Ror Studies Series | Storia Religioni Comparazione
Un metodo per paragonare religioni. Il confronto fra politeismo mesopotamico e monoteismo biblico in un recente lavoro di G. Buccellati
Jonah Lynch
Università di Pavia
È possibile paragonare due religioni? Se sì, come? Nel contesto dello studio delle religioni, si è messo in evidenza che i concetti non sono univoci, e molto sforzo è stato messo in campo per mostrare che la plurivalenza delle parole va rispettata, non si possono usare categorie vaghe per parlare utilmente di culture o religioni differenti. Non solo la imprecisione è un problema scientifico per la comprensione, ma può anche essere causa di ingiustizia. Alcuni ritengono che persino parole come “religione” siano troppo vaghe per essere prese come categorie in cui contenere le diverse espressioni culturali che si intendono con questa parola. Per di più, la stessa parola “religione” manca in alcune lingue. La categoria quindi non sarebbe adeguata a un paragone, trattandosi di istituzioni, credenze, e ritualità tanto diverse da non essere molteplici esempi di un’unica realtà, ma invece di molteplici realtà. Non potendo paragonare mele e arance, concludono alcuni, non si può pretendere di svolgere uno studio di comparative religion.1
È un problema di difficile soluzione. Le stesse categorie, le stesse parole, con cui parliamo delle culture e delle religioni, impongono delle storture sulla realtà che si tenta di descrivere. Si può pensare a un esempio preso dalla tipografia: in teoria, tutti i colori possono essere rappresentati come una mescolanza di inchiostri rosso, giallo e blu. Ma questi colori sono sempre più o meno imperfetti nella realtà. L’inchiostro non agisce proprio come la luce pura, e una stampa in “quadricromia”, che aggiunge il nero ai tre colori detti sopra, raggiunge solo il 50% di fedeltà ai colori reali, all’incirca. Per fare una riproduzione migliore, bisogna usare più colori, ad esempio la “esacromia” che aggiunge un arancione e un verde. Così si raggiunge una fedeltà dell’ 80%. Possiamo immaginare che i colori che definiscono il gamut dei colori possibili nella stampa, siano come delle parole o dei concetti, che definiscono uno spazio di pensiero: talvolta, aggiungere nuovi concetti può servire per coprire in maniera più completa lo spazio del reale con lo spazio dei concetti.
Come possiamo operare un paragone fra culture e idee in maniera più adeguata, come possiamo coprire lo “spazio del colore” in un modo più fedele?2
1. La proposta di Buccellati
Una proposta interessante si trova in un recente lavoro di Giorgio Buccellati. Pur non essendo prettamente uno storico delle religioni, Buccellati si è interessato al tema da molti anni. Come scrive nella premessa al suo Quando in alto i cieli (Milano 2012), all’inizio dei suoi studi di laurea all’Università del Sacro Cuore a Milano, si era dedicato a studi biblici con Giovanni Rinaldi. Tra gli studi umanistici in Italia e la specializzazione a Chicago, Buccellati ha anche studiato la filosofia a Innsbruck e a Fordham (New York). Nei suoi studi successivi all’Oriental Institute dell’Università di Chicago, si è concentrato sull’assiriologia e ha avuto contatti di lavoro e di amicizia con studiosi come Thorkild Jacobsen e Leo Oppenheim, che hanno dato grandi contributi agli studi sulla Mesopotamia.
Nell’ambito del suo lavoro di professore di storia alla UCLA, Buccellati ha tenuto un corso di sintesi sulla religione mesopotamica fin dagli anni Settanta, e da quel lavoro sono emerse le linee di fondo che hanno costituito poi il suo libro sul tema. Ha anche pubblicato un discreto numero di studi teologici nelle pagine dell’edizione nordamericana di Communio.
Buccellati inizia il suo libro con una definizione: “Per religione intendo la codifica dell’interazione con un assoluto che rimane ignoto empiricamente, ma è comunque empiricamente presupposto.”3 Si tratta di un assoluto, perché “la nostra percezione delle cose ne viene condizionata in modi che sfuggono al nostro controllo.” Si tratta di un assoluto “empiricamente ignoto” perché non è conoscibile in maniera fisica e tangibile. È ignoto, eppure ne “presupponiamo la realtà per via della coerenza con cui viene condizionata la nostra esperienza.”4
Perché parlare di un “assoluto”? Non è soltanto un nome che ulteriormente complica la domanda “che cosa è un dio?”5 Ciò sarebbe soltanto una variazione nominalistica, che ricadrebbe nelle stesse difficoltà a cui abbiamo alluso sopra riguardo all’inevitabile imprecisione di un super-concetto. Invece per Buccellati parlare di “assoluto” vuol dire usare un linguaggio a-religioso per riferirsi da storico a qualcosa di non-storico, o di supra-storico, che però condiziona l’esperienza umana nella storia in maniera “ineludibile, senza possibili eccezioni.”6 Non è un’asserzione circa la natura di questo “assoluto”. Si tratta invece di osservare che fra i dati storici ce ne sono alcuni che indicano una “presenza toccante”7 che influisce sulla vita in maniera inevitabile, anche se non è possibile conoscere questa presenza all’interno del metodo storico. La morte, evidentemente, è un’esperienza emblematica di questa percezione. “Non è l’assoluto come tale che viene ridotto ai confini dell’esperienza empirica, ma solo gli effetti che ne derivano.”8
Mentre l’assoluto rimane al di là di ciò che possiamo sperimentare con i sensi, e anche al di là di ciò che possiamo definire concettualmente, possiamo invece osservare il risultato dei limiti che ne derivano. Questi limiti indicano un punto oltre al sistema, nella maniera in cui le linee prospettiche in un quadro indicano un punto che sta al di fuori del quadro. L’importante per Buccellati è che l’assoluto, comunque si nomini, si presenta in due modi strutturalmente diversi in Mesopotamia e nella Bibbia. Questa divergenza, e i modi in cui lo studioso crede di poterla scorgere, è il risultato centrale del suo paragone strutturale che esploriamo in questo breve saggio. La grande differenza, che vedremo in modo più dettagliato fra poco, riguarda la questione se l’assoluto sia concepito come avente la capacità autonoma di azione o meno.
Buccellati poi afferma che la religione è la “codifica” della polarità fra sfera umana e sfera dell’assoluto. Le modalità di connessione fra umano e assoluto prendono forme culturali che lasciano tracce che possono essere studiate dallo storico.
Anche nel titolo dell’opera, Buccellati imposta la sua ricerca come un paragone fra due “spiritualità”. Scrive: “La mia principale mira è, in effetti, di considerare la natura del rapporto tra i due poli, l’assoluto e l’umano, e di guardare alla religione (una codificazione strutturata e culturalmente definita) come uno spiraglio per arrivare a vederne l’origine.”9 Si tratta in effetti di cercare l’origine, la fonte, delle espressioni storicamente rinvenibili, senza mai dimenticare che si sta facendo un lavoro di storia e non di metafisica.
Come nella terminologia dell’assoluto, la parola “spiritualità” nell’uso comune è carica di significati vaghi e forse poco utili. Per Buccellati invece, la parola indica “l’origine profonda di fenomeni che non sono sparpagliati a caso, ma possono ricondursi, in un modo ragionato e quindi argomentabile, a un fulcro logicamente antecedente.”10 La religione, in quanto codifica strutturata e culturalmente definita, è una finestra che permette di intravedere l’origine — la “spiritualità” — degli atti e degli atteggiamenti che essa contiene. Si tratta quindi di focalizzare l’attenzione sul punto di fuga fuori dal quadro, usando tutti gli indizi storicamente rinvenibili dentro il quadro, dentro il mondo fisico, il mondo della storia, per precisare meglio quel punto di fuga.
Buccellati propone un’argomentazione strettamente connessa con i dati disponibili, e aperta alla scoperta di dati ulteriori.11 In effetti si tratta di una posizione vertiginosa. Lo studioso si propone di permettere l’esperienza di una cultura aliena di invadere gli spazi della propria persona, sospendendo il suo giudizio allo stesso tempo in cui dichiara i propri presupposti culturali. Attraverso lo iato di una tradizione interrotta, egli cerca di lasciarsi vibrare con la stessa esperienza umana che hanno sperimentato i popoli che studia, nella misura permessa dai dati disponibili e dalla sensibilità dello studioso, che cerca sempre più di raffinare. Per lui, fare propria l’esperienza della civiltà antica, aiuta a comprendere se stesso. Il lavoro di paragone fra due “spiritualità” non porterà soltanto a distinguere fra “noi” e “loro”, magari in un senso apologetico, ma permette di trovare delle somiglianze e delle differenze che potrebbero sorprendere, e forse illuminare.12
Lascio ora le molte precisazioni che si potrebbero fare, circa l’ispirazione e la rivelazione, il mito e la storia, la spiegazione e la fede, che ci sono nel libro, e guardiamo un esempio concreto. Prima guarderemo un esempio di un “confronto strutturale” secondo Buccellati, per poi esaminare la teoria che ci sta dietro. È da notare che questo esempio è uno fra tanti che si potrebbero fare, e nel contesto di questo articolo lo presento più per il suo valore metodologico che per il suo contenuto specifico. Accetto le considerazioni di Buccellati nel merito della divinazione e del profetismo, senza confrontare le sue conclusioni con altri studiosi della materia. Questo perché l’intento dell’articolo non è di dibattere il senso preciso di questi due gesti religiosi, ma di mostrare come si può fare un confronto strutturale fra i due elementi.
2. Divinazione e profetismo
Sia in Mesopotamia, sia in Israele, era presente il desiderio di conoscere l’assoluto e di scrutare il significato degli eventi che avrebbero potuto rivelare il proprio “piano regolatore” per l’universo. Le due forme che questo desiderio prendeva, la divinazione e il profetismo rispettivamente, ci aiutano a comprendere e ad attuare il paragone strutturale che Buccellati propone.
Una importante forma di osservazione del mondo da parte dei Mesopotamici era l’astrologia. Per secoli, i Mesopotamici hanno osservato il movimento dei corpi celesti, e hanno stilato cataloghi dettagliati dei movimenti dei pianeti e delle eclissi. Questo lavoro di osservazione sembra aver generato in loro un forte convincimento circa la ripetibilità infallibile di certi processi nel mondo naturale. A volte l’assoluto agisce in una maniera apparentemente casuale, ma si possono scorgere le regole del suo comportamento con molta osservazione e pazienza—a volte, in un tempo più lungo della vita di un singolo uomo. Grazie alla scrittura, i Mesopotamici hanno potuto tramandare le osservazioni di generazione in generazione, e nel tempo scorgere dei pattern stabili del comportamento del cielo.
Buccellati scrive che “per i Mesopotamici, l’assoluto si rivela tramite una autodichiarazione che risiede nei fenomeni naturali.”13 Il fato si “rivela” attraverso gli eventi del mondo naturale. Gli astri presentano movimenti complessi, in apparenza casuali, ma con paziente osservazione si può arrivare a predire i loro comportamenti. Dobbiamo cercare di immaginare quale senso di controllo e di potenza immensa avrà provato il primo uomo che è riuscito a prevedere un’eclisse! Gli sarà sembrato di aver scoperto una chiave dell’universo. Il passo è breve nel considerare in seguito i movimenti degli astri assieme alle altre regolarità nel mondo: le stagioni, le piogge, la fecondità della terra, ecc. Sarà forse che sono connessi, che gli eventi terrestri sono causati dagli astri? Potrebbe essere questo il pensiero che sta dietro alle prime tabelle astrologiche.
La divinazione estende la ricerca delle regolarità nascoste del mondo naturale, e cerca di conoscere le operazioni del fato e delle sue leggi in più campi. Esistono degli elenchi di osservazioni abbinate a conseguenze. I testi divinatori hanno una forma quasi “scientifica”, nel senso che propongono una legge, una connessione tra causa ed effetto.14 Sono formulati in frasi bipartite, con la descrizione di un evento in forma condizionale, seguito dalla sua conseguenza. “Se nasce un bambino con la faccia rugata” recita la prima parte, “allora il re e i suoi figli andranno via dalla città in esilio”. Oppure ancora: “Se una donna dà alla luce un bimbo nano: guai! La famiglia di quell’uomo si sparpaglierà.”
Possiamo anche documentare il fatto che almeno alcune di queste coppie di causa ed effetto nascono dall’osservazione “scientifica” di una persona che addirittura firma il suo rapporto. È il caso di un maialino nato con otto zampe e due code. Sappiamo il nome del proprietario del maiale, e anche il nome del responsabile che ha stilato il rapporto. Si può immaginare che questo evento abbia preceduto un altro evento di grande importanza, e quindi sia stato ritenuto la causa di quella—e sia entrato nel catalogo dei presagi per questo motivo:
“Se l’anomalia consiste nell’avere otto piedi e due code, un principe si impossesserà del regno universale. La persona in questione è un tessitore il cui nome è Shamash-dayyanu. Dice testualmente: Quando la mia scrofa ha partorito, (il maialino) aveva 8 piedi e due code. Così l’ho messo sotto sale e riposto in casa. Rapporto di Nergal-etir.”
Questa osservazione paziente e puntigliosa della realtà assomiglia all’atteggiamento che noi chiameremmo “scientifico”. Può darsi che a noi suoni irragionevole leggere la nascita di un maialino come presagio infausto. Non crediamo oggi che un tale evento possa essere legato a tali conseguenze. Ma ciò che ci interessa è la tenacia con cui si osserva la realtà, facendo una tabella puntuale di fatti correlati, e il tentativo di risalire alle leggi del comportamento della stessa realtà—oppure del fato, se si preferisce.
Per un esempio più vicino a noi, pensiamo alla famosa vicenda di John Snow nel 1854, durante la pandemia di colera a Londra. L’assoluto veniva a chiamare le persone alla morte, in maniera apparentemente casuale. Ma il dottor Snow ha fatto una mappa delle case con malati in un quartiere vicino a Broad Street, e in base all’incrocio dell’informazione di chi era malato e di chi usava alcune fonti d’acqua, ha trovato una correlazione: i malati avevano quasi tutti usato una certa pompa d’acqua. L’assoluto agiva quindi in maniera coerente, quasi prevedibile. Così Snow ha potuto dare consigli preziosi ai governatori, che hanno sigillato quella pompa, e ha contribuito alla scoperta dei microbi come fonte di malattia.
Noi oggi sappiamo che alcuni eventi hanno nessi causali, come i microbi sulla maniglia di una pompa che hanno infettato la popolazione del quartiere studiato da Snow. Altri eventi, nella nostra valutazione non sono connessi, come la nascita di maiali e le vicissitudini dei re. Ma l’atteggiamento alla base della ricerca è simile a quello dei Mesopotamici.
La ricerca di conoscere il futuro ha preso due altre forme importanti in Mesopotamia, la epatoscopia e la lecanomanzia. La prima era un metodo per conoscere il piano del fato attraverso l’esame del fegato subito dopo il sacrificio di un animale. È un organo molto sanguinolento, che continua a contrarsi anche dopo essere tolto dall’animale, il che può comunicare un senso di portento e l’esistenza di un messaggio recondito. Il fegato porta segni sulla sua superficie, che i mesopotamici interpretavano come messaggi. Con una logica simile alla raccolta degli omina, sono state create delle mappe del fegato in terracotta, con indicazioni del significato divinatorio delle macchie.
Infine, si usava anche la tecnica detta lecanomanzia, la mescolanza di olio e acqua in una terrina, con interpretazioni che si basavano sul movimento delle gocce di olio sulla superficie dell’acqua. Anche qui, e con costi inferiori a quelli relativi alle altre tecniche di divinazione, si poteva conoscere il fato attraverso degli eventi apparentemente casuali.15 È importante notare che in queste tecniche, sono gli umani che devono aprire la comunicazione con l’assoluto. Il fato si lascia conoscere, ma solo dentro i riti compiuti con precisione tecnica.
Per chiudere questo rapido esame della divinazione in Mesopotamia, vorrei anche notare che il tecnico (barū = “veggente”) della divinazione non si concepiva come un manipolatore delle coscienze. Credeva veramente di essere in contatto con il fato, e di poter arrivare a conoscere la verità, appunto di vedere la verità. Testimonianza di questo fatto è una bella preghiera che i barū recitavano prima di compiere i loro riti.
Immaginiamo quindi il barū di notte, sul tetto della sua casa, illuminato dalle stelle e da un fuoco che aveva acceso, che prega con queste parole:
1 i grandi (dei) sono addormentati, chiavistelli e sbarre sono in posizione abbassata.
3 le folle rumorose sono nella quiete, le porte aperte – chiuse.
5 Gli dei e le dee della contrada – adad e ea, shamash e ishtar – si sono ritirati in grembo al cielo,
8 non emettono sentenze, non decidono di alcuna cosa.
10 velata è la notte. Palazzo e tempio sono nella più grande quiete,
12 chi è ancora per strada invoca il suo dio, chi attende un verdetto non può che restar nel sonno.
14 il padre della verità, padre anche di chi non ha padre, il dio-sole, se ne è andato nella sua sacra cella.
16 o dio-fuoco che splendi (nell’oscurità), o dio-guerra, l’eroe (degli inferi),
17 o stella dell’arco dell’elam, … voi, dei della grande notte,
21 siate qui presenti con me e così, nella divinazione che sto per fare,
23 nel rito che sto per compiere, mettete la verità!16
Tutto il pantheon è chiamato in causa, e il divinatore chiede aiuto affinché il rito che sta per compiere porti alla verità.17
3. La profezia
Nella Bibbia, non solo non era presente la divinazione, ma ci sono le condanne più dure di ogni tipo di essa.18 Si veda ad esempio Deuteronomio 18, 10-12: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco, né chi esercita la divinazione, né astrologo, né chi predice il futuro, né mago, né chi usa incantesimi, né chi consulta gli spiriti, né chi dice la fortuna, né necromante, perché chiunque fa queste cose è in abominio all’Eterno.”19 Tale foga sembra quasi mal posta, visto che nella comunità biblica non esisteva un sistema così imponente di divinazione come in Mesopotamia, e perché al suo interno, come abbiamo visto, anche la divinazione si concepiva come una modalità rispettosa e onesta di conoscere l’ordine del mondo.
Di fatto, dobbiamo spiegare l’assenza dei meccanismi divinatori nel testo biblico, e l’avversione così forte alle pratiche divinatorie di altri popoli, con il fatto che nella Bibbia mancano le concezioni di base per la loro esistenza. Si tratta di una differenza radicale. Mentre i Mesopotamici credevano di poter definire in maniera sempre più precisa la regolarità dell’azione dell’assoluto attraverso l’osservazione, nel mondo biblico troviamo un atteggiamento diametralmente opposto, e cioè “lo svilupparsi di una sensibilità sempre più raffinata proprio per l’imprevedibilità assoluta di Dio.”20 Per il monoteismo biblico, Dio agisce sovranamente, senza che si possano dedurre le leggi del suo intervento.21
Nella comunità biblica, il profeta (nabī = “chiamato”) svolge un ruolo analogo a quello del barū in Mesopotamia.22 Ma i due hanno due atteggiamenti diversi, pur essendo entrambi ricettivi davanti alla manifestazione dell’assoluto. Il divinatore studia la regolarità del fato, anche là dove si tratta di eventi in apparenza irregolari. Il profeta invece crede di essere un canale per l’autorivelazione di Dio, che parla o agisce quando e come vuole, senza ripetersi e senza essere prevedibile.
Possiamo anche contrastare l’atteggiamento del “cliente” e del “tecnico”. Per i Mesopotamici, la notizia richiesta attraverso la divinazione è un elemento di informazione, e le emozioni che suscita sono quelle che si potrebbero avere davanti a un giudice. Si attende una notizia, pur importante, ma come un “verdetto” più che una parola d’amore o di invito personale.
Per il profeta e i suoi ascoltatori, invece, si tratta soprattutto di un invito all’adesione emotiva e spirituale a una chiamata. Il profeta non solo porta un messaggio, ma è un maestro spirituale: contribuisce a creare un atteggiamento di ascolto anche da parte del popolo. E la sua “capacità” risiede non nella conoscenza di tanti dati, ma nella sua abilità a proporre un modello interiore di rapportarsi all’assoluto.
Scavando più a fondo nelle ragioni del profetismo si può notare che si presenta una serie di variazioni sul tema della creazione. Come nell’assoluto inizio della creazione del mondo, così in ogni intervento salvifico reso noto attraverso i profeti, Dio appare come uno che instaura nuovi inizi assoluti. Buccellati scrive, “L’ethos della creazione comporta dunque la percezione di questo intervento perennemente rigenerante, la consapevolezza di una capacità divina di iniziative sempre fresche e nuove, la disponibilità intellettiva ed emotiva a rispondere con altrettanta spontaneità a questo insospettato emergere della presenza divina.”23
La creazione segna una differenza appunto “strutturale” tra la percezione biblica e quella mesopotamica: in un mondo creato, vi è un abisso ontologico tra due mondi, l’assoluto e il mondo naturale, e ogni momento della vita nel mondo naturale può venire riconnesso al momento iniziale della creazione. Per i Mesopotamici invece, c’è un solo mondo, di cui ogni momento è un frammento che può essere osservato con cura, catalogato, e inserito nella vasta totalità dei momenti conoscibili e conosciuti. Questa differenza riguarda anche il piano divino. Per il mondo biblico Dio è un attore libero, una persona con un nome, mentre per i Mesopotamici l’assoluto è una sorta di “matrice” degli eventi, ma non ha volto né personalità. Sono due modi diversi di porsi davanti all’ignoto assoluto.
4. Analogia strutturale
Le asserzioni fatte finora sono appena un assaggio di un tema ampiamente e profondamente studiato altrove. Come abbiamo dichiarato all’inizio, una presentazione breve di questo tema serve nel contesto attuale a essere un case-study, e quindi evitiamo di approfondire nel merito. Nello studio di Buccellati, molte altre coppie di atteggiamenti e azioni religiosi sono studiate e paragonate. Per ordinare il suo esame delle strutture dei rapporti tra umani e “assoluto”, Buccellati distingue in prima battuta fra l’interazione che parte dall’iniziativa dell’umano oppure da parte dell’assoluto. Questa distinzione è rappresentata dalle espressioni culturali che considerano l’assoluto cercato come oggetto, oppure l’assoluto che si manifesta come soggetto. Buccellati distingue poi a livello umano tra ciò che riguarda l’individuo, e ciò che riguarda la comunità. Diversi dati culturali che sono documentabili storicamente possono quindi essere raccolti attorno a queste distinzioni.
Le tematiche, come la divinazione e la profezia, presentano delle “analogie strutturali”. Si riesce a evidenziare come alcuni elementi o problematiche comuni a due religioni sono trattati in maniera differente. Dal paragone tra questi elementi emergono delle linee prospettiche che indicano un punto fuori dal quadro, e fuori dal mondo: un assoluto che si postula avere delle caratteristiche precise, con differenze notevoli se si tratta della visione Mesopotamica o invece di quella biblica.
Seguendo l’insieme di queste linee, abbiamo notato sopra che il rapporto assoluto-uomo può essere inteso in due direzioni, a seconda chi prende l’iniziativa. A sua volta, questa direzionalità può essere descritta in termini grammaticali, come transitività o intransitività,24 che chiarisce il concetto e il tipo di rapporto al di là del numero. Infatti, tra monoteismo e politeismo, il numero non è la questione fondamentale. Alcuni studiosi rappresentano il monoteismo d’Israele come se fosse una rarefazione del precedente politeismo, come se fosse un “politeismo di uno”. Dal paragone strutturale si può vedere che la differenza tra le due concezioni è molto più profonda di questa.
5. Estensioni del “confronto strutturale”
Fitz John Porter Poole nel 1986 ha scritto un articolo importante sul progetto del comparative religion, “Metaphors and Maps. Toward Comparison in the Anthropology of Religion”. A suo parere, “se ci preoccupiamo meno di come dividere i fenomeni in categorie chiuse imposte dalle rigidità formali delle definizioni monotetiche, e ci preoccupiamo di più della natura logica e il fondamento epistemologico dei nostri problemi formali e le possibilità immaginative ma circoscritte delle loro costruzioni metaforiche e mappature analogiche, possiamo discernere meglio ciò che un paragone può fare.”25 Egli ha proseguito nel suo ragionamento dicendo che “la sistematicità interna di entrambe le costruzioni metaforiche e gli insiemi (interconnessi) di metafore analitiche devono essere esaminati in termini della struttura delle voci semantiche, della sovrapposizione dei campi semantici, delle connessioni dei network semantici (nodi, attributi, e relazioni) che caratterizzano i domini, e dei nessi tra implicazioni e conseguenze metaforiche o analogiche.”26
Poole forse non lo sapeva nel 1986, ma stava descrivendo qualcosa che assomiglia alla rappresentazione “graph” di dati in “reti relazionali”, in cui non solo i nodi ma anche le loro relazioni sono rappresentati. Se una tale visualizzazione fosse descritta matematicamente, con una topologia definita e usata per paragonare due o più rappresentazioni alternative, una delle previsioni di Poole potrebbe essere realizzata. “Tali esplorazioni formali potrebbero mostrarci non solo le lacune significative nella nostra logica e altre infelicità nella nostra formulazione del problema, ma anche come le analisi che si fondono su un insieme teoreticamente informato di metafore e puzzle o mappature tendono a coagularsi in modi importanti che possono essere specificati e valutati […] la struttura delle somiglianze di famiglia, categorie politetiche, costruzioni metaforiche, e mappature analogiche possono illuminare la natura formale dell’atto di paragonare.”27
Al di là della complessità del linguaggio di Poole, il suggerimento è chiaro: paragonare non solo le parole e i concetti, che possono facilmente indurre in errore a causa della loro imprecisione, ma paragonare intere strutture di pensiero. In questo modo si potrà più facilmente evidenziare dove determinate strutture di pensiero hanno delle lacune logiche e dei punti deboli, che un’altra struttura alternativa potrebbe invece non mostrare.
A distanza di 35 anni da quel suggerimento, la network science è cresciuta a dismisura. Le possibilità di realizzare una mappatura del campo semantico che rappresenta due religioni, e procedere al paragone fra loro, è reale oggi. Uno studio recente applica network science alla “struttura della rivoluzioni scientifiche”, ossia il processo di scoperta e crescita della conoscenza scientifica.28 Il passo è breve tra una descrizione di questo genere e un paragone fra campi del sapere che sono affini, ma diversamente strutturati, come appunto la divinazione e la profezia.
Sorge naturale pensare all’estensione informatica, a un sistema che aiuti a visualizzare i nessi tra i temi di un argomento, fino anche a generare automaticamente una parte della struttura attraverso il natural language processing. La comparazione strutturale potrebbe essere suscettibile di analisi matematica, usando gli strumenti della topologia, come Ju et al. hanno fatto nella loro ricerca. Network analysis potrebbe venire applicata alla rete di connessioni tra nodi di dati, e così dare luogo a un paragone più oggettivo fra le proposte di interpretazione dei dati di base. Questo lavoro è attualmente oggetto della nostra ricerca. Presenteremo questo tema in maniera più completa in un prossimo articolo.29
6. Conclusione
Il libro di Buccellati, e il sito web che l’accompagna,30 si presentano come un tentativo di essere precisi e rigorosi nella raccolta di informazione; esporre in maniera trasparente l’informazione di cui si è tenuto conto, con una esplicita dichiarazione del proprio punto di vista; confrontare due mondi che dipendono non tanto dalle singole parole e concetti, quanto da due modi alternativi e strutturalmente irriducibili di approcciare una singola vicenda all’interno del rapporto tra l’essere umano e l’assoluto.
Siamo partiti dai dati documentabili storicamente. In questo modo, abbiamo conosciuto di più del mondo e quindi più della verità. Abbiamo una gamma di colori più completa, che rappresenta in maniera più fedele la realtà del mondo dell’uomo e dell’assoluto.31 Nell’esempio che abbiamo esaminato, si è trattato del desiderio comune a due culture di conoscere l’assoluto e le sue regole. Questo desiderio si articola in due modi molto differenti: da una parte, il divinatore interpella l’assoluto e crede di poter dare informazioni utili ai suoi clienti, dall’altra parte, il profeta si sente investito, forse contro voglia, della parola dell’assoluto, e la proferisce, la dice al popolo.
Oggi, siamo abituati a pensare nei termini di un controllo tecnico del mondo, la previsione e manipolazione di ciò che sembrava fortuito o provvidenziale ad altre generazioni (il meteo, la nascita di figli…), la fiducia in ciò che è matematico e regolare, la fiducia nelle regole più che nelle persone. Possiamo vedere così uno degli scopi di Buccellati nel suo lavoro di conoscenza del mondo antico: il lavoro umanistico ha come scopo la scoperta di un mondo a noi inizialmente alieno, in funzione dell’appropriazione dentro la nostra umanità, per essere arricchiti di un’esperienza altrui.
Vediamo quindi, e forse con sorpresa, che il nostro atteggiamento odierno scientifico e culturale è vicino al politeismo della Mesopotamia, e forse è solo in maniera limitata che abbiamo l’atteggiamento biblico nei confronti di Dio. Più che un giudizio di valore, è una illustrazione di come il metodo del paragone strutturale possa rispondere alle diverse istanze avanzate dalla storia delle religioni negli ultimi decenni. Lungi dal “appropriarsene” in maniera colonialistica, la nostra esplorazione della Mesopotamia ci ha portati a ritrovare dei fratelli da lungo tempo dimenticati.
Per concludere, cito ancora Buccellati: “Oltre all’epoché occorre avvalersi dell’empatia. Il valore universale delle percezioni che stanno alla base delle spiritualità mesopotamiche e bibliche ci invita a farle nostre, ad appropriarcene in chiave umanistica.”32
1 Vedi per esempio U. Bianchi, “The Definition of Religion”, in Problems and Methods of the History of religions in U. Bianchi – C.J. Bleeker – A. Bausani (eds.), (Supplements to Numen XIX), 15–32. Leiden 1972; U. Bianchi (ed.), The Notion of Religion in Comparative Research. Selected Proceedings of the XVIth Congress of the International Association for the History of Religions Rome, 3rd-8th September, 1990, Roma 1994.
2 Le scoperte e le ipotesi avanzate recentemente dentro l’ambito delle scienze cognitive presentano una sfida ulteriore.
3 Quando, 3.
4 Ibidem.
5 “Che cosa è un ilu?” (Ilu è la parola akkadica per “dio”) Vedi l’introduzione a The Origins of Biblical Monotheism. Israel’s Polytheistic Background and the Ugaritic Texts di M. Smith (Oxford 2001), e la mia recensione a https://4banks.net/Mes-Rel/synopses/Smith.htm
6 Quando, 3.
7 Buccellati prende in prestito questo linguaggio da Robert Armstrong. Vedi The Affecting Presence. An essay in humanistic anthropology, Champaign, IL, 1971.
8 Quando, 4.
9 Quando, 6.
10 La citazione prosegue così: “Tale fulcro può, sì, essere considerato una ‘causa’, se così si vuole dire, ma, per l’appunto, non in un senso meccanicistico e unidirezionale (una spinta muove un oggetto lungo una linea), bensì come una condizione che unifica un rapporto sistemico e complesso di relazioni.” Quando, 7. Evidentemente ci sono molte scelte epistemologiche sottostanti.
11 Il fatto che il sistema rimanga aperto a nuova informazione è fondamentale. Si veda la riflessione sul tema “oggettività” in Quando, 12-13. In particolare, “Abbiamo tutti un bagaglio di presupposti culturali con i quali ci avviciniamo alle altre culture. È un’illusione pensare che sia possibile scartare questi presupposti. Anche perché, se ciò fosse mai possibile, sfocerebbe in un atteggiamento disumano, in quanto ci deruberebbe della nostra specificità culturale, vorrebbe dire che operiamo come robot meccanici. invece, possiamo dire che la misura della nostra oggettività per quanto riguarda la sensibilità risiede nella capacità di calibrare i nostri presupposti culturali. Ciò vuol dire che possiamo, e dobbiamo, essere innanzitutto coscienti dei nostri presupposti, e lasciare che traspaiano a chi ci legge o ci osserva. Dobbiamo poi anche tendere a mettere in sintonia («calibrare», come con un diapason) i nostri presupposti con quelli che stanno alla base dei fenomeni che studiamo. Dobbiamo, in altre parole, allargare la nostra sensibilità. Per esempio, guardare all’esperienza religiosa mesopotamica attraverso il filtro dei testi biblici, in maniera pregiudiziale, ci può facilmente portare a considerarla come una superstizione insensata, gli dei come idoli senza vita, la mitologia come un ridicola fantasia. Ne abbiamo forse anche diritto, ma sempre a patto di articolare chiaramente il nostro punto di partenza.”
12 A questo punto una serie di riflessioni sulla natura dell’umanesimo si aprono. Rimando al lavoro di Buccellati che più direttamente affronta il tema, Critique of Archaeological Reason, specialmente 11.6.
13 Quando, 113.
14 Si veda in proposito l’importante lavoro di J. Bottéro, Mesopotamia. Writing, Reasoning, and the Gods, 125. Egli scrive: “In the history of scientific thought it has been suggested more than once that the Greek science of astronomy had its origins in one of Mesopotamia’s divinatory practices: that of astrology. But the proof for that has never been given, and perhaps it is impossible to do so, as there are so many basic differences between the two. … in Mesopotamia itself, from very early and long before the Greeks, divination had become a scientific type of knowledge and was, essentially, already a science.”
15 Sarebbe interessante studiare il ruolo che sistemi complessi giocano in questa percezione del mistero del fato. Le foglie di tè, le contrazioni del fegato, i Rorshach, i movimenti del mercato azionario… sono sistemi caotici che non possono essere previste, ma che hanno una sembianza di ordine e perciò sono molto attraenti a chi vuole conoscere il fato, a svelare l’arcano.
16 Vedi Quando, a5.
17 Un elemento che qui non trattiamo, ma che sarebbe importante per una valutazione complessiva del metodo comparativo di Buccellati, è lo sviluppo diacronico delle ritualità connesse alla divinazione. Secondo T. Jacobsen, l’immagine delle divinità ha subito un mutamento profondo nel corso dei millenni in Mesopotamia, a cominciare da una visione più “intransitiva” di divinità poco attive, per diventare poi molto più personale e attivo verso la fine del secondo millennio a.C. Vedi il mio breve articolo in merito qui: 4banks.net/Mes-Rel/temi/transitivity.htm. Buccellati si concentra invece sulla “struttura” sincronica (vedi Quando, 2.8 per una discussione di questo punto preciso).
18 Questa è certamente un’affermazione discussa. Vedi ad esempio il lavoro di J. Deluty, Prophecy in the Ancient Levant and Old Babylonian Mari «Religion Compass» 14/6 (2020) 1-11. Come ho specificato sopra, in questo scritto riporto la posizione di Buccellati senza dibattere ogni punto, per mettere meglio in evidenza il suo metodo di comparazione.
19 Cit. in Quando, 123.
20 Quando, 124.
21 Questo tema così posto deve essere visto in rapporto al tema del logos. Dio non è solo imprevedibile, è anche ordinato (secondo la tradizione greca e cristiana). Per l’ebraismo, il tema del logos non si pone in maniera così decisiva.
22 I due titoli sono significativi. Mentre il baru è un “veggente”, il nabi è un “chiamato”.
23 Quando, 127.
24 È un modo di parlare comune anche a T. Jacobsen, il quale suggerisce che l’intransitività è tipica degli dei antichi, mentre quelli più recenti mostrano invece la “transitività” di un dio che agisce. Forse quindi non sono così differenti dal Dio di Israele? Vedi Treasures, 9-10.
25 F. Poole, Journal of the American Academy of Religion, Vol. 54, No. 3 (Autumn, 1986), 439.
26 F. Poole, 440.
27 F. Poole, 440-441.
28 Vedi H. Ju – D. Zhou – A. Blevins – D. Lydon-Staley – J. Kaplan – J. Tuma – D. Bassett, “The network structure of scientific revolutions”, https://arxiv.org/pdf/2010.08381.pdf.
29 Si tratta di “A Structural Methodology Applied to the Comparison of Mesopotamian Divination and Biblical Prophecy”, which has been accepted for presentation at the 2021 EASR conference in Pisa (https://www.youtube.com/watch?v=JCLU2CoN3NM). L’abstract segue: “This paper presents a structural method of comparison between religious elements, based upon the comparison of Mesopotamian polytheism to Biblical monotheism carried out in G. Buccellati’s 2012 publication entitled Quando in alto i cieli. The method is first applied, as an example, to divination and prophecy. Then the theory behind the method is developed with considerations regarding language. Finally, the paper concludes with an exploration of some possible extensions of the methodology in Digital Humanism. Data regarding religious practices can be initially interpreted as if they were the still-mysterious graphical symbols of an ancient and unknown written language. As in the decipherment of hieroglyphs and cuneiform texts, careful observations can lead to the construction of a “syntax” for the proper linking of the data elements, before attempting any “semantic” interpretation. From a well-constructed syntactical structure that represents the pattern of the underlying data, well-founded considerations about meaning can emerge. Divination and prophecy offer an interesting case study for our method. They present several similarities, and are easily susceptible to description in a schematic, “structural” manner. Through such representation, a few important differences between the two activities, and between the relative conceptions of the divine, emerge naturally. Structures are a useful metaphor for comparing two distinct religious practices. They are also a useful way to imagine research into entire sections of a civilization: perhaps not only “divination” and “prophecy”, but “Mesopotamian polytheism” and “Biblical monotheism” could be compared usefully in this way. Furthermore, a structural comparison remains intrinsically open to new data. This process can be extended to large-scale collections of data and their publication and interpretation. The author currently collaborates on one such project (4banks.net), which will be briefly presented in conclusion.
30 Quando in alto i cieli. Il sito web specifico sulla religione in Mesopotamia è 4banks.net/Mes-Rel.
31 Sarebbe interessante sviluppare anche il confronto con le scienze cognitive. Un approccio strutturale è capace non solo di rendere ragione di problemi spinosi nel comparative religions, ma anche sembra ricalcare alcune caratteristiche della conoscenza umana al livello neuronale. Nel cervello, la struttura di gruppi di neuroni che si attivano è più importante di un referente univoco (il cosiddetto neurone “grandfather”). Forse si può vedere la struttura della religione come un livello intermedio tra la struttura della mente umana che incontra il mondo, e la struttura del mondo stesso. Ma questi sono temi per un lavoro futuro.
32 Quando, 263.