Platone). Più tardi, con Aristotele, la tensione propria del dualismo platonico, si risolve con l’affermazione che l’uomo è un animale razionale. Certamente, di questa definizione può essere data un’interpretazione naturalistica e logica: il corpo umano, che appartiene al genere, è allora qualcosa di puramente naturale, mentre la ragione, o differenza specifica, è l’unica ad essere trascendente. Così solo la ragione distinguerebbe l’animale uomo da tutti gli altri animali; l’uomo però continuerebbe ad essere pur sempre un animale. Ma è possibile anche un’interpretazione metafisica: in quanto differenza specifica dell’uomo, la ragione determina radicalmente il genere, ossia l’animalità dell’uomo, per cui il suo corpo diventa intrinsecamente razionale. Qualcosa di simile sembra affermare Aristotele quando, nel parlare della definizione di uomo da parte da Anassagora («l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani»),6 aggiunge che «è ragionevole dire che ha le mani perché è il più sapiente. Le mani, in effetti, sono uno strumento e la natura, come un uomo sapiente, dà ogni cosa a chi può usarla».7
San Tommaso riprende questa interpretazione metafisica della definizione aristotelica. Ciò nonostante, il principio d’individuazione della persona sembra essere solo il corpo, in particolare la materia quantitate segnata. Si potrebbe certamente pensare che, poiché la quantità è il primo accidente che proviene alla materia direttamente dalla forma, in quel principio d’individuazione si trova già l’anima razionale o, meglio ancora, l’essere spirituale dell’anima razionale. E, di conseguenza, il principio ultimo sarebbe l’essere spirituale della persona. Tuttavia, questa interpretazione si oppone alla tesi tomistica, ereditata da Aristotele, dell’animazione ritardata.8
Del resto, il corpo non sembra sufficiente a costituire l’identità umana. Malgrado oggi sappiamo che con il corpo viene tramandato il codice genetico e con esso una serie di proprietà e predisposizioni, l’identità umana non dipende solo da ciò che si è ricevuto, ma anche dalle esperienze avute, azioni e, soprattutto, relazioni. Come vedremo in seguito, il corpo è indubbiamente sempre presente in tutto ciò che sperimentiamo o facciamo, almeno come l’ancoraggio a un mondo che condividiamo con altri.
Per questo la modernità, da parte sua, ha cercato un’altra sorgente dell’identità umana: la coscienza. La storia evolutiva e anche personale del corpo è infatti insufficiente per spiegare l’identità umana, si deve tener conto della coscienza personale, che permette l’esperienza del mondo, di se stessi e degli altri. Il problema è come concepire la coscienza, specialmente quella di se stessi o autocoscienza. Se la coscienza non ha niente a che vedere con il corpo, anzi lo degrada a cosa od oggetto, allora diventa disincarnata e singolare, fuori dallo spazio e dal tempo, simile a un puro spirito. Ed è, secondo Cartesio, questa stessa purezza a rendere possibile la perfetta riflessione del cogito e, quindi, a fondare ed eseguire il primo principio della filosofia moderna: cogito ergo sum (penso, dunque esisto), che è anche un principio identitario.9
D’altro canto, se – come in Locke – la coscienza non può separarsi dal tempo e, quindi, dal cambiamento, la perfetta riflessività non si dà se non come memoria: la coscienza ricorda la mia identità passata fino a questo momento e perciò posso essere sicuro di essere sempre me stesso; in altre parole, sono lo stesso quando ricordo di essere lo stesso.10 Anche se Locke aggiunge la temporalità, lascia fuori la corporeità e, quindi, la spazialità. La temporalità dell’Io è concepita come una successione di istanti singoli. Perciò, Locke distingue fra man (corpo vivente che non è singolare, ma duraturo) e person (coscienza di sé nel tempo), che è singolare anche se si dà nel tempo.11 Ci possono essere, quindi, molte persone entro lo stesso corpo, perché si tratta di una coscienza disincarnata, la cui unità viene data dall’identificazione del proprio Io con se stesso. Se non c’è quest’identificazione, ci troviamo – secondo Locke – in presenza di un’altra persona. La soluzione lockiana porta con sé una circolarità: si presuppone l’identità della coscienza e, perciò, la si cerca mediante la memoria e la si trova in essa. La circolarità lockiana dipende, in ultima istanza, dal fatto che ricordare non è tanto una prova dell’identità, quanto l’azione di un’identità che si cerca. In definitiva, come vedremo, nel ricordare, il sé entra in relazione con se stesso per mezzo di un atto di memoria. Ciò significa che l’identità umana è implicitamente relazionale.
E proprio perché è relazionale, l’identità può essere intesa in modo dialettico, cioè come relazione fra oggetto e soggetto, fra essere-in-sé ed essere-per-sé. Hegel si propone di pensare dialetticamente la relazione, per giungere alla perfetta uguaglianza fra il soggetto o Spirito assoluto, inizialmente vuoto, e la Storia totale delle sue diverse oggettivazioni. Nonostante la potenza speculativa del filosofo tedesco, il suo tentativo finisce con un colossale insuccesso non solo teoretico (sé e altro anche se pensati non diventano mai oggetti), ma anche pratico, come mostrano le diverse rivoluzioni, le due guerre mondiali, l’Olocausto e la stanchezza come patologia della nostra società. Infatti, l’autocoscienza come coincidenza perfetta di soggetto e oggetto è impossibile, perché per poter giungere all’identità intesa come un in-sé che diventa per-se, si dovrebbe macinare tutto ciò che la coscienza non è in-sé, per cui alla fine del processo dialettico del se stesso e dell’altro non rimarrebbe che un po’ di crusca.
Quindi, neppure la sola coscienza può spiegare l’identità umana. Oltre al corpo e alla coscienza, c’è bisogno di rispettare l’alterità non oggettiva del sé e dell’altro, cioè il loro carattere relazionale. E, come abbiamo visto, questo è stato inizialmente il tentativo della postmodernità. Ne deriva l’odio postmoderno nei confronti del soggetto hegeliano e, in genere, di qualsiasi tipo d’identità. La postmodernità non vorrebbe commettere lo stesso errore della modernità: prendere l’autocoscienza cristallina come unica realtà, perché ciò che apparentemente è perfetta chiarezza, nasconde un abisso di tenebre e sofferenze: i totalitarismi, i campi di concentramento e di sterminio.12 L’identità viene così sostituita dall’alterità: il rispetto dell’altro, accettando la sua diversità, ossia evitando qualsiasi giudizio che lo categorizzi e riduca a oggetto di coscienza. Da questo punto di vista si capisce bene perché la postmodernità conceda molta importanza ai sentimenti e ai desideri, in quanto in essi, più che nella ragione oggettivante, nella volontà di potenza, nelle azioni e nelle relazioni, si manifesterebbero le nostre autentiche differenze. Ecco, quindi, il rifiuto della coscienza razionale che consentirebbe d’identificare e riconoscere l’altro come se stessi: un altro sesso, un’altra razza, un’altra classe sociale, un’altra cultura. Perché, come sostiene Derrida, si tratta di categorie, cioè di istituzioni basate su segni arbitrari e convenzionali, che manifestano una dialettica del potere.13
Certamente, in questo tentativo c’è un paradosso: la diversità per essere accettata non deve apparire come diversità, bensì come uguaglianza; l’uguaglianza, però, esige la comparazione e questa, a sua volta, l’identità: senz’identità non c’è uguaglianza. Tuttavia, questo paradosso è richiesto socialmente e politicamente: infatti, se si parla di diverso come diverso, si finisce per segregarlo ed emarginarlo. Quando il diverso viene invece socialmente considerato uguale, con gli stessi diritti degli altri, si diventa tolleranti. Solo questo può spiegare, ad esempio, i tentativi dei collettivi LGBTQI di cancellare qualsiasi diverso trattamento per quanto riguarda istituzioni sociali come il matrimonio, la famiglia, l’adozione dei bambini, ecc. Questi collettivi sanno bene che finché non si arriverà alla totale uguaglianza di diritti, la loro diversità sarà sempre considerata diversa non uguale e, quindi, sarà causa di nuove discriminazioni.
Ma, come abbiamo visto, se l’alterità finisce per essere semplice uguaglianza, scompare come tale e, di conseguenza, scompare anche la stessa possibilità di avere vere relazioni. Perché, come sostiene Girard, quest’uguaglianza nei diritti tradisce la verità, in quanto si arriva al punto di rendere equivalente ogni tipo di comportamento sessuale, tranne forse quello della pedofilia. E, così facendo, si «abbandona, in fondo, l’idea stessa di verità, poiché in essa si vede solo una fonte dei conflitti. Ma se noi mettiamo la “verità dei persecutori” e la “verità della vittima” allo stesso livello, presto non ci saranno più né verità né differenze per nessuno».14 Ciò si osserva, ad esempio, nel fatto che il collettivo LGBTQI è passato dall’essere vittima della società in ragione delle sue diversità, ad essere il carnefice di istituzioni sociali, quali il matrimonio e la famiglia, che tenta d’imitare, svuotandole di contenuto.
3. Il sé come identità relazionale
Il corpo, la coscienza e l’alterità (un mondo reale, condiviso da altri) costituiscono, dunque, i principali elementi dell’identità umana. Certamente, per affermare ciò, bisogna, da una parte, capire queste tre elementi in modo sistemico e, dall’altra, concepire l’identità relazionalmente.15 Infatti, come accade in tutto ciò che è vivo, gli elementi dell’identità non sono parti di una realtà concepita come un tutto, bensì di una realtà che è presente in essi in modo differente e che, perciò, consente loro di relazionarsi. Ad esempio, nell’animale, l’organismo fisico, la coscienza sensibile e l’ambiente sono relazionati internamente, i primi due perché hanno uno stesso principio o anima che li fa essere, il terzo o ambiente perché è proprio questo stesso principio a rendere possibile l’inserimento dell’animale. Tuttavia, anche se i cambiamenti di uno di questi elementi modificano gli altri, la realtà che permette questi elementi di essere e relazionarsi non cambia. Detto con parole più tecniche: l’essere dell’animale si esaurisce nelle relazioni fra gli elementi, senza poter, a sua volta, giungere alla relazione con se stesso, se non in modo puramente sensibile, come accade quando sente piacere o dolore. Perciò, non si può parlare strettamente d’identità dell’animale, perché il suo essere si esaurisce nelle sue relazioni a livello della sua natura specifica; ne deriva che, nell’animale, i cambiamenti si danno solo a livello specifico, che perciò è sempre riproducibile, ma non a livello del singolo che in quanto tale non è riproducibile, ossia non è ripetibile. Infatti, un animale cambia i suoi accidenti spazio-temporali senza perciò appartenere in senso forte a un luogo o un altro o a un’epoca o un’altra, né condividere un mondo, né avere una biografia.
Nel caso della persona umana, la relazione degli elementi è dovuta alla presenza in essi di una realtà molto particolare: la stessa persona è in questi elementi in modo differente e, perciò, è capace di entrare sia in relazione con loro, sia soprattutto in relazione con se stessa o, ancor meglio, è capace di relazionarsi con se stessa relazionandosi con questi elementi e, nel relazionarsi con se stessa, può cambiare il proprio sé, il che è necessario per diventare se stessa.
Perciò, le differenze della persona nei confronti dell’animale vanno al di là di quelle indicate dalla filosofia classica (intelletto e volontà) e anche di quelle indicate dalla fenomenologia (libertà, mondo e Storia), giacché sono di natura sistemica e identitaria, ossia sono relazionali in senso stretto. Infatti, ogni elemento della struttura dell’umano (corpo, coscienza e alterità) si relaziona in modo differente da quello dell’animale, perché il sé personale relazionandosi con questi elementi, è in grado di relazionarsi con se stesso. Ecco perché, ciò che negli animali sono semplicemente accidenti spazio-temporali, costituiscono nelle persone aspetti essenziali della propria identità, come l’essere figlio, appartenere a una comunità, patire e agire intrecciando relazioni con il mondo e con gli altri. Proprio per questo essi fanno parte di ogni racconto biografico. Nella biografia e anche nell’autobiografia manca però molto spesso la narrazione di questa autorelazione implicita, che come ogni altra relazione umana è sempre trascendente, perché in essa è presente il terzo. Ma nella relazione di sé con se stesso il terzo non solo è esterno, un altro, ma anche interno, l’Altro, che è il fondamento stesso di questa relazione.
Non è questa la sede per esaminare da vicino la metafisica soggiacente a questa visione relazionale dell’identità umana. Per il momento basta indicare che autori di epoche e di tradizioni filosofiche differenti si sono riferite ad essa quando hanno proposto una costituzione metafisica particolare per la persona umana. Così, san Tommaso parla della persona umana come orizzonte e confine fra le creature spirituali e corporali, perché dotata di un’anima spirituale; infatti, anche se come le altre anime o principi vitali è forma del corpo, l’anima umana possiede per sé un essere spirituale che comunica al corpo, per cui può realizzare operazioni che trascendono la materia ed è capace di sopravvivere alla morte del corpo.16 Anche Kierkegaard parla della specificità della persona umana, in quanto essere spirituale. Ma per lui la spiritualità non ha a che vedere con l’anima o principio vitale, bensì con la riflessività dell’Io.17 In quanto spirito, l’Io si relaziona con se stesso mettendosi in relazione con l’alterità; tuttavia, l’Io non è relazione, ma piuttosto è lo stesso relazionarsi.
Un tale rapporto che si rapporta a se stesso, un io, o deve essere posto da sé o deve essere stato posto da un altro. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero.18
Infine, Leonardo Polo, un autore spagnolo scomparso qualche anno fa, in una sintesi personale di filosofia classica e moderna, propone di applicare alla persona la distinzione tomista atto di essere-essenza, in modo da poter distinguere l’essere personale, che sarebbe trascendentale, dall’essere dell’Universo, che sarebbe immanente.19 Infatti, mentre nell’Universo esisterebbe solo la natura e non ci sarebbe alcuna novità (tutto può essere ricondotto alle quattro cause aristoteliche), nella persona ci sarebbe, oltre alla natura, l’essenza, la determinazione che l’uomo fa della natura mediante l’agire e gli abiti. Perciò, mentre l’universo sarebbe votato necessariamente ad un unico fine, ogni persona avrebbe la possibilità di destinarsi al proprio fine, mediante il dono di sé.20
Penso che in tutti questi autori ci siano idee che ci permettono di capire alcuni aspetti dell’identità umana come l’anima spirituale, la riflessività del sé o il disporre della propria natura mediante gli abiti. Manca però una comprensione dell’identità umana in termini di relazione con se stessi mediante le relazioni con il proprio corpo, la propria psiche e l’alterità. Come vedremo, la comprensione dell’identità umana in senso relazionale è fondamentale da tre punti di vista: 1) dal dinamismo dell’identità, poiché l’identità si modifica nella relazione con questi elementi, identificandosi e differenziandosi; 2) dalla relazione intrinseca fra la propria identità e l’identità degli altri; 3) dall’integrazione dell’identità, ossia dalla relazione del sé con se stesso.
Anche se nella realtà è impossibile separare il dinamismo dell’identità dalla sua relazionalità in atto e dalla sua integrazione o disintegrazione, per motivi di studio analizzerò questi tre aspetti separatamente. Poiché essi servono per distinguere due tipi di identità o sé: uno germinale, costituito dal dinamismo che porta a una relazione spontanea del sé con se stesso, e un altro integrato o disintegrato, a seconda della buona o cattiva relazione con gli altri e, attraverso di loro, con se stesso. Questa distinzione potrebbe sembrare uguale a quella che Ricoeur stabilisce fra idem (il medesimo), ossia la sostanza che non cambia, e ipse (il se stesso), ossia il sé che si mantiene nel cambiamento.21 In realtà non è così, poiché il sé di cui parlo, anche quando non è attualizzato dalle relazioni (idem), possiede sempre un dinamismo relazionale, in virtù del quale relazionandosi con l’altro si relaziona sempre con se stesso; quindi, anche se il sé non è relazione, ha sempre internamente una disposizione alla relazione con l’alterità e, attraverso di essa, con se stesso. Prima, a livello solo di dinamismo spontaneo (idem), più tardi a livello anche riflessivo (ipse). Non è, dunque, possibile distinguere nell’identità umana un idem, che sarebbe immutabile, da un ipse che si modificherebbe attraverso le esperienze storiche e biografiche, poiché il sé spontaneo ha un dinamismo che lo porta alle relazioni in atto con l’alterità e con se stesso, e in questo modo si modifica l’origine stessa di questo dinamismo. Perciò, penso che nella distinzione fatta da Ricoeur fra idem e ipse ci sia ancora un forte debito nei confronti di Kant, che distingue un Io empirico, mutevole, da un Io trascendentale, immutabile, anche se nell’idem del filosofo francese c’è un cambio delle categorie: l’immutabilità dell’idem è necessaria non perché è trascendentale, bensì perché dipende da ciò che si è ricevuto con la nascita. Insomma, la necessità dell’idem di Ricoeur è un fatto: ciò che si è ricevuto non si può non aver ricevuto.
Cerchiamo di vedere adesso come si passa da questo dinamismo relazionale del sé alla sua attualizzazione.
4. Il dinamismo relazionale: il sé in relazione con il corpo, la coscienza e l’alterità
Il sé tende sempre alla relazione con se stesso, ma ciò solo è possibile relazionandosi con ciò che lo costituisce: corpo, coscienza, alterità.
a) Il sé in relazione al corpo
La prima relazione del sé è con il proprio corpo, che porta sempre la traccia incancellabile dell’alterità. Perciò, nel corpo umano si dà un paradosso, giacché esso è mio perché è sempre di un altro. Che cosa significa tutto ciò? Il mio corpo è di un altro riguardo al corpo dei mei genitori, giacché, a differenza degli animali, che hanno sempre il corpo di un individuo della specie, il mio corpo, benché appartenga alla specie homo sapiens, è personale, cioè è mio. Perciò posso affermare che, proprio perché è di un altro, il corpo è mio.
Questo paradosso spiega anche che il corpo abbia riguardo al sé una serie di rapporti molto complessi. Non solo il sé nella sua relazione con il proprio corpo sperimenta di essere corpo, di averlo, in quanto ne dispone come dispone delle sue facoltà, (la memoria, l’immaginazione, il pensiero, la volizione) o anche degli strumenti, ma addirittura di stare nel corpo, in quanto il corpo esprime il sé simbolicamente, facendo riferimento a un oltre, a una trascendenza, come si osserva nei sentimenti, nel pianto, nel riso, nell’unione coniugale e anche nella morte. Insomma, il sé è corpo, ha corpo e sta nel corpo.
D’altro canto, nel parlare dell’esperienza del sé scopriamo che questa triplice relazione è mediata dalla coscienza. Infatti, il corpo fa riferimento al sé sia direttamente in quanto vivo, sia indirettamente, attraverso la coscienza, in quanto senziente e spiritualizzato. Ciò permette che il corpo sia vissuto, mosso volontariamente, capito, immaginato (non sempre in modo adeguato, come quando immaginiamo di essere più grossi o magri del reale), simbolizzato e adoperato nell’agire. Ma la relazione del sé con il corpo è anche mediata dall’alterità, in quanto attraverso di essa il corpo di un altro è generato, curato, vestito, nutrito, interpretato nei suoi bisogni ed emozioni, accudito e, soprattutto, amato.
b) Il sé in relazione alla coscienza
Il sé ha anche con la coscienza una relazione spontanea, in quanto sperimenta l’esistenza della coscienza, ossia è conscio, e sperimenta anche la sua esistenza, poiché, da una parte, si conosce come soggetto attivo o passivo mediante la coscienza (è conscio di sé) e, dall’altra, si riflette in essa, in quanto conosce di conoscersi. Tutto ciò può portare a pensare non solo di avere coscienza o di rispecchiarsi e riflettersi nella coscienza, ma anche di essere coscienza, cioè d’identificarsi con essa completamente, come se il sé fosse pura coscienza. Così, come abbiamo visto, si può arrivare a pensare che il sé non è altro che coscienza o, ancora meglio, il sé è pura coscienza di sé. Forse ciò è dovuto al fatto che il sé tende sempre alla relazione con se stesso ed è proprio nella coscienza dove questa caratteristica del sé si manifesta più chiaramente. Da questo punto di vista, è nella relazione del sé con la coscienza, ancora di più che con il corpo, dove si scopre il dinamismo originale del sé alla relazione con se stesso. Così, la riflessività originaria, propria dell’affettività appare in questo modo non solo come un tipo di coscienza, ma come la presenza immediata di sé dal punto di vista della coscienza;22 ad esempio, la paura, ossia il sentir-si in una situazione pericolosa implica la presenza di sé a se stesso, sebbene essa sia normalmente mediata da un oggetto.
D’altro canto, il sé si relaziona con la coscienza mediante gli altri e le loro coscienze in una pluralità di modi: identificazione e differenziazione, re-identificazione, riconoscimento, appropriazione, pentimento, perdono, promessa. Questi modi sono sempre coscienza di sé a partire dal corpo e da un mondo condiviso da altri. Insomma, quando parliamo della relazione del sé con la coscienza, si deve tener conto della relazione del sé con l’alterità (il mondo e gli altri), che è sempre presente in ciò che si sente, si desidera, si pensa, si ama.
c) Il sé in relazione all’altro
Dall’altro lato, la riflessività del sé è legata all’alterità sia attraverso il corpo (altri corpi, specialmente quelli personali) sia attraverso la coscienza (il mondo e le altre coscienze). Infatti, il sé entra in rapporto con se stesso relazionandosi con gli altri e con il mondo condiviso. Anche qui – come si vedrà – si dà un paradosso, perché l’attualizzazione della relazione con sé è possibile solo attraverso l’altro. Detto altrimenti, il sé per diventare se stesso ha bisogno della relazione con altri sé. Tutto ciò ci fa capire che l’identità, oltre a dipendere in primo luogo dal dinamismo che porta alle relazioni, dipende soprattutto dalla relazione con gli altri e con le loro differenze. L’identità del sé non è, quindi, quella di essere lo stesso, rimanendo sempre uguale senza alcun tipo di cambiamento. Questa è una falsa visione dell’identità, che neppure può essere applicata agli altri essere viventi, se non quando li si pensa in modo astratto (neppure la specie ha tale identità, come mostra l’evoluzione). Si tratta, piuttosto, di un’identità in cambiamento e, nel caso della persona, di un sé che si modifica mediante le sue relazioni, specialmente con se stesso, perché dotato di essere spirituale.
Quindi, la relazione con il corpo, la coscienza, e l’alterità – con i loro cambiamenti –, lungi dall’essere un ostacolo all’identità umana, costituisce la sua stessa condizione di possibilità. Senza cambiamento (corporeo, psichico e spirituale) non ci sarebbe relazionalità con il sé e senza questa relazionalità non ci sarebbe se stesso. Così, il tempo, che ci cambia fisicamente, psichicamente e relazionalmente, permette al sé di autorelazionarsi, e di diventare se stesso. Il sé non è, quindi, la sostanza classica astratta dai suoi accidenti, in particolare dalla relazione, né il soggetto moderno o sostanzializzazione della coscienza, ma è lo spirito che, nel relazionarsi al corpo, alla psiche e all’alterità, si relaziona con se stesso, esprimendosi e comunicandosi nella maniera di relazionarsi con loro. Tuttavia, il cambiamento può trasformarsi in un ostacolo all’identità, quando è vissuto dal sé in modo da impedire la relazione con se stessi e con gli altri (come accade con i cambiamenti che sono solo subiti dal sé, ma non vissuti personalmente, accettati, rifiutati, elaborati, ecc.) o quando la relazione con se stessi è inappropriata, tale cioè da non permettere di diventare se stessi, come nell’ipocrisia, nell’inautenticità, nella disintegrazione del sé e, soprattutto, nella disperazione.
Si può, quindi, affermare che il se stesso dipende dalle relazioni che il sé ha con il corpo, la coscienza e l’alterità. E ciò equivale a sostenere che l’identità umana è in fieri in queste relazioni: non solo perché ci sono cambiamenti fisici, psichici e sociali che devono essere integrati dal sé e nel sé, ma anche perché l’identità dipende dalle relazioni che il sé e l’altro costruiscono facendo uso delle loro rispettive libertà. Tutte queste relazioni sono necessarie perché il sé si autorelazioni attualmente, diventando se stesso. Quindi, l’identità umana è un sé che è in relazione con se stesso come se fosse un altro. Certamente, a differenza del soi-même comme un autre di Ricoeur, quest’altro di cui parlo non è una parte del sé, ma è lo stesso sé che diviene.23 Come è possibile affermare ciò senza cadere in contraddizione? Come si vedrà, pensando il se stesso non come un’identità già raggiunta, ma come identità da raggiungere.
5. Sé come altro e altro come sé: beni e mali relazionali
Abbiamo già visto che l’alterità non è solo strutturale (mondo e altri) né solo costitutiva della relazionalità del sé (se stesso come altro), ma soprattutto della stessa relazionalità delle sue relazioni. Perciò, bisogna adesso esaminare la relazione con l’alterità più affine al sé, che nel contempo è più altra, la relazione cioè con l’altro sé.
Come accade nella relazione del sé con il corpo e con la coscienza, nella relazione con l’altro il sé si relaziona anche con se stesso. Tuttavia, come si vedrà, la relazione con l’altro ha un ruolo ancora più importante nel sé, poiché da essa dipendono i beni e i mali relazionali. E ciò è dovuto, soprattutto, al fatto che proprio nella relazione con l’altro il sé ha la sua origine e il suo destino.
Allo scopo di individuare questi beni e mali relazionali, bisogna esaminare i tipi di relazione che intercorrono fra il sé e l’altro. Il punto di partenza di ogni relazione è quello che in un’altra sede ho chiamato asimmetria originaria,24 in virtù di cui l’altro rispetta, riconosce e si dona al sé prima che questi lo possa riconoscere. Questa prima relazione fa nascere anche l’obbligo che il sé ha nei confronti dell’altro, poiché l’altro è sempre un sé che per essere se stesso ha bisogno di riconoscimento e, perciò, è chiamato anche a riconoscere, a riconoscersi riconoscendo. Qui scopriamo un aspetto del sé che fino ad ora era stato solo accennato: la sua riflessività, che è già implicita nella relazionalità del sé. In virtù di questa riflessività relazionale, il sé si appropria del rispetto, del riconoscimento e della stima dell’altro e, nel farli propri – ossia nel rispettarsi, riconoscersi e stimarsi –, li fa diventare anche elementi centrali della sua relazione con gli altri sé. Così, quando il sé si riconosce sta riconoscendo anche il sé degli altri. In un certo senso, si può affermare che in ognuna di queste relazioni il sé s’identifica con l’altro, e identificandosi con l’altro si identifica con se stesso.
Su questa relazione originaria asimmetrica si dovrebbero costruire tutte le altre relazioni fra il sé e l’altro. Ed ecco perché, ognuna di queste relazioni dovrebbe dare luogo ai beni relazionali: fiducia, compassione, servizio, amicizia. Ciò nonostante, non sempre accade così. Anzi, spesso, invece di beni scaturiscono dei mali. Per quale motivo succede questo? Perché le relazioni perdono l’asimmetria originaria. Vediamolo in dettaglio.
Dal punto di vista della relazione con l’altro, i principali beni relazionali sono, oltre al rispetto e la cura dell’altro e di sé, i tre seguenti: l’identificazione (e differenziazione), il riconoscimento e l’appropriazione. Qui, identificazione ha un significato diverso a quello finora adoperato, poiché non si tratta del fatto che il sé si relazioni con se stesso mediante la relazione con il corpo e la coscienza, bensì che il sé diventi se stesso o meno mediante la relazione con un altro. Senza dubbio, questo è, come sostiene Donati, un enigma, l’enigma appunto della relazione.25 Infatti, identificarsi con l’altro significa che nella misura in cui il sé diviene un altro, il sé diventa se stesso secundum quid, a seconda cioè dell’altro che diviene (eroe o villano). Ma come si può diventare un altro senza smettere di essere se stessi? Ciò è possibile mediante l’imitazione di ciò che possiamo imitare dell’altro, ossia del suo desiderio. Ed è proprio in questo punto – l’imitazione del desiderio – che i beni relazionali possono trasformarsi in mali.
Infatti, secondo Girard, l’imitazione del desiderio di un altro è uno degli elementi costitutivi della coscienza umana, la quale tende sempre alla compiutezza del sé come se stesso che (si) riconosce e ama in quanto amato e riconosciuto, ossia tende alla felicità. Perciò, di fronte alla coscienza animale che media tra i suoi istinti e l’ambiente, quella umana è mediatrice non solo fra le tendenze e il mondo, ma anche fra le persone: tra sé e l’altro. La persona, quindi, che, oltre ai bisogni da soddisfare, ha desiderio di pienezza, crede di scoprire nell’altro la perfezione che le manca. Ma siccome, a differenza dei bisogni, il desiderio non ha inizialmente oggetti, il sé che desidera tende non verso un determinato oggetto, bensì verso il desiderio di un altro che così si trasforma in modello. Ciò appare chiaramente nella pubblicità: il prodotto non è desiderato per le sue caratteristiche oggettive, comuni o similari a tutti gli altri prodotti, ma per le sue caratteristiche aggiunte, come la perfezione sportiva, estetica, culturale o sociale dei modelli che lo usano. Acquisire quel prodotto ci rende in qualche modo partecipi dell’identità del modello: della sua forza, bellezza, conoscenza, classe, e, soprattutto, del suo essere compiuto, ossia della sua apparente felicità. Il desiderio del desiderio dell’altro può dare, però, luogo all’invidia, cioè alla simmetria; ciò accade soprattutto quando il modello o mediatore è prossimo al sé (Girard parla allora di mediazione interna)26 e tutti e due vorrebbero avere per sé l’oggetto desiderato. E dall’invidia si può passare all’ira e alla violenza, che non conosce pacificazione, poiché il modello dà luogo a un contraddittorio doppio legame con il sé: lo incita a desiderare l’oggetto e, nello stesso tempo, glielo impedisce, poiché lo vuole solo per sé. L’imitazione potrebbe, così, spiegare alcune mode culturali e sociali attuali, come la teoria di genere, il transumanesimo o la realtà virtuale. Infatti, il desiderio di superare la natura umana, la sessualità o la realtà come la conosciamo oggi, nascerebbe da questo desiderio infinito, che perciò considera infinito il modello o mediatore (i modelli di realtà, di umano, di genere che si presenta) o, almeno, mai finito o compiuto. La ripetizione dello stesso desiderio con piccole varianti o la ricerca di un oltre sempre irraggiungibile sarebbero il motore di queste trasformazioni. Ma, poiché si tratta sempre di qualcosa d’incompiuto, alla fine rimane solo la delusione e la nostalgia dell’Infinito.
Tuttavia, l’identificazione, oltre a questi sentimenti ambivalenti di amore/odio fra imitatore e modello, può produrre dei beni relazionali, come accade spesso con l’imitazione delle figure parentali, amicali, pedagogiche, religiose, ecc. Il sé, infatti, che si trova sempre in un contesto relazionale – famiglia, gruppo di amici, comunità civile e religiosa –, imita i diversi modelli dei gruppi cui appartiene, identificandosi con loro. Quando in questa imitazione si mantiene l’asimmetria originaria, il sé non si trasforma in un rivale del padre/madre, amico/amica, docente/discepolo, governante/suddito, perché mantiene la sua differenza e, in questo modo, può diventare se stesso: figlio/figlia, marito/moglie, padre/madre, docente/discepolo, governante/suddito.27
L’identificazione del sé con l’altro produce allora dei beni relazionali, come l’appartenenza e la riflessività relazionale che, a loro volta, danno luogo ad altri beni. L’appartenenza, infatti, è origine di una serie di beni relazionali, come il rispetto, la cura e la dedizione. E attraverso di essi si sviluppa l’identità. Infatti, poiché la relazione fra sé e l’altro appare dotata di valore per il sé, il sé si responsabilizza di queste relazioni (filiale, paterna/materna, sponsale, amicale), che diventano così oggetto delle sue premure. Queste relazioni influiscono profondamente sul sé, non solo perché sono oggetto delle sue premure e della sua riflessività relazionale, ma soprattutto perché attraverso di esse il sé diventa più importante ai propri occhi.28 Quindi, il bene relazionale – a differenza dell’atto buono – non dipende mai solo dal sé o dall’altro, ma dalla relazione di asimmetria reciproca riguardo all’altro. Tutto ciò è particolarmente evidente nell’identità sessuata o – come l’ho chiamata in un’altra sede – condizione sessuata.29 Infatti, l’identità del sé come uomo o donna corrisponde al suo modo di esistere nel mondo, ossia alla sua appartenenza all’umano. Essa, però, non è solo data con la generazione ma richiede anche l’appropriazione, cosa che è possibile mediante l’imitazione di modelli adeguati incominciando da quello materno e paterno, da quello di figlio e figlia, di marito e moglie. L’identificazione adeguata porta con sé sia la relazione asimmetrica con il modello sia la differenziazione dall’altra condizione, sia i beni relazionali, come il matrimonio e la famiglia, sia infine la riflessività relazionale, che porta il sé a far diventare queste relazioni oggetto delle sue premure e, così facendo, la sua stessa condizione sessuata diventa importante.
Filiazione, paternità/maternità, fraternità, amicizia, cameratismo, cittadinanza, ecc. sono, dunque, relazioni importanti per l’identità del sé, poiché consentono di relazionarsi con se stessi come figlio, padre/madre, fratello/sorella, amico/amica, collega, cittadino e, così facendo, di diventare tali. Certo, non tutte queste relazioni si trovano allo stesso livello: alcune di loro, come la filiazione costituiscono l’origine dell’identità personale; altre, come la paternità/maternità, sono basilari per lo sviluppo e la maturità psichica e spirituale del sé; altre, infine, come la cittadinanza o il cameratismo, sono decisive per i processi di socializzazione, e altre ancora, come l’amicizia, per la personalizzazione. Ciò che importa, però, non è solo la relazione, ma soprattutto la sua qualità, perché da essa deriva l’influsso positivo o negativo per diventare se stesso.
La qualità della relazione dipende anche dalla sua stessa struttura antropologica, costituita da dipendenza-autopossesso-donazione. Anche se alcune delle relazioni precedenti sottolineano più o meno uno di questi elementi (almeno in determinati periodi): ad esempio, la filiazione del bambino sottolinea la dipendenza; la paternità/maternità, invece, l’autopossesso e la donazione. Per giungere a relazioni mature, capaci di produrre beni relazionali, c’è bisogno dell’equilibrio fra questi tre aspetti: ad esempio, una buona paternità/maternità consente al figlio di essere in grado di autopossedersi e donarsi agli altri, incominciando con i propri genitori. Perciò, quando la relazione fa del sé un soggetto solo dipendente, solo indipendente o solo donante, la relazionalità non è matura e sarà causa, perciò, di mali relazionali. D’altro canto, poiché corrisponde all’identità relazionale del sé, questa struttura può riguardare sia le relazioni del sé con il corpo, la coscienza e alterità, sia la relazione di sé con gli altri. Per quanto riguarda le relazioni del sé con il corpo, il sé dipende dal corpo, ossia è corpo, è indipendente, ovvero lo possiede, e può donarsi attraverso il corpo. Per quanto riguarda la coscienza, il sé dipende dalla sua coscienza per l’identificazione e il riconoscimento, possiede la coscienza in quanto la usa per relazionarsi con essa e con se stesso, e si dona in quanto si appropria di sé relazionandosi con se stesso con sincerità. Per quanto riguarda la relazione con gli altri sé, la dipendenza da altri è al servizio del proprio autopossesso e questo, a sua volta, al servizio della donazione e questa, infine, al servizio della dipendenza dagli altri, cioè di coloro che, poiché sono dipendenti, hanno bisogno del sé. Nonostante si possa applicare la struttura relazionale alle relazioni strutturali del sé con il corpo e la coscienza o a quelle fra sé e altro, c’è una differenza fondamentale, in quanto l’altro – come il sé – non può essere usato né posseduto a differenza del corpo; inoltre, l’altro, a differenza anche del sé, può essere fine della propria donazione, giacché nessuno può dare se stesso a se stesso, neppure quando cerca di farlo, come nei matrimoni fasulli di uno/una con se stesso.
Insomma, l’identità personale non deriva solo dalla crescita fisica, dalla formazione intellettuale, dalla cultura o dalle esperienze avute, ma soprattutto dalle buone relazioni, perché l’identità del sé – come abbiamo visto – equivale sempre a identificarsi con un altro; perciò, l’innamorato, ad esempio, s’identifica con l’amata, come amato da essa; e, attraverso l’amore dell’amata, impara ad amarsi bene amandola. In altre parole, impariamo dagli altri identificandoci con loro, i quali a loro volta s’identificano con noi. Inoltre, nell’identificazione del sé con l’altro, che è anche in relazione con se stesso, c’è uno scambio di identificazione, riconoscimento e appropriazione. Perciò, gli atteggiamenti che abbiamo nei confronti di noi stessi sono riflessi sugli altri e quelli degli altri si riflettono su noi stessi. Ciò spiega il fenomeno dell’autostima come riflesso della stima che gli altri hanno di noi e viceversa: la stima che noi abbiamo degli altri come riflesso della propria stima. Quindi, l’identificazione non porta necessariamente alla mimesi violenta di cui parla Girard, ma soprattutto a poter imparare dagli altri, dal loro rispetto, riconoscimento e amore. In breve, l’identità dell’altro, come anche quella del proprio sé, non è questione solo di conoscenza, bensì di riconoscimento, cioè di identificare l’altro come sé identificandoci con lui, permettendogli così d’identificarsi con noi, come un altro.30 Quindi, non solo la nostra corporeità dipende dalle relazioni con l’altro ma anche la coscienza del proprio sé. Ne deriva, che l’altro è sia immanente sia trascendente al sé. L’altro si trova al di là del proprio corpo e della propria coscienza relazionandosi però con essi e per mezzo di loro con il sé come un altro.
6. L’integrazione o disintegrazione del sé nelle relazioni
Arriviamo così al nucleo dell’identità umana: un sé che può e, perciò, deve essere se stesso. C’è, quindi, un aspetto normativo nell’identità umana: si tratta del dovere di essere se stessi. Questo dovere presenta due facce che si completano a vicenda: da una parte, obbliga il sé a identificarsi, riconoscersi e appropriarsi per diventare se stesso; dall’altra, lo lascia libero di farlo o meno. Detto in altre parole, il se stesso è solo una possibilità, anche se necessaria perché il sé si perfezioni, poiché il sé deve relazionarsi con se stesso, ossia sentirsi responsabile, prendersi cura di se stesso.
Ecco, dunque, che l’identificazione e il riconoscimento del sé non consiste nel ri-conoscersi o ri-oggettivarsi (il se stesso non è lo specchio dove si riflette il sé), bensì nel sentirsi coinvolto in tutte le sue relazioni, soprattutto in quelle con gli altri che più influiscono sulla propria identità.31 Tuttavia, anche se il sé può identificarsi e riconoscersi in modo coinvolgente e responsabile, ciò non significa ancora appropriarsi del proprio sé. Infatti, il sé non è solo ciò che si è e viene riconosciuto in quanto tale, ma richiede anche un processo di appropriazione. In questo senso, le teorie di genere, anche le più estreme, come quella queer, anche se non sono poi coerenti con la loro scoperta, mettono in rilievo un aspetto importante dell’identità umana: il sé non è pura identificazione e riconoscimento di ciò che si è, ma anche appropriazione progressiva di sé. Quando non si dà quest’appropriazione, allora ci può essere un dominio tirannico di sé su se stesso, che porta ad autocontrollarsi, autonegarsi, autoschiavizzarsi, autodistruggersi.32 Infatti, diversamente dagli animali, l’uomo e la donna per diventare se stessi devono riconoscere, identificarsi e appropriarsi della propria condizione sessuata. Ciò non significa, però, che l’identificazione, riconoscimento e appropriazione siano arbitrarie, una pura costruzione sociale o la performazione di determinate azioni e pratiche con cui si elabora volta per volta la propria sessualità.
Poiché l’identità, anche quando riguarda il corpo e la coscienza, è costituita dall’autorelazione, l’appropriazione di sé implica un doppio movimento: verso il passato, riconoscendo, accettando o rifiutando le differenti identificazioni, e verso il futuro, scoprendo possibilità e forgiando progetti. L’appropriazione di sé spiega perché si può parlare sia di possibilità sia di dovere; concretamente, del dovere di prendersi cura di sé come realtà che ci interessa, impegna e, a volte, preoccupa, perché ne siamo responsabili.33 Quando non si distingue fra possibilità e dovere si cade in uno di questi paradossi: le possibilità sono concepite in opposizione al dovere e, quindi, sono neutralizzate antropologicamente ed eticamente nella loro stessa radice, come nelle teorie di gender (ogni gender è ugualmente appropriato perché sarebbe una possibilità del sé), oppure vengono considerate come l’unico dovere esistente, come nel transumanesimo, in cui ciò che si può fare si deve fare per evitare un regresso all’infinito; infatti, poiché ogni possibilità ci schiude l’infinita trasformazione dell’umano e del mondo, non realizzarla equivarrebbe a regredire infinitamente. D’altra parte, questo dovere e queste possibilità non dipendono solo dalla relazione originaria del sé con se stesso, ma soprattutto da quella che proviene dalle sue relazioni con il corpo, la coscienza e l’alterità. E, viceversa, il se stesso non è relazione vuota, ma esiste nelle relazioni con cui si relaziona. La relazione del sé con il proprio corpo, la coscienza e l’alterità è, perciò, nel contempo necessaria e libera. Da una parte, la corporeità è in qualche misura a disposizione del sé (il sé ha corpo); dall’altra, la corporeità è la condizione di possibilità del sé, della stessa relazione cioè del sé con se stesso. Questa relazionalità spiega che nello stesso tempo in cui il sé manifesta e attualizza il suo potere sul corpo, dipenda dalla sua corporeità e, di conseguenza, dalla sua coscienza e dall’alterità per poter farlo. Infatti, anche se è vero che la corporeità umana richiede sempre l’uso della libertà, inizialmente non è quella del sé, ma quella dell’altro: genitori, parenti, educatori, ecc.
D’altra parte, i cambiamenti nel corpo, nella coscienza, nell’alterità e nelle relazioni del sé, implicano che l’identità personale oltre ad essere dinamica, esiga l’accettazione da parte del sé di questi cambiamenti, ossia richieda la relazione del sé con se stesso. Perciò i cambiamenti propri del corpo umano, oltre ad essere naturali, sono culturali, come mostrano a volte in modo degenere il transumanesimo o il transessualismo. Ciò, però, di cui questi movimenti culturali non tengono conto è il fatto che tanto il cambiamento naturale come quello culturale non dipendono solo dall’evoluzione dell’umano, ma soprattutto dal carattere relazionale dell’identità umana. La considerazione del proprio corpo come qualcosa di imperfetto o non voluto, che può e deve essere cambiato o migliorato dipende, in ultima analisi, dalla relazione del sé con se stesso. Quindi tra corpo e sé non esiste opposizione, neppure quando si tenta di trascenderlo mediante l’ibridazione con le macchine e gli animali o lo si cambia imitando il corpo dell’altro sesso. E poiché il corpo è sempre di qualcuno (in relazione originaria con un sé, che si relaziona con se stesso), non potrà mai perdere la sua relazionalità. Qualcosa di simile può affermarsi dell’appropriazione della coscienza: la presenza relazionale del sé in ogni fenomeno di coscienza permette di accettare la coscienza come coscienza di sé. Certamente, è possibile rifiutare l’identificazione e l’appropriazione di quella coscienza come mia; ciò però porta con sé una serie di patologie psichiche, come la schizofrenia o la psicosi.
Insomma, parlare di dovere implica parlare non solo di necessità, ma anche di possibilità e, poiché le possibilità riguardano la relazione del sé con se stesso, significa anche parlare di possibilità positive o negative che dipendono dal dovere di essere se stessi. Se le possibilità positive sono l’autenticità, il pentimento, il perdono, la fiducia e la promessa, le possibilità negative sono l’ipocrisia, la cristallizzazione della relazione nel male (impenitenza e vendetta), il tradimento e la disperazione. In linee generali si può affermare che la disintegrazione del sé dipende dalla mancanza di appropriazione delle azioni che vogliamo realizzare o che abbiamo già realizzato o, ancor meglio, dal rifiuto più o meno conscio di essere noi stessi il soggetto di quegli atti e relazioni, ma anche dal non mantenere la fiducia in noi stessi e negli altri arrivando a rifiutare la stessa possibilità di essere se stessi. La dimensione normativa dell’identità si riferisce, quindi, non solo al sé che deve essere e ancora non è, ma anche al sé che non dovrebbe esserci e forse c’è.
Se il sé è un dover essere, cioè se fra il sé attuale e quello che si deve essere c’è un divario, allora non solo la possibilità è necessaria, ma anche lo stesso cambiamento. Non si tratta, però, di un cambiamento qualsiasi, bensì di uno che è intimamente in relazione con la nostra identità: quel se stesso che si deve essere. Perciò, la differenza fondamentale fra i cambiamenti non dipende tanto dal tipo di cambiamento, quanto dal modo in cui in essi il sé si relaziona con se stesso tramite loro; in altre parole, ciò che conta per la propria identità è la relazione fra il cambiamento e il sé che cambia. Qui si scoprono, a mio parere, i due errori più comuni nell’affrontare la questione dell’identità: la concezione dell’identità integralista, come cioè qualcosa d’immutabile, e quella costruttivista, poiché ognuna è la negazione dialettica dell’altra. Come stiamo vedendo, l’identità umana non è immutabile né un puro costrutto sociale, culturale o affettivo, ma un’identità che è capace di cambiare mantenendosi la stessa, perché nel cambiamento il sé può relazionarsi con se stesso. Bisogna, però, sottolineare l’aggettivo capace, per capire come il successo o l’insuccesso di arrivare ad essere se stessi non dipenda dal cambiamento né sia mai dato una volta per tutte.
È possibile, perciò, che nonostante i cambiamenti il sé non diventi se stesso: non sia in grado di identificarsi, riconoscersi e appropriarsi e, quindi, si allontani da se stesso. Ci sono, quindi, modi di gestire i cambiamenti che ci fanno crescere come sé e altri che ci portano alla perdita del sé, fino ad arrivare a ciò che Kierkegaard chiama disperazione.34 Comunque, nei differenti modi di gestire i cambiamenti si manifesta sempre la riflessività del sé.
Per quanto riguarda il tipo di cambiamento, anche se è possibile distinguere quelli fisici, come la crescita, psichici, come l’identificazione e differenziazione dai modelli, e quelli più propriamente relazionali, come la produzione di beni o mali relazionali, in realtà, poiché tutti quanti si riferiscono a un sé che si relaziona con se stesso mediante il cambiamento, fanno riferimento a qualcosa di comune: il limite del sé e, in ultima istanza, la sua finitudine. La crisi ha perciò un ruolo di primo ordine nel diventare se stessi, perché implica la possibilità di oltrepassare i relativi limiti in una crescita del sé senza fine. Da questo punto di vista, le crisi sono una manifestazione spiccata del limite e del modo di affrontarlo. Certamente esse sono diverse a seconda dei limiti del sé che sono coinvolti. In quelle legate alla crescita o invecchiamento fisico, basta l’accettazione di quello che sta accadendo in quanto si tratta di processi necessari, che hanno limiti fissi. Qualcosa di diverso succede con i cambiamenti psichici, a volte legati anche a cambiamenti fisici, ambientali ed esistenziali, in essi c’è la possibilità sia di progresso sia di regressione e, quindi, i limiti sono più flessibili. Ma soprattutto le differenze più grandi si trovano nei cambiamenti più propriamente relazionali, come il pentimento, il perdono, la fiducia e la promessa, in cui la trascendenza del limite è completa. La crisi sembra così avere un significato importante per la relazione del sé con se stesso attraverso il limite.
Bisogna, però, chiedersi quale tipo di significato ultimo ha la crisi dal punto di vista dell’identità. Ci sono due possibili risposte. Quella che la vede come il riequilibrio costante e necessario dell’identità. In questo senso, non ci sarebbe una crescita del sé verso se stesso, ma una continua ristrutturazione del sé senza scopo e senza termine. Penso che questo sia il modello della postmodernità, secondo ciò che Baumann denomina un’identità liquida. Oppure il significato della crisi è quello di permettere che ci sia una nuova tappa nello sviluppo del sé, ossia una maggiore integrazione riguardo alla tappa precedente. A differenza della crescita fisica e dei processi psichici che possono darsi senza la relazione del sé con se stesso, l’integrazione richiede sempre questa relazione: il suo identificarsi, riconoscersi, appropriarsi e donarsi.
D’altro canto, nell’identificazione del sé, che comporta sia il riconoscimento sia l’appropriazione, può darsi una doppia riflessione, da una parte, sulla propria responsabilità nei confronti di sé, dall’altra, sull’immagine che il sé ha di se stesso. Infatti, anche se da una parte l’identificazione conduce all’appropriazione delle azioni realizzate, senza le quali il sé non potrebbe essere se stesso, poiché fuggirebbe da sé separandosi da quelle azioni come se esse non esistessero o fossero di un altro; dall’altra, conduce il sé a giudicarsi solo come il loro agente. Ma, nel far ciò, c’è il rischio di incasellare il proprio sé in modo negativo (bugiardo, ladro, ecc.) o positivo (virtuoso, generoso), impedendogli così di diventare se stesso o producendo in sé l’illusione di esserlo già diventato. E, poiché il sé è sempre in relazione con l’altro, il giudizio di condanna di se stessi – non delle azioni cattive – implica anche quello degli altri. Ciò appare con molta chiarezza, come ho spiegato in un’altra sede, nel fenomeno della colpa, e ancora di più in quello della disperazione, in cui il colpevole cristallizza l’immagine di sé, in modo tale che non si concepisce se non come colpevole e non vede l’altro se non come vittima incapace di perdonare. Ecco perché, il perdono di sé, che dipende sempre da un terzo, è così importante per vincere la tendenza al giudizio definitivo e alla disperazione.35
Qualcosa di simile accade con la promessa. Anche qui c’è identificazione di sé con se stesso lungo il tempo, riconoscimento di sé come soggetto della promessa e appropriazione di sé come promettente o responsabile della promessa. D’altro canto, il soggetto della promessa è qualcuno che ancora non esiste pienamente, poiché solo attraverso la realizzazione di quanto si è promesso può diventare reale. Di qui il rischio di ogni promessa: il se stesso che è dovuto al sé e agli altri poiché, ancora non c’è, può non darsi mai. Mantenere la promessa è, quindi, rimanere lo stesso non come idem (un sé che non cambia), ma come ipse (un sé che si modifica mediante la sua relazione con quanto si è promesso, servendosi di questa relazione per autorelazionarsi veramente, diventando se stesso).
Insomma, l’integrazione richiede oltre ad un’adeguata identificazione, riconoscimento e appropriazione del sé, mettere in pratica l’atteggiamento fondamentale della relazione sia con se stesso sia con gli altri: quello della fiducia, perché il sé e l’altro sono sempre dotati di assoluta dignità.
7. Conclusione
Penso che ogni periodo della Storia della Filosofia abbia messo in luce un aspetto importante dell’identità umana: corpo, coscienza e alterità. Tuttavia, l’identità umana non va cercata né solo nel corpo, nella coscienza o nell’alterità come neppure nella somma di questi elementi, bensì nella relazione fra queste tre dimensioni che permettono la autorelazione del sé. Così, il proprio corpo fa riferimento alla coscienza e all’alterità personali: sia perché il proprio corpo è sempre di un altro e perciò non può essere posseduto come un oggetto, né come un diritto da parte da un altro (non può essere spiegato come corpo dei genitori, anche se geneticamente dipende da loro) bensì conosciuto e rispettato come dono, sia perché fa riferimento ad un’altra persona che lo accetta, rispetta e ama, specialmente ad una di un’altra condizione sessuata (il corpo è per la persona e la persona per il dono di sé mediante il corpo). La coscienza, dal canto suo, fa riferimento sia al corpo sia alle alterità personali; infatti, poiché – grazie al corpo – ha un’origine, una storia e un futuro ed è in un mondo condiviso, il sé può arrivare all’autocoscienza, alla conoscenza e all’amore di sé e dell’altro.
Perciò, il sé ha una struttura antropologica essenziale: dipendenza, autopossesso e donazione, che si riferisce sia alla sua relazione con il corpo, con la coscienza e, soprattutto, con sé e l’altro. Nella relazione con il corpo si manifesta la dipendenza e finitezza del sé (è corpo ed è nel corpo), ma anche il suo autopossesso (ha corpo) e la sua possibilità di donazione (ci diamo agli altri attraverso il corpo, specialmente ad un’altra persona di un’altra condizione sessuata). Nella relazione con la coscienza il sé, a sua volta, si mostra dipendente da altre coscienze che lo accettano, lo rispettano e lo amano, permettendogli così di accettarsi, rispettarsi e amarsi. Infine, nelle relazioni con gli altri, si mostra come la dipendenza del sé è al servizio dell’autopossesso e questo, a sua volta, al servizio del dono di sé agli altri, specialmente di quelli che sono più bisognosi.
Insomma, l’identità umana non è qualcosa di dato, né di costruito, né di realizzato una volta per tutte, ma un divenire se stessi, che conosce momenti di crisi, di crescita e anche di decrescita. Tutto ciò spiega che l’identità umana è personale, ossia relazionale. La relazionalità del sé, oltre a consentirci di comprendere la sua struttura complessa, rivela la sua trascendenza riguardo al tempo: il sé non diventa mai se stesso perché sempre può essere più di quanto già è. Perciò, il divenire del sé non è un processo in senso dialettico, bensì una crescita vitale senza fine, in quanto il fine, nonostante riguardi il sé come un se stesso, oltrepassa il suo divenire. Ne deriva la necessità di distinguere nel sé il suo essere dal suo divenire. In altre parole, il sé è sempre più di quello che è nelle sue relazioni con il corpo, la coscienza e l’alterità, ma anche con se stesso, perché tutte queste relazioni dipendono dalla sua relazionalità essenziale, la quale è fondata da un Sé, che lo destina a Sé.
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1 Sebbene nasca nell’ambito dell’architettura e dell’arte come reazione al modernismo imperante d’inizio del XX secolo, il termine postmoderno si diffonde subito ad altri campi della cultura e del sapere, come la letteratura e la filosofia. La pubblicazione nel 1979 del saggio di Lyotard La condizione postmoderna può considerarsi l’introduzione della categoria socio-storica di postmodernità nel dibatito culturale (cfr. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979). Anche se ci sono diversi tipi di lettura dell’epoca attuale, come quello della dopomodernità di Donati (P. Donati, Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna 2011), in questo saggio ci occupiamo soprattutto di ciò che è stato denominato postmodernità come decadenza, cioè del decostruttivismo, ideologia di genere, transumanesimo, ecc. Per la distinzione fra i due tipi di postmodernità: come decadenza e come resistenza, si veda J. Ballesteros, Postmodernidad: decadencia o resistencia, Tecnos S.A., Madrid 1989.
2 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, 367-368.
3 J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New-York 1990, 7.
4 Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.
5 «Così inteso, il rapporto tra Prometeo e l’aquila è una relazione con il sé, un rapporto di auto-sfruttamento. Il dolore al fegato, di suo incapace di dolore, è la stanchezza. Prometeo viene colto così, come soggetto di auto-sfruttamento, da una stanchezza senza fine. Egli è l’archetipo della società della stanchezza» (B.-C. Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2015, 5).
6 H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin-Zürich16 1972, unveränderte Nachdruck der 6. Auflage, A 102.
7 Aristotele, Sulle parti degli animali, 687a, 7.
8 «Negli animali perfetti, che sono generati dal rapporto sessuale, la virtù attiva, stando a quanto insegna il Filosofo [De gen. animal. 2, cc. 3, 4], risiede nel seme del maschio, mentre dalla femmina è somministrata la materia del feto. Ora, in tale materia vi è subito, fin da principio, l’anima vegetativa, non in atto secondo, ma in atto primo, come l’anima sensitiva in chi dorme. Quando invece essa inizia ad attrarre l’alimento, allora agisce già attualmente. Tale materia dunque subisce una trasmutazione grazie alla virtù racchiusa nel seme del maschio, fino a che non raggiunge l’atto dell’anima sensitiva: non però nel senso che la virtù presente nel seme passi a diventare l’anima sensitiva, poiché in tal caso il generante e il generato verrebbero a essere la stessa cosa, e il processo avrebbe più carattere di nutrizione e di crescita che non di generazione, come osserva il Filosofo [De gen. et corr. 1, 5]. Quando però, in virtù del principio attivo del seme, si è prodotta nel generato l’anima sensitiva quanto a una sua parte principale, allora l’anima sensitiva della prole comincia ad agire in ordine al compimento del proprio corpo, mediante gli atti della nutrizione e dello sviluppo. La virtù attiva del seme poi cessa di esistere una volta che si sia dissolto il seme e sia svanito lo spirito in esso racchiuso. E in questo fatto non vi è nulla di anormale, poiché tale virtù non è un agente principale, ma strumentale, e d’altra parte la mozione dello strumento cessa quando l’effetto è già stato prodotto nell’essere» (S.Th., I, q. 118, a. 1).
9 «Mi accorsi però subito dopo che, mentre in tal modo volevo pensare che tutto fosse falso, occorreva necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualche cosa» [R. Descartes, Discours, AT VI, 32 in G. Belgioioso (a cura di), Opere 1637-1649, Bompiani, Milano 2009, 61]. I. Kant, che ammette che il je pense sia percepito come un io empirico nello spazio e nel tempo, sostiene che tale io sia puramente fenomenico e non debba, in nessun caso, essere confuso con una «cosa in sé», perché si commetterebbe un paralogismo. Secondo Troisfontanes, ciò che divide Cartesio da Kant è il concetto stesso di tempo: per Kant, l’unica temporalità che esiste è empirica, mentre per Cartesio esiste una temporalità del pensiero. [Cfr. C. Troisfontanes, La temporalité de la pensée chez Descartes, «Revue philosophique de Louvain» 87 (1989) 18].
10 «And thus, by this consciousness, he finds himself to be the same self which did such or such an Action some Years since, by which he comes to be happy or miserable now» (J. Locke, An essay concerning human understanding, Oxford University Press, Oxford 2008, 25).
11 Ibidem, 20.
12 A tal proposito è condivisibile la critica di Lyotard all’hegelianismo quando parla del carattere totalitario della ragione nell’idealismo tedesco (si veda Lyotard, La condition postmoderne, 156). Certamente, come sostiene Koslowski, nel muovere questa critica, Lyotard non tiene conto delle opere ultime di Hegel, come le Lezioni di Filosofia della Religione [cfr. P. Koslowski, Die Baustellen der Postmoderne – Wider den Vollendungszwang der Moderne, in P. Koslowski (a cura di), Moderne oder Postmoderne?, VCH, Weinheim 1986, 6].
13 «Se “scrittura” significa iscrizione ed innanzitutto istituzione durevole di un segno, la scrittura in generale ricopre tutto il campo dei segni linguistici. […] L’idea stessa di istituzione – e quindi di arbitrarietà del segno – è impensabile prima della possibilità della scrittura e al di fuori del suo orizzonte. Cioè molto semplicemente fuori dall’orizzonte stesso, fuori dal mondo come spazio di iscrizione, apertura all’emissione e alla distribuzione spaziale dei segni, al gioco regolato delle loro differenze, sia pure “foniche”» (J. Derrida, De la grammatologie, trad. it. G. Dalmasso, S. Facioni (a cura di), Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1967, 50).
14 R. Girard, La route antique des hommes pervers, trad. it. C. Giardino (a cura di), L’antica via degli empi, Adelphi, Milano 1994, 136.
15 Ho tentato di usare questo doppio approccio nel saggio Essere persona. Un’antropologia dell’identità, Armando, Roma 2013.
16 «Perciò si riscontra che il supremo nel genere dei corpi, ossia il corpo umano dalla complessione equilibrata, viene a toccare l’infimo nel genere delle sostanze intellettive, cioè l’anima umana, come si può scoprire dal modo di conoscere intellettualmente. Ecco perché si dice che l’anima intellettiva è come “orizzonte” e “confine” tra gli esseri corporei e incorporei, in quanto è una sostanza incorporea, che però è forma del corpo» (T. D’Aquino, Summa Contra Gentiles., III, c. 112).
17 Anche se in san Tommaso appare la riflessività completa come manifestazione dello spirito, non considera che essa costituisca la sua essenza. Secondo lui, lo spirito in tutte le sue forme è costituito da intelligenza e volontà. Forse l’origine della concezione riflessiva dello spirito si trova nella filosofia moderna, in particolare in Cartesio e Hegel.
18 S. Kierkegaard, Begrebet Angest. En simpel psychologisk-paapegende Overveielse i Retning af det dogmatiske Problem om Arvesynden, trad. it C. Fabro (a cura di), Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1970, 215-216.
19 L. Polo, Antropología trascendental I: la persona humana, Eunsa, Pamplona 1999, 121.
20 Così, mentre il donare corrisponderebbe all’essere personale, il dono farebbe parte dell’essenza personale. La distinzione fra essere ed essenza non è, però, rigida e, perciò, è possibile integrare il dono nel donare trascendentale. «In Dio la struttura donale [dare, accettare, donare] è personale. Nell’uomo i suoi primi due membri sono personali: dare e accettare. D’altra parte, l’amore umano [il dono] non è personale ma essenziale. Ripeto questa osservazione perché aiuta a capire la vera distinzione nell’antropologia, che non è rigida, perché in tal caso l’amore non sarebbe integrato nella struttura donale» (ibidem, II, nt. 150, 173).
21 Ricoeur adotta i due termini idem e ipse per riferirsi a due concetti d’identità. «Che cosa intendo con identità “idem”? È l’identità di qualcosa che resta mentre le apparenze o, come si dice, gli “accidenti”, cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall’antichità, la sostanza. La sostanza è il substrato, il suppositum, il supporto, identico nel senso che è immutabile, che non cambia, che è sottratto al tempo. Questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di un’identità strutturale. Per esempio il nostro codice genetico resta lo stesso, dalla nascita alla morte, come una specie di firma biologica. Abbiamo qui un esempio di “identità idem”: identità di struttura, di funzione, di risultato. L’identità “ipse” invece non implica l’immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, ecc. Faccio subito l’esempio più notevole dell’identità “ipse”; l’identità di me stesso quando mantengo una promessa. La promessa è sotto questo riguardo l’esempio più notevole, perché non abbiamo a che fare, nel caso del soggetto che promette, con una identità sostanziale; al contrario, mantengo la mia promessa nonostante i miei cambiamenti di umore. Questa è un’identità che potremmo chiamare di mantenimento, più che di sussistenza. Io sono e mi conservo lo stesso, nonostante non sia più identico, nonostante sia cambiato nel tempo» (P. Ricoeur, Descrivere, raccontare, prescrivere, Parigi, 20 dicembre 1991, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=308 (Data della consultazione: 14 dicembre 2015).
22 A quanto mi è dato di sapere, il filosofo spagnolo Millán-Puelles è stato il primo a coniare e teorizzare il concetto di coscienza originaria riflessa (A. Millán Puelles, La estructura de la subjetividad, Rialp, Madrid 1967, 272).
23 Cfr. P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Editions du Seuil, Paris 1990.
24 A. Malo, Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, Edusc, Roma 2016, 130-134.
25 A proposito della relazionalità della coscienza, Donati spiega: «come ogni realtà anche la coscienza ha una sostanza relazionale. È una realtà in-relazione. Ma ciò non significa che la relazione “crei” la coscienza, ma solo che le dà una forma storica, la configura in rapporto al contesto culturale e lungo il suo corso di vita» (P. Donati, L’Enigma della relazione, Mimesis, Milano 2015, 39).
26 R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2002, 49.
27 Quando si perde l’asimmetria si produce l’indifferenziazione che conduce alla violenza mimetica, come accade nell’Edipo Re di Sofocle. L’indifferenziazione precede il parricidio e l’incesto, in quanto essi sono solo la conseguenza del rifiuto di Edipo come figlio. Edipo è la vittima di una relazione familiare malata, in cui il figlio, lungi dall’essere apprezzato come dono, è considerato un pericolo per la relazione di coppia.
28 Come Grøn spiega molto bene, «la mia identità è importante per me. Ma la mia identità è di per sé una questione di preoccupazione nel senso che dipende da ciò che è prezioso per me o di ciò di cui sono preoccupato. Decidiamo ciò che conta per noi, ma siamo anche influenzati, o anche definiti, da ciò che conta per noi. Quindi, c’è una differenza fondamentale tra affermare che la nostra identità è ciò che conta per noi e dire che la nostra identità dipende da ciò che conta per noi. In quest’ultimo caso, l’identità è di per sé una questione di ciò che conta per noi» (A. Grøn, Self and identity, in D. Zahavi, T. Grünbaum, J. Parnas (eds.), The Structure and Development of Self-Consciousness. Interdisciplinary perspectives, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia 2004, 146).
29 Cfr. A. Malo, Uomo o donna. Una differenza che conta, Vita & Pensiero, Milano 2017.
30 «L’identità dell’altro è una questione non solo di cognizione, ma di riconoscimento, il che significa non solo di ri-identificare l’altro come lo stesso (autoidentico), ma di riconoscere l’altro come un altro se stesso (autoidentico significherebbe qui che l’altro si identifica in relazione agli altri, incluso me stesso)» (Grøn, Self and identity, 139).
31 «Ma se uno deve diventare se stesso, allora il diventare se stessi implica il fatto di relazionarsi a ciò che si è già, nel modo di riconoscere: prendere in considerazione, assumersi la responsabilità, essere responsabili. E questo presuppone che si abbia già se stessi come un problema. Nel relazionarsi con se stessi, si è già in relazione con se stessi. Questo è sé come auto-relazione» (ibidem, 132).
32 «Che ci rapportiamo a noi stessi come le stesse persone, non è qualcosa che ci capita di essere. Nella situazione in cui ci chiediamo sulla nostra identità è presupposto che siamo le stesse persone. Noi siamo già dei sé quando troviamo che noi stessi siamo le stesse persone. Se, al contrario, il sé è trasformato in un oggetto di percezione, può essere anche oggetto di autocontrollo e di auto-rifacimento. In questo, ancora una volta, si presuppone un sé previo: un sé che prende sé come oggetto di percezione, controllo e rielaborazione» (ibidem, 137).
33 Perciò l’identità non può ridursi a un solo aspetto: corpo, coscienza, relazione con l’altro. L’identità è previa a tutti questi aspetti e anche alle relazioni e alla stessa questione sull’identità, perché è qualcosa di previo, che si trova alla radice dello stesso relazionarsi. In parole di Grøn: «ciò che complica l’approccio è il fatto che il problema dell’identità è già parte dell’essere una persona o un sé. È un problema per uno stesso, è un problema tra noi stessi, ed è un problema su noi stessi. L’identità di un sé è autoidentità» (ibidem, 146).
34 «Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita: l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire. In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire; e sperimentare questo tormento per un solo momento vuol dire sperimentarlo in eterno» (S. Kierkegaard, La malattia mortale, 222).
35 Su questo punto mi permetto di rimandare il lettore al mio saggio Antropologia del perdono, Edusc, Roma 2018, 213-219.