Ror Studies Series | Storia Religioni Comparazione
Religioni e relazione: epistemologia e studio della storia
Giulio Maspero
Pontificia Università della Santa Croce
1. Introduzione etimologica
Per affrontare la questione dell’epistemologia comparativa nell’ambito degli studi della religione o delle religioni può essere interessante partire proprio dalla discussa etimologia di questo termine. La sua origine latina religio viene ricondotta fondamentalmente a due radici, la prima relegĕre indicata in ambito pagano da Cicerone,1 la seconda religāre individuata in un contesto già cristiano da Lattanzio, in dialettica con Cicerone stesso.2 Numerose sono la pubblicazioni dedicate al tema.3 Qui può essere sufficiente rifarsi alla trattazione di Émile Benveniste, il quale giunge essenzialmente a due conclusioni: a) la radice originaria è quella ciceroniana, per la quale, però, viene evidenziato il senso soggettivo dello scrupolo, del trattenersi, di fronte a una dimensione che eccede perché precede, e che quindi va osservata con scrupolo;4 b) la radice cristiana avrebbe una componente più oggettiva, legata alla novità dell’esperienza religiosa vissuta e al vincolo personale che essa ha introdotto.5 La prima definizione evidenzia l’elemento semantico, mentre la seconda rinvia a una dimensione sintattica.
La questione è particolarmente interessante perché illustra come la dinamica comparativa è ineludibile e intrinseca al pensiero e alla lingua dell’uomo. Nel parlare di “storia delle religioni” bisogna, infatti, domandarsi quanto la concezione della storia, radicalmente trasfigurata dalla rivelazione cristiana, influisca sulla percezione del fenomeno religioso non solo ad intra, rispetto alla propria tradizione, ma anche ad extra, in generale e in riferimento ad altre esperienze. Nel considerare il passaggio da una prima approssimazione a tale ambito di studio nel contesto di un’epistemologia di taglio positivista a quella più recente segnata dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze contemporanee, può essere interessante interrogarsi su quanto il pensiero cristiano, nel cui contesto il ricercatore moderno e post-moderno si muove anche se inconsciamente (o dialetticamente), abbia introdotto l’elemento della relazione per come è presente nel proprio bagaglio grazie alla dottrina trinitaria.
Il tentativo di risposta a tale domanda sarà articolato in tre livelli: (a) una prima approssimazione fenomenologica al confronto tra Scrittura e religioni non cristiane nel pensiero di René Girard, il cui metodo si rivela profondamente comparativo; (b) da tale prima prospettiva scritturistica, si passerà a quella patristica, attraverso tre esempi tratti rispettivamente dai secoli III, IV e V d.C. per illustrare come la coscienza della ineludibilità di una dimensione comparativa nel confronto con le altre religioni fosse insita nel pensiero dei Padri della Chiesa; (c) infine, un breve passo più teologico-filosofico cercherà di proporre una lettura dei dati offerti alla luce dell’ontologia relazionale e dell’epistemologia che da essa discende.
La tesi qui sostenuta è che la dimensione comparativa è ineludibile quando si assume una prospettiva autenticamente storica, nel senso oggettivo ed ontologico dischiuso dalla rivelazione cristiana. Infatti si può parlare davvero di storia, nell’accezione che la modernità ha ereditato dal cristianesimo, pur in forma secolarizzata, solo se si attribuisce alle relazioni che connettono i diversi momenti cronologici una rilevanza non meramente accidentale. Si ha scienza, infatti, solo quando è possibile accedere allo studio delle cause, delle quali le relazioni intra-storiche sono diventate luogo epifanico alla luce dell’evento cristiano. Ugo Bianchi ha affermato, con grande chiarezza, che la storia delle religioni non può prescindere da un elemento filologico né dalla fenomenologia sociologica, ma nello stesso tempo non si riduce ad essi, proprio per l’elemento storico che caratterizza essenzialmente la propria ricerca.6
Seguendo l’ispirazione del grande storico delle religioni italiano si tenterà di far convergere il dato etimologico e quello sociologico su una lettura autenticamente storica. Infatti, il discorso sulla storia delle religioni si è concentrato molto su cosa è una religione dando per scontato l’elemento storico, che invece ora appare in crisi profonda, fino all’estremo di mettere a rischio l’esistenza stessa della disciplina. E, purtroppo, lo stesso destino incombe su altri ambiti di ricerca connessi alla storia.
Eppure, se si prende sul serio la doppia etimologia di religio, considerandola non in senso dialettico, come un aut–aut, ma come relazione, si può rinvenire una prospettiva metodologica originale a partire dall’analisi del sociologo Pierpaolo Donati. Questi ha individuato due elementi fondamentali della relazione, che ha definito religo e refero: il primo corrisponde all’appartenenza necessaria, cioè alla componente unitiva, mentre il secondo esprime la dimensione simbolica che introduce la distinzione e il rinvio ad un oltre.7 Così ogni relazione sociale unisce e distingue nello stesso tempo e per la stessa ragione, combinando un elemento sintattico ed uno semantico. Un figlio è inscindibilmente unito al padre, senza il quale non può essere sé stesso, ma nello stesso tempo la relazione che identifica anche distingue il genitore dal generato, i quali non possono essere la stessa persona. Quindi il figlio “significa” il padre perché è a lui “unito” nell’origine, e viceversa: il religāre e il rĕferre, analogo al relegĕre ciceroniano, si danno contemporaneamente. Semantica e sintassi emergono, così, dalla relazione stessa. È estremamente importante notare che la prospettiva eziologica qui deve essere ampliata, perché ciò che causa l’unione e ciò che causa la distinzione coincidono, rendendo cieca una ricerca mirata solo alla dimensione sostanziale. Si rende necessario, pertanto, introdurre la relazione stessa nell’orizzonte delle cause.
Si noti, allora, che religo rinvia proprio alla radice latina della religione, mentre refero si approssima a quel relegĕre, che per via del greco legein è connesso al raccogliere e al portare, cui si riconduce anche logos. In entrambi i casi si tratta di un “riportare”, che il supino latum collega anche al greco ἔτλην,8 con un significato perfettamente coerente con lo scrupolo e il trattenersi evidenziato dalla radice ciceroniana. La sofferenza, infatti, si collega al trovarsi di fronte ad una rottura di continuità, un limite, che fa prendere coscienza della necessità di riconsiderare. Tipicamente questa rottura è identificabile con la limitatezza della vita, che rinvia ad un oltre. Ma la prospettiva cristiana si sa costitutivamente in relazione con tale Oltre, che della vita è sorgente, in modo tale che il religāre permette di reinterpretare il relegĕre, e il rĕferre, alla luce della relazione oggettiva, storica e fisica, con il Logos che si è fatto carne.
2. Epistemologia scritturistica della religione
Il titolo di questa sezione suggerisce la domanda che guida la prospettiva della presente indagine: cosa succede al nostro oggetto di indagine, cioè alla religione, se si prende sul serio la Sacra Scrittura? Cosa accade se ci si lascia interrogare da essa senza collocarla a priori in una categoria elaborata in un ambito differente? Il nostro sguardo cambia? Emergono nuovi elementi nel panorama che la Parola di Dio illumina? E la dimensione comparativa ha qualcosa a che vedere con essi?
L’esempio di René Girard sembra particolarmente efficace per illustrare il presente punto. Le sue ricerche presero le mosse da posizioni epistemologiche di taglio evoluzionista con una critica a Marx e Freud in base alla constatazione che l’uomo non entra in competizione solo per i beni materiali o per la possibilità di riprodursi, come gli animali, perché il desiderio mimetico dell’essere umano non conosce limiti. Ciò innesca la possibilità di una violenza totale, che arriva fino ad annichilire il proprio simile e sé stessi. Nell’ambito animale tale eccesso anti-evolutivo è limitato e controllato dall’istinto. Ma questo manca nell’uomo, il quale, secondo Girard, deve la propria sussistenza e il proprio successo come specie proprio alla dimensione religiosa, introdotta per supplire alla suddetta mancanza attraverso proibizioni e divieti, che proteggono la vita. Lo stesso processo di ominizzazione è, così, individuato nella comparsa del fenomeno religioso, presentato sotto una luce estremamente diversa rispetto al positivismo illuminista. L’homo religiosus, introdotto da Gerardus van der Leeuw9 e descritto da Julien Ries e Mircea Eliade, sarebbe semplicemente l’homo.
Si noti come già in questo punto di partenza si scorge la doppia dimensione del religāre e del rĕferre-relegĕre, perché l’analisi di Girard non si ferma alle somiglianze tra il caso umano e quello animale, ma sa riconoscere una dimensione ulteriore, legata all’ambito simbolico. Infatti, la differenza specifica dell’umano non è riconosciuta nella dimensione razionale, come già aveva fatto Aristotele nella sua lettura dell’uomo come elemento del cosmo finito e necessariamente connesso al primo Motore, a sua volta finito, ma la cifra dell’uomo è individuata nel desiderio illimitato. La comparazione con l’animale, dunque, non si ferma alla congruenza, ma si estende alla differenza, dove quest’ultima praticamente si identifica con la possibilità simbolica stessa indicata dal refero.
Nella lezione pronunciata da Girard nel 2006 a Tubinga, per il conferimento del Dr. Leopold Lucas Award, assegnatogli dalla Facoltà di teologia protestante, il grande accademico di Francia ha tracciato alcune tappe del proprio cammino epistemologico,10 la cui svolta è connessa al dialogo con Raymond Schwanger, teologo di Innsbruck.11
In sostanza, la critica al riduzionismo sessuale freudiano12 portò Girard ad identificare la causa dell’insorgere dei sacrifici religiosi nella necessità di far convergere la violenza sorta dalla dimensione mimetica illimitata dell’uomo, essere finito ma caratterizzato da un desiderio infinito, su un unico individuo che, come capro espiatorio, calmi la tensione dialettica. L’espressione posta da Giovanni sulle labbra di Caifa, sommo sacerdote, sarebbe la miglior descrizione del meccanismo stesso: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”.13 Il singolo è sacrificato per la vita dell’insieme, in un processo di riduzionismo che antepone l’universale sociale al personale particolare.
In tal modo la ragione delle somiglianze e dei parallelismi tra i diversi miti diventerebbe evidente, per il semplice fatto che tutti deriverebbero da uno stesso meccanismo, il cui risultato sarebbe la divinizzazione della vittima. I crimini degli dèi pagani sarebbero, dunque, così umani per il semplice fatto che in origine dietro i miti ci sono carnefici e vittime vere, anelli di una catena che si autoriproduce attraverso il meccanismo mimetico, la cui forza sta nell’essere inconscio. Esso, al più, riesce a tradurre in riti evolutivamente più convenienti i sacrifici originari, scaricando la tensione su animali o rappresentando scenicamente il conflitto. La teoria di Girard è, dunque, una critica radicale al contratto sociale.14
Dal punto di vista epistemologico qui è estremamente interessante osservare che l’approccio della genealogia nietzschiana non è negato, ma assunto, “usato”15 e condotto a conclusioni radicalmente diverse da quelle del grande filologo tedesco.16 Girard laicamente accosta in forma comparativa i miti delle tradizioni religiose pagane e le narrazioni bibliche, per far emergere i punti di contatto, ma anche le differenze, giocando sul doppio registro del religāre e del rĕferre-relegĕre. E qui emerge l’elemento sorprendente, perché la dimensione relazionale della prospettiva, cioè della luce attraverso la quale si osserva il fenomeno, viene dimostrata essere ineludibile nell’atto conoscitivo e inestricabile rispetto allo stesso oggetto conosciuto. Scrive il grande intellettuale francese:
“La teoria mimetica chiarisce l’opposizione radicale tra il sacrificio arcaico e quello che viene chiamato il sacrificio di Cristo. È questa l’opposizione che l’intera cultura moderna fa in modo di non vedere, ostinandosi per esempio a definire il sacrificio in termini di dono o di offerta. Questo tema un po’ ipocrita permette di eludere sistematicamente quello della violenza, che, con risultati grotteschi, viene trasformata in un ingegnoso processo appositamente inventato per disporre di un dono, la vittima, che i donatori non possono consegnare con le proprie mani a un destinatario sempre assente: la divinità.”17
Merito di Nietzsche e della sua onestà filologica è stato, dunque, l’aver fatto emergere la dimensione violenta del pensiero pagano, risultato che, paradossalmente, solo lo sguardo cristiano poteva permettergli di ottenere.18
Come si percepisce immediatamente, tale conclusione di Girard è frutto della sua epistemologica “laicale” che accosta le due forme di sacrificio, senza il pregiudizio di identificarle, secondo un approccio riduzionista che ricondurrebbe la novità rivelata a una dimensione solo cosmica, la quale di per sé continua in parte ad essere presente nella concezione sacrificale cristiana (religāre), ma che nello stesso tempo la trascende (rĕferre-relegĕre) radicalmente. Si noti che il risultato non è ottenuto a priori, a partire da una concezione ideologica, ma è frutto di un processo che conduce alla presa di coscienza a posteriori della compresenza di entrambi gli elementi. Si veda quanto l’autore francese afferma del giudizio di Salomone sulle due prostitute una delle quali ha perso il bambino e cerca di rivendicare il figlio dell’altra (1 Re 3,16-28):
“Disconoscere l’abisso che separa la prostituta buona da quella malvagia, cancellare tale differenza ricorrendo in entrambi i casi al medesimo termine «sacrificio», ecco quello che mi scandalizzava. Io ho perciò riservato per molto tempo il termine «sacrificio» alla soluzione proposta da Salomone, al tipo di sacrificio la cui minaccia viene scongiurata per sempre dal gesto della seconda donna. Per giustificare questa decisione, io ho insistito sulla critica profetica dei sacrifici, ripresa da Gesù nei Vangeli, e ho parlato di un cristianesimo non sacrificale come del solo messaggio autentico di fronte a tutte le dottrine che mascherano la violenza umana, le religioni, le filosofie e altre espressioni culturali esplicitamente o implicitamente estranee alla rivelazione cristiana. Parlando in questi termini, io non cercavo minimamente di oppormi alle posizioni teologiche ortodosse, di cui avevo una conoscenza insufficiente. Quello che volevo era solo dissipare presso i non cristiani e, oggi, anche presso i cristiani, l’equivoco mantenuto dall’ambivalenza del termine «sacrificio». Tale preoccupazione rimane a mio parere legittima, ma non bisogna «assolutizzarla». Per separare con chiarezza i due tipi di religione, quello mitico e quello cristiano, cercavo una differenza simbolicamente rappresentabile, qualcosa che fosse visibile e tangibile al massimo grado. In questo, avevo due volte torto. Innanzitutto, perché la separazione che desideravo non era veramente indispensabile, e ne ho appena rammentato il motivo. In secondo luogo, perché il ricorso alla medesima parola per entrambi i tipi di sacrificio, per ingannevole che possa essere a un primo livello, mi sembra suggerire qualcosa di essenziale, ovvero la paradossale unità della religione da un capo all’altro della storia dell’uomo.”19
Si osserva qui il passaggio di Girard da una posizione dialettica ad una autenticamente relazionale, che forse può essere considerata una sua vera e propria “conversione” epistemologica maturatasi nel dialogo con il teologo Raymond Schwanger. Dalla percezione della differenza radicale tra i sacrifici pagani e la croce si passa alla comprensione della ragione profonda della similitudine che lega le due realtà, ragione che è la salvezza dell’uomo contemplata nell’unità della storia stessa, la quale acquista così una nuova densità ontologica.
Ma la dimensione qui più immediatamente interessante è quella epistemologica, legata al metodo che rende possibile la conoscenza del reale. Girard osserva, infatti, che i miti sono d’accordo con i linciatori, mentre i Vangeli no,20 nel senso che la prospettiva conoscitiva è diversa, più alta perché riconosce una violenza sull’innocente che i sacrifici pagani non possono vedere: il mito non vede l’innocenza di Edipo, il Vangelo rivela l’innocenza di Cristo e, così facendo, rivela il meccanismo della mimesi sfrenata. Il Logos che si è fatto carne, con la sua morte volontaria, fa saltare il congegno che copriva il sacrificio del capro espiatorio, rivelando l’innocenza di tutte le vittime nella storia, a partire da Abele. Ma questo “illuminismo” è frutto della grazia, cioè della relazione tra la ragione dell’uomo e la Luce di Dio stesso che si dona, come il tradimento di Pietro rivela, secondo l’originale e profonda esegesi girardiana:
“A questo punto non è solo la paura che spinge Pietro a rinnegare Gesù, ma è il contagio mimetico nella ricerca del capro espiatorio, che nella mitologia trionfa sempre e che avrebbe trionfato anche nei Vangeli, se il Paraclito, il divino difensore delle vittime, l’avvocato difensore, non fosse intervenuto in quest’affare, per la nostra illuminazione (enlightenment) globale, un illuminismo (enlightenment) più fondamentale di quello di Voltaire e Rousseau.”21
Così il metodo comparativo di Girard si discosta evidentemente da quello comparativo della storia delle religioni secondo Ugo Bianchi e la sua scuola, perché introduce un giudizio legato esplicitamente alla fede,22 ma nello stesso tempo rivela come la possibilità stessa di accostare elementi diversi senza uniformarli, ma rispettando la loro struttura interna e la loro identità propria, è resa possibile da una prospettiva epistemologica attenta alla relazione e, per questo, capace di indagare sia l’identità, sia la differenza. La seguente descrizione enuclea in modo estremamente chiaro l’elemento del religāre e quello del rĕferre-relegĕre nella lettura del sacrificio da parte del grande francese:
“Nel cuore delle Scritture ebree e cristiane c’è lo stesso tipo di evento: quello di un fenomeno di capro espiatorio, come dietro ogni mito; ma, invece di essere compreso a partire dal punto di vista ingannevole di coloro che si uniscono per linciare il capro espiatorio, esso è interpretato dal punto di vista di Gesù, che è la verità oggettiva.”23
Questa capacità di leggere la differenza al di là del riduzionismo concettuale che la forma esteriore avrebbe indotto è esplicitamente ricondotta da Girard alla Trinità, origine della luce che permette la comparazione e una prospettiva autenticamente laicale:
“Anziché essere un altro capro espiatorio sacralizzato, Cristo diventa capro espiatorio per desacralizzare le vittime fatte prima di lui e impedire che se ne sacralizzino dopo di lui. Proprio incarnando questo ruolo, Cristo rivela il vero Dio che egli stesso è, e insieme la debolezza dell’uomo, condannato da sempre all’errore, tanto enorme quanto inevitabile, che consiste nell’implicare Dio in violenze che sono puramente umane. Cristo, suo Padre e il Paraclito sono dunque tutti e tre il solo Dio che corrisponda alla definizione di Giovanni: «Dio è amore».”24
La “desacralizzazione” resa possibile dalla rivelazione della Trinità rivela una prospettiva epistemologica capace di riconoscere il valore della storia in quanto tale, non della storia sacra e basta, ma della storia personale dei singoli membri del popolo, laos appunto. La vita quotidiana, la prosa, la lotta della coscienza, le paure e le speranze del cuore del singolo uomo acquistano un rilievo inimmaginabile.
La prospettiva è analoga a quella rinvenuta dal filologo ebreo Erich Auerbach nel suo capolavoro Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, scritto durante la seconda guerra mondiale mentre l’autore era rifugiato ad Instabul, senza possibilità di accedere a biblioteche e alle ultime ricerche, e pubblicato nel 1946 in Svizzera alla fine del conflitto. Il titolo stesso dell’opera rivela già la prossimità epistemologica con René Girard.
Nel primo capitolo Auerbach confronta il momento intensamente (anti-)drammatico nel quale l’anziana nutrice riconosce Ulisse tornato ad Itaca, descritto nel XIX canto dell’Odissea, con il sacrificio di Isacco narrato in Gn 22,1-18, cioè due narrazioni probabilmente quasi coeve.25
Una lettura anacronistica, infatti, tenderebbe ad accostarsi all’incontro omerico come se fosse carico di una profonda tensione per l’intensità della storia del “mistero” di cui l’incontro diventa simbolo. Ma ciò è completamente assente nella narrazione omerica, che non conosce il religo sintattico ma solo il refero semantico. L’obiettivo del narratore è bidimensionale, in modo tale che non ci sia ombra alcuna, senza profondità né sfondo, perché tutto appaia in bella evidenza, sia la complessità della situazione, sia la dimensione interiore dei personaggi. Tutto è mostrato attraverso un discorso diretto al presente che non lascia margine alla tensione, opportunamente sciolta e trattenuta dalle digressioni e dalle descrizioni dei particolari. Le forme sono finite, determinate, esatte, piane, con i loro rapporti spaziali perfettamente ordinati ed estesi a tutto l’ambito descritto, senza vuoti di sorta. E ciò vale anche per i sentimenti e il mondo interiore dei protagonisti, portato in primo piano e perfettamente visibile, come si trattasse di panni stesi al sole nella trama narrativa. L’arte qui mira ad illustrare una perfetta conoscibilità dell’azione, che il filologo tedesco riconduce alla “verità”, opponendola alla “realtà” della narrazione biblica. Ciò si riferisce alla perfezione ideale del testo greco, che stride con l’incompletezza o oscurità dei passaggi del testo ebraico, il quale, proprio per questo, però, si presenta come più prossimo alla realtà con la sua molteplicità di piani solo parzialmente osservabili. Così Auerbach definisce la prima narrazione “leggendaria”, mentre attribuisce la qualità della “storicità” alla seconda.26
Nella descrizione genesiaca si può dire che si ha l’opposto che in Omero. Dio, interlocutore di Abramo e vera origine dell’azione drammatica, è nascosto dal velo del mistero, così come le parole e gli elementi dialogici riportati sono minimi, stringati, tratteggiati, si potrebbe dire. La successione presentata è in forma essenziale, senza digressioni, lasciando moltissimo in ombra, fino a raggiungere un effetto di chiaroscuro che accresce la tensione drammatica favorendo anche l’identificazione tra il lettore e i protagonisti. Infatti, mentre nella narrazione omerica questi ultimi non hanno una vera storia ma sono presentati come sempre uguali a sé stessi, perfino nel caso di Ulisse e di Penelope che in vent’anni non cambiano per nulla, la Bibbia invece presenta Abramo con tutto il peso della sua memoria, a partire dalla promessa, e costruisce la successione degli eventi per mostrare un vero cambiamento, che corrisponde proprio a quel viaggio, quell’esodo, che costituisce l’identità stessa dell’ebreo, indicato in ebraico dal termine ivrit, cioè colui che attraversa, che parte. Qui si vede come il refero è trasfigurato dal religo biblico che, a differenza di Omero, richiede un’interpretazione, perché rinvia ad un oltre e ad una profondità, attingibile solo nella relazione e, quindi, nell’uscita, in un esodo sintattico, dal proprio campo semantico. In altri termini, la narrazione omerica è chiusa, quella biblica aperta.
Ancor più interessante è il confronto introdotto nel secondo capitolo tra due testi di ambito pagano del I sec. d.C., cioè il Satyricon di Petronio (ca37 e 38) e gli Annales di Tacito (libro I, cap. 16) con il Vangelo di Marco (Mc 14, 66-72). Nel primo caso, rispetto alla prospettiva oggettiva di Omero, si introduce un elemento eminentemente soggettivo, ma in base ad un rigida separazione degli stili, la quale esige che la vita quotidiana sia descritta comicamente e solo così, senza ripiegamenti o complicazioni di genere. Secondo Auerbach la storia è qui del tutto assente, mentre la dimensione morale è il vero motore della narrazione. Significativamente tale prevalenza del moralistico sullo storico si rinviene anche in Tacito, perché lo sguardo non è in grado di scorgere le forze con la loro dinamica, ma solo la staticità dei vizi e delle virtù. Si potrebbe dire che il racconto non è realista, ma solo realistico. Qui è ancora più evidente che la separazione degli stili, inducendo una riduzione alla dimensione cronologica, esclude la possibilità di narrare una vera storia, con le sue luci e le sue ombre. Tutto è sottomesso alla misura di categorie immutabili, che fondano la dimensione essenzialmente retorica di tali testi, una commedia satirica e una ricerca storica, indipendentemente dalla differenza tra i loro generi.
Ben diverso è il testo evangelico, i cui personaggi, pur essendo di bassa condizione, un pescatore galileo e una serva, presentano una estrema profondità narrativa, che ce li pone di fronte con grande realismo. Ciò è ottenuto attraverso una mescolanza di stili che non è dettata da una strategia narrativa, ma che risulta dall’aver portato in primo piano il quotidiano, come luogo decisivo per la storia. La descrizione comica del reale e la presentazione “alta” dei movimenti delle forze storiche, che la forma letteraria pagana ha sempre tenuto accuratamente separate, collassa mostrando la trascendenza di un uomo qualsiasi nella sua finitudine con la non linearità e non piena comprensibilità delle sue dinamiche interiori. Di fronte all’oscillazione tra la coraggiosa promessa di fedeltà e la paura che induce la negazione, moralismo e retorica si dissolvono. La paura della morte svela, così, la presenza della vita.
È cambiata, infatti, radicalmente la prospettiva: mentre Petronio e Tacito scrivono dall’alto per la classe colta, Marco narra attraverso gli avvenimenti direttamente al lettore, chiunque egli sia. Ciò ha un effetto a ritroso su tutta la narrazione veterotestamentaria, che deve essere riletta a partire dall’esperienza di Pietro, Giacomo e Giovanni. La concretezza del loro sentire, portato in primo piano con tutte le sue ombre, esige un’interpretazione simbolica degli eventi precedenti, la cui realtà è confermata dalla rappresentazione della dimensione quotidiana e personale del Vangelo.27 In estrema sintesi, dice Auerbach:
“Una scena come la rinnegazione di Pietro è troppo seria per la commedia, troppo d’ogni giorno e attuale per la tragedia, politicamente troppo irrilevante per la storiografia, ed ha assunto una forma d’immediatezza che non si dà nelle letterature antiche.”28
Come per Girard, anche qui l’analisi dell’imitazione svela una realtà, che la comparazione fa emergere. Si potrebbe dire che entrambe le analisi condividono una scelta epistemologica che ha la forza di leggere la differenza, perché è aperta alla relazione. Il religāre e il rĕferre-relegĕre, quindi le dimensioni orizzontale e verticale, sintattica e semantica, appaiono qui contemporaneamente, restituendo un’immagine del fenomeno storico-religioso a tutto tondo, che sfugge ad ogni riduzionismo bidimensionale.
In fondo l’analisi di Girard ha messo in evidenza una patologia reale del desiderio umano che, quando perde il suo carattere simbolico, quindi il suo riferimento all’oltre, si riduce dalla sua naturale struttura tridimensionale, che caratterizza l’uomo come essere finito in tensione costante verso l’infinito, ad una deformazione bidimensionale, che rinchiude i soggetti in un carcere speculare e narcisista. Purtroppo la scristianizzazione ha prodotto una situazione patoplastica, nella quale il postmoderno è immerso, che è stato classificato da Giuseppe Fornari, nella sua rilettura di Girard, come double-bind,29 cioè doppio vincolo perverso che ingiunge, in essenza, di essere sé stessi, copiando gli altri.
La questione dal punto di vista epistemologico è essenziale, perché illustra come il ricorso alla comparazione mette in evidenza la dimensione relazionale, creando lo spazio per la libertà. Invece, quando il riduzionismo gnoseologico è in azione, l’uomo rimane intrappolato nel meccanismo mimetico, che le armi retoriche del moralismo non possono scalfire. Per questo è fondamentale notare che il grande antropologo e critico letterario francese, il quale ha significativamente iniziato il suo percorso trattando proprio del realismo del romanzo come opposto alla menzogna romantica, evidenzi che la coscienza di un conflitto non basta a superare la violenza che il conflitto stesso genera.30 Infatti, come il suo dialogo con il teologo Schwanger ha fatto emergere, la conversione è un presupposto della conoscenza perché ogni forma di autentica conoscenza implica il riconoscere sé stessi come persecutori,31 i quali cercano idolatricamente di rispondere al desiderio infinito attraverso il ricorso alle realtà finite. La sintassi, dunque, paradossalmente, precede la semantica.
3. Il metodo dei Padri
Si è accennato all’uso da parte di Girard della genealogia nietzschiana, così come all’analisi esplicitamente comparativa da parte di Auerbach. Letteratura e storia delle religioni interagiscono nel loro pensiero in modo non sistematico ed intenzionale, ma per effetto della loro stessa opzione epistemologica nell’approssimarsi alla storia.
Vale la pena di verificare la loro scelta sulla lettura del fenomeno religioso non cristiano da parte dei Padri della Chiesa, il cui metodo, stando all’attenta e profonda ricostruzione proposta da Christian Gnilka, si fonda sulla chrêsis, cioè sull’uso di elementi precedenti o esterni all’ambito cristiano, il cui valore emerge proprio nell’accostamento, rivelando l’efficacia di un giudizio che la fede nel dato rivelato ha reso possibile.32
René Girard aveva già notato come la posizione di Celso di fronte al cristianesimo fosse simile a quella sviluppatasi poi nell’ambito positivista con la modernità.33 Quando ho avuto la fortuna di incontrarlo a Standford, mi domandò con grande interesse riguardo alla presenza della teoria mimetica nei Padri della Chiesa.34 L’epistemologia comparativa permette di abbozzare una risposta.
Infatti, fin dai primi scritti dei Padri apologisti si rinviene una comune strategia per negare i presunti punti di contatto tra i miti pagani e la rivelazione vetero- e neo-testamentaria. Giustino, ad esempio, riconduce a plagi di passi scritturistici (come Dn 2,34) da parte dei seguaci del culto solare di Mitra i riferimenti alla nascita della divinità da una roccia in una grotta.35 Tale difesa è essenzialmente semantica e non riesce ancora a penetrare il proprium della differenza cristiana. Basti notare la prossimità alle accuse avanzate da Celso ai cristiani della riposta di Giustino a Trifone, ad esempio nel confronto con i culti egizi.36
Il confronto a distanza tra il filosofo medioplatonico ed Origene offre un valido punto di partenza. Ovviamente per la prospettiva di Girard si rivela estremamente interessante l’affermazione di Celso che Gesù avrebbe seguito tutti i costumi della cultura ellenista, a partire dai riti sacrificali.37 Ebrei e cristiani sono paragonati a pipistrelli, formiche, rane o vermi riuniti attorno ad uno stagno che litigano per stabilire chi di loro è il più colpevole.38 Anche Celso, dunque, ha un approccio comparativo, che però non coglie le differenze, ma solo relativizza, riducendo alla tradizione antica, che accomuna i popoli più sapienti, Egiziani, Assiri, Indiani, Persiani e, ovviamente, i Greci.39 Così quanto c’è di vero nella religione ebraica è già patrimonio dei saggi antichi, dai Druidi a Pitagora. Ma il popolo ebraico, composto da caprai e pecorai, ha irrazionalmente (ἀλόγως) abbandonato il culto politeista:40
“Questi caprai e pecorai hanno creduto in un unico Dio Altissimo, Adonai, Celeste, Sabaoth, o qualsiasi altro nome a loro piaccia attribuire a questo mondo. E non sapevano altro. Non importa nulla che si chiami il Dio supremo Zeus, con il nome che ha presso i greci, o con il nome che ha presso gli Indiani o con talaltro che ha presso gli Egiziani.”41
Qui la lettura è tutta al servizio del relegĕre, quindi completamente finalizzata all’osservanza delle tradizioni più antiche alle quali la pretesa cristiana sarebbe ricondotta da una prospettiva puramente semantica, che limita il confronto alle forme esteriori estrapolate dalla loro trama di relazioni, quindi dalla dimensione sintattica. La critica comparativista di Celso non può fare a meno, però, di offrirci il dato storico dell’umiltà delle origini dei primi discepoli di Gesù, pubblicani e pescatori, il cui status ben si adatterebbe alla rozzezza della dottrina cristiana.42 Nello stesso tempo dal testo traspaiano sia lo stupore perché anche persone intelligenti sono diventati seguaci del Galileo, sia la netta sproporzione tra l’origine e gli effetti.43 Il confronto spesso è con la religione egiziana, rispetto alla quale ebraismo e cristianesimo non introdurrebbero novità, nemmeno a livello taumaturgico.44
La lettura dell’avversario di Origene è davvero preziosa dalla prospettiva epistemologica, perché mostra come l’atto comparativo presuppone sempre un logos. La fede cristiana nell’unico Dio, infatti, è dichiarata irrazionale perché Celso non ammette che il Figlio di Dio possa essersi abbassato a tal punto, cioè che il farsi piccolo e prossimo possa attribuirsi alla divinità. Infatti egli accusa i cristiani:
“di fare dei sofismi quando affermano che il Figlio di Dio è il suo stesso Logos, perché, pur proclamando che il Logos è il Figlio di Dio, ci presentano un uomo flagellato ignominosamente e condotto al supplizio al posto del Logos puro e santo.”45
Come è evidente, lo scandalo del filosofo medioplatonico è causato dalla dimensione sintattica, perché il Logos stesso, fondamento della dimensione semantica del relegĕre ha subito il religāre fino all’estremo del supplizio della Croce.
Ciò è rafforzato dalla discussione sul demonio, in particolare sull’inaudita sconfitta di Cristo che muore per mano di satana, fatto che Celso non può accettare. È molto interessante come questo punto tocchi il cuore teologico ed ontologico della questione, perché il filosofo non ammette che Dio abbia un nemico capace di portare il Logos in croce, ma sa che nella propria tradizione le narrazioni mitiche sull’origine del mondo sono tutte testimoni di una conflittualità originaria, legata metafisicamente al dualismo. In questo riprende nello stesso tempo Eraclito, Omero, Crono con i Titani e i misteri egizi. Tutti questi elementi vengono equiparati, mentre vengono nettamente differenziati rispetto alla dottrina ebraico-cristiana sul demonio. I miti sono riletti metafisicamente.46 La scelta esegetica è squisitamente semantica, mentre l’elemento inaccettabile è ancora quello sintattico, cioè l’esporsi reale del Verbo incarnato nella relazione personale. La risposta di Origene mostra la diversità di lettura, identificando il capro espiatorio di Lv 16 con l’angelo perverso caduto dal Cielo, che ha provocato all’uomo la perdita del Paradiso:
“E il capro espiatorio del Levitico, che nella lingua ebraica si chiama Azazel, non è altri che lui. Era necessario che fosse scacciato e offerto in sacrificio (ἀποπέμπεσθαι καὶ ἀποτροπιάζεσθαι) nel deserto colui sul quale era caduta la sorte. Infatti, tutti coloro che per la malvagità hanno parte a ciò che è peggiore, in quanto sono contrari a coloro che appartengono all’eredità di Dio, sono deserti di Dio.”47
L’esegesi risente dell’eredità filoniana, della quale riprende l’intreccio di elementi biblici e platonici, come le ali perdute dell’anima, chiaro riferimento al Fedro48 nel proseguo del testo.49 Questa non è l’unica lettura del capro espiatorio in Origene, perché nelle sue omelie sul Levitico commenta Lv 16,8.10 in riferimento a Lv 14,4, collegando la coppia di capri a quella dei volatili lì prescritta come sacrificio per la purificazione dei lebbrosi.50 In questo caso il sacrificio viene connesso all’effusione di sangue e acqua sulla Croce.51 L’esegesi dell’Alessandrino è, qui, non solo semantica, ma anche sintattica, perché si muove sempre nella relazione personale, sia quando legge il capro espiatorio in senso demonologico, sia quando lo collega a Cristo.
Nel caso di Celso la comparazione è finalizzata ad un’identificazione semantica, mentre Origene si muove in una trama di relazioni. Rileggendo il tutto dal punto di vista di Girard, si può dire che proprio la luce della rivelazione giudaico-cristiana rende possibile un’esegesi che riconosce il ruolo della libertà e la volontarietà del sacrificio, quindi che non ha bisogno di proteggere Dio richiudendolo in una semantica.
Tale coscienza si ripresenta in Gregorio di Nissa, che nel sec. IV, proponendo una sorta di midrash di Gen 22, dimostra nel De deitate Filii et Spiritus Sancti di aver riconosciuto il meccanismo mimetico alla base dei miti pagani. Il Cappadoce, nel commentare il sacrificio di Isacco richiesto da Dio ad Abramo, si rivolge al lettore, domandando come si possano sentire i padri che leggono il testo, i quali per natura amano la loro prole. Una serie di domande suscitano l’identificazione con il patriarca, facendo emergere l’atterrito stupore che doveva caratterizzare il suo cuore in quel momento. La prosa è davvero efficace, rivelando una padronanza sofistica del mezzo narrativo. La natura stessa poteva essere chiamata in difesa come avvocato di fronte alla richiesta divina, ma Abramo non lo fa. Solo chiede perché dopo essere stato reso padre, deve rendersi infanticida.52 Fino alla domanda terribile:
“La ragione per la quale mi hai fatto assaporare questo dolce frutto è forse quella di fare di me un mito (μῦθόν με ποιήσῃς) per la vita?”53
Tale chrêsis del termine mythos rivela la coscienza della differenza tra l’esperienza tridimensionale di Abramo, fondata contemporaneamente sul religāre e sul rĕferre-relegĕre, e il meccanismo mimetico pagano, che, come detto, funziona nella misura in cui è inconscio.
Basta qui confrontare la posizione di Celso con quella di Gregorio: entrambi realizzano una chrêsis, ma il filosofo medioplatonico presenta una chrêsis semantica, nella linea dell’osservanza religiosa ciceroniana, mentre il vescovo di Nissa si muove anche su un piano sintattico, a partire dalla relazione personale con Dio. Celso, infatti, “usa” elementi cristiani giudicandoli in base alle proprie categorie, in sostanza per confermare quelle stesse categorie. Gregorio, invece, se ha ragione Girard, rivolge lo sguardo al fenomeno del capro espiatorio, in questo caso Isacco, e al mito in generale, a partire dalla coscienza drammatica della propria colpevolezza e, quindi, in relazione con il fenomeno stesso. Anzi, la luce che permette al Nisseno di percepire la negatività dei sacrifici mitici e, quindi, di rappresentare la perplessità di Abramo di fronte alla richiesta divina, è proprio la relazione, la relazione personale paterno-filiale, tra Dio e Abramo, da una parte, e tra il patriarca e Isacco, dall’altra. Si noti che Gregorio, il quale ha esperienza diretta della rappresentazione teatrale dei miti,54 giunge ad affermare che il principio sintattico dello scopo (σκοπός) rende possibile perfino l’uso dei miti stessi nella Scrittura:
“Infatti spesso la Sacra Scrittura sa utilizzare anche alcuni miti pagani come ausilio per raggiungere il proprio scopo, e senza vergogna ricorda alcuni nomi derivanti da narrazioni mitiche (τῆς μυθικῆς ἱστορίας) al fine di esporre più chiaramente il concetto proposto.”55
Ancora la chrêsis è qui fondamentale perché, come già nell’operazione della metafisica realizzata da Platone e Aristotele, gli elementi di verità possono essere fatti emergere dal nuovo contesto nel quale le narrazioni sono inserite. Tornando alla caverna come luogo della nascita divina, già accennato nella difesa di Giustino di fronte a Trifone a partire da un elemento ben radicato nella mitologia greca,56 Gregorio riprende il mito della caverna platonica del VII libro della Respublica, reinterpretandolo profondamente. Infatti, l’identificazione della vita materiale con l’interno della caverna non era accettabile dalla prospettiva cristiana, per la bontà della creazione affermata nella Genesi. Per questo, una prima esegesi identifica l’oscurità con la vita segnata dal peccato originale, dal quale Cristo è venuto a liberarci. Ma poi, a seguito di un viaggio a Gerusalemme e della visita a Betlemme nel 382, Gregorio di Nissa cambiò la sua interpretazione, affermando che se Dio era nato nella grotta, allora non era più necessario abbandonarla, perché là dove il sole splende non ci sono più tenebre.57 In tale sviluppo si vede come l’elemento semantico, caratteristico del relegĕre, visto nel confronto di Giustino con le tradizioni mitraiche, è trasfigurato dall’elemento sintattico del rĕferre-relegĕre, che si fonda sull’esperienza dei luoghi santi stessi.
Un altro elemento estremamente interessante in tale linea di comparazione sintattica, cruciale nel confronto con il paganesimo, è l’Epistula XLI di Cirillo di Alessandria (CPG 5341: Schwartz I,I,4,40-48) diretta ad Acacio, vescovo di Scitopoli, dedicata sempre all’esegesi del capro espiatorio (περὶ τοῦ ἀποπομπαίου) in Lv 16 e inclusa nel dossier patristico negli atti del Concilio di Efeso. La lettera è con tutta probabilità scritta nel 432, in una situazione di particolare agitazione e conflitto.58 La chiesa di Scitopoli, infatti, era attraversata da forti contrasti tra cristiani, ebrei, samaritani e pagani.59 La questione del sacrificio era elemento di discussione sia in rapporto con l’ebraismo e i giudeocristiani, sia in rapporto al paganesimo.60
Cirillo si può appoggiare, nella sua esegesi, all’identificazione tra il secondo capro in Lv 16 e Cristo nella sua passione, sviluppata dalla prima patristica, come indica l’Epistola di Barnaba:
“Come, dunque, è stato comandato di fare? Attenzione: Prendete due capri belli e uguali ed offriteli. Il sacerdote ne prenda uno per l’olocausto in riparazione dei peccati. E dell’altro cosa faranno? Si dice: quello sia maledetto. Fate attenzione a come si rivela il tipo di Gesù. E tutti sputate e trafiggete e cingetegli il capo di lana rossa e sia scacciato così nel deserto. E quando è avvenuto è stato così, chi porta il capro lo conduce nel deserto e toglie la lana e la pone su un cespuglio detto rovo, i cui frutti siamo soliti mangiare se li troviamo nei campi. E sono dolci così solo i frutti del rovo. E anche questo che significa? Fate attenzione: uno dei due è per l’altare del sacrificio, l’altro è maledetto, e quello maledetto è coronato. Poiché in quel giorno lo vedranno con la veste rossa attorno al corpo e diranno: non è questi colui che noi abbiamo crocifisso e ricoperto di insulti e di sputi? Davvero era proprio lui che diceva di essere Figlio di Dio.”61
Si nota che la lettura ha una dimensione relazionale, nella quale si sviluppa la tipologia che collega il secondo capro e la passione di Cristo, ma anche un elemento dialettico, che oppone i due capri per relativizzare i sacrifici giudaici. Tale elemento dialettico è assente nella lettura di Giustino, il quale rilegge i due capri come profezia della passione e della seconda venuta del Cristo.62
Il testo dell’Epistula XLI di Cirillo, dopo un’introduzione retorica nella quale si evidenzia la difficoltà del tema in essa trattato, cioè il rito della purificazione del Sancta Sanctorum che il sommo sacerdote realizzava nella festa dello Yom Kippur63 (1-2: 40,3-17), presenta Lv 16 da una prospettiva cristologica, la quale è inseparabile rispetto ad una lettura tipologica del testo (3: 40,18-41,15). Ciò porta a rifiutare nettamente l’interpretazione allora corrente che identificava il capro inviato nel deserto come una offerta ai demoni, lettura radicalmente incompatibile con la critica anti-idolatrica che attraversa la Bibbia da Dt 6,13 a Es 20,3, da Dt 12,1-3 a Es 32,7-9, fino a Nm 25,1-9 (4-6: 41,15-42,21). Immediatamente viene enunciata la tesi centrale di Cirillo: l’esegesi richiede di togliere il velo dal testo veterotestamentario, come dal volto di Mosé, leggendo Lv 16 non in senso semantico, come riferimento ai sacrifici pagani, impossibile per il contesto, ma sintatticamente come annuncio in ombra della verità neotestamentaria: “Dunque i nomi di capro del Signore e capro espiatorio significano entrambi l’unico e solo Figlio e Signore Gesù Cristo”64 (7-8: 42,21-43,16).
La dimensione sintattica è, così, al centro del seguente passo nel ragionamento di Cirillo (9-12: 43,16-44,26), il quale collega Lv 4,22-23, dove si indica il sacrificio di un capro come via per ottenere da Dio il perdono di un peccato, a 1 Cor, 15,3 e Is 53,4-6, grazie ai quali si presenta il farsi peccato del Cristo in 2 Cor 5,21 in termini di sofferenza vicaria:
“Infatti non diciamo per nulla che Cristo divenne peccatore, cosa che non potrebbe essere, ma che, essendo Lui giusto, anzi essendo piuttosto la Giustizia stessa, in quanto non conobbe caduta, il Padre lo fece vittima per le cadute del mondo.”65
Tale sofferenza vicaria si fonda sull’innocenza di Cristo, che non aveva colpe proprie. L’esegesi sintattica si fonda, così, sulla “sintassi ontologica” enunciata dal dogma cristologico, per il quale Cristo è perfetto uomo e perfetto Dio, in un’unità reale, per la quale uno può prendere il posto dell’altro. Refero e religo sono qui ancorati all’unica radice comune, che rende possibile la comparazione perché porta una luce più forte della colpa e di ogni meccanismo necessario nella lettura dell’umano:
“Ma il Verbo di Dio Padre, ricco di clemenza e amore degli uomini, divenne carne, cioè uomo conformandosi a noi che siamo sotto il giogo del peccato e sottomettendosi alla nostra sorte.”66
Tale prospettiva apre la possibilità di interpretare la differenza dei due capri non come opposizione dialettica, inevitabile da una prospettiva solo semantica, ma in chiave relazionale e storica, come riferimento ai due momenti della vita stessa del Cristo (13-14: 44,27-45,14). Il capro espiatorio inviato nel deserto, infatti, vive perché è immagine della risurrezione: “Gesù Cristo, l’Unigenito e Signore, è ritratto in entrambi, mentre patisce nella propria carne ma è al di sopra della sofferenza e mentre è nella morte ma è al di sopra della morte.”67
Tale esegesi relazionale e sintattica è rafforzata dal riferimento a Lv 14,2-7, mettendo in parallelo i due capri e i due uccelli di cui ivi si prescrive l’offerta per la purificazione dalla lebbra. Anche in quel caso uno viene sacrificato mentre l’altro, dopo essere stato immerso nel sangue del primo, viene liberato. In tal modo, il volo del secondo uccello viene sfruttato da Cirillo, con grande abilità, per connettere la croce all’ascensione di Cristo, il quale “ha sofferto nella carne secondo le Scritture, ma è rimasto al di sopra della sofferenza ed è morto nell’umanità, pur essendo vivente come Dio: infatti, il Logos è la Vita (Gv 1,4).”68 Il tema, caro al giudeocristianesimo,69 permette alla dimensione sintattica di manifestarsi in grado massimo, perché il Cristo porta nella carne i segni della propria passione suscitando la meraviglia degli angeli (15-17: 45,15-46,29).
A questo punto lo sviluppo della lettura esegetica esige che si risponda a un’obbiezione. Infatti, posto che i capri (e gli uccelli) sono due, pare si stia parlando di due Figli o i Cristi, uno nato da Davide e uno da Dio. Il grido paolino “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,5) è il punto di partenza della risposta, che tocca il cuore dogmatico della lettera, fondamentale per il concilio di Efeso, ribadito anche nel IV anatematismo della III lettera di Cirillo a Nestorio.70 I due capri e i due volatili, infatti, hanno evidentemente la stessa natura, mentre il figlio di Davide e il Figlio di Dio debbono necessariamente differenziarsi secondo natura. I due capri vengono presentati, dunque, come due diversi schizzi, che il testo sacro traccia, prima del Cristo nella passione con il capro sacrificato e poi del Cristo risorto nel capro espiatorio liberato (18-21: 46,29-47,29).
Questa lettura ha un estremo valore dal punto di vista comparativo negli studi storici perché mostra come la differenza può e deve essere letta come relazione nell’unità della stessa narrazione. Ciò è rafforzato dall’esegesi del sacrificio di Abramo e Isacco in Gn 22,1-10, testo cui già si è fatto riferimento a proposito di Gregorio di Nissa. I due capri e i due volatili sarebbero come due fotogrammi di un’unica narrazione, analogamente a quanto si dovrebbe fare per il patriarca, descrivendo quando sale al monte con il figlio e i servi, poi quando prosegue da solo con lui, fino al climax drammatico nel momento in cui alza il coltello. Cirillo spiega che in tali diverse descrizioni Abramo è sempre lo stesso anche se è rappresentato in situazioni differenti, perché sarebbe impossibile mostrare tutta la storia in un’unica immagine (22-23: 47,30-48,26).
La conclusione evidenza la forza degli argomenti proposti e il fatto che solo Cristo può rivelare quanto è nascosto (24-25: 48,27-48,36), proprio per l’onnipotenza sintattica che lo costituisce come vero Dio e vero uomo:
“Quindi la legge era rappresentazione e tipo degli eventi gravidi della verità, in modo tale che anche se la necessità della presentazione del mistero di Cristo introduce due capri, e anche se ci sono due uccelli, tuttavia uno solo era Colui che è in entrambi, contemporaneamente nella sofferenza e al di sopra di essa, e nella morte e al di sopra della morte, e che ascende ai Cieli come primizia (cfr. 1 Cor 15,20) affinché poi l’umanità fosse riportata all’incorruttibilità.”71
Qui emerge con forza come il Cristo è centro di attrazione sintattico che tiene unita la storia. Il Cielo non è solo significato semanticamente, ma è reso accessibile nella stessa carne del Verbo che si è fatto uomo, la quale, congiunta una volta per sempre alla divinità, unisce l’umanità alla Vita senza limite che sgorga dal seno del Padre. Nel Cristo, dunque, il religāre esprime il relegĕre, perché la sintassi è l’unica semantica in grado di esprimere il Mistero del Padre, del Figlio e del loro Amore.
Il ragionamento di Cirillo avrebbe entusiasmato Girard, in particolare quando riprende Mt 11,25-27 per affermare “Cristo, infatti, è Colui che rivela ciò che è profondo e nascosto e infonde la conoscenza nei cuori”, 72 cioè rivela “le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Mt 13, 35), versetto evangelico posto a titolo di uno dei suoi libri più significativi.73
4. Fondamento teologico
L’epistemologia comparativa di Girard e Auerbach, riletta alla luce della coscienza dell’identità e delle differenze che i Padri hanno maturato nel loro confronto con il paganesimo, suggerisce un approfondimento teologico, che può offrire dei suggerimenti sul fondamento teoretico dell’efficacia del metodo comparativo in ambito storico-religioso.
Infatti, come accennato, le dimensioni del relegĕre e del religāre si presentano come inestricabili dal punto di vista di un’analisi che riconosca una densità ontologica reale, e non meramente logica, alle relazioni. Se queste possono essere incluse nell’ambito delle cause, allora l’analisi scientifica non può ignorarle, ma deve procedere con un metodo adatto a rinvenire le relazioni stesse. Altrimenti l’approccio epistemologico sarebbe inadeguato all’oggetto. E ciò è tanto più essenziale quando si studia la storia, la quale non è riducibile alla sua dimensione cronologica, ma si presenta come storia proprio in quanto il tempo è segnato e qualitativamente trasfigurato dalle relazioni che abitano il chronos, rivelando dentro di esso la significatività dei kairoi. Così una scienza che aspiri ad essere storica deve necessariamente ricercare la dimensione relazionale nelle tracce che osserva. Un confronto tra fenomeni religiosi diversi, che non riduca aprioristicamente gli elementi accostati a partire da un categoria interpretativa (semantica), ma individui (sintatticamente) sia i punti di contatto sia le differenze tra di essi, si rivela, così, come cammino privilegiato per rintracciare l’aspetto relazionale nei fenomeni osservati.
Si tratta di un processo analogo a quello che caratterizza il riconoscimento del corpo, il quale non è semplice materia, ma è materia strutturata in relazioni interne. L’accostamento del corpo e della storia è particolarmente pregnante dal punto di vista teologico, come i testi patristici proposti rivelano. Dio, infatti, secondo la rivelazione cristiana, è entrato nella storia facendosi carne. Tale atto irrevocabile, da una parte, rende possibile la relazione libera e personale della creatura con il Creatore in termini umani, cioè da dentro la storia e il corpo dell’uomo, dall’altra rivela la profondità relazionale di questo Dio, che è uno perché trino.74 Infatti, il farsi corpo e storia di Dio sarebbe contraddittorio per un dio motore immobile, meramente uno in quanto solitario, secondo la concezione aristotelica, mentre non lo è per la Trinità. Dio non si contraddice incarnandosi e Colui che è infinito non si perde entrando nel finito. Al contrario, la fede trinitaria insegna che solo Dio può esprimere Dio, cioè solo il Logos può validamente significare la prima Persona divina. Ma tale significazione si dà solo nella relazione eterna e perfetta che è lo Spirito Santo, nexus Amoris, in quanto il Padre genera il Figlio donandogli tutto Sé stesso, così come il Figlio è Immagine del Padre ridonando liberamente tutto Sé stesso a Lui. E questo mutuo Dono di Sé, assoluto ed eterno, è proprio lo Spirito Santo. Ciò significa che ciascuna Persona divina si identifica con una relazione infinita e perfetta.
Nei termini introdotti in questa proposta di lettura epistemologica, ciò significa che nel Dio uno e trino la semantica è la sintassi, in modo tale che solo l’incarnazione, in quanto libero prolungamento di tale mutuo dono eterno ed immanente, può comunicare il divino. Si tratta, dunque, di una significazione reale che si dà nell’unione personale, nel contatto, nel diventare una storia sola di Dio con l’uomo. La relazione, e non il concetto, rivela.
Ma se l’Essere, che anche Platone ha cercato di indagare, è la Trinità, questo significa che ogni indagine storica non potrà prescindere dall’elemento sintattico e, quindi, dalla comparazione, se non vuole evitare un riduzionismo semantico. La chiusura logica, infatti, porta necessariamente all’antinomia tra l’identità banale e l’opposizione dialettica. Invece, l’apertura sintattica permette una visione tridimensionale del fenomeno storico che non lo riduce categorizzando, ma nemmeno nega relativisticamente ogni possibilità di conoscenza.
Dal punto di vista cristiano tale “metodo” è insito nell’incarnazione stessa, come suggerito dai testi di Cirillo, perché la luce rivelata permette di scorgere le relazioni, al di là delle ombre e dei limiti nella storia, a partire dalla Filiazione eterna del Logos che nasce nel tempo come figlio di Maria, Reazione da relazione. La “sintassi” del Cristo unisce, così, la storia, la quale non per caso è misurata proprio in un computo che ha nell’incarnazione il suo punto zero, quasi una sorta di origine degli “assi cartesiani” del tempo.
Una facile critica a tale proposta di lettura è, ovviamente, che essa sia valida solo nell’ambito teologico e non possa aver nulla a che vedere con la storia delle religioni che, per statuto epistemologico proprio, non può assumere una prospettiva confessionale, se non a costo di perdere la propria oggettività. Eppure l’estensione sintattica insita nel metodo comparativo è intrinseca all’ermeneutica stessa, poiché il significato di un testo è sempre dato dalla relazione tra il testo stesso e il suo contesto. Perciò, la semantica permette di leggere i significati solo in verticale, nel rapporto potremmo dire istantaneo tra il significante e la realtà significata. Invece, per cogliere in pienezza tutto lo spettro dei significati è necessario considerare anche in orizzontale la sintassi tra il testo e i diversi possibili contesti. Questa è la ragione per cui un classico non smette mai di essere letto e studiato: i diversi contesti storici fanno emergere di volta in volta nuove virtualità dalla fonte, quando essa è accostata dalla prospettiva del nuovo contesto in cui è letta.
Quindi, per le scienze storiche il metodo comparativo è essenziale, in quanto il cambio di contesto è implicito nello stesso oggetto studiato. Le nuove dimensioni dei significati non sono ascrivibili, infatti, ad una prospettiva meramente soggettiva, ma per l’elemento relazionale e il suo portato ontologico, tali nuovi significati emergenti possono essere riconosciuti come propri dell’oggetto storico stesso in quanto storico, cioè presente in contesti diversi rispetto a quello che gli ha dato origine. Così l’analisi sintattica può considerare non solo l’istante ma anche il tempo. Ovviamente ciò implica che i nuovi significati, che di volta in volta emergono, non debbano soppiantare dialetticamente quelli emersi in precedenza, ma si accostino relazionalmente ad essi, dando vita ad un quadro più grande e più profondo della realtà storica studiata, che in quanto tale ha un di dentro e una profondità.
Questo approccio, giustificato per via teologica, risulta convergente anche rispetto ai più recenti studi cognitivisti. Si prendano, ad esempio, le ricerche di Michael Tomasello.75 Indagando l’apprendimento nei primati e negli uomini, egli si è accorto che la differenza non risiede nella capacità logica, solo quantitativamente diversa, ma nella metacognizione. Questa, nel presente quadro teoretico, consiste nella capacità di riconoscere il proprio simile come soggetto che conosce in modo intenzionale. I bambini la sviluppano verso il nono mese di vita, quando iniziano ad indicare le diverse realtà ai genitori. Tale semplice gesto presuppone che l’altro venga riconosciuto capace di condividere attenzione con il bimbo che indica. Ciò rende possibile la trasmissione del linguaggio e della cultura più in generale. Infatti, a volte succede che in un branco di scimpanzé un esemplare faccia una scoperta, ad esempio sviluppi un utensile. Ma tale risultato muore con il suo scopritore, perché questi non è in grado di trasmetterlo. Invece, per gli umani, la possibilità di indicare permette il passaggio dall’adulto al bimbo delle parole che significano le realtà indicate. E con esse segue la tecnica e la cultura, in modo tale che ogni uomo può avvalersi di quello che altri uomini gli hanno insegnato.
Dal punto di vista comparativo, la questione è affascinante, perché la significazione nasce dalla relazione, cioè ha un fondamento sintattico. Il dito che indica il reale non trova da solo la semantica attraverso cui attingere i significati, ma è la relazione tra l’adulto e il bambino a rendere possibile la chiusura del triangolo all’interno del quale si trasmettono i significati e i significanti. Mente e corpo sono qui inseparabili. Quindi, anche nell’ontogenesi della cognizione umana la sintassi ha una precedenza rispetto alla semantica, dalla quale è inseparabile. I due elementi sono irriducibili non solo per quanto riguarda il fenomeno religioso, ma ancor più radicalmente in ogni fenomeno culturale umano. Tale prospettiva è inseparabile dall’elemento storico ed evolutivo, perché non si può rischiare l’anacronismo cognitivo, interpretando i fenomeni del passato alla luce dell’esperienza attuale.76 Però l’interazione di sintassi e semantica pare svolgere una funzione fondante, che si rivela particolarmente interessante quando è riletta dalla prospettiva teologica ed ontologico-relazionale.
Infatti, l’epistemologia cristiana, fin dall’epoca patristica, ha dovuto porre a fondamento del proprio procedere metodologico nella conoscenza l’eccedenza del reale rispetto alla capacità di rappresentazione della mente umana. Tecnicamente, i primi pensatori cristiani denominarono questo elemento “apofatismo” perché, a differenza di quanto accadeva nell’ambito filosofico classico, ogni predicazione affermativa di una perfezione divina andava accompagnata dalla negazione dei limiti che tale rappresentazione concettuale implica in quanto inevitabilmente sviluppata a partire dall’esperienza umana della creazione finita. Per questo il processo conoscitivo si compie relazionalmente con l’ultimo passo dell’eminenza, nel quale si riconosce Dio come sorgente infinita di ogni concretizzazione finita di tale perfezione di cui si ha esperienza. Infatti, la trascendenza divina implica l’insufficienza di ogni rappresentazione mentale umana. Basti pensare alla risurrezione di Cristo, la quale si differenzia essenzialmente da quella di Lazzaro, poiché non consiste nel semplice ritorno alla vita mortale, ma è piuttosto l’irrompere dell’infinita Vita divina nell’umanità di Gesù. Come è, dunque, possibile “dire” e “comunicare” tale evento inaudito, per il quale non possono esistere concetti? L’incontro delle sante donne, degli apostoli e degli angeli, come suggerisce Cirillo, con il Risorto si gioca tutto sulle stigmate, che di per sé sono mancanza di carne, ferite del corpo, quindi significanti in negativo, per assenza, ma che nello stesso tempo rivelano sintatticamente l’identità del Risorto e del Crocifisso, comunicando la novità radicale della Risurrezione.
Questo elemento, sviluppato nel contesto della teologia cristiana, può, però risultare utile più in generale per la storia delle religioni, per la rottura di ordine o di livello che, secondo Ugo Bianchi, caratterizza il fenomeno religioso stesso.77 Tornando alla prima parte del presente percorso, il fenomeno religioso non può essere analizzato solo in termini di relegĕre ma, come ha permesso di comprendere la rivelazione cristiana, è necessario introdurre anche l’elemento del religāre. Il pensiero trinitario ha reso possibile la presa di coscienza della necessità di accostare l’elemento sintattico a quello semantico nello studio del fenomeno religioso, ma tale prospettiva è valida più in generale. Ciò è analogo alla presa di coscienza del valore della storia stessa, che non è solo tipica del cristianesimo, pur essendo sorta da esso.
Nello stesso tempo occorre vigilare perché, nel momento in cui tale origine è messa in ombra, l’elemento storico rischia di essere non solo dimenticato, ma perfino negato. La parabola storicista illustra con chiarezza tale processo: la pretesa si giudicare semanticamente la salvezza cristiana, valutandone criticamente i contenuti, contraddice la storia stessa, nella quale il valore della storia come criterio è emerso dall’incontro sintattico con la salvezza cristiana.78 Il riduzionismo semantico è, dunque, un pericolo epistemologico costante i cui effetti si rivelano nella perdita di valore della storia stessa a livello epistemologico e nell’incapacità di dialogo tra le diverse discipline. Così l’epistemologia relazionale può offrire una prospettiva utile ed efficace anche per approfondire il metodo comparativo e coglierne la portata.79
Per questo l’elemento diacritico della filologia deve sempre essere posto alla base dell’analisi storica, come l’esempio di Christian Gnilka e del compianto Moreno Morani insegna. In particolare l’identificazione da parte del primo della chrêsis come metodo dei Padri della Chiesa nel loro confronto con la cultura pagana si rivela profondamente comparativo, perché legge i diversi testi nei nuovi contesti, rendendo possibile l’emergere di nuovi elementi sintattici dall’accostamento, i quali, però, non negano i primi significati, come una certa critica “semantica” all’opera di Gnilka vorrebbe.
Il punto è che il confronto con la metafisica è ineludibile nell’opera scientifica: la modernità ci ha mostrato che quando essa è negata, rientra dal lato dell’epistemologia. Alcuni giudizi negativi sul cristianesimo, come la critica alla distinzione mosaica e alla pretesa di verità nella matrice giudaico-cristiana, sostenuta da Jan Assmann,80 oppure la connessione tra l’Uno e l’intolleranza da parte di Peter Sloterdijk,81 paiono situarsi proprio su un livello meramente semantico, simile a quello di Celso, mancando totalmente la dimensione sintattica, che invece è propria del contributo cristiano.
Un rischio simile si può correre anche quando si oppongono anacronisticamente filosofia e religione, come se l’atto metafisico di Platone non implicasse un elemento etico, uno dottrinale e uno cultuale, triade caratteristica del fenomeno religioso. Basti pensare all’Eutifrone, opera probabilmente giovanile dedicata alla definizione di santità, o al Fedone, dove è riportato il dialogo finale di Socrate con Cebete e Simmia, i quali hanno timore di interrogare il maestro nell’immanenza della sua morte, ma si sentono rispondere che lui è sacro ad Apollo come i cigni, per cui come loro profetizza, rendendo testimonianza alla vita bella e buona che li attende dopo la morte.82 La ricerca filosofica è, evidentemente, distinta da quella religiosa, ma nello stesso tempo non può venire anacronisticamente separata da questa, perché l’indagine del principio primo serviva a vivere pienamente e a trovare la salvezza in un contesto esplicitamente religioso.
Per questo l’ontologia trinitaria cristiana e l’epistemologia relazionale che da essa ha preso origine possono essere preziose in diversi ambiti di ricerca, in particolare quando l’oggetto indagato ha un ineludibile dimensione storica.
5. Conclusione
Si può concludere, allora, il percorso proposto con una coppia di domande: esisterebbe la storia delle religioni in un ambito non cristiano? Sopravviverà la storia delle religioni ad un’epistemologia che esclude metodologicamente il cristianesimo? Il metodo comparativo di Ugo Bianchi e della sua scuola offre una risposta, che, alla luce degli esempi proposti, si rivela estremamente interessante ed efficace. Infatti esso implica epistemologicamente l’accostamento dell’elemento sintattico a quello semantico. Ciò è coerente per doppia partita con l’oggetto studiato, per la duplice etimologia del relegĕre e del religāre che l’analisi filologica ci offre e per la prospettiva storica, che deve necessariamente assumere uno sguardo relazionale, per cogliere quei nessi che trasfigurano il chronos in kairos. La retorica tardo-antica li indicava proprio con il termine oikonomia, poi assunto dai Padri della Chiesa per riferirsi alla storia della salvezza.83
Ciò spiega perché gli esempi di Origene, Gregorio di Nissa, Cirillo di Alessandria, Girard e Auerbach sono stati qui proposti. Pur in tempi e da prospettive disciplinari estremamente diversi tutti loro rivelano una coscienza chiara della forza epistemologica della relazione e, per questo, della comparazione. La teologia trinitaria, con la sua ricaduta a livello epistemologico, può offrire una valida spiegazione sia dell’originalità delle prospettive di Girard e di Auerbach, sia della coscienza del valore dell’identità e della differenza nel pensiero dei Padri della Chiesa citati. Questi, rispetto alla prima fase di difesa “semantica”, con le mutue accuse di plagio tra pagani e cristiani, riescono gradualmente a sviluppare una chrêsis degli elementi pagani che evidenzia l’elemento storico e “sintattico”, offrendo un supporto alla storia delle religioni contemporanea, che non può ricadere in una prospettiva puramente “semantica”, se non a rischio della sua propria esistenza.
1 Cfr. “qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent diligenter retractarent et tamquam relegerent, sunt dicti religiosi ex relegendo, ut elegantes ex eligendo, diligendo diligentes, ex intelligendo intelligentes; his enim in verbis omnibus inest vis legendi eadem quae in religioso” (Cicerone, De natura deorum II, 28,72).
2 Cfr. “Hoc vinculo pietatis obstricti Deo et religati sumus; unde ipsa religio nomen accepit, non ut Cicero interpretatus est, a relegendo.” (Lattanzio, Divinae institutiones IV, 28,2).
3 Cfr. G. Lieberg, Considerazioni sull’etimologia e sul significato di religio, «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica» 102 (1974) 34-57.
4 La conclusione appare ancora valida, cfr. M. Sachot, La predicazione del Cristo. Genesi di una religione, Torino 1999,147.
5 Cfr. É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, Paris 1969, 267-272.
6 Cfr. U. Bianchi, Introduzione alle religioni dei primitivi, Roma 1967, 7-12.
7 Si veda, su questo, Donati – G. Maspero, Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni, Roma 2021.
8 Cfr. S.C. Calzascia, Lessico latino, Roma 2020, 223.
9 G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Torino 2002, 30.
10 R. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, Tübingen 2007.
11 Cfr. R. Schwanger, Brauchen wir einen Sündenbock?, München 1978.
12 Cfr. R. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 18.
13 Gv 11,49-50.
14 Cfr. R. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 22.
15 Il termine rinvia alla chrêsis, come si vedrà fondamentale per i Padri della Chiesa, secondo l’analisi del loro metodo presentata da Christian Gnilka: il punto è trattare l’elemento assunto come strumento e non ideologicamente come principio a priori. Si veda infra.
16 Cfr. R. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 36.
17 R. Girard, La pietra dello scandalo, Milano 2004, 76.
18 Nel confronto con Gianni Vattimo, René Girard ha messo in luce proprio la violenza del pensiero debole: R. Girard – G. Vattimo, Verità o fede debole?, Massa 2006.
19 R. Girard, La pietra dello scandalo, 77-78.
20 Cfr. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 52.
21 R. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 56.
22 Cfr. M.V. Cerutti, Storia delle religioni. Oggetto e metodo, temi e problemi, Milano 2014, 13.
23 R. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 64.
24 R. Girard, La pietra dello scandalo, 80.
25 Cfr. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, I, Torino 2010, 4-29.
26 Cfr. E. Auerbach, Mimesis, 22.
27 Cfr. E. Auerbach, Mimesis, 31-57.
28 E. Auerbach, Mimesis, 53.
29 Cfr. G. Fornari, Da Dioniso a Cristo, Genova-Milano 2006, 19-21.
30 Cfr. R. Girard, La pietra dello scandalo, 162.
31 Cfr. R. Girard, La pietra dello scandalo, 95.
32 Cfr. Ch. Gnilka, Chrêsis, il concetto di retto uso. Il metodo dei Padri della Chiesa nella ricezione della cultura antica, Brescia 2020.
33 Cfr. Girard, Wissenschaft und christlicher Glaube, 40.
34 Cfr. G. Maspero, Il desiderio di Girard e la croce di Nietzsche, «Acta Philosophica» 22 (2013) 155-159.
35 Cfr. Giustino, Dialogus cum Tryphone, 70. Per un inquadramento sul mitraismo, si veda U. Bianchi (ed.), Mysteria Mithrae, Leiden 1979, in particolare i Prolegomena e gli Epilegomena a firma di Ugo Bianchi stesso.
36 Cfr. Origene, Contra Celsum, III,17 e 19: SCh 136, 44-46.
37 Cfr. Origene, Contra Celsum, II, 6: SCh 132, 294.
38 Cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 23: SCh 136, 238.
39 Cfr. Origene, Contra Celsum, I, 14: SCh 132, 114.
40 Cfr. Origene, Contra Celsum, I, 23: SCh 132, 132.
41 οἱ αἰπόλοι καὶ ποιμένες ἕνα ἐνόμισαν θεόν͵ εἴτε Ὕψιστον εἴτ΄ Ἀδωναῖον εἴτ΄ Οὐράνιον εἴτε Σαβαώθ͵ εἴτε καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως χαίρουσιν ὀνομάζοντες τόνδε τὸν κόσμον· καὶ πλεῖον οὐδὲν ἔγνωσαν.ῃ Καὶ ἐν τοῖς ἑξῆς δέ φησι μηδὲν διαφέρειν τῷ παρ΄ Ἕλλησι φερομένῳ ὀνόματι τὸν ἐπὶ πᾶσι θεὸν καλεῖν Δία ἢ τῷ δεῖνα͵ φέρ΄ εἰπεῖν͵ παρ΄ Ἰνδοῖς ἢ τῷ δεῖνα παρ΄ Αἰγυπτίοις (Origene, Contra Celsum, I, 24,1-7: SCh 132, 134-136).
42 Cfr. Origene, Contra Celsum, I, 62: SCh 132, 244.
43 Cfr. Origene, Contra Celsum, I, 27: SCh 132, 148.
44 Cfr. Origene, Contra Celsum, I, 68: SCh 132, 266-268 .
45 σοφιζομένοις ἐν τῷ λέγειν τὸν υἱὸν τοῦ θεοῦ εἶναι αὐτολόγον͵ καὶ οἴεταί γε κρατύνειν τὸ ἔγκλημα͵ ἐπεὶ λόγον ἐπαγγελλόμενοι υἱὸν εἶναι τοῦ θεοῦ ἀποδείκνυμεν οὐ λόγον καθαρὸν καὶ ἅγιον ἀλλὰ ἄνθρωπον ἀτιμότατα ἀπαχθέντα καὶ ἀποτυμπανισθέντα. (Origene, Contra Celsum, II, 31,1-5: SCh 132, 362).
46 Cfr. Origene, Contra Celsum, VI, 42, SCh 147, 278-284
47 Ἔτι δὲ ὁ ἐν τῷ Λευϊτικῷ ἀποπομπαῖος͵ ὃν ἡ ἑβραϊκὴ γραφὴ ὠνόμασεν Ἀζαζήλ͵ οὐδεὶς ἕτερος ἦν· ὃν ἀποπέμπεσθαι καὶ ἀποτροπιάζεσθαι ἔδει τὸν κλῆρον ἔχοντα ἐν ἐρήμῳ· πάντες γὰρ οἱ τῆς τοῦ χείρονος διὰ τὴν κακίαν μερίδος ἐναντίοι ὄντες τοῖς ἀπὸ τοῦ κλήρου τοῦ θεοῦ ἔρημοί εἰσι θεοῦ. (Origene, Contra Celsum, 6,43,14-19: SCh 147, 284)
48 Cfr. Platone, Phaedrus, 246bc.
49 Origene, Contra Celsum, 6.43.38-40: SCh 147, 286.
50 Origene, Homiliae in Leviticum: GCS 29, 409,19-23.
51 Cfr. Origene, Homiliae in Leviticum, 410,24-411,28.
52 Cfr. Gregorio di Nissa, De deitate Filii et Spiritus Sancti, GNO X/2, 133,20-134,10.
53 διὰ τοῦτό με τῆς γλυκείας ταύτης ἔγευσας δωρεᾶς, ἵνα μῦθόν με ποιήσῃς τῷ βίῳ; (Gregorio di Nissa, De deitate Filii et Spiritus Sancti, GNO X/2, 134, 10-11).
54 Cfr. Gregorio di Nissa, Epistula 9, 1,2-2,1: GNO VIII/2, 38,25-39,8.
55 γὰρ πολλάκις ἡ ἁγία γραφὴ καὶ μύθους τινὰς ἐκ τῶν ἔξωθεν συμπαραλαμβάνειν εἰς τὴν τοῦ ἰδίου σκοποῦ συνεργίαν καὶ ἀνεπαισχύντως ἐκ τῆς μυθικῆς ἱστορίας ὀνομάτων μνημονεύειν τινῶν εἰς ἐναργεστέραν ἔνδειξιν τοῦ προκειμένου νοήματος (Gregorio di Nissa, In Canticum, GNO VI, 288, 610).
56 Si veda la teogonia di Crono e Zeus nella Biliotheca, attribuita ad Apollodoro di Atene, del II a.C., ma in verità risalente al II d.C: Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca, I,1-2, Fondazione Valla, Milano 2013, 6-10.
57 Cfr. G. Maspero, “Caverna”, in L.F. Mateo-Seco – G. Maspero, Gregorio di Nissa. Dizionario, Roma 2007, 132-133.
58 Cfr. J.-N. Guinot, “L’Exgégèse du bouc émissaire chez Cyrille d’Alexandrie et Théodoret de Cyr,” in: «Augustinianum» 28 (1988) 603-630, sp. 605.
59 Cfr. L. Perrone, La chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, Brescia 1980.
60 Cfr. D. Stökl, “The Christian Exegesis of the Scapegoat between Jews and Pagans,” in: A. Baumgarten (Ed.), Sacrifice in Religious Experience (Studies in the History of Religions 93), Leiden 2002, 207-232.
61 Πῶς οὖν ἐνετείλατο; προσέχετε· Λάβετε δύο τράγους καλοὺς καὶ ὁμοίους καὶ προσενέγκατε͵ καὶ λαβέτω ὁ ἱερεὺς τὸν ἕνα εἰς ὁλοκαύτωμα ὑπὲρ ἁμαρτιῶν. Τὸν δὲ ἕνα τί ποιήσουσιν; Ἐπικατάρατος͵ φησίν͵ ὁ εἷς. Προσέχετε͵ πῶς ὁ τύπος τοῦ Ἰησοῦ φανεροῦται. Καὶ ἐμπτύσατε πάντες καὶ κατακεντήσατε καὶ περίθετε τὸ ἔριον τὸ κόκκινον περὶ τὴν κεφαλὴν αὐτοῦ͵ καὶ οὕτως εἰς ἔρημον βληθήτω. Καὶ ὅταν γένηται οὕτως͵ ἄγει ὁ βαστάζων τὸν τράγον εἰς τὴν ἔρημον καὶ ἀφαιρεῖ τὸ ἔριον καὶ ἐπιτίθησιν αὐτὸ ἐπὶ φρύγανον τὸ λεγόμενον ῥαχῆ͵ οὗ καὶ τοὺς βλαστοὺς εἰώθαμεν τρώγειν ἐν τῇ χώρᾳ εὑρίσκοντες. Οὕτως μόνης τῆς ῥαχῆς οἱ καρποὶ γλυκεῖς εἰσίν. Τί οὖν καὶ τοῦτο; προσέχετε· Τὸν μὲν ἕνα ἐπὶ τὸ θυσιαστήριον͵ τὸν δὲ ἕνα ἐπικατάρατον͵ καὶ ὅτι τὸν ἐπικατάρατον ἐστεφανωμένον. Ἐπειδὴ ὄψονται αὐτὸν τότε τῇ ἡμέρᾳ τὸν ποδήρη ἔχοντα τὸν κόκκινον περὶ τὴν σάρκα καὶ ἐροῦσιν· Οὐχ οὗτός ἐστιν͵ ὅν ποτε ἡμεῖς ἐσταυρώσαμεν ἐξουθενήσαντες καὶ κατακεντήσαντες καὶ ἐμπτύσαντες; ἀληθῶς οὗτος ἦν͵ ὁ τότε λέγων ἑαυτὸν υἱὸν θεοῦ εἶναι. (Barnabae Epistula, 7.6a.1-9b.5: SCh 172, 132-134)
62 Giustino, Dialogus cum Tryphone 40,4,1-14: PTS 47, 137.
63 Cfr. D. Stökl, The Impact of Yom Kippur on Early Christianity: The Day of Atonement from Second Temple Judaism to the Fifth Century (WUNT 163), Tübingen 2003.
64 οὐκοῦν ὀνόματα τοῖς χιμάροις κύριός τε καὶ ἀποπομπαῖος͵ σημαίνεται δὲ δι΄ ἀμφοῖν ὁ εἷς καὶ μόνος υἱὸς καὶ κύριος Ἰησοῦς Χριστός (Cirillo di Alessandria, Epistula XVI, in: E. Schwartz [= ACO] 1,1,4.43.2-4).
65 οὐ γάρτοι φαμὲν ἁμαρτωλὸν γενέσθαι Χριστόν͵ μὴ γένοιτο͵ ἀλλ΄ ὄντα δίκαιον͵ μᾶλλον δὲ αὐτόχρημα δικαιοσύνην (οὐ γὰρ οἶδε πλημμελεῖν)͵ σφάγιον ἐποίησεν ὁ πατὴρ ὑπὲρ τῶν τοῦ κόσμου πλημμελημάτων. (Cirillo di Alessandria, Epistula XVI, 1,1,4.43.27-29)
66 ἀλλ΄ ὁ ἐκ θεοῦ πατρὸς λόγος ὁ πολὺς εἰς ἡμερότητα καὶ φιλανθρωπίαν γέγονε σάρξ͵ τουτέστιν ἄνθρωπος σύμμορφός τε ἡμῖν τοῖς ὑφ΄ ἁμαρτίαν καὶ τὸν ἡμῶν ὑπέστη κλῆρον. (Cirillo di Alessandria, Epistula XVI, 1,1,4.43.37-44.2)
67 ἐν ἀμφοῖν γραφόμενος ὁ εἷς καὶ μόνος υἱὸς καὶ κύριος Ἰησοῦς Χριστὸς ὡς ἐν πάθει σαρκὸς ἰδίας καὶ ἔξω πάθους͵ ὡς ἐν θανάτωι καὶ ὑπὲρ θάνατον. (Cirillo di Alessandria, Epistula XVI, 1,1,4.45.10-12)
68 σαρκὶ μὲν παθόντα κατὰ τὰς γραφάς͵ μείναντα δὲ καὶ ἐπέκεινα τοῦ παθεῖν καὶ ἀποθνήισκοντα μὲν ἀνθρωπίνως͵ ζῶντα δὲ θεικῶς· ζωὴ γὰρ ὁ λόγος ἦν. (Cirillo di Alessandria, Epistula XVI, 1,1,4.46.4-5)
69 Cfr. J. Daniélou, Théologie du Judéo-Christianisme, Tournai 1957, 273-287.
70 Cfr. J. Daniélou, III Epistula ad Nestorium, in: E. Schwartz [= ACO] 1,1,1.41.1-4.
71 γραφὴ τοιγαροῦν ὁ νόμος ἦν καὶ τύποι πραγμάτων ὠδίνοντες τὴν ἀλήθειαν͵ ὥστε κἂν εἰ δύο χιμάρους παρεκόμισεν ἡ χρεία πρὸς παράδειξιν τοῦ κατὰ Χριστὸν μυστηρίου͵ κἂν εἰ δυὰς ὀρνιθίων ἦν͵ ἀλλ΄ εἷς ἦν ὁ ἐν ἀμφοῖν͵ καὶ ὡς ἐν πάθει καὶ ἔξω πάθους͵ καὶ ἐν θανάτωι καὶ ὑπὲρ θάνατον καὶ ἀναβαίνων εἰς οὐρανοὺς ἀπαρχή τις ὥσπερ δευτέρα τῆς ἀνθρωπότητος ἀνανεωθείσης εἰς ἀφθαρσίαν. (Cirillo di Alessandria, III Epistula ad Nestorium, 1,1,4.48.22-26).
72 Χριστὸς γάρ ἐστιν ὁ ἀποκαλύπτων βαθέα καὶ ἀπόκρυφα καὶ σύνεσιν καρδίαις ἐνιείς· (Cirillo di Alessandria, III Epistula ad Nestorium, 1,1,4.48.33-34)
73 Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, Milano 1983.
74 Cfr. G. Maspero, Uno perché trino. Breve introduzione al trattato su Dio, Siena 2011.
75 Cfr. M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, Bologna 2005.
76 Cfr. A.W. Geertz, Origins of religion, cognition and culture, Routledge, London 2014 e A.W. Geertz – J.S. Jensen (eds.), Religious narrative, cognition and culture: image and word in the mind of narrative, London 2014.
77 Cfr. U. Bianchi, “La Storia delle Religioni”, in G. Castellani (Ed.), Storia delle religioni, I, Torino 1970, 1-168, qui specialmente 160.
78 Cfr. G. Maspero, Metafisica ed esegesi patristica come risposta alla crisi, in A.M. Mazzanti – I. Vigorelli (a cura di), Krisis e cambiamento in età tardoantica, ROR Studies Series 3, Roma 2017, 265-297.
79 Cfr. Donati – A. Malo – G. Maspero (Eds.), Social Science, Philosophy and Theology in Dialogue: A Relational Perspective, London 2019.
80 J. Assmann, La distinzione mosaica o il prezzo del Monoteismo, Milano 2011.
81 P. Sloterdijk, Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi, Milano 2008.
82 Platone, Phaedo, 84.e.3-85.b.7.
83 Cfr. G. Maspero, Storia e salvezza: il concetto di oikonomia fino agli esordi del III secolo, in Pagani e cristiani alla ricerca della salvezza (secoli I – III), Atti del XXXIV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, «Studia Ephemeridis Augustinianum» 96 (2006) 239-260.