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Ror Studies Series | Storia Religioni Comparazione

Epistemologia patristica e metodo interpretativo

Jeronimo Leal

Università della Santa Croce

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«La metodologia storica, caratterizzata dal rigore nell’esame delle fonti e (…) dei loro contesti e da un approccio (…) alieno (…) da deduzioni ideologiche»

1. Metodologia storica e metodologia patristica

È necessario contestualizzare la questione della metodologia storica applicata alla patristica per intendere con profondità quale sia la posta in gioco. È noto che l’ἐπιστήμη si oppone alla δόξα, all’opinione. L’ἐπιστήμη “produce conoscenza”. A tutti interessa la conoscenza più che l’opinione. La verità – veritas liberabit vos (Giov. 8, 32) – è un principio eccellente per riflettere sulla conoscenza, e riferimenti ad essa si trovano dappertutto nei primi secoli (e non solo) della nostra lunga storia. Tertulliano, per esempio, all’inizio del III secolo, scriveva: nihil veritas erubescit nisi solummŏdo abscondi1, la verità non arrossisce se non quando è nascosta. E la frase sa di paradosso, perché di solito si nasconde chi si vergogna.

La produzione della conoscenza si articola in due momenti: osservazione empirica e ragionamento posteriore. Ora, è indiscutibile che la scienza storica abbia dei metodi propri che divergono sensibilmente da quelli patristici. Marrou2 vede la storia – conoscenza del passato umano – come conoscenza delle cause del momento presente.3 La storia dipende sempre dalla domanda che lo storico rivolgerà ai suoi documenti.4 Qui sta precisamente la differenza: entrambe le scienze lavorano con documenti, tante volte gli stessi, ma per la storia sono mezzo, invece per la patristica sono l’oggetto quasi esclusivo.

Vediamo, quindi, quali sono le caratteristiche precise della metodologia patristica. Come documento costitutivo della metodologia patristica va segnalato l’Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa del 10 novembre 1989.5 Cito questo testo perché di solito questi documenti sono elaborati da qualche esperto per poi venire approvati dalle autorità, e qui si dovrebbe pensare a un ignoto patrologo, certamente redattore di alcune parti del testo. Al n. 54. b), l’istruzione afferma che «Lo studio scientifico dei testi va affrontato con il metodo storico-critico, in modo analogo a come lo si applica nelle scienze bibliche». Ora, questo metodo storico-critico studia le origini di un testo antico per comprendere “il mondo dietro al testo”. L’obiettivo primario è quello di accertare il significato originale nel suo contesto storico, e il suo senso letterale, cioè il tempo e il luogo in cui fu scritto il testo, le sue fonti, gli eventi, le date, le persone, i luoghi, le cose e i costumi che sono menzionati o impliciti nel testo; le unità letterarie, gli schemi, le analogie e i precedenti nella letteratura cristiana primitiva, i rapporti di somiglianza e differenza di ogni testo rispetto agli altri testi. Perciò, il metodo storico-critico serve ad apprezzare meglio il lavoro svolto dal singolo autore nella fase di elaborazione del proprio testo.

La stessa Istruzione prima menzionata, al n. 54. b) aggiunge: «È però necessario che nell’uso di tale metodo siano indicati anche i suoi limiti e che esso sia integrato, con prudenza, dai metodi della moderna analisi letteraria e dell’ermeneutica. Spesso il metodo storico-critico si limita allo studio della storia precedente e sembra più un procedimento di accumulo di materiali che di interpretazione del significato. Inoltre non è esente da soggettività e arbitrarietà quando pretende di distinguere sempre tra forma originaria e apporti successivi».

Nelle scienze patristiche non si tratta, quindi, di fare mera filologia: «Trattandosi di una disciplina teologica, che in tutte le sue fasi procede “ad lumen fidei”, la libertà di ricerca non deve ridurre il suo oggetto di indagine entro la sfera della pura filologia o della critica storica. Infatti, la teologia positiva deve riconoscere, come primo presupposto, il carattere soprannaturale del suo oggetto».

Queste indicazioni non sono molto lontane dallo strutturalismo linguistico. La teorizzazione del linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913) e del suo Cours de linguistique générale6 si propone lo studio della lingua intesa come sistema autonomo e unitario di segni, dando rilievo primario all’asse della sincronia rispetto a quello della diacronia. In questo senso, lo strutturalismo sarebbe complementare al metodo storico-critico, piuttosto attento allo sviluppo diacronico di un testo. In particolare, alla critica letteraria è stata applicata la teoria e la prassi strutturalista, che considera l’opera presa in esame come un insieme organico, scomponibile in elementi il cui valore funzionale è determinato dal complesso dei rapporti con tutti gli altri elementi. Il metodo, per quanto valido, corre il rischio della “chiusura”: il testo è considerato in modo assolutamente slegato dalla realtà, perché è inteso come un sistema in cui ogni elemento ha senso solo nei rapporti interni con gli altri elementi dello stesso testo. In tal modo si mettono a rischio sia la trascendenza che l’attualizzazione. Possiamo anche considerare la consapevolezza del soprannaturale, così presente nei testi dei Padri della Chiesa, come elemento inserito nello stesso sistema d’interpretazione; e non è lecito fare a meno di un elemento che per l’autore è fondamentale. Purtroppo tante volte vediamo che si prescinde dall’elemento del soprannaturale nelle varie interpretazioni, come se fosse un elemento di poco conto anche per chi scriveva.

In un altro punto, al n. 55, l’Istruzione c) sottolinea: «La purezza del metodo suddetto richiede, inoltre, che sia il ricercatore sia lo studente siano liberi da pregiudizi e preconcetti, che nel campo della patristica si manifestano di solito in due tendenze: quella di legarsi materialmente agli scritti dei Padri, disprezzando la tradizione viva della Chiesa e considerando la Chiesa post-patristica fino ad oggi in progressiva decadenza; e quella di strumentalizzare il dato storico in una attualizzazione arbitraria, che non tiene conto del legittimo progresso e dell’oggettività della situazione».

Sono quindi quattro le raccomandazioni proposte dal documento magisteriale in questo primo livello generale: sì al metodo storico-critico, integrato da altri metodi filologici, senza prescindere dal soprannaturale e in modo libero da pregiudizi.

Nei miei anni di lavoro in ambito patristico ho potuto osservare che queste raccomandazioni o non sono conosciute, o sono interpretate in modo sbagliato. In una tavola rotonda, diversi anni fa, ho visto un filologo accusare di «pregiudizi teologici» un altro partecipante. Infatti, per comprendere i testi patristici ci vuole un po’ di preparazione, non direi teologica, ma perlomeno qualche conoscenza di cultura generale cristiana. A una studentessa ho dovuto raccomandare di leggere almeno i vangeli per poter distinguere le citazioni bibliche dai commenti del Padre della Chiesa che stava studiando.

2. Gli errori più frequenti nell’interpretazione patristica

Per questo motivo, vorrei soffermarmi su alcuni tra gli errori più frequenti in cui si può incorrere nella lettura dei testi patristici.

In primo luogo bisogna badare al significato delle parole. L’affermazione sembra ovvia, ma ho visto tante volte attribuire a termini antichi un significato odierno: ad esempio, alla parola diacono. Il vocabolario cristiano nasce pagano (come tutti noi) e man mano si cristianizza, diventa tecnico, eliminando tutti gli altri significati possibili. Ma il processo è lento e, molte volte, nemmeno sappiamo quando è avvenuto definitivamente. Bisogna quindi essere molto prudenti.

Alla stessa maniera, va di moda vedere esclusivamente il significato politico delle affermazioni patristiche. Questo è un chiaro esempio di come si prescinda dal soprannaturale: non voglio dire che da ogni affermazione patristica si debba trarre un consiglio spirituale. Certamente no. Ma bisogna mettersi nei panni dei Padri della Chiesa che avevano come prima istanza, nel proprio orizzonte, l’aspetto soprannaturale: bisogna interpretare secondo la loro mentalità, non secondo “la nostra”.

Ritengo, inoltre, che si debba dare spazio al rapporto passato-presente. È poco serio tanto negare la continuità con il presente, quanto mettere tra parentesi le discontinuità. Questo non vuol dire necessariamente che si debba fare un ricorso sistematico all’evoluzione delle dottrine. Ma proprio tale evoluzione è la nostra cartina di tornasole: nell’evolversi delle formulazioni dottrinali non ci sono svolte eclatanti, non ci sono terremoti, non esiste un deus ex machina che travolge tutto a un momento dato. È meglio pensare a un fiume che scorre più lento o più veloce a seconda delle piogge, e che spesso scompare sotto terra per poi riemergere e continuare a defluire placidamente.

Un’affermazione che mi sconcerta è che il cristianesimo sarebbe una religione «del libro». Se così fosse, non avrebbe senso l’esegesi, che invece è stata definita come il primo modo di fare teologia. Addirittura, per un patrologo è palese che la nostra religione è quella della tradizione orale: i Padri ne sono testimoni. La Scrittura stessa è la trascrizione della tradizione orale. E tale affermazione non nega l’ispirazione biblica.

Vorrei fare un esempio di come spesso venga stravolta l’interpretazione di alcuni passi biblici. È noto che il montanismo prediligeva a dismisura le visioni profetiche. Ma alcuni critici leggendo queste parole di uno scrittore patristico – Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni – le interpretano come un testo montanista. Orbene, attribuire a un unico passo valore di prova è illecito. Il testo appena citato è tratto da Gioele 2,28 / 3,1 ed è citato anche da Atti 2, 17. Se così fosse, bisognerebbe dedurre che anche gli Atti degli Apostoli, e addirittura Gioele, siano montanisti, cosa che molto probabilmente nessuno direbbe.

3. I “punti fiduciali” dell’interpretazione patristica

Fin qui la pars destruens. Adesso vorrei considerare alcuni “punti fiduciali”, come vengono chiamati nella cartografia catastale i particolari topografici utilizzati come riferimenti per tutte le misure cartografiche. Distinguerò tre aree diverse: testo, interpretazioni e contesto.

Di solito i testi patristici vengono letti in edizioni critiche, caratterizzate da un apparato di note a prima vista molto complesso. La prima reazione del lettore può essere di sgomento o addirittura paura davanti ad un apparato così complesso. Ma non è così complicato, e vale la pena imparare a interpretare questi segni, perché chi rinuncia a capire e a intraprendere la lettura di manoscritti diversi ha già perso la prima battaglia, se non la guerra. Prendiamo come esempio Tertulliano, De pudicitia 21,9.7 Su questo passo sono state avanzate varie interpretazioni da diversi studiosi. Non è questa la sede per analizzare tutto il testo, ma dalle diverse interpretazioni (come vedrete, più dottrinali che filologiche) dipende che cosa s’intendeva nel terzo secolo per primato romano. La frase precisa, nel testo trasmesso dalle antiche edizioni, dice in latino: omnem ecclesiam Petri propinquam, e le ipotesi dagli studiosi sono svariate:

Harnack:8 romanam ecclesiam Petri propinquam

Stoeckius:9 tuam ecclesiam Petri propriam

G. Poupon:10 omnem ecclesiam Petri prouinciam

Chi potrebbe negare queste tesi? Solo se si entra nel mondo della tradizione testuale e si verifica che non si conserva nessun manoscritto11 dell’opera; e anche nell’altro mondo, ancora più complicato, delle clausole metriche, si scoprirà che difficilmente l’errore di un copista genera delle clausole metriche, quanto meno quella più utilizzata da Tertulliano: il ditrocheo contenuto in Petri propinquam.

Questo esempio ci introduce nella seconda area: se è bene non fidarsi troppo di se stessi, e ricontrollare le proprie affermazioni, è ancor meglio fomentare lo spirito critico e pensare ai possibili preconcetti degli altri critici. In breve, avere fiuto e non affidarsi mai a un solo critico o a un’unica interpretazione. Anche i grandi sbagliano ogni tanto. In ambito musicale si suole dire che conosciamo l’esecuzione di un grande musicista, ma non conosciamo tutte le volte che ha sbagliato mentre provava il pezzo con il suo strumento.

In terzo luogo, il contesto. Nella patristica primitiva, i capisaldi dottrinali, il canone biblico, la regula fidei, l’ortodossia… sono descrittivi prima che normativi. Cioè, non siamo in un periodo nel quale l’autorità ecclesiastica è in grado di «imporre», per così dire, determinate scelte. Devono arrivare ancora i grandi Concili, la facilità delle comunicazioni. Siamo in un momento più carismatico che gerarchico, se volete vederla così. Ma è questa stessa qualità carismatica che mette in relazione gli elementi fondamentali: la scrittura, la regula fidei, e la ragione, insieme, costituiscono un sistema, e la contraddizione tra questi elementi non è possibile, non può esserci un passo della Scrittura che contraddica il Credo, né viceversa.

4. L’esempio di Tertulliano

Proviamo a illustrare ancora meglio alcuni aspetti. Avete già capito, da un paio di citazioni che ho fatto precedentemente, che l’autore a cui più mi sono dedicato è Tertulliano. A lui principalmente farò riferimento, ma i risultati di questa esperienza possono benissimo essere applicati a qualsiasi Padre della Chiesa. Come affermava Jean Claude Fredouille,12 la conoscenza di un autore deve essere totale, e bisogna cercare di “simpatizzare” con lui, nel più profondo senso etimologico del termine συμπάθεια, per penetrare il più possibile nel suo pensiero. Questa συμπάθεια possiede la stessa logica interna dell’interpretazione. È una dinamica che da un atteggiamento critico ci conduce, quasi senza che ce ne rendiamo conto, alla συμπάθεια. Nella patristica ciò si traduce nel mettersi nei panni degli autori dei primi secoli.

Questa simpatia ci deve portare ad applicare i metodi stabiliti dagli stessi Padri. Per esempio, per Tertulliano si deve incerta de certis et obscura de manifestis praeiudicari.13 Il metodo dei Padri deve essere studiato per poterlo applicare successivamente alla nostra interpretazione. Non si tratta di un’ermeneutica chiusa in se stessa, di un circolo vizioso, ma di una questione di coerenza e proporzione tra oggetto e soggetto. Per far questo, non è sufficiente attingere alle opere “maggiori” di un autore. È necessario addentrarsi nella lettura degli scritti meno conosciuti, perché in essi giace talvolta la chiave di certi aspetti.

Certamente, è difficile decifrare l’intenzione di un testo quando esso stesso è sia l’oggetto che il parametro delle sue interpretazioni.14 È compito del critico trovare un equilibrio tra i due estremi. E proprio per questo motivo ritengo che la comprensione di ciascun Padre passi attraverso la comprensione del suo metodo. Partiamo dal lessico dei Padri, per poi passare alle fonti e, finalmente, alle regole.

Lo studio propedeutico del vocabolario di ogni Padre è di grande importanza. Siamo qui in un ambito al quale i linguisti hanno dedicato grande attenzione. Per esempio, Lyons15 afferma che quello che si deve cercare non è il significato di una parola, ma il suo uso. Il senso è il posto che una parola occupa in un sistema di relazioni con altre parole. Per questo si deve analizzare ogni parola nel suo contesto e confrontarla con altri contesti diversi. Anche gli studiosi di patristica hanno usato questo criterio, come Moingt che afferma: esiste un solo metodo per penetrare nell’universo quasi chiuso del vocabolario e svelarlo, “fare un inventario di tutto questo vocabolario nell’insieme dell’opera”.16 Ricordo ora un commento che fece un egregio docente durante una visita alla nostra Università diversi anni fa: non scriverò più niente su un Padre della Chiesa finché non avrò letto le sue opere complete.

D’altra parte, bisogna sapere che i Padri non necessariamente sono legati al linguaggio filosofico, che dà origine a formule incerte se usato in campo dottrinale, ma usano invece il vocabolario ordinario e lo adattano alle realtà che devono esprimere, per le quali, a volte, devono creare neologismi.

Spesso, con una pluralità di termini, i Padri sono in grado di definire un concetto in modo molto accurato, nonostante usino un vocabolario meno preciso di quello della filosofia. Succede, infatti, che usino termini diversi per esprimere fenomeni identici e termini identici per esprimere fenomeni diversi.17 Secondo Egger, si può dire che una visione d’insieme del vocabolario di un testo può già dare una prima indicazione dei punti su cui cadono gli accenti teologici.18

E questo capita con tutti i Padri. Prima di dire che uno di loro è stoico, platonico o aristotelico, bisogna leggere per bene quello che ha scritto. Alcuni giorni fa ho incontrato per strada Virgilio Pacioni, che da molti anni studia l’Agostino filosofo, e mi ha detto: sto per pubblicare una monografia nella quale, analizzando determinati passi controversi di Agostino, contesto che sia neoplatonico.

Sulle fonti, bisogna soffermarsi attentamente sull’interessante distinzione proposta da Tertulliano tra auctoritates ed exempla.19 Basta uno sguardo alle opere complete dei Padri per renderci conto che le citazioni della Sacra Scrittura occupano un posto di straordinario rilievo:20 sono le auctoritates. Invece, la profusione di esempi conferma l’idea che i Padri usassero gli autori dell’ambiente culturale pagano nel modo più adatto alla conferma delle proprie idee. Questa conoscenza proviene principalmente da fonti dossografiche e, più raramente, dalla lettura diretta degli autori antichi.

Un altro dato da non trascurare è che l’ambiente culturale pagano del terzo secolo è prevalentemente dominato dalla filosofia stoica.21 Questa relazione reciproca tra ragione e fede, che è stata evidenziata in molte occasioni, non implica in autori come Tertulliano alcun impegno formale nei confronti di una particolare corrente ideologica. Tertulliano non è un filosofo stoico, sebbene usi alcune idee stoiche. La differenza è importante.

Per questo motivo, il metodo da lui usato è quello dell’ambiente colto latino al quale non può sfuggire ed è per questo che le sue citazioni sono in gran parte di autori greci, con grande predominanza di Platone, anche se in questo caso Tertulliano si colloca nella tradizione anti-platonica (condimentarius haereticorum, lo chiama assistente di cucina – vivandiere – degli eretici), e, secondo alcuni, in relazione diretta con Aristotele.22

Se si cerca nell’opera di Tertulliano, si trovano già formulate le regole che sono state usate per pensare in modo rigoroso. Possiamo elencare queste:

1. Quando si conviene sui termini, con più facilità si concedono le verità (lett.: La fedeltà dei nomi è la conservazione delle proprietà).23

2. Niente è riconosciuto prima della sua origine perché non lo precede neppure nell’ordine (lett.: Nulla può essere, per la sua origine, precedente nella conoscenza, se non ha avuto realtà).24

3. L’immagine segue la realtà.25

4. Non hanno un ordine tra loro se non le cose uguali e quelle con lo stesso nome, sostanza e artefice.26

5. Le realtà sono contenute nelle lettere, ma le lettere vengono lette nelle realtà.27

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.28 Sono più abbondanti, mi pare, in Aduersus Marcionem perché le differenze tra Tertulliano e Marcione richiedono un maggiore uso della ragione, per essere persuasive. Ma tutta l’opera di Tertulliano è piena di considerazioni ermeneutiche che costituiscono una potente struttura.

Tertulliano, infatti, impiega termini d’uso comune all’epoca, siano essi stoici o platonici: non prende prima una filosofia e la adatta al cristianesimo, ma costruisce invece il suo edificio filosofico man mano che lo richiede la spiegazione della fede.29 Si può quindi affermare con Pohlenz30 che Tertulliano era interessato alla filosofia, ma, più che alle dottrine e alle opere dei filosofi, ciò a cui teneva era il patrimonio spirituale dell’umanità, manifestato nel “gewöhnlichen Sprachgebrauch”, nell’uso linguistico comune. La sua teologia ha avuto un impatto così profondo sulla costruzione del dogma in Occidente proprio a causa del suo carattere non specificamente filosofico.31 Secondo Cantalamessa,32 Tertulliano si è valso dello stoicismo per controbattere gli gnostici e del platonismo per lottare contro i monarchiani.

5. La regula fidei come norma interpretativa

Per capire qual è il credo dei Padri della Chiesa, come orientarsi? Per essi non esiste una formula fissa di regula fidei, sebbene se ne trovino i contenuti che, se ci è permesso un confronto biologico, appaiono come uno scheletro che permette di identificare gli individui appartenenti alla stessa specie, anche se mancassero alcune ossa. Non è semplicemente uno schema comune, poiché anche la struttura è diversa. La cosa comune è il contenuto, intendendo per contenuto una serie di verità che possono essere derivate da altre non necessariamente tutte incluse in ciascuno degli schemi, ma coerenti con tutti loro. La stessa conclusione si può evincere dal confronto con Ireneo: i contenuti coincidono. Tuttavia, nelle correnti marginali, mancano i principali elementi e proprio per questo sono rimaste al di fuori del campo di applicazione della regula fidei.33

Continuando con l’esempio di Tertulliano, non esiste un credo già terminologicamente fisso da cui Tertulliano possa dipendere. La flessibilità a cui abbiamo accennato in precedenza lo dimostra e ne influenza chiaramente l’estensione: il testo di Apol. 21,1-27 è indirizzato a un pubblico pagano, quindi è necessaria la parsimonia per esporre il contenuto della regula fidei; d’altro canto, le brevi formulazioni sono rivolte a un pubblico ormai cristiano, ben informato degli elementi fondamentali, e non è necessario esporre tutto il contenuto.

La regula fidei è la norma interpretativa, nonostante sia esterna alla stessa Scrittura: il canone si è formato a partire dalla regula fidei e non viceversa.34

La regula fidei è quella che guida in Tertulliano l’intelligenza delle verità. L’istanza formale per determinare quale sia la verità è la Scrittura:35 regula fidei e Scrittura si determinano a vicenda.36 Non sono identiche la regula fidei e le Scritture: sono coordinate autonome. La Scrittura è – tra l’altro – un’espressione della regula e, pertanto, non dovrebbe mai essere interpretata contro di essa.37

Per questo motivo non troviamo in Tertulliano un unico principio, ma una varietà che deve essere dedotta dalle varie opere, poiché Tertulliano non ha elaborato una teoria completa. Il principio fondamentale della sua esegesi è quello che potrebbe essere chiamato coerenza, che consiste nel dare a passaggi difficili lo stesso significato che può essere estratto da quelli che sono simili ed evidenti, e lo troviamo formulato in vari modi: secundum plura intellegi pauciora;38 incerta de certis et obscura de manifestis praeiudicari;39 totius itaque sacramenti interest nihil credere ab Iohanne concessum quod a Paulo sit denegatum.40

A questo principio possiamo aggiungere quello dell’antichità, secondo il quale l’interpretazione più antica è quella autentica, poiché l’eresia introduce sempre una novità.41 O il principio secondo cui solo i veri cristiani hanno il diritto di interpretare la Scrittura.42

6. Conclusione

Elenchiamo, per concludere, le principali caratteristiche della metodologia patristica che si deducono dal confronto con la metodologia storica. In primo luogo, è necessario collegare lo studio terminologico allo studio generale del pensiero dell’autore. In tal senso, l’induzione e la deduzione si devono completare a vicenda al servizio dell’interpretazione sia dei testi isolati, sia dell’intera opera o dell’intera produzione del nostro autore. Entrambe, da sole, presentano dei rischi: con la sola induzione, potremmo avere molti dati, molta erudizione, ma non vera cultura; con la sola deduzione, potrebbero darsi delle forzature o, come diceva Marrou – e in questo caso è una coincidenza delle due metodologie – voler fare sputare il dato al testo. In questo rapporto tra induzione e deduzione, inoltre, ci deve essere spazio per la considerazione cronologica: si suole dire che Ireneo legge la storia alla rovescia, ma questo si può applicare a tutti quanti i Padri; basta pensare all’esegesi, in cui comanda il Nuovo Testamento sul Vecchio. La linea storica si rovescia in qualche modo.

D’altra parte, oltre alla visione generale, è necessario contare sul livello trascendente, dalla cui accettazione dipende il fatto che sia possibile spiegare, fino alle ultime conseguenze, il contenuto del discorso patristico. E in questo caso siamo di fronte a due metodologie completamente diverse. Una singola dichiarazione isolata di un Padre della Chiesa non costituisce l’essenza del suo pensiero, né fa propriamente parte del suo patrimonio intellettuale.

Se non vado errato, era Empedocle di Agrigento ad affermava che il simile conosce il simile. Poi Origene ha accolto questa regola per applicarla alla conoscenza di Dio. Per conoscere in profondità un Padre della Chiesa, bisogna essere simili a lui, pensare come lui o, perlomeno, tentare di spiegare i suoi testi con i suoi testi. E tutto ciò partendo dal presupposto che ogni Padre è coerente con se stesso in tutta la sua opera, sebbene si debba riconoscere che c’è un’evoluzione nel suo pensiero da un’epoca all’altra. Se si riscontra qualche contraddizione, dobbiamo supporre che sia apparente – in dubio pro reo – e cercare di spiegarla attraverso altri testi più chiari. Questo presupposto non si trova nello storico.

Poi, si deve cercare il rifiuto o la conferma delle opinioni degli autori moderni a partire dai testi di ogni Padre. Non di rado il critico – il rigore è sempre dato per scontato – ha davanti a sé la nebbia delle sue stesse convinzioni, provenienti dalla sua cultura e dalla sua preparazione, che gli impediscono di apprezzare chiaramente i dettagli. Il critico deve anche trascendere se stesso e trascendere l’ambito del sistema chiuso, cercando le influenze, i parallelismi e le allusioni ad altri testi, siano essi biblici o patristici. Nella ricerca storica, invece, non è solo il testo a fare la differenza di opinioni.

I Padri usano la conoscenza razionale quando hanno bisogno di risorse argomentative, ma questa non può “aggiungere” nulla alla conoscenza superiore: la verità di fede è ottenuta con altri mezzi e regola la conoscenza inferiore. Dal fatto che ciò venga preso in considerazione dipende la corretta interpretazione dei Padri. L’Accademia non può rendere pienamente conto del loro pensiero se non dà spazio alla trascendenza, se non accetta – con loro e come loro – il limite della ragione.


1 Val. 3, 2.

2 Cf. H.I. Marrou, La conoscenza storica, Bologna 1966 (tit. or. De la connaissance historique, Paris 1954).

3 H.I. Marrou, La conoscenza, 37.

4 H.I. Marrou, La conoscenza, 58.

5 Congregazione per l’educazione Cattolica (dei seminari e degli istituti di studi), Istruzione sullo studio dei padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, Roma 1989.

6 Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, Lausanne 1916.

7 Si quia dixerit Petro Dominus: super hanc Petram aedificabo ecclesiam meam, tibi dedi claues regni caelestis, uel: quaecumque alligaueris uel solueris in terra, erunt alligata uel soluta in caelis, idcirco praesumis et ad te deriuasse soluendi et alligandi potestatem, id est ad omnem ecclesiam Petri propinquam? Qualis es, euertens atque commutans manifestam Domini intentionem personaliter hoc Petro conferentem?

8 A. Von Harnack, Ecclesia Petri propinqua. Zur Geschichte der Anfänge des Primats des römischen Bischofs, «SB Preuß. Ak. d. Wiss.» 28 (1927) 139-152.

9 H. Stoeckius, «Ecclesia Petri propria» Eine kirchengeschichtliche und kirchenrechtsgeschichtliche Untersuchung der Primatsfrage bei Tertullian, «Archiv für katholisches Kirchenrecht» 117 (1937) 24-126.

10 G. Poupon, Tertullien et le privilège de Pierre (note sur De pudicitia 21,9-10) «Revue des Études Augustiniennes» 32 (1986) 142-144.

11 L’Ottoboniano 25 (XIV sec.) è solo un riassunto dell’opera in cui non compare il testo di 21,9.

12 J.-C. Fredouille, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris 1972, 18-22.

13 Res. 21,2.

14 Cf. U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Ariccia 1999, 11.

15 J. Lyons, Introducción en Lingüística teórica, Barcelona 1975 (Traducción del original inglés Introduction to Theoretical Linguistics, London-New York 1968), 424.

16 “faire l’inventaire de tout ce vocabulaire dans l’ensemble de l’œuvre” J. Moingt, Théologie trinitaire de Tertullien, vol. I, Paris 1966, 11.

17 F. Prat, La théologie de saint Paul, Paris 1961, 64.

18 “Uno sguardo globale al lessico di un testo, persino di un segmento di testo, fornisce una prima indicazione sull’accentuazione teologica del libro…” W. Egger, Metodologia del Nuovo Testamento. Introduzione allo studio scientifico del Nuovo Testamento, tr. it, Bologna 1991, 80.

19 Res. 18,1: Cui cum tot auctoritates iustorum patrociniorum procurent, honores dico substantiae ipsius, tum uires Dei, tum exempla earum, tum rationes iudicii et necessitates ipsius, utique secundum praeiudicia tot auctoritatum scripturas intellegi oportebit, non secundum ingenia haereticorum, de sola incredulitate uenientia, quia incredibile habeatur restitui substantiam interitu subductam, non quia aut substantiae ipsi inemeribile sit aut Deo inpossibile aut iudicio inhabile.

20 A conferma di quanto sostengo, basta notare che per Tertulliano l’Index locorum Sacrae Scripturae del CCL copre trentasei pagine (dodici per l’Antico Testamento e 24 per il Nuovo); in totale si tratta di più di tremila citazioni e più di quindicimila riferimenti biblici) mentre l’Index Scriptorum occupa soltanto una pagina e mezza.

21 C. Moreschini, Tertulliano tra Stoicismo e Platonismo, in “Kerygma und Logos” Beiträge zu den geistesgeschichtlichen Beziehungen zwischen Antike und Christentum, Festschrift für Carl Andresen, Hrg. A.M. Ritter, Göttingen 1979, 367-379, Tertulliano ha fatto uso di manuali e lo stoicismo è parte della cultura popolare fin dal primo secolo d.C. Anche M. Spanneut, Le stoïcisme des pères de l’Église. De Clément de Rome à Clément d’Alexandrie, Paris 1957, 50-51, sostiene che lo stoicismo divenne una “filosofia tipo” e penetrò nella cultura comune.

22 Cf. Siniscalco, Ricerche, 164-167. Cf. anche N. Cipriani, L’ispirazione tertullianea nel «De libero arbitrio» en Il mistero del male e la libertà possibile: lettura dei Dialoghi di Agostino. Atti del V seminario del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, Roma 1994, 165-178.

23 Fides nominum salus est proprietatum. Carn. 13,2.

24 Nihil origine sua prius est in agnitione, quia nec in dispositione. Marc. III,2,3.

25 Sequitur statum similitudo. Marc. III,10,1.

26 Non habent ordinem inter se nisi paria quaeque et eiusdem uel nominis uel substantiae uel auctoris. Marc. V,10,8.

27 Res in litteris tenentur, litterae in rebus leguntur. Res. 20,9.

28 Diuinitati competit quaecumque decreuerit ut perfecta reputare, quia non sit apud illam differentia temporis. Marc. III,5,2; Qui disposuit demutationem, iste instituit et diuersitatem; qui praedicauit innouationem, iste praenuntiauit et contrarietatem. Marc. IV,1,9; Deus auctoritatem praestet disciplinae, non Deo disciplina. Marc. IV,12,2.

29 Cantalamessa ha segnalato i limiti della fedeltà di Tertulliano alla soluzione stoica sia nel pensiero sia nella terminologia: “D’altra parte, però, si deve anche notare la libertà che Tertulliano si concede nell’ambito della soluzione di base; e ciò, specialmente nell’uso dei termini che è molto meno univoco di quello che fosse nel vocabolario stoico e che corrisponde piuttosto al bisogno di mettere maggiormente in rilievo l’aspetto dell’unità, ovvero della distinzione, secondo l’opportunità del momento. Ciò deve preservare dal pericolo, in cui son caduti alcuni studiosi di Tertulliano, di prendere, cioè, ogni suo termine in senso tecnico, condannandosi per conseguenza, a scorgere mutamenti di pensiero e contraddizioni, là dove non si tratta, in realtà, che di diversità di terminologia.” R. Cantalamessa, La cristologia di Tertulliano, Fribourg 1962, 141.

30 M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung. Göttingen 1959, 437-438.

31 “Seine Theologie hat sogar gerade wegen ihres unphilosophischen Charakters auf die Dogmenbildung des Abendlandes stark gewirkt”, M. Pohlenz, Die Stoa, 438.

32 R. Cantalamessa, Incarnazione e immutabilità di Dio. Una soluzione moderna nella Patristica?, in «Rivista di Filosofia neo-scolastica» 67 (1975) 640.

33 Ad esempio, l’elemento della resurrezione della carne non si trova in tutte le formulazioni di Tertulliano e manca anche in Ireneo, ma questo elemento è coerente con il resto degli schemi in cui non appare, è incoerente, invece, con le principali dottrine gnostiche che proponevano una risurrezione spirituale, e non materiale.

34 Cf. Tertulliano, Praescr. 17,1: Ista haeresis non recipit quasdam scripturas; et si quas recipit, non recipit integras sed adiectionibus et detractionibus ad dispositionem instituti sui interuertit, et si aliquatenus integras praestat, nihilominus diuersas expositiones commentata conuertit.

35 “Die Bibel ist die formale Instanz für die Entscheidung zwischen Wahrheit und Unwahrheit…” H. Karpp, Probleme altchristlicher Anthropologie, 76. Cf. J. Speigl, Tertullian als Exeget, 169: la regula fidei è “absolutes Kriterium” per l’interpretazione biblica. Cf. B. Liftin, Tertullian’s Use of the Regula Fidei as an Interpretive Device in Aduersus Marcionem, in «Studia Patristica» 42 (2006) 405-410.

36 E. Osborn, Tertullian, 115.

37 Cf. G.D. Dunn, Tertullian’s Scriptural, 147-148. Cf. J.H. Waszink, Tertullian’s Principles, 26. Cf. B. Liftin, Tertullian’s Use, 407-410: la sua master key è la regula fidei; We must begin to view Tertullian as a systematic thinker when it comes to biblical interpretation. Instead of supposing he relied primarily upon scattershot ’hermeneutical rules’, we should notice how an overarching story -centered upon Jesus Christ- formed the touchstone of his hermeneutics (p. 409). Un’interpretazione negativa è quella di T.P. O’Malley, Tertullian and the Bible, 133: “The regula is a negative, confirming norm, to wich Tertullian appeals, as he also appealed to nature.”

38 Prax. 20,2.

39 Res. 21,2. Cf. anche Res. 19,1: Et haec itaque dispectio tituli et praeconii ipsius, fidem utique defendens uocabulorum, illuc proficere debebit, ut, si quid diuersa pars turbat obtentu figurarum et aenigmatum, manifestiora quaeque praeualeant et [de] incertis certiora praescribant.

40 Pud. 19,3. Differente aprezzamento di J.H. Waszink secondo il quale non è un principio di Tertulliano “an accord with the whole of Holy Scripture” (J.H. Waszink, De anima, 27).

41 Praescr. 38,6: Cum autem omnis interpolatio posterior credenda sit, ueniens utique ex causa aemulationis quae neque prior neque domestica unquam est eius quod aemulatur, tam incredibile est sapienti cuique ut nos adulterum stilum intulisse uideamur scripturis qui sumus et primi et ex ipsis, quam illos non intulisse qui sunt et posteri et aduersi.

42 Cf. G.D. Dunn, Tertullian’s Scriptural, 146.