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Ror Studies Series | Storia Religioni Comparazione

Lo studio storico (e comparativo) delle religioni. Riflessioni a partire dalla lezione metodologica di Ugo Bianchi

Maria Vittoria Cerutti

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

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1. Introduzione

Non è nostra intenzione in questa sede offrire un’esaustiva ricostruzione della riflessione metodologica – caratterizzata da un solido impianto storico-comparativo – sviluppata dallo storico delle religioni italiano Ugo Bianchi (1922-1995).1 È invece nostro desiderio approfondire alcuni di quegli aspetti propri della lezione metodologica di Bianchi, ovvero della sua specifica ‘idea’ di Storia delle religioni, che, formulati in una passata stagione di studi, e precisamente tra gli anni ’60 e gli anni ’90 del secolo scorso, in una feconda dialettica con proposte metodologiche coeve, e pur fatti oggetto di critica nella storiografia recente, ci pare conservino una loro validità ed efficacia in ordine alla esplicitazione dei possibili guadagni di una ricerca storica, e più specificamente storico-comparativa, applicata ai fatti religiosi, in una stagione di studi quale la attuale, che vede la tradizionale ricerca storica come surclassata da molteplici approcci metodologici a quegli stessi fatti, approcci nuovi o antichi rivisitati.

Dividiamo in tre parti la nostra riflessione.

La prima parte è dedicata all’oggetto di detto studio storico-comparativo – le religioni – e intende mettere a fuoco la specifica soluzione offerta da Bianchi alle questioni connesse alla definizione in sede ‘storica’ di religione, soluzione – quella di Bianchi che appella alla categoria di ‘analogia’, ma senza un analogatum princeps – che ci pare di particolare attualità in relazione a odierne e diffuse proposte interpretative che – pur muovendosi da presupposti metodologici tra di loro diversi – convergono, invece, nella affermazione della univocità del fatto religioso. Ci pare, al contrario, che la valorizzazione dell’aspetto analogico dei fatti ‘religiosi’, e pertanto del rapporto tra religione e religioni, possa offrirsi come uno strumento particolarmente duttile per studiare e comprendere l’ ‘altro’ senza prestarsi a quelle operazioni di etnocentrismo ovvero di colonizzazione o di addomesticamento dell’altro, che la critica attuale vede come ineliminabili portati della indagine storica, nel suo essere sostanzialmente di matrice occidentale. In sostanza, l’individuazione del religioso come fatto analogico ci pare si presti, particolarmente oggi, a quella valorizzazione della discontinuità tra fatti religiosi che non può non rivestire particolare importanza anche per una comprensione teologica degli stessi. Entro la riflessione sulla portata analogica del religioso sarà dedicato un certo spazio al tentativo – sviluppato da Bianchi – di offrire una descrizione di ‘religione’ – più che una rigida definizione – la quale sia rispettosa di detta portata analogica e insieme della caratteristica relazionale del fatto religioso, pur con una adeguata attenzione a quei fatti che – pur religiosi – non offrano così esplicitamente una dimensione relazionale con il supra.

La seconda parte è dedicata al metodo di tale studio, appunto il metodo storico-comparativo, con una particolare attenzione, insieme alle sue caratteristiche, alle questioni poste da quello che vorrebbe essere lo scopo di detto metodo, ossia la ‘comprensione’ – in sede storica e specificamente storico-comparativa – del fatto religioso e, meglio, dei fatti religiosi. E dunque si tratterà di interrogarsi su che cosa significhi comprensione storica di un fatto religioso e, entro tale riflessione, di toccare quello che ci pare un punto nevralgico della comprensione storica stessa, ossia se essa debba necessariamente mettere tra parentesi la tensione alla Verità metafisica – come da più parti oggi si afferma – o se non si dia forse una modalità di fare ricerca storica (non teologica o filosofica) che solleciti, invece, l’urgenza della quaestio veritatis.

La terza parte riguarda il soggetto, ossia lo storico che, sulla base di tale metodo, studia le religioni, e intende mettere a fuoco la questione – come affrontata da Bianchi in una passata stagione di studi e in dialettica con le proposte metodologiche di allora – dei presupposti necessari allo storico per la suddetta comprensione. Questione, anch’essa, di particolare attualità e, riteniamo, valore, nella presente stagione di studi che vede una messa in crisi del soggetto della ricerca storica.

2. Cenni bio-bibliografici

Tuttavia, prima di addivenire alla prima parte della nostra riflessione, ci pare proficuo esporre una breve nota biografica relativa a Ugo Bianchi (Cavriglia, Arezzo 1922 – Firenzuola, Firenze 1995). 2

Compiuti a Roma gli studi classici, si laurea in Lettere nel 1944 presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’, discutendo una tesi in Storia delle religioni sul culto di Artemide Efesia nel I sec. d.C. in comparazione con un passo degli Atti degli Apostoli (XIX, 24-40), e riportando la votazione di 110/110 e lode. Relatore è Raffaele Pettazzoni (1883-1959), il primo titolare in Italia, nel 1923, di una cattedra di Storia delle religioni all’Università di Roma. Iscrittosi alla Scuola di perfezionamento in Studi storico-religiosi (ove si diplomò nel 1947, avendo come relatore ancora il Pettazzoni che era il direttore della Scuola) e alla Scuola di perfezionamento in Scienze etnologiche della stessa Università (1949-1951), risulta vincitore nel 1951 del concorso nazionale per un comando quinquennale presso l’Istituto Italiano per la Storia antica; nel 1954 ottiene la libera docenza in Storia delle religioni che gli consente di tenere negli anni successivi (1955-56/ 1958-59) corsi liberi presso l’Istituto di Storia delle religioni della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma “La Sapienza”. Ambiti privilegiati dei suoi studi in questo periodo sono le religioni del mondo classico.3

Nel 1958, con un favorevole giudizio espresso da una Commissione composta da insigni studiosi quali Raffaele Pettazzoni, Giulio Giannelli, Delio Cantimori e Alberto Pincherle, Ugo Bianchi risulta il “terzo ternato” nel pubblico concorso per Professore straordinario alla Cattedra di Storia delle religioni dell’Università di Roma. Sono gli anni in cui i suoi interessi vengono a privilegiare il dualismo come tipologia storica che percorre il mondo delle religioni vuoi d’area etnologica vuoi d’area culta e in particolare iranica.4 Al contempo, è il vasto mondo stesso delle religioni, accostate sulla base di una analisi storico-comparativa, a divenire oggetto di opere che affrontano ampi problemi e temi di storia e di tipologia religiose.5

Con la chiamata dell’allora Rettore dell’Università di Messina Salvatore Pugliatti, il 1 febbraio 1960, ha inizio per U. Bianchi la docenza accademica presso l’Ateneo messinese, dapprima come Professore straordinario di Storia delle Religioni e successivamente, dal 1963 al 1971, come Professore Ordinario, oltre che come incaricato di Etnologia (1960-1970). Alle ricerche su singoli aspetti e contenuti delle religioni classiche e del Vicino Oriente Antico, si affiancano monografie che offrono ampi affreschi storico-religiosi e storiografici.6

Gli anni del magistero messinese di Bianchi furono caratterizzati, in particolare, dalla organizzazione scientifica del primo di una ricca serie di convegni internazionali di cui lo studioso, convinto assertore della fecondità scientifica di tali incontri, sarebbe stato promotore, pubblicandone regolarmente gli Atti (che ospitavano puntualmente un Documento finale, sempre fortemente voluto da Bianchi come strumento di lavoro imprescindibile per le future ricerche e tale da essere condiviso dal maggior numero possibile dei relatori convenuti): si tratta del convegno su ‘Le origini dello gnosticismo’ (Messina, 13-18 aprile 1966), che costituisce a tutt’oggi – nonostante talune critiche levatesi nell’ambiente scientifico internazionale – un punto di riferimento imprescindibile negli studi sul variegato e complesso fenomeno dello gnosticismo tardoantico.7

Nel novembre del 1970 inizia la sua attività di docenza come ordinario di Storia delle religioni presso l’Ateneo Alma Mater Studiorum di Bologna (1970-1974), ove il maestro Raffaele Pettazzoni era stato incaricato di Storia delle religioni dal 1914 al 1923. Nel frattempo, nel 1972, Bianchi ottiene l’incarico di Storia delle religioni presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, incarico che avrebbe tenuto per un ventennio e precisamente fino al 1991. Il magistero milanese di Bianchi, il più prolungato e tra i più fecondi della sua ricerca scientifica, fu caratterizzato in primo luogo dall’intensificarsi delle ricerche sui temi del male, del destino e della salvezza nella religione greca, e specificamente in relazione alle grandi correnti costituite dalla religiosità olimpica e mistica, come pure in relazione alle formazioni più specificamente misteriche e misteriosofiche;8 in secondo luogo, dall’applicazione a tematiche pertinenti il cristianesimo antico, in particolare le sue istanze ascetiche e astensionistiche nonché le specifiche concezioni antropologiche che le sostenevano,9 di quella indagine storico-comparativa che egli andava approfondendo e affinando, mediante una diuturna riflessione metodologica10 e una progressiva applicazione del metodo storico-comparativo ai diversi ambiti religiosi che furono via via oggetto dei suoi studi. La docenza in una università cattolica, quale quella di Milano, costituì altresì l’ambito ideale nel quale sviluppare una riflessione sui rapporti tra storia delle religioni e teologia delle religioni, e accostare in prospettiva storica e comparativa grandi temi e problemi dibattuti dalla riflessione teologica.11

Nel 1974 Bianchi lascia Bologna per trasferirsi a Roma, chiamato all’Università La Sapienza, dapprima presso la Facoltà di Magistero (1974-1979) e successivamente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia (1979-1995), ove ricopre quella che era stata la prima cattedra italiana di Storia delle religioni, istituita nel 1923 e ricoperta, dal 1924 al 1959, dal suo maestro Raffaele Pettazzoni. Gli anni romani lo videro promotore di una serie di convegni scientifici internazionali – da lui intesi sempre quali luoghi particolarmente idonei per confrontarsi sui risultati delle ricerche e per aprire un sereno e intenso dibattito scientifico, foriero di nuove prospettive per la ricerca – su quelli che erano nel frattempo diventati alcuni dei poli previlegiati della sua attenzione scientifica, ossia i culti mistici e misterici di origine orientale nell’Impero romano e le loro prospettive soteriologiche,12 categorie ‘classiche’ della indagine storico-religiosa quali quella dei ‘riti di passaggio’13 e, nell’ambito della riflessione metodologica, la nozione di religione nella ricerca storico-comparativa. Tema, quest’ultimo, del XVI Congresso della International Association for the History of Religion (IAHR), promosso da Bianchi, nella sua qualità di Vice-Presidente della stessa, e svoltosi a Roma (3-8 settembre 1990), in una sorta di continuità ideale con l’VIII Congresso della IAHR organizzato, sempre a Roma, dal Pettazzoni nel 1955, nella sua qualità di Presidente della IAHR.14 A Roma fu altresì Professore Visitante di Etnologia religiosa presso la Pontificia Università Urbaniana Propaganda Fide (1977-1995).

Bianchi fu Presidente della Società Italiana di Storia delle religioni (SISR) dal 1988 al 1995, vice-Presidente (1980-1990) e poi Presidente (1990-1995) della International Association for the History of Religions (IAHR). Già consultore (dal 1970) del Segretariato vaticano per i non cristiani, poi Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, fu membro delle Accademie di Messina e di Bologna nonché del gremium per le collane “Die Griechischen Christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte” e “Texte und Untersuchungen” dell’Accademia delle Scienze di Berlino. Nel 1980 fu insignito della laurea honoris causa dalle Università di Louvain –la –Neuve (mentore Julien Ries) e di Uppsala (mentore Jan Bergman). Morì improvvisamente il 14 aprile (Venerdì Santo) del 1995, poche settimane dopo essere diventato ‘professore emerito’.

3. Storia delle religioni: l’oggetto. Analogia e ‘rottura di livello’

È un dato acquisito in sede scientifica la stretta relazione tra metodo e oggetto di una disciplina. A proposito di tale relazione, e, più precisamente, della direzione di tale relazione, Bianchi afferma:

“L’oggetto e il metodo si richiamano talmente l’uno l’altro che (…) si condizionano a vicenda; in tanto parleremo di religione, in quanto avremo una metodologia pertinente per individuarla. Possiamo anzi parlare di una dialettica tra oggetto e metodo, che si generano a vicenda, e in qualche modo sono la stessa cosa: in tanto parleremo di religione in sede di storia delle religioni, in quanto il metodo storico-comparativo ci metterà sulle tracce di certe contiguità, di certe comunanze di aspetti, che ci permetteranno di estendere il termine religione quanto sarà possibile sulla base di questa metodologia storico-comparativa; in altre parole, questa metodologia ‘genererà’ l’oggetto religione, in quanto questo venga affrontato con quella metodologia”.15

Verifichiamo in atto detta relazione – tra oggetto e metodo – già quando siamo chiamati a presentare l’oggetto della Storia delle religioni: tale oggetto è costituito da quei fenomeni umani che, manifestatisi nella universalità del tempo e dello spazio, sono comunemente – e con termine problematico – chiamati religiosi.16 Questo cauto e problematico accostarsi all’oggetto di studio – infatti non si dice semplicemente: ‘l’oggetto è costituito dalle religioni’ – è già un frutto del metodo di studio storico e, meglio, storico-comparativo. L’applicazione di tale metodo ci mostra, infatti, come la nozione attuale di religione, con la quale in maniera riflessa o irriflessa lavorano rispettivamente lo studioso o il comune osservatore (si direbbe l’uomo della strada), sia il frutto del percorso storico che ha caratterizzato l’occidente cristiano a partire dal terreno culturale e linguistico del mondo greco-romano.17 In sostanza, non c’è una nozione a priori di religione per lo storico delle religioni (come non esiste un concetto a priori di salvezza o di sacrificio o di altro). Può esserci una nozione a priori di religione per il teologo o per il filosofo, che lavorano sulla base dei loro rispettivi metodi, deduttivi e, in parte, normativi.

Invece, lo storico è chiamato – innanzitutto – a storicizzare il suo oggetto di studio e specificamente il termine con il quale detto oggetto è indicato sia – lo ripetiamo – in sede scientifica come in sede vulgata. Sarà così avvertito del fatto che il termine e la nozione di religione, i quali, nell’occidente contemporaneo, identificano un complesso organico di credenze, ritualità e prassi etiche, che esprimono e interpretano una relazione tra il livello umano e un livello altro e diverso dall’umano, percepito come superiore agli umani ed efficace nei loro confronti, sono il frutto di un cammino storico, quello del mondo occidentale cristiano, a partire dalle sue radici classiche, e che come tali non hanno corrispettivi né nel mondo antico, in Grecia come a Roma, né nei mondi culturali e religiosi altri, nello specifico i mondi orientali e le culture etnologiche.

La presa d’atto che il termine e la nozione di religione sono storicamente condizionati – ossia sono il frutto del cammino storico dell’occidente cristiano – ha portato in larga parte degli studi attuali, orientati in senso decostruzionista e post-colonialista, al rifiuto di tale termine e di tutto un lessico tradizionale negli studi scientifici applicati ai fatti religiosi: o rifiuto parziale, quando riferito tale termine a mondi e contesti altri e diversi da quello cristiano occidentale, o rifiuto totale. Detto rifiuto si accompagna a soluzioni alternative che qui non esaminiamo e che comunque vanno dall’uso – in sede di studio scientifico dei fatti ‘religiosi’ – di espressioni neutre, come ad esempio worldviews, o ‘visioni del mondo’, all’uso, per ogni singolo contesto culturale, solo dei termini ‘autoctoni’ per designare atteggiamenti, potenze sovrumane, attori umani, o altro, legati alla sfera del ‘religioso’.18 Quando non un rifiuto esplicito, almeno un ‘fastidio’ per il termine religione e l’aggettivo corrispondente è ampiamente diffuso e sotto gli occhi di molti di noi. Fastidio paradossalmente, ma, appunto, non inspiegabilmente, legato alla presa di coscienza storica circa l’origine e l’evoluzione semantica di tale termine – e di tutto un lessico del ‘religioso’ – nel mondo occidentale cristiano.

Lo storico delle religioni, che lavori sulla base del metodo che qui andiamo delineando, non condivide tale rifiuto o tale fastidio; ritiene invece legittimo un uso (sia scientifico sia vulgato) criticamente avvertito (nel senso indicato) di tale termine per designare quei fenomeni che, nella universalità del tempo e dello spazio, presentino con ciò che, appunto, in occidente si intende per religione significative analogie. Tali fenomeni saranno allora detti religiosi non sulla base di considerazioni filosofiche o teologiche normative, ossia a partire da un concetto normativo di religione, e neppure sulla base di una nozione univoca di religione, ma sulla base della presenza in essi – verificata a seguito di un sufficiente approfondimento filologico e storico19 – di qualificanti aspetti comuni, insieme con altrettanto qualificanti differenze, con altre esperienze che chiamiamo religiose e prima di tutte con la nostra esperienza religiosa, appunto cristiano-occidentale.

Il termine analogia è qui usato nel senso aristotelico-scolastico: quei fenomeni che comunemente denominiamo religioni sono analoghi nel senso che offrono – e questo è un portato della indagine storica e più specificamente storico-comparativa – tra loro profonde somiglianze e altrettanto profonde differenze, formali e di contenuto, oltreché di funzione, ossia affinità profonde e non meno profonde disparità, le une e le altre mai sempre le stesse. In sostanza non esiste un denominatore comune tra le religioni, ossia una ‘essenza’ religiosa univoca sottesa alle pur evidenti differenze, né sotto l’aspetto dei contenuti, né sotto l’aspetto delle funzioni, né sotto l’aspetto delle forme. Detto in altre parole: le differenze, non meno radicali delle affinità, “non sorgono come ramificazioni di un tronco comune o di una base monolitica”.20 Il che vuole anche dire che

“le differenze tra i fatti che chiamiamo religiosi, queste discontinuità che la ricerca positiva constata tra i fatti religiosi, non si identificano in un ‘accidente’ storico, che sia tale in relazione a una sostanza religiosa che il teorico troppo facilmente definisca. Le differenze appartengono alla sostanza non meno che le affinità”.21

La portata analogica delle religioni, ovvero della nozione di religione e dei fatti che vengono comunemente qualificati con detto termine, come impedisce di interpretare il rapporto religione/religioni come il rapporto tra tronco e rami, ossia di interpretare la religione come un tronco dal quale si dipartano i vari rami costituiti dalle religioni, così impedisce anche di concepire la religione come un genus del quale le religioni siano altrettante species, come accade invece, per fare un esempio, con le tante specie del genere dei vertebrati. Ivi, il concetto di vertebrato è univocamente e pienamente verificato in tutte le specie dei vertebrati, per quanto diverse esse possano essere a loro volta.22

Va poi ricordato, in primo luogo, come il verificare rapporti di analogia tra fenomeni religiosi, ossia il registrare somiglianze (mai sempre le stesse) e differenze (altrettanto profonde talora quanto le prime) tra quelli, non costituisca di per sé lo scopo di una ricerca storica e comparativa ma piuttosto lo strumento per un approfondimento della ricerca storica stessa. Questo guadagno era stato efficacemente espresso già da Pettazzoni, pur all’interno di riflessioni metodologiche che non ricorrevano – come invece avrebbe fatto esplicitamente Bianchi – alla categoria aristotelico-scolastica di analogia, e tuttavia intendevano mostrare i guadagni di una indagine che oltre ad essere storica fosse esplicitamente e programmaticamente comparativa, in dialettica con posizioni, quali quella dell’idealismo crociano, che negavano insieme alla autonomia categoriale della religione anche la possibilità di comparazione in seno a una indagine storico-critica. Afferma Pettazzoni:

“In sede metodologica si tratta di vedere se la comparazione non possa essere altro che una meccanica registrazione di somiglianze e differenze, o se non si dia – invece – una comparazione che, superando il momento descrittivo e classificatorio, valga a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimento della coscienza storica”.23

In secondo luogo – e torniamo alla lezione metodologica di Bianchi – va ricordato come per il Nostro l’analogia sia chiamata non soltanto a rendere ragione di somiglianze (non sempre le stesse) e differenze (altrettanto profonde quanto quelle) tra fenomeni religiosi intesi in senso statico, ossia come ‘fotografati’ dallo studio storico e comparativo delle religioni, ma anche ad essere verificata nel rapporto tra processi religiosi o dinamiche religiose, vale a dire complessi religiosi colti e inseguiti nel loro divenire storico, si potrebbe dire ‘in movimento’. Non una comparazione tra ‘fotografie’, ma piuttosto tra ‘filmati’, in questo caso. Un esempio della efficacia di detta comparazione potrebbe essere costituito dallo studio comparativo dei politeismi del mondo antico quali complessi religiosi legati alle cosiddette alte culture e tali – in molti casi – da conoscere in misura analoga – ma nel senso sopra esposto di detto termine – lungo il loro rispettivo cammino storico processi di unificazione del divino. Un ambito di ricerca, questo, che in tempi recenti ha conosciuto un ampio interesse, non sempre – peraltro – tale da portare a indagini criticamente avvertite. Mi sto riferendo al dibattito scientifico sorto intorno alla categoria di ‘monoteismo pagano’.24

Se vogliamo storicizzare detto ricorso nella lezione metodologica di Bianchi alla nozione di analogia, dobbiamo ricordare che Bianchi ne formalizza la applicazione alla indagine storica e comparativa dei fatti religiosi come correttivo alle prese di posizione – di vario genere – che, invece, ritenendo di poter identificare una sorta di comune denominatore nelle religioni, o di forma o di contenuto o di funzione, offrivano una definizione univoca di religione, definizione costruita – appunto – sulla base del denominatore comune che si riteneva poter identificare. Tale era la strada percorsa dalla fenomenologia ma anche – e significativamente – da decisi oppositori di essa, quali, in Italia, dopo Pettazzoni, Angelo Brelich.25 Di fatto, è proprio in opposizione a queste tendenze che Bianchi sviluppa la sua idea di analogia26 come categoria che – sola – in modo adeguato, e adeguato nel senso di rispettoso dei dati della storia, si potrebbe dire – anche – rispettoso della verità storica (poiché il mondo delle religioni – nelle loro diversità storiche e fenomenologiche – fa resistenza ad ogni considerazione univoca della religione), identifica i rapporti tra quei fenomeni che sono comunemente chiamati religiosi. In sostanza, la nozione di analogia conferisce allo studio storico e comparativo delle religioni quel carattere aperto e dialettico che non consentono, invece, i forzati impieghi di concetti univoci di ‘religione’ (siano essi ostensivi o funzionali).

La nozione di analogia – come formalizzata nella lezione metodologica di Bianchi – ci pare, inoltre, particolarmente feconda in rapporto alla stagione attuale di studi applicati ai fatti religiosi. Qui ci limitiamo a segnalare un caso.

La inadeguatezza del modello genere/specie per comprendere il mondo delle religioni, ossia la impossibilità di identificare le religioni come species in rapporto al genus religione (impossibilità che – come sopra osservavamo – deriva dalla portata analogica della nozione di religione e dei fatti che essa designa), trovò in J. Ratzinger analoga e forte sottolineatura (quantunque con l’uso di una terminologia che fa piuttosto riferimento ai ‘fenomeni’ che non ai ‘fatti’ religiosi, come pure della espressione ‘fenomenologia’ che tuttavia il Nostro usa nel senso di osservazione obiettiva dei dati e non nel senso filosoficamente impegnato che ebbe in una passata stagione di studi Bianchi come acuto critico):

“più o meno coscientemente ci lasciamo […] continuamente guidare da questa concezione [scil.: che la fede cristiana ricada insieme alle altre religioni sotto un comune concetto generico di religione, ‘nel senso che le singole religioni ne siano poi le diverse specie’], ed anche la stessa dogmatica vi è parecchio ricorsa, quando cerca ad esempio di spiegare l’essenza del sacrificio cristiano alla luce di un concetto generale di sacrificio, o l’essenza del servizio sacerdotale alla luce di una comprensione generale del fatto sacerdotale. Contro una tale concezione si può certo obiettare non solo in base a concezioni teologiche, ma anzitutto in forza di riflessioni puramente fenomenologiche: i fenomeni stessi non permettono un concetto generale di religione, che sia continuo e tutto abbracci. La filosofia della religione, lo voglia o non lo voglia, dovrà astenersi dalla tendenza a generalizzare propria di ogni filosofia ed accettare la resistenza dei fenomeni, che non si possono classificare in un genere comune”.27

In sostanza, la valorizzazione della nozione di analogia come adeguata a esprimere il rapporto tra le religioni ci pare occorra particolarmente utile oggi a fronte di tentativi di varia parte di reductio ad unum del fenomeno religioso o al contrario di valorizzazione esclusiva della totale opposizione tra cristianesimo e religioni altre, diremmo tra la indicazione di una assoluta continuità e quella – di segno contrario – di una assoluta discontinuità. E invece il mondo delle religioni

“si può assomigliare a un grande acrocoro che risulti dal giustapporsi di serie montagnose diverse, di emersioni disparate, non culminanti in un unico picco ma frastagliate in un gioco complesso e non deducibile di displuviali, le quali identificano volta a volta i lati opposti di una stessa emersione e altra volta invece, anche se spazialmente contigue appartengono a tutt’altra ‘logica’ di sistema”.28

Il ricorso di Bianchi alla categoria aristotelico-scolastica di analogia ha suscitato e suscita ancora delle riserve, che – lo diciamo subito – ci paiono infondate. Come esempio di dette riserve, ricordiamo quella di P. Xella:

“ogni individuazione di analogie non può non fondarsi su un principio referente, non può, cioè, che definirsi in rapporto a “qualche cosa”, che in Bianchi però non è mai determinato, dal momento che si rifiuta ogni definizione (anche convenzionale, euristica, di comodo) preliminare. Chi e come stabilisce allora i criteri di analogia? A questa domanda Bianchi non dà risposta. Se ogni “analogo” non fa che rinviare ad un altro “analogo”, senza un vero referente, come in un gioco di scatole cinesi si attua una catena teoricamente infinita di presunte analogie senza alcun risultato”.29

Ci pare, invece, che la riflessione metodologica di Bianchi sviluppi – in alcune sue formulazioni – la nozione di analogia a partire da un referente esplicitamente dichiarato, che è la nozione di religione storicizzata, ossia – appunto – quella formatasi lungo lo sviluppo della cultura occidentale cristiana a partire dalle basi linguistiche latine.

Ma va a questo punto ricordata una importante precisazione di Bianchi al riguardo della nozione di analogia come da lui identificata quale modalità corretta di identificare il rapporto tra religione e religioni. Infatti, Bianchi afferma trattarsi di

“una analogia di partecipazione, senza un analogatum princeps rispetto a cui si misurino tutti gli altri elementi analoghi; piuttosto, un complesso di elementi analoghi, che lo sono tutti a pari diritto; nel quale, cioè, non si dà un modello teoretico di fronte a cui ci siano ‘religioni’ più o meno ‘religiose’, se non nel senso, fenomenologico e storico, che alcune di esse occupano un luogo più periferico di altre nel quadro di un ‘atlante’ emergente dalla osservazione obiettiva. Dunque, in questo frastagliatissimo sistema montuoso che è la religione, potremo parlare di fenomeni più periferici o meno periferici, tali, in certi casi, da autorizzare sempre meno l’uso di una terminologia sia pure analogica. Saranno così più periferici, cioè più problematici sul piano di una tipologia storica, quelli che avranno meno legami di affinità con altri; saranno più centrali quelli nei quali compariranno in maggior numero quegli elementi positivi di analogia che avremo potuto riscontrare in un raggruppamento più vasto e appunto – in quel senso – più compatto (…)”.30

Ci pare che questa negazione da parte di Bianchi di un analogatum princeps, la quale sembra contrastare con la affermazione di cui sopra, relativa alla esistenza di un modello di riferimento – quello occidentale – a partire dal quale valutare le analogie, ossia le somiglianze e le differenze, altrettanto profonde quanto le prime, si spieghi con la necessità di fugare il sospetto che il procedere storico-comparativo – come formalizzato dal Nostro – contempli la esistenza – come punto di partenza e costante riferimento nella comparazione – di un modello normativo valoriale, potremmo pure dire di un modello teologico. Di fatto, nella analogia di partecipazione o di proporzione semplice, il princeps analogatum, o analogato principale, ossia il termine principale e fondamentale su cui si basa l’analogia, è quello che esprime nella sua forma più piena e perfetta il contenuto del predicato. Invece, Bianchi, contestando la posizione di uno studioso, P.E.Dhanis, quale esempio di una posizione che ammette l’idea dell’analogatum princeps e lo identifica nella nozione del primato assoluto della divinità, venendo poi a valutare le religioni sulla base di una maggiore o minore partecipazione di esse a questa caratteristica, afferma che

“il parlare di una analogia che si misuri come partecipazione più o meno perfetta a un punto di riferimento, supremo e assoluto, fa riemergere in sede di storia delle religioni, o comunque di ricerca positivo-induttiva sulla religione e le religioni, tutto il problema. Dal punto di vista di questa disciplina e di questo tipo di ricerca possono essere altrettanto religiosi gli spiriti, i culti di fecondità, determinate pratiche per la pioggia, così come lo sono quelle nozioni ed esperienze relative all’assoluto e alla divinità nel senso descritto dal Dhanis. Il che (…) non significa né relativismo né riduzione, ma solo esigenza dell’elaborazione di una tipologia storica della religione costruita sull’osservazione dei dati e dei nessi che li concernono”.31

Dunque, quella teorizzata da Bianchi è una analogia senza analogatum princeps, di tipo valoriale o normativo, senza – cioè – un modello teoretico che funga da criterio normativo cui rapportare, e rispetto a cui ‘misurare’, gli altri elementi analoghi. Infatti, lo storico delle religioni, nella sua ricerca, che è induttiva e positiva, non partirà da un concetto a priori e precostituito di religione o da un modello ideale di religione, ma, dovendo pur partire – in quanto condizione necessaria per la ricerca – da un concetto di religione, potrà fare riferimento a quella nozione di religione storicamente condizionata che si è venuta costruendo nella storia dell’occidente cristiano a partire dalle sue radici classiche, quello stesso occidente che, appunto, ha visto l’inizio dello studio comparato delle religioni. Pertanto, lo storico delle religioni utilizzerà il termine religione riferito a quei fatti che nella sua cultura di base e nelle stratificazioni culturali che la determinano vengono definiti come fatti religiosi. Né questa posizione potrà essere accusata di eurocentrismo, giacché essa dipende dalla natura empirica della ricerca storico-religiosa e delle categorie interpretative da essa usate. Progressivamente, poi, lo storico delle religioni estenderà la sua ricerca a quei fatti e contesti che, nelle culture contigue ma anche lontane da quella in cui egli si è formato, offrano analogie, ossia elementi di continuità – mai sempre gli stessi – e di discontinuità, con ciò che nel suo ambiente culturale è percepito come religioso e con questo termine identificato.

Una ulteriore critica che potrebbe essere mossa alla nozione di analogia come formalizzata da Bianchi in relazione allo studio storico e comparativo delle religioni, merita di essere qui esaminata.

Lo sforzo metodologico per negare una concezione univoca della religione e del rapporto tra religione e religioni in favore di una concezione analogica, ma senza analogatum princeps – nel senso sopra definito –, potrebbe sembrare dissolversi32 quando Bianchi propone una – come la chiama – non tanto definizione quanto piuttosto descrizione di un aspetto qualificante del quid identificante il fatto religioso e lo esprime ricorrendo alla nozione di ‘rottura di livello’. Descrizione e non definizione, dunque: ricordiamo come costante sia nella riflessione metodologica di Bianchi il richiamo al fatto che lo storico delle religioni nella sua indagine intorno alle stesse non può partire da una definizione di religione costruita sulla base della identificazione di un contenuto o di una serie di contenuti (e neppure di una funzione o una serie di funzioni), che siano alla base dei fatti religiosi, stante appunto il loro carattere analogico, come pure al fatto che in sede storica una definizione deve porsi piuttosto come il fine della ricerca. E purtuttavia lo storico ha bisogno di una indicazione previa per poter circoscrivere gli oggetti della ricerca stessa e può così partire non tanto da una definizione rigida quanto piuttosto da una ‘descrizione’, sempre aperta alla verifica man mano prosegua nella sua ricerca, ossia dalla delineazione di aspetti, più che contenuti, che appaiono, sulla base di una ricerca positivo-induttiva, qualificanti il mondo delle religioni.

Ma veniamo più da vicino alla espressione ‘rottura di livello’.

La adozione di questa espressione di origine eliadiana – da parte di Bianchi – rientra nel più ampio tema della questione dei rapporti tra la proposta metodologica di tipo storico-comparativo da parte di Bianchi e quella fenomenologica, o meglio morfologica, di M. Eliade. Tema che qui non possiamo analizzare nella sua compiutezza.33 Limitiamoci pertanto ad un approfondimento – finalizzato agli scopi di queste nostre note – della nozione di rottura di livello.

Se il tema di quella che Eliade definisce “rupture du régime ontologique”, e altrove “rupture du niveau”, non costituisce, come segnala N. Spineto, “nell’economia globale dell’opera eliadiana, una categoria interpretativa fondamentale”,34 nella riflessione metodologica di Bianchi esso assume una posizione rilevante, a partire dall’opera Problemi di storia delle religioni, pubblicati nel 1958 e riediti nel 1986, allorché, nel tentativo non tanto di proporre una definizione, come precisa lo stesso Bianchi, quanto piuttosto di identificare alcuni aspetti di quel quid che allo studioso sembra caratterizzare ciò che è religioso, afferma:

“Ci sembra che un primo e più evidente aspetto di questo quid religioso possa riconoscersi negli atteggiamenti interiori e nei comportamenti esteriori che sono orientati (per ricorrere a un’espressione già coniata, benché con altri riferimenti interpretativi, da M. Eliade) a una ‘rottura di livello’. Ci sembra, in altri termini, che un primo aspetto del quid religioso possa riconoscersi nell’instaurazione di un rapporto di natura non visibile, per quanto talora sperimentabile, con un supra e con un prius concepiti come condizionanti l’esistenza medesima del mondo. Il supra concerne l’essere o gli esseri che vengono concepiti come trascendenti, o comunque superiori all’uomo quanto a potenza e gerarchia; il prius concerne l’essere o gli esseri (onorati tuttora con il culto o semplicemente rievocati) ritenuti protagonisti primordiali di quei fatti che hanno portato all’instaurazione dell’ordine attuale del cosmo. Questi due gruppi di rapporti religiosi – con il supra e con il prius – non si escludono a vicenda, ma di solito si compongono, anzi coincidono, nel senso che l’essere o gli esseri che agirono agli inizi del mondo hanno ancora autorità su esso, per quanto il grado del loro interessamento e della loro ‘presenza’, nonché l’intensità materiale e psicologica del culto ad essi rivolto, possa variare ampiamente”.35

La citazione di cui sopra è tratta della seconda edizione aggiornata de Problemi di storia delle religioni, ove viene esplicitata, con il riferimento a M. Eliade, quella che nella prima edizione, del 1958, era solo un’allusione priva del nome dello studioso rumeno.36 Se non ci interessa in questo momento evidenziare la distanza tra la posizione di Bianchi e quella di Eliade in merito al tema della rottura di livello e in particolare in merito alla diversa delineazione da parte dei due studiosi di quel prius che, comunque, entrambi evocano,37 ci interessa, invece, vedere come subito dopo tale descrizione proposta da Bianchi del quid identificante a suo dire il religioso, intervengano delle precisazioni importanti. Infatti, Bianchi afferma che:

“la ‘rottura di livello’, la separazione dal profano, non realizza compartimenti stagni nell’uomo, ma una superiore unità: l’unione con il supra e con il prius, quell’unione e armonia, quella pax deorum, alla quale in vari modi aspira la contingenza intrinseca alla ‘condizione umana’; alla quale aspira, se vogliamo usare un termine di sapore cristiano, la ‘condizione creaturale’ dell’uomo”.38

Osserviamo come sia la descrizione del tema della rottura di livello, come sopra offerta, sia le precisazioni che la completano, ora riportate, spostino – almeno così ci pare – il baricentro della descrizione del quid identificante il religioso come offerta da Bianchi dal tema della rottura di livello al tema della relazione o unione, ché entrambi i termini intervengono nelle espressioni bianchiane sopra riportate, relazione o unione conseguenti a una rottura di livello. Il che ci pare che contribuisca ad accentuare la distanza tra la posizione di Eliade e quella di Bianchi pur nel loro comune ricorso alla nozione di rottura di livello, e, soprattutto, introduca la valorizzazione della religione come fatto relazionale, venendo subito dopo a suggerire come detta relazione possa di fatto conoscere declinazioni e intensità diverse nei diversi contesti religiosi che pur paiono contemplarla.

Va anche segnalato – come già fa Spineto – come il tema della rottura di livello, già nella prima edizione dei Problemi di storia delle religioni, appaia legato alla identificazione della portata analogica dei fatti religiosi. Infatti, proprio additando da un lato il rischio di “cadere in un relativismo pseudo-storico” che deriverebbe dalla affermazione della assoluta eterogeneità dei fatti religiosi tra di loro e delle nozioni che vengono utilizzate per studiarli, e, dall’altro lato, la necessità di evitare definizioni assolute della religione, ossia definizioni forti e univoche, Bianchi parla della possibilità di individuare, sulla base della osservazione empirica e poi della analisi scientifica, “aspetti tipici e in certo modo comuni e analogici”.39 E più avanti parla di una unità dei fatti religiosi che “non può essere se non analogica e relativa”.40 Al riguardo osserva Spineto:

“Se è vero, dunque, che l’idea di rottura di livello si presterebbe a costituire la base per una definizione univoca della religione, Bianchi sembra escludere un tale possibile slittamento in due modi: da un lato con l’insistenza sul fatto che, adottando l’espressione di Eliade, si limita a proporre una semplice descrizione, senza ambizioni definitorie; dall’altro, cominciando ad abbozzare il suo discorso intorno alla analogia, che sposta tutta la questione in una direzione diversa”.41

La nozione di ‘rottura di livello’ ritorna in scritti successivi di Bianchi,42 con declinazioni che meritano attenzione perché consentono di avere una più ampia e completa idea di detta nozione e della sua posizione entro la riflessione metodologica di Bianchi.

“A base della religione – afferma Bianchi – si trova normalmente la credenza in una o più potenze, concepite come personali, superiori e più antiche rispetto alle forze umane e da queste indipendenti. Da parte dell’uomo e del gruppo un atteggiamento di dipendenza rispetto a questi esseri che si riflette anche sul comportamento (etico e rituale) e la persuasione della possibilità di rapporti con loro. Tuttavia anche ogni interpretazione della vita implicante il trascendimento del mondano ha una connessione essenziale con il pensiero religioso. In altre parole, la ‘religione’ implica una rottura di livello (…) e un primo aspetto del quid religioso può riconoscersi nell’instaurazione di un rapporto con un supra (cioè un sopraumano) inteso come condizionante l’esistenza medesima del mondo e nel mondo”.43

Tale formulazione merita un’attenta considerazione in relazione ad alcune sue caratteristiche che risultano esemplari delle peculiarità dell’approccio storico e comparativo ai fenomeni religiosi come proposto da Bianchi. Ma una riflessione si impone anche in relazione alla questione se la proposta di detta descrizione del fatto religioso, come tale da implicare una rottura di livello e un conseguente rapporto con un livello ‘altro’, vanifichi o meno lo sforzo perseguito da Bianchi di identificare il fatto religioso come fatto analogico.

Ci pare che nella formulazione riportata poco sopra – e diversamente dalle precedenti – vi sia lo sforzo per comprendere entro la tematica della rottura di livello e della conseguente possibilità di relazione con un livello altro, due ampie aree religiose: la prima, quella introdotta dall’avverbio normalmente, è l’area delle espressioni religiose teistiche, che comporta la credenza in potenze concepite come personali e dotate delle caratteristiche che la descrizione di cui sopra provvede a delineare, insieme alla convinzione di poter entrare in un qualche rapporto con loro; la seconda area religiosa, introdotta dalla espressione tuttavia, intende coprire quelle espressioni che pure per il Nostro sono identificabili come religiose in grazia del loro offrire un elemento di profonda affinità con le prime, ossia la tensione al trascendimento del mondano, insieme a una differenza, altrettanto profonda quanto la somiglianza evocata, con esse, ossia la assenza di credenze in potenze personali superiori all’umano. Mi pare interessante osservare come, in detta descrizione, il tema della rottura di livello e il tema della conseguente possibilità di relazione con un livello altro, vengano a contemplare soltanto il riferimento al livello del supra come livello superiore all’umano e condizionante l’umano, con la conseguente scomparsa della indicazione del livello del prius. Evidentemente, tale scomparsa appare funzionale alla possibilità di inserire nel ‘religioso’ credenze che non contemplano un prius, ossia un riferimento a tematiche creazionistiche o demiurgiche o comunque antropogoniche e cosmogoniche che vedano coinvolte potenze superiori. E tuttavia, anche in questa seconda area, l’elemento della relazione appare contemplato (il che quantomeno pone un problema e invita a una verifica sulla base del materiale documentario offerto da aree ‘religiose’, come ad esempio il buddhismo originario, che appunto ignorano potenze personali sovraumane) con la conseguenza di venire ad additare la specificità del fatto religioso in quanto tale, e in rapporto ad altri fatti, quali elaborazioni concettuali o speculazioni filosofiche che pur hanno come oggetto questo stesso livello ‘altro’, il livello del supra di cui è qui parola, come fatto relazionale.

Tutte le cautele offerte dalla descrizione di cui sopra, ossia fondamentalmente le indicazioni ‘normalmente’, ‘tuttavia’, ‘un primo aspetto’, ci pare mostrino come non siamo di fronte ad una definizione rigida e univoca del religioso. Siamo ancora nell’ambito – ci pare – di una visione analogica del religioso giacché, identificata una area del religioso, ossia – per cominciare a usare una espressione che si farà strada negli ultimi studi metodologici di Bianchi – una zona entro la grande mappa multidimensionale del religioso, si illustrano quegli aspetti analogici che legano questa area della geografia religiosa con altre aree ad essa esterne e pur tuttavia religiose in grazia della presenza in esse – sulla base di una analisi storica e comparativa – di significative analogie, le quali qui sono identificate nella idea del trascendimento del mondano e della conseguente possibilità di una relazione con un supra rispetto al mondano.

Ci sia consentito ritornare un momento su quel prolungamento della parte iniziale della descrizione sopra offerta, prolungamento che principia con l’avverbio ‘tuttavia’. È evidente, come sopra detto, il riferimento in questa seconda parte della descrizione, a mondi ‘religiosi’ asiatici e in particolare al buddhismo originario. Tradizione, questa, che, come noto, pone questioni specifiche per quanto concerne il livello ‘altro’, secondo la definizione sopra riportata, e tanto più ignora – nelle sue formulazioni originarie – la nozione di potenze inerenti a tale livello. Il riferimento all’idea di “trascendimento del mondano”, come visto, sembra permettere di recuperare al mondo delle religioni – dunque – ogni forma di buddhismo, anche quello originario che appare oltremodo refrattario, come noto, rispetto ad una collocazione all’interno del mondo delle religioni, proprio per la assenza in esso di aspetti qualificanti il religioso, quale la idea di potenze sovraumane e della permanenza dell’ ‘anima’. Il tema della ‘rottura di livello’, se espresso nella particolare forma del “trascendimento del mondano” e della conseguente relazione con un livello altro, il livello del supra, piuttosto che non nella forma della instaurazione di una relazione con un livello altro e con le potenze che lo abitano, interverrebbe, dunque, anche in quelle forme religiose che, come il buddhismo originario, ignorano ogni riferimento a potenze sovrumane o extraumane, e pur comportano una critica radicale del mondano e dell’attaccamento ad esso, come di ogni altra forma di desiderio, percepita quale fonte di dolore.

Può essere qui ricordato – al riguardo – come l’espressione ‘rottura di livello’ come conseguente all’esperienza di bodhi (‘risveglio’, ‘illuminazione’) abbia potuto essere usata negli studi proprio in relazione al buddhismo.44

Ma, soprattutto, va osservato come l’ampliamento di cui sopra rispetto alla prima parte della descrizione, appunto quello che inizia con la espressione ‘tuttavia’, non appare dettato – come forse sembrerebbe a prima vista – dalla necessità esplicita o implicita di recuperare al religioso anche quelle forme che più sembrano refrattarie ad esso, ovvero di assicurare al religioso una sorta di universalità quale espressione dello spirito umano, quella universalità che qui – con il caso del buddhismo in particolare in sue forme originarie – sembrerebbe compromessa.

Le cose stanno infatti diversamente. L’appartenenza del buddhismo al mondo della religione, seppur, come precisa Bianchi, in una posizione ‘periferica’45 è recuperata – come mostra lo stesso Bianchi in altra sede – andando alla storia e nello specifico al cominciamento di quello nel vivo del tessuto storico dell’induismo del VI secolo a.C. In sostanza, Bianchi osserva come il Piccolo Veicolo si ponga in una continuità storica rispetto a certe impostazioni ideologiche indiane di base costituite dalla dottrina del karman, del moksha, del samsara, del dharma, e più specificamente radicalizzi certi aspetti della speculazione upanishadica, che sono ‘religiosi’;46 pertanto – conclude Bianchi – “non si vede come questa radicalizzazione di un motivo categorialmente religioso possa sboccare in un fenomeno categorialmente estraneo alla religione”.47 Si tratterà, piuttosto, di comprendere i modi di appropriazione e di modificazione da parte del Buddha di tali termini. E questo è compito squisitamente pertinente l’indagine storica. In più vada considerato quanto segue.

La centralità o perifericità del buddhismo originario sulla “complessa e multidimensionale mappa della religione”48 sarà individuabile a seconda degli aspetti che volta per volta vengono presi in considerazione. E così, ad esempio, su una mappa letta in modo ‘teistico’ esso apparirà periferico, mentre occuperà un posto centrale se visto nei termini delle sue istituzioni monastiche.49

In sostanza, il recupero del buddhismo originario al mondo delle ‘religioni’ – termine usato, come ormai sarà chiaro, in senso analogico – è una operazione che può costituire un esempio illuminante di proba applicazione di un sano metodo storico e comparativo, attento alle analogie, nel senso sopra precisato, e non di una rigida applicazione di definizioni univoche e di altrettanto rigide risposte, con un sì o con un no, a questioni di rispondenza o non rispondenza a dette definizioni di orizzonti di credenze e di comportamenti etici e rituali. E tale è il motivo per cui ci siamo diffusi su di esso.

Ma torniamo alla espressione ‘rottura di livello’ e alle questioni che essa, nelle diverse formulazioni con cui ritorna nella diuturna riflessione metodologica di Bianchi, pone a fronte della insistenza – come visto – da parte di Bianchi sulla dimensione analogica del religioso. Ci pare importante ricordare come i rischi insiti in una utilizzazione, per così dire, sistematica e priva di ulteriori approfondimenti e articolazioni dell’espressione ‘rottura di livello’ – e dunque il suo scivolare pericolosamente verso una definizione univoca di religione – siano del resto – e significativamente – in maniera esplicita riconosciuti dallo stesso Bianchi, il quale, nella sua critica di alcuni tentativi definitori del fatto religioso (dalla nozione di ‘sacro’ propria di R. Otto, alla nozione di ultimate concern e ad altre), viene a definire l’espressione ‘rottura di livello’ come “espressione valida entro certi limiti, ma non utilizzabile con implicanze di autoevidenza generalizzante”.50

Non siamo pertanto totalmente d’accordo con quanto afferma Spineto alla fine della sua analisi circa la presenza nella riflessione metodologica di Bianchi – in prospettiva diacronica – della nozione di ‘rottura di livello’: “L’idea della religione come ‘rottura di livello’, dunque, non scompare mai all’orizzonte della riflessione metodologica bianchiana, ma va detto che, nonostante tutto, rimane prossima ad una visione ‘univoca’ del religioso e, con l’imporsi del concetto di analogia, che diventa via via più centrale, assume un ruolo sempre più marginale”.51

Diremmo, piuttosto, che la nozione della rottura di livello – se considerata nelle diverse sfumature e accentuazioni che intervengono a caratterizzarla in prospettiva diacronica, ossia osservandone il riproporsi negli scritti di Bianchi, dal 1958 al 1986, è per Bianchi luogo idoneo per esprimere la sua visione analogica del fatto religioso, una visione che può sembrare caratterizzata – e forse lo è – da un precario equilibrio, rischiando ad ogni passo di cadere in una visione univoca ma tenendosene sostanzialmente lontana in grazia di una serie di distinguo, ovvero di precisazioni e articolazioni, che Bianchi introduce nelle diverse formulazioni della stessa nozione lungo la sua diuturna riflessione metodologica. E tenendosi – pur mutuata sostanzialmente detta nozione da un fenomenologo o, meglio, da un morfologo quale Eliade – al contempo lontana da quelle derive fenomenologiche che Bianchi intese sempre evitare e contrastare. E questo pur se una dose massiccia di fenomenologia è stata da diversi studiosi intravista nella riflessione metodologica di Bianchi, a impianto storico-comparativo. In sostanza, essi ritengono che il richiamo costante alla storia e alle sue esigenze – caratterizzante la riflessione metodologica di Bianchi – contrasterebbe con gli esiti – fenomenologici – delle sue analisi nei diversi campi percorsi dalla sua indagine, e in particolare allorché la sua indagine comparativa porta alla enucleazione di tipologie storiche, che riproporrebbero gli astratti tipi costruiti dalla indagine fenomenologica. Non ci soffermiamo in questa sede su queste critiche che peraltro hanno avuto già risposta in studi diversi.52

Mette conto, invece, di essere menzionato il tentativo – offerto nell’ultimo saggio metodologico scritto da Bianchi – di offrire una descrizione del quid identificante il ‘religioso’, tentativo che sostituisce alla nozione di ‘rottura di livello’ la nozione di un ‘al di là’, ma sempre nel contesto di una argomentazione cauta nella sua attenzione a evitare definizioni univoche del ‘religioso’ per suggerirne invece la portata analogica. Bianchi, ivi, afferma infatti che oggi il termine religione identifica quelle realtà che

“assume the form of integrated structures, not always answering the same questions and needs, but characteristically concerned with the widespread human tendency to identify a ‘beyond’. In particular, the comparative historical and holistic procedure will allow the researcher to acknowledge that not all religions are such in relation to a univocal meaning of the word”.53

4. Storia delle religioni: il metodo. Storia e comprensione storica

Qui offriamo un breve richiamo alle caratteristiche fondamentali del metodo storico-comparativo come proposto da Bianchi, prima di soffermarci su questioni concernenti – come annunciavamo – il tema della comprensione come esito della ricerca storica, nonché quello dei suoi requisiti da parte del soggetto, ossia lo storico.

Lo studio storico della religione è un metodo essenzialmente induttivo, inteso a “comprendere la religione nella sua concretezza, nella sua creatività storica e nel suo significato per la vita culturale, sociale e individuale con cui è intrecciata”.54 Sul senso del ‘comprendere ‘ e del ‘comprendere storicamente’ ci soffermeremo più avanti. Qui sottolineiamo – sulla scorta di Bianchi – che studiare storicamente quegli atteggiamenti e fenomeni umani che, con un uso storicamente avvertito – nei termini detti – e analogico – pure nei termini detti – del termine, chiamiamo religiosi, significa studiare il particolare e il concreto storico, ciò che è esistito e si è manifestato nella storia ed è indagabile con i mezzi della storiografia. Più precisamente vuol dire studiarlo nel suo trovarsi vitalmente situato in un contesto storico, che, a sua volta, si identifica come un processo storico, e studiarlo nel concreto del divenire storico, ovvero non solo nel suo manifestarsi ma anche nel suo divenire. R. Pettazzoni affermava – di contro alla fenomenologia religiosa –, come noto, che ogni phainomenon è un genomenon,55 e G. Maspero ha avuto recentemente modo di aggiungere – nel contesto di una sua riflessione sul valore relazionale della storia – che tale affermazione può essere estesa, dicendo che ogni phainomenon è sia genomenon sia gignomenon, nel senso che non solo ha una origine, ma anche origina, cioè genera, andando a costituire una trama relazionale che lo storico può ripercorrere.56

Studiare storicamente i fatti religiosi significa – in altri termini – innanzitutto studiarli nel contesto che li espresse e li esprime e in secondo luogo significa studiare la loro genesi e il loro sviluppo fino alla eventuale loro morte. Si osservi come la contestualizzazione di per sé non sia appannaggio della sola ricerca storica. Si pensi infatti a quello che è un approccio funzionale, il quale mira a cogliere la funzione degli elementi religiosi in quegli ‘insiemi integrati’ che sono le culture umane. Proprio della ricerca storica è invece lo studio della genesi e dello svolgimento dei fenomeni religiosi entro le rispettive culture, le quali anche esse non sono immobili ma sono in movimento, ossia costruiscono, elaborano, perpetuano, accettano, modificano, scartano o eliminano, credenze, etiche, prassi cultuali.

Un esempio – ma, appunto, è solo un esempio – che mi pare particolarmente efficace. Si può constatare come solamente uno studio storico, nel senso detto, della apocalittica giudaica – con tutti i problemi che qui non è certo possibile evocare legati alla comprehensio ed extensio di tale termine – riesca a superare l’impasse che si offre quando si ricerchi una improbabile essenza della stessa, dal momento che questa offre – non tanto sotto l’aspetto della forma quanto piuttosto sotto l’aspetto dei contenuti – nozioni, ad esempio circa la questione dell’unde malum, non solo diverse ma anche decisamente contrastanti. Il seguirne il processo storico insieme a quello dei referenti con i quali essa intese misurarsi permette di cogliere la intelligibilità e il senso, nonché la coerenza, delle sue riflessioni sull’unde malum.57

Ci sia consentita una più ampia riflessione sulla importanza – entro uno studio storico dei fenomeni religiosi – dello studio della genesi degli stessi, là – naturalmente – ove essa riesca ad essere storicamente afferrata, e dunque non tanto nelle religioni etniche quanto nelle religioni fondate o – caso ulteriore – riformate.

Riportiamo, al riguardo, alcune espressioni di Bianchi in relazione al buddhismo e alla sua genesi, ma – naturalmente – le indicazioni metodologiche che esse esprimono valgono per ogni fenomeno religioso fondato. Esse ci paiono particolarmente efficaci non solo nel loro additare la importanza, entro uno studio storico dei fenomeni religiosi, del momento o dei momenti aurorali, ma anche perché esse introducono una problematica ampia e importante che, come tale, esula dagli intenti di queste nostre note e che potrà essere qui soltanto evocata, vale a dire quella relativa ai rapporti tra storia delle religioni e discipline come la missiologia o la teologia delle religioni che con la prima condividono in parte l’oggetto di studio, muovendosi, peraltro, con metodi e per scopi propri e diversi da quella.

Afferma, dunque, Bianchi:

“sarà certo utile al missiologo una accurata conoscenza della situazione attuale delle collettività buddiste, delle loro differenze e convergenze: ma gli sarà anche utile e necessario conoscere la loro genesi, e il momento del loro diversificarsi e contraddirsi; e gli sarà ancora più utile conoscere la temperie spirituale nella quale il Buddha elaborò la nuova dottrina, o meglio la nuova gnosi; e quali furono i presupposti brahmanici della scoperta beatificante del Buddha; ma gli sarà prezioso anche conoscere a quale punto della evoluzione della riflessione sul Divenire e sul Mondo il Buddha sia intervenuto con la sua gnosi risolutiva: una riflessione, quella sul Divenire e sul Mondo, che nel VI secolo a.C., l’età del Buddha, era all’ordine del giorno in una lunga fascia di territori che dalla Grecia dei presocratici raggiungono l’India e l’Oriente estremo”.58

Si tratterà dunque, per il missiologo, prima di comparare e di confutare “sulla base delle verità filosofiche e dei dogmi cristiani”, si tratterà di

“individuare la temperie storica, filosofica e religiosa, in cui il buddhismo nacque; dovrà capire, cioè comprendere, cioè valutare nel suo complesso il buddismo; dovrà inverarlo storicamente, o, con una parola che certo non usiamo nello stesso senso degli storici immanentisti, dovrà ‘giustificarlo’. Ne dovrà cioè studiare la storia; e la simpatia [n.d.r.: il corsivo è nostro] che allora esso proverà per questo tipo di pensiero non sarà più la superficiale simpatia o ammirazione per le austerità dei bonzi: ma sarà la simpatia di chi si è ricondotto mentalmente [n.d.r.: corsivo nel testo] a quel punto – proprio a quel punto – in cui il suo fratello lontano, due millenni e mezzo or sono, si trovò a dubitare e a meditare”.59

Solo dopo aver capito, partecipato, simpatizzato, solo dopo aver, come dicono gli inglesi ‘realizzato’ il buddhismo, continua Bianchi, solo allora

“quando avrà raggiunto il punto di genesi, e i conseguenti (o inconseguenti) successivi svolgimenti [n.d.r.: i corsivi sono nostri], […], tutti gli ampliamenti, tutte le restrizioni, tutte le incrinature, tutte le contraddizioni, tutte le circostanze che la storia molteplice del pensiero buddista avrà messo storicamente in rilievo”60

solo allora il missiologo, o il missionario, potranno individuare e porre delle problematiche alle quali il buddhismo non sarà più sufficiente risposta. Problematiche e istanze o domande che il cristiano avrà presentato al non cristiano e che saranno come semi che daranno, “quando piacerà a Dio e alla storia”61 il loro frutto.

Una riflessione densa – quella di cui sopra – che, mentre valorizza l’importanza di un approccio storico, e in particolare tale da gettare luce su ciò che pertiene la genesi dei fatti religiosi, come premessa essenziale per ogni successiva riflessione da parte del missiologo o del missionario o, aggiungeremmo noi, del teologo delle religioni, introduce al tema della comprensione come scopo dell’indagine storico-critica applicata ai fatti religiosi e accenna a presupposti necessari a detta comprensione da parte del soggetto che li accosta.

È questo un punto di fondamentale importanza, su cui Bianchi nei decenni della elaborazione della sua proposta metodologica insistette in maniera particolare, di contro a contestazioni da diverse parti provenienti che andavano in direzione opposta, e che mantiene ancora oggi la sua validità: l’approccio storico non è meramente euristico e descrittivo (come da più parti si ritiene) ma vuole essere interpretativo. Ossia: non ritiene di dovere limitarsi ad accertare il dato delegando ad altre discipline normative e teoretiche il compito di interpretare quel dato,62 ma ritiene che, ponendo il dato in un contesto e in un processo (le due coordinate dell’analisi storica, come sopra ricordato), debba e possa (esso solo, almeno tale è la convinzione di Bianchi) identificare il senso del dato religioso studiato,

“e ciò tanto più se il ‘senso’ da studiare è anzitutto quello che i portatori dei ‘dati’ in questione attribuivano al loro pensare e al loro agire: senso, questo, che è per eccellenza compito della scienza storica indagare”.63

Ci sembra – lo ribadiamo – un punto di particolare importanza che merita di essere ulteriormente esplicitato.

L’approccio storico alle religioni “deve essere distinto dall’approccio ermeneutico, che privilegia una singola chiave interpretativa per svelare i misteri del fenomeno che viene esaminato”.64 Buon esempio di un approccio ermeneutico può essere costituito dalla lettura da parte di Hans Jonas del fenomeno gnostico alla luce di categorie del moderno esistenzialismo, quali quella di Geworfenheit o ‘deiezione’.65 Altro esempio, l’uso da parte di Rudolph Otto della categoria del ‘sacro’.66 All’uso dello strumento ermeneutico – come del resto anche a quello del metodo fenomenologico – è imputato da Bianchi il fatto di non essere sufficientemente verificato sui fatti e di trascurare problemi cruciali, squisitamente storici, quali quelli della continuità e del mutamento, della creazione e dello sviluppo come pure della rivoluzione, che intervengono a caratterizzare il mondo delle religioni e che sono invece fondamentali nello studio storico (e comparativo) delle stesse.67 Esplicita è, al riguardo, da parte dello storico delle religioni, “la riserva verso un procedere che troppo immediatamente raccordi esegesi del testo ed ermeneutica, cioè ricerca di ‘senso’ – dove ‘troppo immediatamente’ significa ‘senza una piena problematizzazione storico-religiosa’”.68 Come esempio di tale riserva sono le pagine che Bianchi dedica alla ermeneutica offerta da P. Ricoeur dei primi capitoli della narrazione genesiaca a proposito della tentazione e della trasgressione dei protoplasti. Infatti, al riguardo, Bianchi esprime le proprie riserve

“verso una ermeneutica filosofica che isoli il testo prescelto (in questo caso il racconto di Genesi 3) ma nello stesso tempo lo arricchisca di tutta una problematica di riferimento filosofico e teologico che è ulteriore rispetto ad esso”.69

Le riserve espresse da Bianchi per una ‘ermeneutica’ che non si fondasse sopra la base sicura dell’indagine storica, idiografica e storico-comparativa,70 naturalmente non comportano per il Nostro il togliere spazio alla riflessione teoretica. Filosofia o teologia potranno indagare ulteriormente sul senso e il significato del dato, cioè in base alle proprie esigenze conoscitive, una volta – però – che siano informate dei risultati ottenuti, e già dei problemi identificati, dalla ricerca storico-religiosa.71 Questa – infatti – non è contraria all’uso della teoria ma la teoria in essa non deve funzionare come un a priori, ma come una ipotesi aperta alla possibilità di falsificazione.72

Cautele metodologiche, queste, che ci paiono offrire alcune assonanze con i richiami di un importante teorico del metodo storico, quale Marrou, allorché questi veniva a contrapporre la ermeneutica del filosofo, interessato alla sua idea e al suo problema, alla interpretazione dello storico, interessato all’ascolto dell’altro.73

Ma torniamo alle caratteristiche della ricerca storica applicata al dato religioso. In sostanza, per il Nostro, essa è da intendersi come una ricerca olistica, o almeno che deve tentare di essere olistica nel suo approccio ai materiali.74 Ossia, deve operare un trattamento integrale del materiale documentario e dei problemi che da esso sorgono.75

Tale requisito dell’approccio storico ai fatti religiosi, l’essere olistico (requisito che è anche il suo ‘privilegio’ di contro agli approcci sociologici, psicologici e antropologici),76 si esprime in due sensi. Si tratta dunque di due olismi.

Per il primo – proprio della ricerca storica idiografica – la religione/le religioni è/sono parte/parti della/di una cultura (non nel senso che è riducibile a cultura). Dunque si tratta di studiare una religione o un particolare fenomeno religioso dentro al contesto della cultura a cui appartiene.

“From the point of view of the History of Religions, religion is a part of culture, not in the sense that it is reducible to culture, but in the sense that it is culture and shares in the culture’s creativity and variety. But one had best avoid, e.g., a statement according to which religion is ‘nothing but culture’, a statement unnecessarily ‘defensive’, implicitly polemical and for this reason open to equivocation in a form of indiscriminate and massified ‘culturalism’”.77

Per il secondo olismo, proprio della ricerca storica comparativa, detta ricerca deve tener conto di quelle parziali continuità sul piano morfologico e storico che legano una religione o elementi di essa al polimorfo mondo delle religioni pertinenti alle differenti culture.

“This means an accurate ad contextual evaluation of all aspects and connections, internal and external, of a religion or sets of religions, an evaluation open to hypotesis but opposite to apriori, unfalsifiable selection” .78

Nel tentativo di un approccio olistico ai dati – quale quello descritto – la indagine storica potrà utilmente fare sue acquisizioni proprie di discipline diverse (psicologia, sociologia, antropologia, scienze cognitive, approcci di genere o post-coloniali, e così via). Esso, infatti, si offre come

“a methodological setting which is not intended to undetermine the validity of other approaches or to be imperialistic, but which is confident in its own fitness to meet the demands of a scientific-humanistic approach to religion, first of all the demand to be concrete and holistic”.79

Ma questo senza, tuttavia, consentire alle pretese riduzionistiche che dette discipline vengono facilmente ad esprimere. Non è questo il luogo per ricordare e discutere le diverse forme di riduzionismo individuate dal Nostro.

Basterà ricordare come, definito ‘riduzionismo’ ogni “ricorso programmatico a categorie concettuali e reali diverse da quella religiosa per spiegare l’insorgere e il perdurare della religione, o la natura di questa”,80 il Nostro si riferisca in particolare alle forme filosofica, psicologica e sociologica del riduzionismo. Al riguardo, distingue tra approcci allo studio della religione e delle religioni che siano programmaticamente selettivi per ragioni filosofiche o ideologiche, e tali da introdurre presupposti di natura filosofico-sistematica (per esempio storicistico-assoluta) in una ricerca che invece vuol essere storico-positiva, e approcci che siano solo implicitamente riduttivi ovvero semplicemente intendano concentrarsi su un particolare aspetto del fatto religioso e dei fatti religiosi (come accade – precisa il Nostro – nello studio sociologico, antropologico e psicologico della religione).81 La critica ai riduzionismi diversi e purtuttavia tutti mortificanti quella ricchezza e quella complessità dei dati religiosi che Bianchi riteneva potesse essere illuminata dalla sola indagine storica e storico-comparativa fu costante. Contro ogni forma di riduzionismo la ricerca storica applicata ai fatti religiosi potrà mostrare le sue potenzialità, e lo storico sarà fondamentalmente chiamato a non minimizzare né maggiorare il suo oggetto, cioè a non forzarlo.82 In sostanza, di contro ai riduzionismi di diverso tipo, pregiudizialmente unilaterali nel loro approccio al reale, il metodo storico-comparativo può arrivare a mostrare la irriducibilità della religione ad altri aspetti della cultura – ai quali peraltro è intimamente legata – e dell’atteggiamento religioso a specifiche componenti dello spettro esistenziale umano, ovvero ad altri atteggiamenti dello spirito, con i quali peraltro il religioso è intimamente legato, e dunque può arrivare a mostrare la autonomia (relativa) del religioso, in grazia della sua vocazione a indagare i fatti religiosi – fatti verificabili nella misura in cui si riflettono in documenti degni di fede – in tutti i loro aspetti e in tutte le loro pieghe, senza selezioni arbitrarie. Lo storico delle religioni, infatti,

“è uno specialista che, armato delle armi della ricerca storica, è capace di affrontare il suo oggetto, le religioni e la religione storicamente indagate, in tutte le loro pieghe, aspetti, contenuti, senza amputazioni, senza riduzioni operate a priori, senza ‘ermeneutiche’ che vogliano dimostrare quello che in realtà si dà già per scontato”.83

Si osservi come affermare l’autonomia (relativa) della religione non significa sostenere una posizione essenzialistica, ossia affermare a priori o postulare una essenza della religione, sia essa teologica, ad esempio il ‘sacro’, la cui esistenza è postulata da R. Otto come realtà autonoma e dotata di specifiche caratteristiche, sia essa antropologica (ad esempio, la nozione dell’uomo come naturaliter religioso, l’homo religiosus – oggi – di Julien Ries). Infatti, la Storia delle religioni si muove, con la sua affermazione dell’autonomia relativa della religione, tra la affermazione della assoluta autonomia della stessa, propria – come detto or ora – di larga parte della fenomenologia, che presuppone un concetto di religione come categoria a priori necessaria ed eterna e quindi irriducibile, e la negazione assoluta della autonomia della religione, propria – ad esempio – dello storicismo, in sue diverse forme. In sostanza, né il postulare una realtà trascendente né il negarla appaiono posizioni pertinenti alle esigenze della ricerca storica. Neppure è corretto metodologicamente in sede di ricerca storica presupporre una facoltà umana innata (come nelle teorie antropologiche circa l’homo religiosus) della quale le diverse religioni storiche sarebbero espressione.84

Ma un altro rilievo a proposito dell’approccio storico alle religioni – secondo la lezione metodologica di Bianchi – va qui valorizzato.

Come noto, il metodo storico – che in sé ‘non è né occidentale né orientale’85 – è stato di fatto elaborato nella cultura occidentale,86 e in questa sua caratteristica – ove sia applicato allo studio delle ‘religioni’ – esso è, per così dire, solidale con il suo oggetto, la ‘religione’, che è una costruzione occidentale, come sopra ricordavamo. Non stiamo infatti parlando – osserva Bianchi – di studio storico della via o della legge o dell’ethos ma della religione e meglio delle religioni. Un aspetto – questo – di quel legame tra metodo e oggetto che appare – come si diceva – un dato centrale della riflessione metodologica di Bianchi e della più generale coscienza epistemologica elaborata in seno ad approcci scientifici attuali.

Orbene, detto approccio storico alle religioni – è questa una ulteriore sottolineatura di Bianchi che ci pare importante recuperare – va distinto da quello che Bianchi definisce come un ‘oriental trend of stadying the history of religions’,87 che sarebbe stato espresso – negli anni in cui Bianchi formulava tali riflessioni – in sedi scientifiche quali il congresso di Marburgo del 1960, e tale da presentarsi piuttosto come un approccio intuitivo alle religioni, considerate come essenze immutabili ed eterne.88 Eppure questo oriental trend offre – tale è la convinzione di Bianchi – una provocazione che lo storico occidentale può raccogliere.

Infatti, continua ad osservare Bianchi, se questo oriental trend male fa a confondere, nella sua critica all’approccio storico come venutosi a costruire – appunto – in occidente, la ricerca storica sulle religioni con una filosofia quale il razionalismo che elimina a priori la possibilità di una rivelazione, tuttavia esso può risultare utile allo storico ‘occidentale’ nel momento in cui lo solleciti a non obliare le problematiche filosofiche legate alle questioni che egli tratta storicamente.

Di fatto, detto oriental trend può mettere in luce “l’incongruence de ceux qui, en étudiant les religions, poseront une quantité de questions, tout en n’ayant le moindre intérêt à la valeur et à la vérité éventuelles des théories religieuses en jeu”.89 Tutto ciò senza peraltro giungere a una confusione metodologica tra storia, filosofia e teologia, nello studio delle religioni. Di fatto la distinzione tra una ricerca storica applicata ai fatti religiosi e una ricerca filosofica come pure una ricerca teologica intorno agli stessi, senza confusioni o sovrapposizioni, risulta una costante preoccupazione della diuturna riflessione metodologica di Bianchi. Resta comunque l’importanza del monito di cui sopra come correttivo a interpretazioni della ricerca storico-critica applicata ai fatti religiosi la quale, per essere fedele a se stessa, dovrebbe mettere tra parentesi qualsiasi interesse, pur minimo, per riprendere le parole or ora riportate, per il valore e la verità eventuali delle teorie religiose oggetto di indagine.90

Qui Bianchi tocca un punto che riteniamo particolarmente rilevante alla luce di tendenze attuali che, ove non siano volte a ridurre l’approccio storico alla insignificanza, lo ritengono doversi slegare da qualsiasi interesse, appunto, per la Verità metafisica.

Si tratta della domanda: fino a che punto può arrivare la storia delle religioni, sulla base del suo metodo storico e comparativo sulla via dell’affermazione della Verità ovvero che esista una religione vera e quale sia la religione vera? Nella lezione metodologica di Bianchi, ci pare, la ricerca storica e comparativa delle religioni, non intende prestarsi – se ci è consentita questa incursione in un genere letterario particolare – alle finalità additate da Berlicche, il diavolo anziano, al suo giovane discepolo, il diavolo apprendista Malacoda, il quale appare – nelle Lettere di Berlicche di C.S. Lewis91 – preoccupato che persone intelligenti potessero, leggendo fonti della sapienza degli antichi, mettersi sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza ricordandogli che l’approccio storico, inculcato dagli spiriti infernali negli studiosi del mondo occidentale, li avrebbe tenuti lontani – siamo agli inizi degli anni ’40 – dal problema della verità di quanto si è letto, impegnandoli, invece, in interrogativi circa influssi e dipendenze, storia degli effetti delle opere e così via. Dunque, la comprensione storica, come tale da escludere la questione della verità.

Invece, la lezione metodologica cui s’è qui fatto riferimento, pur non sconfinando né nella filosofia né nella teologia né nella apologetica, può suggerire la urgenza della domanda sulla Verità e può farlo in grazia delle caratteristiche che abbiamo brevemente sopra ricordato, proprie della ricerca storico-comparativa. Tali caratteristiche sono, innanzitutto, la tensione a ben distinguere e a cogliere lo specifico, ovvero la capacità di pervenire a una individuazione storico-tipologica differenziale delle varie religioni. Altra caratteristica è la capacità di illustrare e dar conto della ricchezza e della complessità dei dati, di affermare il valore di un fatto religioso piuttosto che di un altro in termini di domande da esso suscitate e di risposte date, di mostrare la autonomia del religioso e la sua non riducibilità a ciò che non è religioso. Al riguardo di dette prerogative ci paiono particolarmente efficaci alcune affermazioni di Bianchi:

“il nous semble que ce procédé tendant à la individuation des faits, des processus et des milieux religieux, qui est propre à la méthode historico-comparative puisse aider (pas plus que cela […]) pour la discussion philosophique et théologique du thème du caractère absolu de la révelation chrétienne […]. Ce n’est pas évidemment qu’on puisse identifier les deux concepts, bien différents, de valeur absolue et de spécificité historico-phénomenologique irréductible […]”.92

E ancora:

“nous n’impliquons nullement […]qu’une religion déterminée doit être nécessairement relativisée à l’histoire au point d’exclure la possibilité qu’elle exprime une valeur absolue, voir la valeur et la vérité absolue et universelle; cette présupposition limitatrice serait à son tour arbitraire, comme il serait arbitraire de présupposer sans examen la valeur absolue de toute religion qui se prétende telle. Mais il faudrat plutôt distinguer ce qui revient à l’histoire et ce qui revient à la philosophie de la religion. La première précisera la vérité historique des faits, ayant recours aux donnés historiquement évaluables; la deuxième jugera sur la valeur, sur la vérité axiologique de ces faits et des complexes doctrinaux où ces faits sont systématisés. Il va de soi que déja la constataion des faits impliquera souvent une certaine prise de conscience de la valeur ou de la non-valeur des croyances en jeu, et, plus en général, une prise de conscience, de l’importance des questions relatives, c’est-à-dire des problèmes qu’une mentalité absorbée par la technique, la politique, l’économie, la science expérimentale, voire simplement par le matérialisme vulgaire ou par un esthétisme abstrait, aurait éventuellement perdu de vue”. 93

Ma veniamo ora a quell’approfondimento – annunciato all’inizio di queste nostre riflessioni – circa il senso della comprensione quale scopo della indagine storica applicata ai fatti religiosi. Più avanti rifletteremo – sempre a partire dalla lezione metodologica di Bianchi – sui requisiti – se esistano e quali – a parte subiecti, ossia da parte dello storico delle religioni, necessari per detta comprensione.

Ci piace su questo tema abbozzare una comparazione – al fine di valorizzare quella che ci pare una consonanza al riguardo del tema in oggetto – fra le sottolineature di Bianchi cui tra poco addiverremo e quelle di un filologo e cultore del mondo classico in rapporto con il cristianesimo antico della statura di Christian Gnilka, in sue recenti prese di posizione – proprio presso la Università Santa Croce in occasione di quegli incontri metodologici di cui frutti parziali sono offerti in questo volume – sul tema della comprensione come scopo della ricerca filologica e storico-critica intorno ad autori del cristianesimo antico impegnati in una dialettica stringente con la cultura classica. Da subito, al riguardo, si potrà ricordare come Gnilka affermi: “Nessuno metterà in dubbio che l’esigenza basilare di ogni interpretazione sia la comprensione e che comprendere significhi cogliere rettamente l’intenzione dell’autore.94 Ritorneremo su queste riflessioni di Gnilka.

Ma torniamo a Bianchi e alle sue risposte alla questione: che cosa significa comprendere nello studio storico, sia storico-idiografico sia storico-comparativo, quei fatti storici che vengono comunemente definiti – con un aggettivo che richiede quella problematizzazione e storicizzazione cui s’è alluso nelle parti iniziali di questo nostro intervento – come ‘religiosi’?

Comprendere, o capire, termini che qui sono usati come sinonimi, innanzitutto – risponde Bianchi –, è operazione che segue immediatamente la pur necessaria descrizione dei fatti religiosi, una descrizione nella quale non si esaurisce dunque – come spesso si è voluto e ancora si vorrebbe – lo scopo dello studio storico dei fatti religiosi, come non si esaurisce, detto scopo, nell”’accertamento del dato”. 95 Ché esso – lo studio storico – è “studio della ‘intenzionalità’ con cui gli uomini aderiscono alle loro forme religiose”, ossia è chiamato a indagare (ed anzi, è compito per eccellenza della ricerca storica indagare), appunto, il ‘senso’ – o ‘significato’ (qui usati come sinonimi) – del dato, intendendo per ‘senso’ (o significato) quello che i portatori del dato in questione attribuivano e attribuiscono al loro pensare e al loro agire.96

Come identificare il senso?

“Quando […] un ‘dato’ è posto fondatamente in un ‘contesto’ e in un ‘processo’, ciò è presupposto e mezzo per l’identificazione del ‘senso’, una identificazione con prospettive ben più reali di quelle di una riflessione generalizzante e nello stesso tempo mutila di chi non sia entrato in quel procedimento storico-comparativo e, prima, idiografico” che caratterizza la Storia delle religioni.97

E ancora:

“È che il ‘dato’, il ‘fatto’ accertato dalla ricerca storico-religiosa non è il fatto ‘bruto’, ‘stupido’, nella sua materialità, che sia inesistenza concettuale, ma è il fatto analizzato, studiato, comparato, trasformato metodicamente in ‘oggetto’ epistemologico” .98

Pertanto la ricerca storico-religiosa, idiografica e comparativa, per Bianchi, sarà l’unica chiave che porrà in contatto effettivo, documentabile, con l’intenzione degli uomini religiosi, sia pure con l’ausilio delle discipline antropologiche e della psicologia, ma senza consentire – come si è già detto – a loro pretese riduzionistiche, e salva sempre la possibilità della susseguente impostazione filosofica e teologica delle questioni relative.

Ma si può porre a questo punto una questione ulteriore, ossia se la ricerca storica possa offrire un di più rispetto alla semplice restituzione del senso o della intenzionalità – come sopra si diceva – di coloro che elaborano, accolgono, trasmettono, partecipano – a diversi livelli e in diversi modi – di un fatto religioso.

Detta questione ci pare affiori soltanto in pochi interventi di Bianchi, a principiare da quello a proposito del documento del Concilio Vaticano II sulle religioni non cristiane, la Nostra Aetate del 1965, ove egli afferma che questo

“nous donne en pratique un très bon exemple de l’application de cette nécessité phénoménologique (historique) d’écouter et d’interpréter les autres justement sur la base de (nous ne disons pas: en accord avec) ce qu’ils ont voulu ou veulent être et signifier […]”.99

Innanzitutto, sebbene non tematizzata con la forza e la continuità con la quale Bianchi tematizza lo scopo della indagine storica applicata al fatto religioso come la restituzione del senso, qui si esprime la coscienza che la ricerca storica possa raggiungere un di più rispetto alla intenzione dell’uomo religioso nel suo dire e nel suo fare. Questo di più era stato a suo tempo ben tematizzato dal Marrou ne La conoscenza storica, allorché Marrou rifletteva intorno a questo presunto privilegio dello storico, che a posteriori vede e capisce il passato meglio di chi lo ha vissuto come presente.100

In sostanza si riconosce che accertare la verità storica in fatto di studio storico delle religioni non significa solo accertare come si autocomprendevano o si autocomprendono i fedeli di una religione, ma anche accertare ciò di cui essi non erano o non sono coscienti. Ma questo comporta soltanto un aggiungere qualche cosa con cui essi si sarebbero potuti trovare (o si potrebbero trovare) in accordo o può legittimamente comportare anche la possibilità di andare contro la loro autocoscienza?

Bianchi introduce questa questione ulteriore, ossia che questo di più non necessariamente non debba essere in contrasto con la intenzione dell’uomo religioso come ricostruita dallo storico, ma che esso possa essere in contrasto con questa intenzione.

Al riguardo di tale questione si può ricordare come si ponga il Nostro in uno degli ultimi suoi scritti. In una relazione sulle strutture del male come espresse dalle posizioni gnostiche101 e in risposta alla domanda postagli da un partecipante al dibattito, seguito a detta relazione, su “come si sentirebbe lo gnostico” di fronte a tali schemi, “elaborati dall’esterno”,102 appunto le diverse strutture del male che la ricerca storico-comparativa individua e formalizza entro l’orizzonte gnostico, Bianchi osserva che bisogna “distinguere tra ciò che lo gnostico voleva dire e ciò che in realtà ha detto”, e questo vale come ‘regola generale’, ossia il “distinguere tra ciò che uno ha detto e ciò che uno voleva dire. Uno che vive la sua vita, e che peraltro appartiene a una conventicola gnostica, può benissimo non riconoscersi in qualcosa che viene detto di lui da un altro, ma ciò non significa che ciò che viene detto di lui da un altro sia privo di valore, anzi, spesso è fondato, quando è fondato, su una ricerca obiettiva, la quale mette in rilievo aspetti che altrimenti rimarrebbero inosservati”.103

Dunque, ciò che legittima anche questo di più, ossia un di più che non solo prolunga e approfondisce la intenzionalità dell’uomo religioso nel suo dire e nel suo fare, ma che può anche contrastare questa intenzione, è – ancora una volta – l’essere fondato su una ricerca obiettiva. In sostanza, il valore di questo ‘di più’ che la ricerca storica riuscirebbe a individuare rispetto al contenuto della autocomprensione da parte del credente, sembra essere garantito da quella che Bianchi chiama ‘ricerca obiettiva’.

Ci pare questo l’elemento derimente la questione. E tale da distinguere questa lettura del dato religioso, una lettura con la quale l’uomo religioso autore di quel dato potrebbe non trovarsi d’accordo, da altre letture del dato religioso, le quali vanno contro o sconfessano la intenzionalità dell’uomo religioso nel suo dire e nel suo fare. Mi riferisco, per esempio – ma altri esempi potrebbero essere addotti –, a un tipo di ricerca che – diversamente da quella storica – parta non dai dati ma da opzioni filosofiche previe ai dati, nello specifico interpretazioni che fanno riferimento alla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, come sembra invece accadere nel caso della lettura da parte di esponenti della teologia pluralista delle religioni, come Hick o Knitter, della ‘pretesa’ delle religioni di attingere l’Assoluto – o meglio della intenzione degli uomini religiosi di raggiungerlo, in modi e forme diverse – laddove esse, tutte, – ed essi tutti – attingerebbero – nella interpretazione di detti autori – solo quello che, per usare la interpretazione kantiana che questi autori adottano, è il fenomeno e mai il noumeno, ossia le modalità diverse con cui nelle diverse culture l’Assoluto si esprime o è rappresentato.104

Mi piace qui ricordare un incontro scientifico nel quale il motivo dello scarto tra ciò che l’uomo religioso voleva dire e ciò che di fatto ha detto è emerso tramite il confronto tra storici delle religioni e cultori di altre e diverse discipline: si tratta di un Colloquio tenutosi alla Università Cattolica di Milano nel lontano 1979 su Arché e telos. L’antropologia di Origene e di Gregorio di Nissa.

In quel contesto, Henri Crouzel105 ebbe modo di osservare come il confronto tra approcci metodologici diversi a quegli antichi autori abbia potuto mettere in luce lo scarto tra ciò che essi avevano voluto essere, ossia esegeti, pastori, catecheti, teologi, mistici, e ciò che essi di fatto sono stati, almeno sotto certi aspetti. Infatti, i patrologi, esaminando soprattutto ciò che Origene e Gregorio hanno voluto essere, ossia le loro intenzioni, non hanno sempre sufficientemente evidenziato ciò che essi talora sono stati, al di là o a dispetto delle loro intenzioni. Ossia, pensatori inseriti in sistemi di pensiero che non sempre e non in tutto sono riducibili a una prospettiva biblica e cristiana, ma che invece offrono aspetti (come le categorie del dualismo e della colpa antecedente, due tipologie illuminate e formalizzate in particolare dalle ricerche storco-comparative di Bianchi) evidenziati – e talora forse assolutizzati – dagli storici delle religioni. Ad ogni modo, il confronto tra i due approcci, appunto di patrologi e storici delle religioni, se svolto in una atmosfera di dialogo sereno, come quella del Colloquio in questione, può stimolare la ricerca e aprire nuove piste di indagine.

La questione del di più, se così vogliamo continuare a chiamarlo, che la ricerca storica può evidenziare, e della sua legittimità, è una questione particolarmente rilevante nell’ambito di una ricerca che da storico-idiografica si faccia storico-comparativa, ossia individui continuità e discontinuità, influssi e dipendenze che, sviscerati, appunto, dalla comparazione storica, eccedono gli ambiti dei contesti idiografici e della autocoscienza di coloro che in essi si trovano inseriti. In sostanza, la questione di quanto la ricerca storica possa aggiungere alla autocomprensione da parte del credente di una determinata religione o, come si diceva, alla sua intenzione– autocomprensione e intenzione che pure è compito primario della ricerca storica illuminare – ritorna allorché si considerino le caratteristiche di una ricerca storica che da idiografica si faccia programmaticamente comparativa, ossia si offra come storico-comparativa.

5. La comparazione storica

Qui solo un accenno al tema della comparazione in sede storico-religiosa, tema che ha registrato in questi ultimi tempi una abbondante bibliografia, di cui – peraltro – qui non è possibile dar conto, volendo in questa sede ricordare soltanto – e brevemente – la posizione di Bianchi sul tema. 106

Va allora ricordato che – nella riflessione metodologica di Bianchi – la ricerca storica propria della Storia delle religioni, se conosce una prima fase, idiografica e individuante, non si ferma ad essa, come nelle discipline, appunto, idiografiche, quali, ad esempio, la storia del cristianesimo o la storia greca, ma programmaticamente sfocia nella comparazione, che è la prosecuzione ideale di una ricerca storica idiografica. O meglio: se la comparazione in una certa misura è praticata anche nella ricerca storica di tipo idiografico, nella ricerca storico-comparativa essa si fa, per così dire, programmatica. Infatti, la comparazione storica – da Pettazzoni in poi – si pone come una naturale, direi strutturale, conseguenza dello studio storico di quei fatti, denominati religiosi, che si sono manifestati nella concretezza storica, ossia non sono sorti, non si sono sviluppati ed eventualmente non sono morti in vitro e neppure su pianeti sideralmente lontani tra di loro, ma in contesti storici e dentro a processi storici i quali – in quanto tali – hanno conosciuto contatti con altri contesti e processi storicamente contigui, e pertanto hanno conosciuto fenomeni di influenze, esercitate e subite, derivazioni, innesti, contrasti, convergenze, divergenze. Va detto che la comparazione storica – secondo la lezione metodologica di Bianchi – viene esercitata anche tra contesti e processi che non siano stati in verificabile contatto tra di loro nel tempo e nello spazio ma che abbiano conosciuto sufficienti analogie di genesi e di sviluppo, tali da consentire appunto la comparazione (è il caso ad esempio della comparazione tra le strutture religiose politeistiche come espresse dalle cosiddette alte culture del mondo antico, non tutte storicamente contigue, ovvero non tutte spiegabili sulla base della diffusione ma in taluni casi, come sembra, tali da dover fare appello alla ipotesi del parallelismo o sviluppo parallelo).

Sulla comparazione storica come teorizzata e praticata da Bianchi – in parziale continuità con la lezione metodologica di Pettazzoni, anche essa di tipo storico-comparativo – insistono degli equivoci che è bene dissipare, equivoci sulle modalità e sulle finalità della stessa.

Per quanto concerne le modalità: essa – la comparazione storica – non si risolve nella giustapposizione di storie religiose diverse, ossia non comporta – ad esempio – lo studio della storia del cristianesimo più la storia dell’ebraismo più la storia del buddhismo e così via.

Bianchi afferma:

“la coscienza storica non può evidentemente [n.d.r.: ma non è così evidente ai più] contentarsi di una ricerca per linee parallele: il cristianesimo a sé, le altre religioni a sé; giacché nessuna di queste religioni ha vissuto in un pianeta separato, sia per quanto riguarda le vicende storiche, sia per quanto riguarda la tipologia stessa dei fenomeni religiosi, i quali non cessano di rivelare (non dico alla comparazione sistematica, ma già alla semplice osservazione empirica) affinità e differenze, per chiarire le quali l’indagine storico-comparativa è un mezzo necessario”.107

In sostanza: lo storico delle religioni

“non è soltanto colui che analizza con competenza filologica determinati fatti o processi ben localizzati nel tempo e nello spazio, né all’opposto, il collezionatore di fatti disparati presi un po’ da tutto il mondo delle religioni, ma, al contrario, un indagatore del particolare, dell’individuale, dell’irrepetibile, cioè del fatto storico, e, insieme, uno che applica il metodo comparativo, il metodo storico-comparativo. Questo metodo è il solo che permette di studiare, anzi addirittura di percepire, i nessi che legano variamente i diversi mondi religiosi che compongono la varia storia religiosa dell’umanità. Insieme, il metodo storico-comparativo permette di percepire le caratteristiche proprie di ciascuna di queste ‘storie’, di ciascuna di queste religioni […]”.108

Possiamo dire che, come l’approccio storico – lo abbiamo precisato sopra – non deve limitarsi a raccogliere dati e a descrivere dati, analogamente l’approccio storico-comparativo non deve limitarsi a descrivere somiglianze e differenze e a classificare i fatti religiosi sulla base di queste. Programmatica appare al riguardo già la seguente affermazione di Pettazzoni:

“In sede metodologica si tratta di vedere se la comparazione non possa essere altro che una meccanica registrazione di somiglianze e differenze, o se non si dia – invece – una comparazione che, superando il momento descrittivo e classificatorio, valga a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimento della coscienza storica”.109

E così abbiamo toccato anche le finalità della ricerca storico-comparativa. Essa, partendo da un primo momento di studio storico idiografico di un dato religioso, progressivamente si allarga e si amplia inseguendo i nessi storici tra i dati stessi al fine di arrivare a una migliore e più profonda comprensione di quei dati entro la vasta trama della storia, cogliendone gli elementi di continuità ma anche di discontinuità con i dati consimili e pertanto illuminandone le irriducibili specificità. Efficace appare al riguardo la seguente affermazione di R. Turcan: “Il faut comparer pour distinguer, distinguer pour comprendre”.110

In sostanza, il metodo storico-comparativo interviene a fondare documentariamente le contiguità e discontinuità che già il semplice osservatore constata nella vasta trama della storia e a spiegarle ovvero consente di passare da una comparazione implicita e fuorviante a una esplicita e chiarificatrice dei dati.

Purtuttavia, la diffidenza nei confronti della comparazione è di antica data. In Italia, dai tempi già di Pettazzoni, allorché era osteggiata dall’idealismo crociano e vista con sospetto da parte teologica, in quanto ritenuta rischiosa per quello che poteva apparire il suo tentativo di ‘omogeneizzare’ le diverse espressioni religiose in una ‘notte nella quale tutte le vacche sono nere’. Nel frattempo detta diffidenza non si è smorzata, non dando la comparazione buona prova di sé, in quanto spesso esercitata in maniera superficiale e acritica. Venti anni or sono, G. Filoramo segnalava “la difficoltà, se non l’impossibilità, di concepire (e praticare) la Storia delle religioni come una disciplina generale, così come ha tentato di fare, in linea con la tradizione di pensiero e di studi in cui si collocava, Ugo Bianchi”.111

E in effetti la comparazione come esercitata da Bianchi e, con essa, uno dei risultati più vistosi di detta comparazione, vale a dire la delineazione di tipologie storiche – che Bianchi con insistenza affermava essere altre e diverse dai tipi fenomenologici o dalla nozione di Idealtypus – sono state oggetto di critiche miranti – in sostanza – a negarne il valore storico ritenendole, invece, quali espressioni di criptofenomenologia, inessenziali quando non dannose per la ricerca storica.112 Non ci soffermiamo tuttavia in questa sede su di dette critiche nonché sulla confutazione di esse.

Vogliamo, invece, prima di passare all’ultimo punto della nostra trattazione dedicato ai presupposti a parte subiecti della comprensione, esprimere la nostra convinzione che le caratteristiche della lezione metodologica di Bianchi – quali la comparazione come da lui intesa e praticata, come pure il tema della analogia tra fatti religiosi che la comparazione mette in luce, come sopra illustrato – tornino particolarmente utili nella stagione attuale quali correttivi a modalità diffuse – anche nella percezione dell’ ‘uomo della strada’ e non solo in sede scientifica – di intendere il mondo delle religioni. Da un lato, infatti, lo studio storico e comparativo delle religioni, in quanto distintivo ossia teso a distinguere, diversamente dallo studio fenomenologico teso a individuare strutture ricorrenti e al limite una essenza della religione rinvenibile sempre e comunque là dove si dà ‘religione’, e pertanto una unità ultima di tutte le religioni, si presta a correggere tendenze a percepire il mondo delle religioni come sostanzialmente tale da rimandare, dietro alle diversità pur evidenti, a una unità di fondo, che suggerisce – a fronte della domanda sulla verità delle religioni – l’idea di una conseguente uguale verità, o falsità. Può essere non privo di interesse ricordare – sul piano di una ricostruzione storiografica – come lo studio fenomenologico – si pensi a Friedrich Heiler alla metà del secolo scorso – sia stato praticato come funzionale a esigenze di mutual understanding o ‘mutuo intendimento’ tra religioni, e oggi si direbbe piuttosto esigenze di ‘dialogo interreligioso’. Di contro, Bianchi difendeva – della storia delle religioni – il carattere di disciplina non programmaticamente tesa ad un – e neppure troppo immediatamente trasferibile in un – mutual understanding e nemmeno primariamente tesa a un dialogo tra le religioni.113 Come pure di disciplina che – per le caratteristiche sopra evidenziate – riesca a mostrare come le religioni ‘non quadrino’ l’una con l’altra, come si esprimeva Bianchi, ossia non soltanto diano risposte diverse alle stesse domande ma già pongano domande diverse e comunque non si prestino a operazioni unificanti.114

Dall’altro lato, la percezione, per così dire opposta a quella sopra ricordata, ossia la percezione del mondo delle religioni come di una pluralità anarchica e caotica di fenomeni non legati da senso alcuno e tali, in ciò, da rendere disperante la domanda su una loro possibile verità, può essere anche essa corretta da uno studio storico delle religioni non limitato ad analisi idiografiche, bensì – come visto – programmaticamente aperto alla comparazione e capace di cogliere il senso e la direzione di nessi e legami tra religioni insieme al senso – storico – della loro pluralità.

6. Storia delle religioni: il soggetto. Presupposti della comprensione storica

Se scopo della ricerca storico-idiografica e storico-comparativa è la comprensione del senso dei fenomeni religiosi e della intenzione degli uomini religiosi ma anche la restituzione di quel di più il cui guadagno – come direbbe Marrou – costituisce il privilegio dello storico,115 ci interessa qui illustrare quali siano (se ve ne sono), sempre secondo la lezione metodologica di Bianchi, i presupposti necessari allo storico nell’esercizio della sua ricerca storico-idiografica e storico-comparativa intorno ai fenomeni religiosi.

Di fatto, si ricorderà il richiamo del Marrou al fatto che le disposizioni del soggetto che fa storia (ossia la persona dello storico) occupano un ruolo importante in ogni riflessione sul fare storia.116 Esse peraltro – ci sentiremmo di aggiungere al suo richiamo – conoscono una declinazione peculiare in relazione allo specifico oggetto dello studio storico e comparativo che qui ci occupa, ossia le religioni.

La peculiarità di tale oggetto ha fatto sì – lo ricordiamo solo – che nei decenni scorsi si consumasse un dibattito acceso tra coloro che sostenevano la necessità di essere o ateo o agnostico ossia la necessità della non condivisione di una fede per potere studiare storicamente le religioni, e coloro che sostenevano, invece, la necessità della condivisione di una religione per potere studiare storicamente le religioni, e talora specificamente la necessità della condivisione di quella stessa religione che si intendeva studiare, mentre da parte della fenomenologia filosoficamente impegnata si parlava di una sorta di facoltà innata che renda l’uomo capace di comprendere il Sacro come pure della capacità di immedesimazione (Einfühlung), ossia una sorta di empatia o di immedesimazione simpatetica del soggetto nei confronti dell’oggetto, la quale consentisse di averne come un’esperienza vissuta (Erlebnis). Né si sono spenti gli echi di tale dibattito. Oggi maggioritaria sembra la posizione erede di quella che sopra illustravamo per prima, ossia la posizione espressiva – pur nella varietà delle sue declinazioni – di un ateismo metodologico.117 Sull’altro versante, si può ricordare come ancora oggi, ad esempio, per Wilfred Cantwell Smith, sia il punto di vista del credente in una specifica religione a costituire l’autorità ultimativa nell’interpretazione dei fatti di quella stessa religione.118 Terza possibilità, come terza voce in quel dibattito, quella della cosiddetta ‘neutralità’ o ‘imparzialità’.

Bianchi non accetta nessuna delle tre. Inserendosi in un pluridecennale dibattito – come detto – circa la necessità della condivisione di una fede o, al contrario, la necessità di una non condivisione di una fede per, rispettivamente, ‘comprendere’ (come richiedevano le posizioni definibili fenomenologiche) o ‘spiegare’ (come richiedevano le interpretazioni positivistico-evoluzionistiche) il fatto religioso, e respingendo il ‘ mito’ della neutralità, fa una affermazione recisa che va qui registrata da subito, ossia afferma la necessità della

“assenza [scil. in sede di approccio positivo e induttivo ai fatti religiosi, quale è l’approccio storico, vuoi idiografico vuoi comparativo] di presupposti, l’assenza di ‘pre-occupazioni’, ‘pre-comprensioni’, (…) l’assenza di quanto, in questa sede, può condizionare e imporre elementi di conoscenza che non siano quelli che emergono direttamente dall’indagine filologica, dall’indagine storica in senso idiografico e dall’indagine storica in senso comparativo” .119

Dunque, si deve, per Bianchi, “parlare di ricerca storico-religiosa che sia voraussetzunglos”.120 Ci piace riportare questa ultima affermazione perché essa richiama – per opposizione – la posizione di Christian Gnilka, come espressa in un suo non lontano intervento, del 2018, proprio alla Università Santa Croce, sul tema “I Padri e la cultura antica: scienza senza presupposti?” Appunto: Voraussetzungslose Wissenschaft?121 Una domanda alla quale Gnilka – anche rifacendosi al pensiero dell’indologo Paul Hacker a cui con detto intervento Gnilka intende rendere omaggio – offre una risposta negativa, venendo a delineare la impossibilità se non la dannosità di una ricerca senza presupposti. Il contrasto tra le due posizioni, quella di Bianchi e quella di Gnilka, di fatto è più apparente che reale se si viene ad esplicitare quali siano i presupposti cui si riferiscono i due studiosi. Qui non ripercorriamo quanto afferma Gnilka, ma esplicitiamo solo che cosa intenda Bianchi affermando che la ricerca storico-religiosa debba essere senza presupposti.

Quali sono i presupposti che non devono condizionare la ricerca?

Presupposti della ricerca da evitare in sede di ricerca storica sono chiavi ermeneutiche universali quali, ad esempio, quelle del ‘sacro’ di Otto o del ‘sacro’ e del ‘primordiale’ di Eliade. L’approccio storico, sottolinea Bianchi, è – infatti e come già ricordato sopra – diverso dall’approccio ermeneutico che usa una singola chiave interpretativa per aprire i fenomeni religiosi alla comprensione, con il rischio di ignorare problemi storici cruciali nel mondo delle religioni, quali continuità, discontinuità, influssi esercitati e subiti, mutuazioni e creazioni originali.122

Presupposti della ricerca da evitarsi sono anche presupposti ideologici e sistematici riduttivi, quali quelli storicisti. Così, presupposto da evitarsi – tale è uno specifico esempio addotto da Bianchi, anche in relazione alla temperie storica (segnata dall’idealismo crociano) nella quale la lezione metodologica di tipo storico-comparativo del maestro suo Pettazzoni dovette farsi strada – è “l’imposizione di un a priori categorico alla ricerca storica e positiva, a priori che si manifesta in Croce nell’esclusione della religione dal novero delle quattro categorie nelle quali egli trova la chiave interpretativa del reale storico, e che si manifesta nel marxismo nell’attribuzione della religione alla soprastruttura e nella subordinazione programmatica, anche se variamente ammorbidita, della religione alla dialettica struttura-soprastruttura “.123

Ma anche da evitarsi sono i presupposti contrari a quelli or ora indicati, ossia i presupposti essenzialisti, i quali, come avviene nella fenomenologia e nella antropologia religiose, partono dalla ammissione di una essenza – o metafisica o antropologica – a fondamento del fatto religioso.

Neppure utili, anzi dannosi, sono requisiti propri del soggetto che fa storia, quali l’Einfühlung, l’intuizione, l’empatia o simili, teorizzati a suo tempo dalla fenomenologia religiosa.

E, infine, presupposti non necessari sono la condivisione di una fede o al contrario la non condivisione di una fede. Non è questione, dunque, in sede di ricerca storica, afferma Bianchi, né di believer né di outsider.

“Donde anche la limitazione da apportare all’affermazione spesso ripetuta che un ateo o un areligioso non possano penetrare nella natura religiosa dei fatti studiati. Lasciando ora da parte la questione se una esperienza una volta (ed eventualmente non più) partecipata dallo studioso possa bastare per dare questa facoltà di penetrazione, ci pare che la applicazione proba di una ricerca non programmaticamente riduzionistica […] garantisca abbastanza – se scrupolosamente estesa a tutti i contenuti e gli aspetti oggetto di studio – che le qualità ‘religiose’ dei fatti studiati non sfuggano, almeno in maniera macroscopica“.124

Ci pare di poter affermare che questa esclusione recisa di una fede come di una non fede come presupposti necessari allo storico nella sua ricerca applicata ai fatti religiosi si spieghi entro la dialettica che Bianchi andava sviluppando, negli anni in cui si collocano queste riflessioni metodologiche, con le posizioni che, al contrario, o ritenevano presupposto necessario una fede per poter accedere alla comprensione del religioso o – all’opposto – ritenevano presupposto necessario la non condivisione di una fede. In particolare – ci sia consentita questa osservazione – colpisce la recisa negazione di una fede quale presupposto per la comprensione, e colpisce – almeno così ci sembra – questa negazione, perché appare, per così dire, in contrasto con la esperienza vissuta del Nostro, che altri interventi in questa miscellanea intendono mettere a fuoco, una esperienza di profonda condivisione di una fede e – al contempo – di profonda e illuminata comprensione – e rispetto – della alterità religiosa.125 Ci pare allora di poter dire che la forza con cui afferma la non necessità della condivisione di una fede sia motivata – lo ribadiamo – dalla necessità di respingere le posizioni fenomenologiche di cui sopra, che invocavano una capacità innata o la condivisione di una fede per consentire all’uomo di percepire il sacro, come si diceva, ovvero di comprendere la religione e le religioni. Infatti, come il Nostro affermava, l’accoglimento di tali presupposti significherebbe la fine della ricerca positiva (non positivistica) e induttiva sulla religione e le religioni, la quale ricerca, invece, deve essere valevole e verificabile da tutti coloro che alla metodologia storica intendono riferirsi. Ricerca – quella storica – che “non dice tutto il vero, ma solo ciò che è storicamente dimostrato. Vi è del vero anche al di fuori dello storicamente dimostrato (per esempio, Dio)”.126

Ad ogni modo, continuava Bianchi, come sarebbe improprio definire la storia delle religioni impegnata, altrettanto lo sarebbe definirla, “al contrario, ‘agnostica’ (che sarebbe pur sempre una posizione filosofica) o ‘neutrale’”.127

“Chi applica la ricerca storica e storico-comparativa allo studio della religione, non è, non deve essere, né ‘impegnato’ né ‘asettico’, quando questo significhi presupposta tendenza o, al contrario, sostanziale disinteresse per i dati in questione”.128

Sulla probità metodologica del ricercatore, ma insieme sui limiti legati a ogni tipo di ricerca, Bianchi insiste affermando che “no other particular prerequisited are required, nor presuppositions allowed, to scholars in the stict context of their historical reasoning, except those forming an integral part of the respective scientific methodology”.

E tuttavia: “This methodology, since it is scientific, is also conscious of its limits, that is of its cognitive possibilities, as these are implicit in it”.129

Sempre in merito ai presupposti necessari per la ricerca storica applicata ai fatti religiosi ovvero sulla possibilità o meno di una indagine intorno alle religioni che sia voraussetzungslos, Bianchi afferma che nemmeno risponde ai presupposti necessari per la comprensione storica dei fenomeni religiosi

“il concetto di imparzialità dello storico; concetto che, per quanto importante, è troppo limitato per il nostro assunto, esprimendo esso piuttosto una caratteristica, certo necessaria, di ordine etico (non-settarismo, e anche probità scientifica)”.130

Ma allora nessun presupposto? Ovvero, ‘ricerca senza presupposti’ (voraussetzungslos)?

Non propriamente. L’unico presupposto per la stessa ricerca storica consiste nell’ “aperto interesse”, per l’oggetto di studio, nella “simpatia, nel senso di interesse umano scientificamente provato, che faciliti una comprensione, pur senza estranei ‘giudizi di valore’”.131 Preciso che Bianchi intende giudizi di valore fondati filosoficamente o teologicamente (al riguardo si può parlare anche di giudizi di verità), non giudizi di valore fondati sui risultati della ricerca storica, giudizi legittimi in sede storica.

In altro luogo, il Nostro viene a parlare di “quella capacità di Einfühlung, di ‘consentimento’ e di intuizione che – se non è applicata a dosi eccessive o in direzioni sbagliate – [n.d.r. come faceva la fenomenologia filosoficamente impegnata] permette di entrare nell’anima di una determinata civiltà o esperienza religiosa”.132

E ancora: la ricerca storico-idiografica e quella storico-comparativa devono essere “prive di presupposti ideologici e sistematici riduttivi” e al contempo “nutrite di competenza, probità scientifica, sincero interesse per la cosa studiata“.133 Altrove il Nostro parla della necessità per lo storico di un “interesse aperto e intelligente per l’oggetto del suo studio”.134 Ancora: vivo interesse o, se si vuole, sensibilità per il fatto religioso e i fatti religiosi.135 Una importante precisazione a proposito di detta sensibilità:

“il faudra ajouter que cette sensibilité ne serait certainement pas possédée par celui qui fonderait sa méthodologie historique sur la présupposition philosophique de l’impossibilité de la religion, voire de l’absurdité des religions positives, du surnaturel etc.” .136

Sarebbe interessante sviluppare una comparazione tra queste indicazioni di Bianchi e quelle di autori le cui riflessioni sembrano offrire aspetti di continuità con temi suggeriti da Bianchi. Ho presente – solo per fare due rapidissimi accenni – il tema della necessità della simpatia teorizzata da Marrou ne La conoscenza storica, come requisito per la comprensione storica. Ma può essere altresì ricordato l’atteggiamento di simpatia, senza la quale “non vi è alcuna comprensione”, evocato da J. Ratzinger alla fine della Introduzione al suo Gesù di Nazaret,137 con la differenza che in Marrou è la simpatia per l’oggetto di studio, in Ratzinger è la simpatia per il soggetto scrivente. Ricordo poi la riflessione di Gnilka, già sopra evocata, la quale, rifacendosi all’esempio costituito dalle riflessioni di Paul Hacker sul tema in questione, addita quali presupposti necessari per la comprensione del pensiero cristiano antico nei suoi rapporti con la cultura classica, in primo luogo la capacità e la disponibilità a riconoscere e a valutare correttamente le differenze, e in secondo luogo un certo assenso interiore all’oggetto dell’osservazione, un vivo e sincero interesse verso gli autori ecclesiastici studiati. Ma per una retta comprensione dei Padri – prosegue Gnilka – deve essere rispettato un presupposto ulteriore, ossia si deve essere pronti a comprendere il sistema della fede cristiana nel suo sviluppo.138 Una argomentazione che Gnilka sviluppa ulteriormente ma che qui non seguiremo, essendoci proposti di offrire soltanto delle suggestioni – che si potranno certamente approfondire – nella direzione di una comparazione tra le riflessioni di uno storico delle religioni come Bianchi e quelle di un filologo quale Gnilka sul tema dei presupposti necessari alla ricerca nei rispettivi campi di indagine.

Da parte nostra vorremmo concludere queste riflessioni sui requisiti a parte subiecti, come suggeriti da Bianchi, nell’esercizio della indagine storico-comparativa intorno ai fenomeni religiosi, con una osservazione che, tuttavia, apre questioni ulteriori che non potremo però qui sviluppare. Se nessuna opzione filosofica o teologica può essere presupposto della ricerca, riteniamo si possa convenire sul fatto che una fede personale da parte dello studioso possa suggerire certe ipotesi di lavoro piuttosto che altre, o condurre a privilegiare certi campi piuttosto che altri. Ma a questo punto si aprono ulteriori questioni: quale fede? Altra, infatti, è una fede che si esplica entro un orizzonte religioso di tipo monistico e fondamentalmente astorico, altra una fede che si colloca entro un orizzonte monoteistico contemplante una specifica valorizzazione della storia, come quello cristiano. Ma anche all’interno di questo, altra – come mostra la storiografia religiosa – è, ad esempio, una sensibilità che deriva da una confessione protestante e altra è una sensibilità che deriva da una confessione cattolica.


1 Di seguito un elenco dei principali studi di U. Bianchi specificamente votati a questioni di metodo: U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, Roma 1979; Idem, Il metodo della storia delle religioni, in A. Molinaro (a cura di), Le metodologie della ricerca religiosa, Pubblicazioni della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, Roma 1983, 17-28; Idem, Storia delle religioni, in A.N. Terrin et alii, Le scienze della religione oggi, Atti del Convegno (Trento, 20-21 maggio 1981), Bologna 1983, 145-175; Idem, Current Methodological Issues in the History of Religions, in J.M. Kitagawa (ed.), The History of Religions: Retrospect and Prospect, New York 1985, 53-72; Idem, Method, Theory and the Subject Matter, in L.H. Martin (ed.), Religious Transformations and Socio-Political Change: Eastern Europe and latin American, “Religion and Reason” 33, Berlin – New York 1993, 349-355; Idem, with the cooperation of F. Mora e L. Bianchi, The Notion of ‘Religion’ in Comparative Research. Selected Proceedings of the International Association for the History of Religions (Rome, 3rd – 8th September 1990), Roma 1994; Idem, voce Storia delle religioni, in M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle religioni, vol. V: Lo studio delle religioni. Discipline e autori, tr. it., Milano 1995 (ed.or. 1987), 538-547.

2 Precisiamo che di seguito riporteremo, per quanto concerne la produzione scientifica di Bianchi, solamente alcune tra le monografie, le curatele e le raccolte di saggi dello studioso, rimandando il lettore, per una bibliografia completa, a quella curata da Lorenzo Bianchi in G. Casadio (a cura di), Ugo Bianchi. Una vita per la Storia delle religioni, Roma 2002, 469-496, riproposta con alcune modifiche e integrazioni in L. Bianchi, Bibliografia di Ugo Bianchi, «Annals of the Sergiu Al-George Institute» 6-8 (1997-1999) [Bucharest 2004], 17-38, e, da ultimo, in M. Monaca, Ugo Bianchi e la Storia delle religioni (Studiorum et fidei 8), Roma 2012, 50-76.

3 Opera principale di questi anni è la monografia Dios aisa. Destino, uomini e divinità nell’epos, nelle teogonie e nel culto dei Greci (Studi pubblicati dall’Istituto italiano per la storia antica, XI), Roma 1953.

4 U. Bianchi, Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico, Roma, 1958; seconda edizione con aggiunte, Roma 1983. Ristampa 1991. Idem, Zamân i Ôhrmazd. Lo zoroastrismo nelle sue origini e nella sua essenza, Torino 1958.

5 U. Bianchi, Problemi di storia delle religioni (Serie Universale Studium, 56), Roma 1958; 1986 sec.ed. aggiornata; rist. 1988; Idem, Teogonie e cosmogonie (Serie Universale Studium, 69), Roma 1960.

6 U. Bianchi, La religione greca, in Storia delle religioni a cura di G. Castellani, Torino, II, 1962, 399-581 (1971 sec.ed.); Idem, Storia dell’etnologia, Roma 1964 (1971 sec.ed.).

7 U. Bianchi (a cura di), Le origini dello gnosticismo. Colloquio di Messina, 13-18 aprile 1966 (Studies in the History of Religions, Supplements to Numen 12), Leiden 1967 (rist.1970),

8 U. Bianchi, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, Roma 1976 (rist. 1991); Idem, The Greek Mysteries (Iconography of Religions 17, 3), Leiden 1976; Idem, Selected Essays on Gnosticism, Dualism and Mysteriosophy (Supplements to Numen 38), Leiden 1978.

9 U. Bianchi, La doppia creazione dell’uomo negli Alessandrini, nei Cappadoci e nella gnosi, Edizioni dell’Ateneo Bizzarri, Roma 1978; Idem (a cura di) con la cooperazione di H. Crouzel, Archè e Telos. L’antropologia di Origene e di Gregorio di Nissa. Analisi storico-religiosa. Atti del Colloquio (Milano, 17-19 maggio 1979), (Studia Patristica Mediolanensia 12), Milano, 1981; Idem (a cura di), La tradizione dell’enkrateia. Motivazioni ontologiche e protologiche. Atti del Colloquio internazionale, Milano, 20-23 aprile 1982, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1985.

10 Tali sono, in particolare, i contributi raccolti in U. Bianchi, Saggi di metodologia della storia delle religioni.

11 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza. Problemi del cristianesimo d’oggi, Milano 1979.

12 U. Bianchi (a cura di), Mysteria Mithrae. Atti del Seminario internazionale su «La specificità storico-religiosa dei misteri di Mithra, con particolare riferimento alle fonti documentarie di Roma e Ostia», Roma e Ostia 1978; Idem- M. J. Vermaseren (a cura di), La soteriologia dei culti orientali nell’Impero romano. Atti del Colloquio internazionale, Roma 24-28 settembre 1979, Leiden 1981.

13 U. Bianchi (ed.), Transition Rites. Cosmic, social and individual order – I riti di passaggio. Ordine cosmico, sociale, individuale. Atti del Seminario italo-finno-svedese tenuto all’Università di Roma «La Sapienza», 24-28 marzo 1984 (Storia delle religioni 2), Roma 1986.

14 Bianchi ed., with the cooperation of F. Mora and L. Bianchi, The Notion of ‘Religion’ in Comparative Research.

15 Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 18.

16 Detta sottolineatura della problematicità nonché della convenzionalità del termine in questione è presente in vari luoghi degli interventi metodologici del Nostro, come, ad esempio, U. Bianchi, Saggi di metodologia, 15.

17 U. Bianchi, Saggi di metodologia, 72.

18 Utile rassegna di dette posizioni è, ad esempio, in N. Mapelli, Storia delle religioni. Una prima introduzione alla disciplina, Roma 2009.

19 U. Bianchi, Saggi di metodologia, 27.

20 U. Bianchi, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, 8.

21 U. Bianchi, Saggi di metodologia, 28.

22 Idea ribadita in diversi interventi di carattere metodologico, tra i quali qui basti ricordare soltanto U. Bianchi, Saggi di metodologia, 116.

23 R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, «Numen» 6 (1959) 1-14, 10.

24 Al riguardo di questo, e per la relativa bibliografia, ci permettiamo rinviare a M.V. Cerutti, Monoteismo pagano? Elementi di tipologia storica, «Adamantius»15 (2009) 307-330. Vedasi anche G. Sfameni Gasparro, Dio unico, pluralità e monarchia divina. Esperienze religiose e teologie nel mondo tardo-antico (Scienze e storia delle religioni, Nuova serie, 12), Brescia 2010.

25 A. Brelich, Prolegomènes à une Histoire des religions, in H.-Ch. Puech (ed.), Histoire des religions, I, Paris 1970, 3-59 (tr.it. Prolegomeni, in H.-Ch. Puech (a cura di), Storia delle religioni, Bari 1976, I, 1-55).

26 Per una ricostruzione storiografica del rapporto tra Bianchi e Brelich sul tema in questione, si veda P. Xella, Laici e cattolici alla scuola di Raffaele Pettazzoni, in M.G. Lancellotti – P. Xella (a cura di), Angelo Brelich e la storia delle religioni: temi, problemi e prospettive. Atti del convegno di Roma, CNR, 3-4 dicembre 2002, Verona 2005, 21-40.

27 J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Brescia 1992⁴ (ed.or. Düsseldorf 1969), 393.

28 U. Bianchi, Storia delle religioni, 152.

29 P. Xella, Laici e cattolici, 36.

30 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 17-18.

31 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 25.

32 Cfr. infra nel testo l’osservazione di N. Spineto, Ugo Bianchi e Mircea Eliade, 413-414.

33 Rimandiamo al riguardo a N. Spineto, Ugo Bianchi e Mircea Eliade, in G. Casadio, Ugo Bianchi. Una vita per la storia delle religioni, 401-422.

34 N. Spineto, Ugo Bianchi e Mircea Eliade, 412.

35 U. Bianchi, Problemi di storia delle religioni, Roma 1986², 122-123.

36 U. Bianchi, Problemi di storia delle religioni, Roma 1958, 116-118.

37 Rimandiamo anche a questo riguardo a N. Spineto, Ugo Bianchi e Mircea Eliade.

38 U. Bianchi, Problemi di storia delle religioni [1986²], 124.

39 U. Bianchi, Problemi di storia delle religioni [1958], 111.

40 U. Bianchi, Problemi di storia delle religioni [1958], 115.

41 N. Spineto, Ugo Bianchi e Mircea Eliade, 413-414.

42 Successivi rispetto alla prima edizione di Problemi di storia delle religioni, del 1958, alla quale sopra abbiamo fatto riferimento.

43 U. Bianchi, La storia delle religioni, in Storia delle religioni. Fondata da P. Tacchi Venturi, diretta da G. Castellani. Sesta edizione interamente rifatta e ampliata, I, Torino 1970, 1-168, 30-31.

44 G. Bonola, Il paradosso della liberazione dal male nel buddhismo. Figure della liberazione: dal nirvâna alla prajña alla fede nel grande voto di Amitabha, in G. Cunico – H. Spano (a cura di), Religioni e salvezza. La liberazione dal male tra tradizioni religiose e pensiero filosofico, Napoli 2010, 45-79.

45 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 23-24.

46 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 546.

47 Ibidem.

48 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 541.

49 Ibidem.

50 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 161-162.

51 N. Spineto, Ugo Bianchi e Mircea Eliade, 416.

52 Cfr. nota112, p.134.

53 U. Bianchi, Concluding Remarks: the History of Religions, today, in Idem, The Notion of ‘Religion’ in Comparative Research, 919-921, 920.

54 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 539.

55 R. Petazzoni, Aperçu introductif, «Numen» 1 (1954) 1-7.

56 G. Maspero, Può un credente studiare la storia? «Annales Theologici» 32 (2018) 399-413.

57 In tal senso si è espresso in particolare P. Sacchi in una ampia serie di studi confluiti in Idem, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990; Idem, Tra giudaismo e cristianesimo. Riflessioni sul giudaismo antico e medio (Antico e Nuovo Testamento 7), Brescia 2010. Ci permettiamo, poi, rinviare a M.V. Cerutti, Krisis e crisi nell’apocalittica giudaica, in A.M. Mazzanti – I. Vigorelli (a cura di), Krisis e cambiamento in età tardoantica. Riflessi contemporanei (Ricerche di ontologia relazionale 3), Roma 2017, 51-75.

58 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza, 73-74.

59 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza, 75.

60 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza, 75-76.

61 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza, 77.

62 Cfr. U. Bianchi, Saggi di metodologia, 88-89.

63 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 27.

64 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 539.

65 H. Jonas, Lo gnosticismo, tr.it., Torino 1973, 1991² (ed.or. Boston 1954).

66 R. Otto, Das Heilige, Breslau 1917 (prima trad.it., Il Sacro, l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, traduzione di Ernesto Buonaiuti, Bologna, 1926).

67 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 539.

68 U. Bianchi, Nota storico-religiosa sull’ermeneutica del male profondo, in M. Olivetti (a cura di), Esistenza Mito Ermeneutica. Scritti per Enrico Castelli, Archivio di Filosofia I, Padova 1980, 155-166,156.

69 Ibidem.

70 U. Bianchi, Storia delle religioni, 166.

71 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 27.

72 U. Bianchi, Concluding Remarks, 920.

73 H.I. Marrou, La conoscenza storica, tr.it., Bologna 1962 (ed. or., De la connaissance historique, Éditions du Seuil, Paris 1954), 88-89. Per una rivisitazione della lezione metodologica del Marrou insieme ad una valorizzazione della stessa in tempi quali gli attuali caratterizzati da una ‘crisi della storia’, si veda ora L. Lugaresi, Henri-Irénée Marrou e la crisi della storia. Qualche spunto per rileggere oggi De la connaissance historique (1954) «Annales Theologici» 32 (2018) 363-387.

74 U. Bianchi, voce Storia delle religioni, 541.

75 Cfr. U. Bianchi, Method, Theory and the Subject Matter.

76 U. Bianchi, Current Methodological Issues in the History of Religions.

77 U. Bianchi, Method, Theory and the Subject Matter, 351.

78 U. Bianchi, Concluding Remarks, 921.

79 U. Bianchi, Current Methodological Issues in the History of Religions, 53.

80 U. Bianchi, Storia delle religioni, 156.

81 U. Bianchi, Method, Theory and the Subject Matter, 350.

82 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 26.

83 U. Bianchi, Raffaele Pettazzoni e la International Association for the History of Religions, SMSR 49 (N.S. 7) (1983) 21-28 (= Strada maestra 12, 1979, 11–18), 27-28.

84 Ricordiamo, dello studioso belga, Julien Ries, come sia in corso di pubblicazione l’Opera omnia (Brescia – Milano 2006).

85 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 241.

86 Ibidem.

87 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 240-241.

88 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 240.

89 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 241.

90 Ci basti qui ricordare, come un esempio tra i molti che potrebbero essere addotti, D. Sabbatucci, La prospettiva storico-religiosa, Milano 2000, 146, il quale, muovendosi all’interno di una prospettiva di chiara marca storicistica, afferma che “lo storico deve muoversi dall’ipotesi che tutta la sua materia sia riducibile a cause umane”.

91 Cit. da J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Siena 2005, 195.

92 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 164.

93 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 240.

94 Ch. Gnilka, Chrêsis, il concetto di retto uso. Il metodo dei Padri della Chiesa nella ricezione della cultura antica, tr.it., Brescia 2020 (ed.or. 2012²; prima ed. 1984), 24.

95 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 27.

96 Ibidem.

97 U. Bianchi, Storia delle religioni, 160.

98 U. Bianchi, Saggi di metodologia della storia delle religioni, 88-89.

99 U. Bianchi, Saggi di metodologia della storia delle religioni, 163.

100 H.I. Marrou, La conoscenza storica , 43. Cfr. L. Lugaresi, Henri-Irénée Marrou e la crisi della storia, 372-373.

101 U. Bianchi, Le strutture del male (tra apocalittica e gnosticismo), in M.V.Cerutti cur., Apocalittica e gnosticismo. Atti del Colloquio Internazionale, Roma 18-19 giugno 1993, Roma 1995, 11-28.

102 U. Bianchi, Le strutture del male, 25.

103 Ibidem.

104 Naturalmente non è qui possibile dare una bibliografia anche sommaria relativa ai due autori citati come particolarmente rappresentativi della attuale teologia pluralista delle religioni, e neppure relativa alla stessa in quanto tale. Scegliamo pertanto di citare solamente, da un lato, J. Ratzinger (La fede e la teologia dei nostri giorni. Intervento a Guadalajara, Messico, maggio 1996; Idem, Fede Verità Tolleranza) come acuto critico della stessa, in generale, e delle posizioni dei due autori citati in particolare, e dall’altro – in una prospettiva analoga – Gavin D’Costa (a cura di), La teologia pluralista delle religioni: un mito? L’unicità cristiana riesaminata, Assisi 1994 (ed. or. New York 1990), come pure K.J. Becker – I. Morali (eds.), Catholic Engagement with World Religions. A Comprehensive Study, Maryknoll, New York 2010.

105 H. Crouzel, L’Anthropologie d’Origène, in U. Bianchi (a cura di), con la cooperazione di H. Crouzel, Arché e Telos. L’antropologia di Origene e di Gregorio di Nissa. Analisi storico-religiosa. Atti del Colloquio, Milano, 17-19 maggio 1979 (Studia Patristica Mediolanensia 12), Milano 1981, 303-304.

106 Tra gli interventi degli ultimi due decenni sul tema della comparazione ricordiamo G. Filoramo – N. Spineto (a cura di), La storia comparata delle religioni (Storiografia, 6), Pisa-Roma 2002; C. Calame – B. Lincoln (éds.), Comparer en histoire des religions antiques. Controverses et propositions, Liège 2012; G. Casadio, Storia della religione greca e storia comparata delle religioni: Brelich (1975/1985); Vernant (1987/1990); Bremmer (1994/2001), Postfazione a J. Bremmer, La religione greca, tr. it., Cosenza, 2002, 157-175; P. Clemente – C. Grottanelli (a cura di), Comparativa/mente, Firenze 2009; M. Burger – C. Calame (éds.), Comparer les comparatismes. Perspectives sur l’histoire et les sciences des religions, Paris-Milano 2006.

107 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza, 70.

108 U. Bianchi, Tra mondo e salvezza, 180.

109 R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, 10.

110 R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Paris 1992 (prima ed. 1989; 2000 terza ed.), 16.

111 G. Filoramo, rec. a Bianchi, The Notion of Religion in Comparative Research «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa» 34 (1998) 183-188, 184.

112 Tra le voci critiche ci basti qui ricordare A.N. Terrin, Fenomenologia ‘criptica’ della religione in Ugo Bianchi? Interpretazione critica del metodo di studio delle religioni del Maestro romano, in G. Casadio, Ugo Bianchi, 353-391.

113 U. Bianchi, La storia delle religioni [1970], 21.

114 Conclusioni, queste, offerte in diversi studi del Nostro, tra i quali, ad esempio, Tra mondo e salvezza, 104.

115 Cfr. n.100 p.126.

116 H.I. Marrou, La conoscenza storica, 84-102. Cfr. L. Lugaresi, Henri-Irénée Marrou e la crisi della storia, 376-378.

117 Utile disamina e rassegna di voci espressive di tale posizione è ora in A. Annese, Note su metodo storico, teologia, esegesi, «Studi e materiali di Storia delle religioni» 84 (2018) 390-407.

118 W. Cantwell Smith, The Meaning and End of Religion, New York 1964; Idem, Faith and Belief , Princeton, NJ ١٩٧٩; Idem, Towards a World Theology, Philadelphia 1981.

119 U. Bianchi, Il metodo della storia delle religioni, 19.

120 U. Bianchi, Storia delle religioni, 160.

121 Ch. Gnilka, Voraussetzungslose Wissenschaft? «Annales Theologici» 32 (2018) 301-316.

122 U. Bianchi, Concluding Remarks, 920.

123 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 63-96.

124 U. Bianchi, Storia delle religioni, 166.

125 Ci riferiamo all’intervento di Lorenzo Bianchi in questo volume. E possiamo ricordare anche, al riguardo, un recente intervento di E. Sanzi, La Storia delle religioni capitolo di un’esistenza cristiana. Ricordo di Ugo Bianchi «Osservatore Romano» (14 ottobre 2020) iii, il quale parla di Bianchi come di un “maieuta buono che non ha speso una vita per la storia delle religioni ma ha saputo fare della storia delle religioni un capitolo importante di una vita cristianamente vissuta”. Il riferimento implicito è – così almeno ci pare – al titolo dell’opera curata da G. Casadio, Ugo Bianchi. Una vita per la storia delle religioni.

126 Così leggo in appunti miei relativi al suo intervento (U. Bianchi, Storia delle religioni) a un convegno tenutosi a Trento, 20-21 maggio 1981.

127 U. Bianchi, Storia delle religioni, 157.

128 U. Bianchi, Raffaele Pettazzoni e la International Association for the History of Religions, 27.

129 U. Bianchi, The study of religion in the context of Catholic culture, in M.Pye (ed.), Marburg revisited, Institutions and Strategies in the Study of Religions, Marburg 1989, 49-53, 53.

130 U. Bianchi, Il metodo della Storia delle religioni, 19.

131 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 60.

132 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 222.

133 U. Bianchi, Storia delle religioni, 167.

134 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 86.

135 U. Bianchi, Storia delle religioni, 161.

136 U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni, 243.

137 J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, I, Milano 2007, 20.

138 Ch. Gnilka, Voraussetzungslose Wissenschaft?