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Ror Studies Series | Storia Religioni Comparazione

Contributi per un dibattito sul metodo della storia delle religioni

Natale Spineto

Università di Torino

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Al fine di dare un contributo alla giornata che la Pontificia Università della Santa Croce ha organizzato intorno ai metodi degli studi religiosi e di fornire materiale utile alla discussione, in questo intervento presenterò alcune criticità che incontra oggi la storia delle religioni e indicherò alcune vie che è possibile percorrere per dare una risposta ai problemi epistemologici messi in luce dal dibattito attuale. Premetto che, trattandosi di argomenti molto complessi e discussi sui quali la letteratura critica è vasta e tenendo conto dell’occasione seminariale nella quale il testo vede la luce, dovrò necessariamente essere assai schematico, sintetico e selettivo.1 Evocherò inoltre tematiche di ordine generale, ascrivibili spesso a più autori, senza entrare nel dettaglio delle diverse posizioni teoriche, proprio per evitare di dovermi confrontare ogni volta con dibattiti articolatissimi che mi obbligherebbero a uno sguardo ravvicinato e renderebbero più difficile conseguire il mio scopo, che è quello di tracciare un quadro d’insieme in poche pagine. Osservo soltanto che nell’impostazione che offro, debitrice della tradizione di studi che ha quale punto di avvio l’opera di Raffaele Pettazzoni, il lettore potrà facilmente riconoscere temi portati avanti dal maestro e dagli esponenti della generazione successiva alla sua (a partire da Ugo Bianchi, Angelo Brelich, Ernesto de Martino), pur nella diversità di prospettive e di scelte metodologiche che ne caratterizzano l’opera.

Per introdurre il discorso enucleo tre caratteristiche fondamentali della storia delle religioni, fra loro concatenate. La principale è che la disciplina ha un oggetto, la religione, cui è necessario attribuire una qualche consistenza dal punto di vista epistemologico. Una seconda caratteristica è che abbiamo a che fare con una disciplina comparativa: il che non significa che lo storico delle religioni debba effettuare sempre confronti tra culture distanti, ma che, quando studia una cultura particolare, lo fa nell’ottica del rapporto dell’umanità con la religione in generale, e dunque tenendo conto delle forme di questo rapporto presenti in altri contesti. La terza è che la storia delle religioni è costitutivamente plurale: nasce, per quanto riguarda la comparazione fra culture vicine, dalla linguistica e, per quella fra culture lontane, dall’antropologia; tiene conto dei risultati di sociologia, etnologia, psicologia, e anche filosofia e teologia. Infine è una disciplina storica – e quindi considera le religioni in prospettiva diacronica e nel quadro dei contesti culturali di appartenenza. La storia costituisce un elemento di controllo rispetto alla pluralità di approcci di cui si diceva.

Questo impianto metodologico è stato, fin dalle origini, oggetto d’innumerevoli discussioni ma, pur nella differenza – e a volte nell’opposizione – delle prospettive che si sono confrontate e susseguite, ha mantenuto una relativa integrità, finché, nell’ultima trentina d’anni, una serie di studi ne ha messo radicalmente in questione i fondamenti, sulla base di considerazioni che affondano le loro radici in un dibattito culturale risalente alla metà degli anni ’60 ma che, nel caso in questione, ha fatto sentire più tardi i suoi effetti.

In estrema sintesi, si può dire che la prima criticità nasca dall’osservazione che non ci troviamo di fronte a un metodo ma a una pluralità di metodi che si affrontano. Negli ultimi anni questi si sono polverizzati, in un moltiplicarsi degli approcci che non ha riguardato soltanto la storia delle religioni, ma anche le discipline delle quali essa recepisce i risultati: antropologia, sociologia, eccetera. La conseguenza è quella di una Babele metodologica nella quale è difficile trovare un terreno comune di discussione.

Una seconda criticità nasce dalle discussioni sul concetto di religione. Questa è legata soprattutto all’imporsi delle prospettive decostruttive, sviluppatesi, per quanto riguarda la nostra disciplina, sull’onda lunga delle tesi di Michel Foucault e di Jacques Derrida ma poi definitesi secondo modalità piuttosto semplici, distanti dalle finezze speculative – e anche da molte delle provocazioni intellettuali – dei padri fondatori. Punto di riferimento è la civiltà cosiddetta occidentale che costruisce e afferma la propria identità, nella quale è fondamentale l’esercizio del potere, e quindi la costruzione di gerarchie. L’identità si afferma attraverso la definizione di griglie d’interpretazione della realtà che comportano l’esclusione dell’altro dalla gestione del potere, e quindi forme di sopraffazione: nei confronti dei Paesi colonizzati, ad esempio, se si guarda all’esterno dell’Occidente; nei confronti delle donne, se si considera l’interno. Questo processo si attua in vari modi, e passa anche attraverso il linguaggio comune e quello delle scienze, umane e non, con il loro apparato concettuale.

La consapevolezza di tale situazione porta a una ridefinizione dell’“agenda” degli studi che pone in primo piano da un lato la necessità di ricuperare le realtà marginalizzate (con la diffusione deli studi di genere e postcoloniali, ad esempio) e dall’altro la decostruzione di concetti e categorie tradizionali. Sicché nozioni come quelle di sacro, mito e religione sono discusse e si giunge fino alla proposta della loro eliminazione dal vocabolario scientifico, con argomentazioni che variano a seconda dei casi ma sono tutte fondate sul fatto che si tratta di categorie nate in Occidente, funzionali a pratiche occidentali di potere e abusivamente estese agli altri contesti.

La terza criticità che segnalo ha ad oggetto il sapere storico. La convinzione, dettata da un positivismo ingenuo, secondo la quale la storia propone una ricostruzione oggettiva del passato non è da tempo accolta da nessuno. Ma permaneva quella della possibilità di costruire un sapere storico-critico fondato sulla filologia, l’archeologia, l’etnografia che si presenti come qualche cosa di generalmente condiviso e condivisibile, basato su regole più o meno universalmente valide che costituiscono una piattaforma per la discussione, dotato di una certa dose di obbiettività, programmaticamente distinto rispetto alle scelte di fede e alla speculazione teologica. Questa impostazione, tuttavia, è andata in crisi e le obiezioni contro le forme tradizionali del sapere storico sono state portate all’estremo, fino al punto di sostenere che le operazioni tramite le quali si conferiscono coerenza e significato agli eventi nascono da strategie retoriche, a loro volta determinate da scelte etiche ed estetiche. La storia perde così la sua capacità di controllo sul materiale.

D’altra parte si sono imposti orientamenti di ricerca non storici (o almeno poco sensibili a una diacronia che non sia quella della deep history), come gli studi cognitivi, che spesso non si propongono in quanto strumenti ausiliari a una migliore conoscenza della storia, ma avanzano ambizioni totalizzanti.

Infine è oggetto di critica serrata la comparazione, cui si rimproverano il fatto di costruire griglie di lettura che appiattiscono la varietà dei fatti mortificando le differenze culturali e creando false omogeneità e il fatto di essere sempre e necessariamente selettiva, e dunque dipendente da scelte arbitrarie – o piuttosto condizionate da circostanze biografiche, posizioni ideologiche, interessi – dello studioso.

Se si guarda ora ai quattro punti che si sono segnalati, si dovrà concludere che tutte le componenti della storia delle religioni sono messe in questione: la religione, la storia, la comparazione, la possibilità d’individuare un ancoraggio metodologico solido.

Quali vie è possibile percorrere per dare una risposta a una situazione del genere? Nel quadro di un dibattito che, come ripeto, è amplissimo e ricco d’implicazioni, mi limito a proporre una constatazione e alcuni elementi propositivi.

Quanto alla constatazione, se si prova a uscire dal salotto buono degli specialisti e si sostiene che la religione non esiste si ottengono reazioni fra l’incredulo e l’ironico. Questo non vale soltanto a livello di dibattito comune ma anche per esperti di altre discipline che considerano le conseguenze delle scelte religiose, in campi che vanno dalla bioetica alla politica, un problema da spiegare e non possono accontentarsi, come spiegazione, dell’invito ad evacuare il concetto di religione. Anche negli ambienti più consapevoli delle critiche decostruttive si continua, effettivamente, a usare il termine, magari mettendolo fra virgolette o accompagnandolo con distinguo e mani avanti. Nelle università del mondo dipartimenti e insegnamenti di religious studies continuano ad essere presenti e spesso è proprio al loro interno che le critiche decostruttive sono avanzate. Questo vale, tra l’altro, anche per concetti come quelli di sacro, mito, rito. Tutti indizi del fatto che, nel bene o nel male, la religione non si riesce a eliminare dal discorso scientifico: cancellandola dal nostro vocabolario ci troveremmo di fronte a quello che possiamo definire il paradosso del Don Ferrante manzoniano, che, dimostrata scientificamente, e senza ombra di dubbio, l’impossibilità del contagio, finisce con il morire di peste. Fuor di metafora, se anche fornissimo una prova scientifica convincente del fatto che la religione non esiste, in qualcosa che rientra nell’area semantica che apparteneva al religioso ci imbatteremmo di continuo. Tra parentesi, non intendo dire che la religione sia da considerarsi alla stregua di una malattia letale – l’analogia si ferma prima – ma è anche vero che di religione a volte si muore, ed eliminando la peculiarità dello sguardo religioso (magari ridotto, nella migliore delle ipotesi, a una visione del mondo tra le altre) non si riesce a capire perché. Se le attività dei cosiddetti fondamentalisti induisti (per usare due termini abbastanza facilmente – e anche giustamente – decostruibili, ma che rendono immediatamente l’idea di ciò a cui ci riferiamo) si possono motivare sulla base di conflitti politici basati su considerazioni economiche e sociali, rimane da capire perché i fondamentalisti in questione sentano il bisogno di ricorrere a giustificazioni che fanno appello a divinità e pratiche cultuali. Per attribuire un senso alla loro condotta il riferimento ai sistemi simbolici economico e sociale non sono sufficienti e negando, all’interno dell’analisi storica, “visibilità” all’ordine simbolico cui si appellano, ci si condanna a non capire fino in fondo il significato di quello che fanno.

Questo non significa che allora alle componenti del religioso debba essere attribuito uno statuto ontologico, come avviene, ad esempio, con l’uso del termine sacro in certe prospettive, o che la religione debba essere reificata, o considerata una realtà che sta da qualche parte – cosa che per altro è legittimo fare, ma all’interno di una scelta di fede o di una opzione filosofica di base “forte” – ma semplicemente che esiste un campo semantico il quale, una volta eliminato il termine religione, non viene meno ma diventa solo invisibile, e quindi non più studiabile.

A tale proposito, si deve notare che parte del dibattito sulla questione nasce da tradizioni di studio particolari, che per la loro importanza, variamente motivata, hanno fatto, a un certo punto, da catalizzatrici della discussione a discapito di altre impostazioni. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che, in un contesto culturale come quello americano, per precise ragioni storiche (legate allo sviluppo esponenziale degli studi religiosi dopo che la Corte Suprema ha consentito l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche in un momento in cui uno dei pochissimi punti di riferimento della storia delle religioni statunitense era Mircea Eliade) la discussione sullo statuto epistemologico della disciplina si è polarizzata nell’opposizione fra sostenitori della religione sui generis che, fenomenologicamente, reificano il religioso, e sostenitori del “riduzionismo”, e cioè della totale riducibilità del religioso a fattori extra religiosi (che siano psicologici, sociali o economici). In un quadro culturale del genere respingere la reificazione del concetto di religione significa ipso facto negare autonomia al religioso; ma in ambito europeo le due cose non vanno affatto insieme, come mostra il caso della tradizione che si richiama a Pettazzoni, che in buona parte difende la peculiarità del religioso indipendentemente da opzioni “metafisiche”.

Si tratta, a questo punto, di vedere come si possano studiare le religioni tenendo conto delle critiche decostruttive, che non è possibile senz’altro ignorare, come avviene in alcuni manuali, ma oltre alle quali occorre continuare a pensare il religioso.

In controtendenza rispetto agli orientamenti decostruttivi indicherò dunque alcuni elementi costruttivi, che lancio come spunti di riflessione.

Il primo consiste nel fatto che i concetti sono necessari e qualcuno li deve produrre. Dovunque nascano essi portano in sé, più o meno chiaramente, la traccia del processo che ha dato luogo alla loro formazione. Si tratta allora d’impiegarli come strumenti, stando attenti alle deformazioni che possono comportare nei nostri studi, e questo è possibile nel caso in cui se ne conosca la storia. Il linguaggio ha sempre un valore classificatorio e non è mai neutrale e privo di effetti collaterali, a tutti i livelli (dire che una istituzione è democratica non significa solo, nel nostro sistema di valori, descriverla in un certo modo, ma anche attribuirle, implicitamente, un carattere positivo, almeno per i più): questo non significa però che si debba rinunciare a esprimersi, ma piuttosto che ogni termine andrebbe usato, se mi è consentito di proseguire con le metafore farmacologiche, come ho fatto parlando della peste, dopo averne letto il “foglio illustrativo”. Se ogni concetto ha la sua storia, nel senso che è nato e si è imposto in un determinato contesto per rispondere a certe esigenze, più o meno lodevoli, occorrerà compiere uno sforzo per conoscere l’uno e le altre. E, a questo proposito, si deve rilevare che negli ultimi anni gli studiosi hanno a tal punto decostruito i concetti fondamentali della storia delle religioni – mito, religione e sacro, in primis – mettendoli sotto la lente d’ingrandimento (anzi, sotto il microscopio) in tutte le loro sfaccettature, che, paradossalmente, sono proprio questi i meno “pericolosi” da impiegare, perché il loro foglietto illustrativo è dettagliatissimo e i loro effetti collaterali sono del tutto noti. Naturalmente può anche darsi che i benefici del farmaco risultino inferiori agli effetti collaterali, e dunque sia meglio evitarlo. In ogni caso non si può più dare nulla per scontato e i termini che si usano vanno sempre sottoposti a una indagine storiografica (che chiarisca, per quanto possibile, la loro etimologia, il loro impiego, le teorie che hanno cercato di spiegarli). Per impiegare un vocabolo presente nel dibattito anglofono, è possibile parlare a questo proposito della necessità di avere awareness, cioè “consapevolezza” dei condizionamenti ideologici e culturali cui si è sottoposti nel momento in cui ci si serve di concetti della tradizione occidentale.

Si tratta ora, una volta ammesso l’uso del concetto di religione, di proporre un significato operativo da attribuire al termine. A questo proposito – e qui passo al mio secondo punto – una parte del dibattito si è orientata verso una nozione di religione della quale non si dia una definizione chiusa, ma aperta. Si può a questo proposito ricorrere a un’idea filosoficamente raffinata ma riletta quasi sempre in una maniera semplice, associata a uno studioso di prestigio indiscusso: quella di “somiglianze di famiglia” (Familienänlichkeiten) proposta da Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, del 1953. Wittgenstein introduce il tema attraverso l’esempio del gioco, termine dai tantissimi significati, anche fra loro disparati, al punto che sembra refrattario a una definizione che ne descriva in maniera univoca i caratteri. Che cosa ci consente, si chiede, di raccogliere le cose eterogenee cui esso si riferisce in un concetto unitario? Se cerchiamo una caratteristica comune a tutti i giochi non la troviamo perché abbiamo di fronte oggetti troppo diversi, per cui ogni definizione risulta inadeguata; però tra i vari giochi riusciamo a scorgere “una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda”: un’aria di famiglia, appunto: quell’aria di famiglia che constatiamo quando guardiamo la foto di un gruppo familiare e ci accorgiamo che qualche tratto (ma non sempre lo stesso tratto: a volte la corporatura, a volte il colore degli occhi, o il taglio del volto, o il temperamento) accomuna tutti, al di là delle differenze. Queste considerazioni non si applicano soltanto a mondi piuttosto indeterminati come quello del gioco, ma anche ad ambiti in cui si ritiene che l’assoluta certezza delle definizioni e precisione dei confini siano fondamentali: quello dei numeri, ad esempio. I numeri sono, in primo luogo, i cosiddetti “numeri naturali”, i numeri interi, ma poi si inserisce al loro interno anche lo zero, e poi si parla di numeri negativi, razionali e irrazionali eccetera: il filosofo si chiede per quale motivo denominiamo una certa cosa “numero” e risponde che la ragione è forse che riconosciamo in essa una parentela con ciò che finora si è chiamato così. A un fatto nuovo, dunque (o a una nuova scoperta), si assegna un nome sulla base della somiglianza con qualche cosa che già si conosceva (di cui già si parlava); a questo punto, un ulteriore fatto nuovo continuerà a chiamarsi allo stesso modo, anche se somiglierà più al secondo che al primo, eccetera. Wittgenstein fa anche un altro esempio: che cosa dà unità e robustezza a un tessuto? Non una sola fibra che lo percorre tutto, ma l’intreccio e il sovrapporsi di tante fibre, sicché il filo che troviamo a un’estremità di esso non è il medesimo che troviamo all’estremità opposta.

In terzo luogo, l’idea dell’area di famiglia non impedisce che si possano rilevare degli elementi ricorrenti e caratterizzanti di un dato concetto. Noi non possiamo vivere senza mettere in ordine la realtà, cioè gli oggetti delle nostre esperienze, esteriori e interiori. Ordinare le cose dell’esperienza significa attribuire loro un senso, inserendole in un sistema. Attraverso una griglia, anzi una serie di griglie, che sono altrettanti sistemi simbolici, ogni società, ogni gruppo, ogni essere umano ordina il suo mondo, e così, coscientemente o meno, stabilisce coordinate, definisce punti di riferimento, che si fondano su criteri come l’utile, il razionale, il funzionale, il bello. È però evidente l’impossibilità di ridurre tutto, senza residui, a una dimensione umana, di costruire schemi di lettura onnicomprensivi. La realtà risulta irriducibile all’uomo e refrattaria alle sue aspirazioni di controllo, e quindi non si identifica pienamente con l’ordine, rispetto al quale non può che eccedere. Certi momenti critici pongono in evidenza più marcatamente – e a volte drammaticamente – questa eccedenza, che arriva a mettere in forse la tenuta delle stesse strutture di senso: basta pensare a esperienze come quella della sofferenza e quella della morte.

Detto in altri termini, costruire un ordine significa sempre mettere in rapporto identità e alterità, ma oltre ogni tentativo di messa in ordine c’è un’alterità più radicale, che resiste ai nostri sforzi di attribuzione di significato. Questo porta a continui tentativi di gettare un ponte fra il nostro mondo quotidiano, con la sua organizzazione, e tale alterità irriducibile ai modi con i quali troviamo usualmente un significato alla realtà che ci circonda. È qui che intervengono le credenze e le pratiche religiose, che si possono dunque considerare come sistemi di senso che risultano dal tentativo d’istituire una relazione fra il nostro mondo e una alterità refrattaria alle strategie ordinatrici del quotidiano.

Un quarto punto riguarda il riferimento all’attività comparativa come inevitabile per conoscere. Il dibattito sulla comparazione è articolatissimo e non è qui il caso di entrare al suo interno. Mi limito a considerare che è difficile pensare a una teoria della conoscenza che non implichi, a un livello o a un altro, un confronto, a partire dall’osservazione che ogni dato nuovo è comparato con quelli già acquisiti, o che va inserito in schemi che gli danno un senso e ai quali contribuisce a dare senso. È perfino ovvio dire che, in maniera esplicita o implicita, inconsapevole o cosciente, si conosce per somiglianze e differenze: non pretendo con questo di dare una risposta a questioni epistemologiche particolarmente raffinate e addirittura ardue, ma credo che, anche a un primo approccio al problema, risulti più difficile respingere l’esigenza della comparazione che accettarla, e che, a partire da questo, si debba – e possa – costruire una metodologia comparativa adeguata alla storia delle religioni.

L’ultimo punto che evoco è la necessità che, per conoscere le religioni, si faccia ricorso a una disciplina che riesca a integrare le tante scienze che si occupano del tema, le quali da sole danno una visione soltanto molto parziale e frammentata dei fatti religiosi. La storia delle religioni si presta bene a svolgere questo compito, anche in virtù della sua debolezza epistemologica costitutiva, che ne facilita il ruolo di luogo d’incontro e confronto e diventa quindi, paradossalmente, un fattore di forza e ricchezza. E poi, tra le “scienze della religione” (o delle religioni) è la sola che abbia un carattere fondamentalmente storico, e quindi risulta la più adatta a costituire un punto di riferimento per le indagini su fatti che in fin dei conti sono configurabili, per alludere al titolo dell’opera più nota dello studioso cui ho dedicato questo contributo, come esperienze umane del divino.


1 Nel testo che presento ho voluto mantenere lo stile discorsivo che il contributo aveva quando ha visto la luce durante la tavola rotonda della Pontificia Università della Santa Croce. Per un approfondimento bibliografico dei temi considerati rimando ad alcuni lavori nei quali ho trattato in maniera più vasta il tema del dibattito recente sulla storia delle religioni: Comparative Studies in the History of Religions Today: Continuity with the Past and New Approaches, «Historia religionum» 1 (2009) 41-49; Per un approccio costruttivo al problema delle categorie in storia delle religioni. Il caso della festa, «Humanitas» LXXII, 5-6 (2017) 992-998; Storia delle religioni, in Manuale di scienze della religione, a cura di G. Filoramo – M.C. Giorda – N. Spineto, Brescia 2019, 31-52; Il paradosso di Don Ferrante. Note sul concetto di religione e la sua decostruzione, «Percorsi Yoga» XX, n. 75 (2019) 8-14. A questi lavori rimando per un approfondimento bibliografico.