Ror Studies Series | Storia Religioni Comparazione
Il metodo storico-comparativo alla prova: un confronto con la “Scienza cognitiva della religione”
Giulia Sfameni Gasparro
Università di Messina
Gli interrogativi posti da questo Incontro di studio2 sono di tale ampiezza e densità che è difficile, se non impossibile, presumere di dare ad essi una risposta, se non solo parziale e incoativa.
Pertanto, assumendo una formula antica, che il comune Maestro amava spesso ricordare, repetita iuvant, cercherò di avanzare qualche osservazione in merito ai problemi enunciati, riprendendo in parte alcune argomentazioni che, in diverse occasioni, mi è sembrato opportuno proporre per caratterizzare quello che – a mio avviso – è definibile come il più legittimo «approccio epistemologico negli studi storico-religiosi». In funzione di tale obiettivo, cercherò di illustrare alcuni aspetti della moderna «scienza cognitiva della religione (Cognitive Science of Religion / CSR)» che attualmente rappresenta una sorta di “sfida” alla metodologia storica quale fonda lo statuto epistemologico della disciplina che si denomina “Storia delle religioni”.
1. Un’introduzione al problema.
Ancora una volta,3 dunque, proporrò un enunciato di Jeppe Sinding Jensen, espresso nel corso del dibattito svoltosi in occasione del XVIII Congresso della IAHR a Durban (5-12 agosto, 2000), nelle sessioni dedicate al tema: «Comparativism then and now: stocktaking and critical issues in the formation of cross-cultural knowledge»: «It is obvious that whichever way one imagine religion and the study of it, it will not be possible to do so without the activity of comparison, without the evaluations of resemblances and differences, without generalization and ‘even’ without universals».4
Dopo una fase degli studi storico-religiosi caratterizzata da più o meno radicali atteggiamenti critici se non apertamente “de-costruzionisti” nei confronti di un comparatismo giudicato incapace di cogliere le diverse identità storiche dei fatti religiosi, in quanto troppo incline alla generalizzazione, questo dibattito ha contribuito a riproporre su corrette basi metodologiche quello che, fin dalle origini della disciplina nella sua dimensione scientifica e già dai primi tentativi di interpretazione dei fenomeni religiosi presenti nella riflessione storica e filosofica dei Greci,5 è stato utilizzato come necessario strumento di indagine, ossia il confronto tra le diverse tradizioni culturali in cui quei fenomeni risultano a vario titolo presenti. La comparazione storica rimane pertanto una componente ineliminabile della ricerca6 e, di fatto, non è irrilevante che il recente volume di studi in onore del Presidente della IAHR, Tim Jensen, sia stato concepito dai curatori come una rassegna critica delle «visioni contemporanee sulla Religione comparata», in un quadro scientifico peraltro fortemente condizionato dalla nuova metodologia della Scienza cognitiva della religione (CSR).7 Ne risulta confermata l’inevitabile istanza comparativa della ricerca sui fenomeni complessi che si continuano a denominare religiosi -nonostante tutti i problemi attinenti alla definizione della nozione stessa di “religione”.8
Se dunque – con J.S. Jensen9 – si riconosce che nessuna conoscenza del reale è possibile senza la comparazione dei fenomeni e la loro classificazione che inevitabilmente implica la formulazione di categorie generali, la connotazione fondamentale e irriducibile di questo processo cognitivo rimane tuttavia quella di un’adeguata valutazione delle ”somiglianze e delle differenze”, ovvero, con una terminologia valorizzata efficacemente da U. Bianchi,10 delle ”analogie” tra i fenomeni. Di fatto, se ogni formulazione di categorie classificatorie presuppone una parte più o meno ampia di convenzione e senza dubbio risulta culturalmente condizionata dalla concreta situazione storica dello studioso che la propone e di quanti la recepiscono, si impone un necessario limite a tale convenzionalità affinchè le categorie in questione possano avere una sufficiente specificità in relazione ai fatti storici che si intendono classificare. Tale limite è posto dal corretto uso della comparazione medesima, in quanto radicata sul terreno storico della ricerca idiografica dei singoli contesti culturali e attenta a valutare la trama delicata delle differenze e delle qualificate analogie tra i fenomeni, ossia di quegli elementi che, mai perfettamente identici ma anche non disparati, li rendono comparabili e situabili in categorie classificatorie omogenee al loro interno, sì da permettere un’adeguata valorizzazione degli aspetti comuni dei fatti religiosi riconducibili ad esse. In realtà, molto spesso la comparazione storica, piuttosto che “contenuti” comuni, difficilmente presenti in contesti storici e culturali differenti, individua modalità analoghe di organizzazione di quella trama complessa di relazioni tra l’individuo e una comunità umana da una parte e dall’altra il livello delle potenze (non-umane e sovra-umane) in cui si identifica lo specifico dell’orizzonte religioso.11
Si tratta – come è evidente – di una definizione di tale “orizzonte” ampia e di un uso a carattere “operativo” e non postulatorio del termine “religione”, di chiara matrice latino/cristiana, in quanto applicabile a fenomeni storici diversi nel tempo e nello spazio ma pure comparabili in base a quelle ampie “analogie” sopra evocate. Inoltre, nell’usare i termini “specificità” e “specifico” in relazione al complesso di fenomeni definibili come “religiosi” non intendo adottare il modello, oggetto di critiche più o meno radicali in larga parte della contemporanea ricerca storico-religiosa, di una qualità sui generis di tali fenomeni che li renderebbe “incomparabili” rispetto ad altri aspetti della cultura umana o peggio li definirebbe previamente come carichi di valori e significati obiettivamente dati e trascendenti questa cultura. In altri termini, non ritengo accettabile nel corso della ricerca storica ogni definizione previa del “sacro” come referente distinto e distinguibile dalle concrete e innumerevoli espressioni – tutte culturalmente condizionate – di quella che ho definito come «trama complessa di relazioni tra l’individuo e una comunità umana e il livello delle potenze (non-umane e sovra-umane)», con la sua duplice e complementare dimensione di concezioni (a qualsiasi titolo elaborate), di prassi rituale e di istituzioni sociali. In pari tempo, mentre è proprio l’esercizio dell’indagine storica, nella sua peculiare fondazione idiografica e insieme comparativa, ad aver mostrato e a continuare a mostrare la presenza – nelle più diverse culture umane – di siffatta «trama di relazioni», non ritengo che tale indagine possegga gli strumenti epistemologici per affermare o negare l’esistenza obiettiva di tale «referente». Pertanto, ogni teoria interpretativa che muova dall’affermazione del «sacro» come un aldilà dato ovvero dalla sua negazione, spesso “spiegando” i fatti religiosi in relazione a parametri sociologici, psicologici o – come nella moderna “cognitive religion” – biologici, travalica immediatamente i confini di una sana ricerca storica per passare sul terreno – legittimo iuxta propria principia – del discorso filosofico o teologico. In entrambi i casi, e con le modalità e gli esiti più diversi, si perviene a forme di «riduzionismo», sia pure di segno opposto, di quella che sotto il profilo storico-culturale è una sfera di esperienza e di attività umana che, pur nella varietà delle sue modalità di espressione e di organizzazione, proprio attraverso l’indagine storica si conferma dotata di una sua omogeneità e specificità sui generis, nel senso di una propria “identità” che non significa separatezza ma al contrario implica più o meno profonde connessioni e interferenze con tutte le altre componenti di un orizzonte culturale.
In definitiva, senza poter entrare ora nel merito di una questione, peraltro essenziale e fondativa, della nostra disciplina, ossia quella della “definizione” della nozione stessa di religione, ritengo legittimo affermare che questa disciplina può conseguire lo statuto epistemologico di scienza solo se riesca a elaborare una corretta teoria interpretativa dei fenomeni che studia, iuxta propria principia, senza demandare questo compito al filosofo o al teologo ovvero al sociologo, all’antropologo, allo psicologo o allo studioso dei processi cognitivi, tutti naturalmente legittimati da parte loro e nel proprio ambito scientifico a formulare teorie più o meno fondate e accettabili.
2. La Scienza cognitiva della religione (CSR) e lo studio storico dei fenomeni religiosi: conflitto o composizione?12
In un intervento del 1992 sulla rivista Numen, Pascal Boyer – uno dei maggiori rappresentanti del nuovo indirizzo metodologico – segnalava che «contrariamente ad altri ambiti dello studio antropologico, teorie relative a credenza e attività religiosa non sono state molto influenzate dal notevole sviluppo della scienza cognitiva», pur notando l’esistenza di alcune eccezioni, fra cui il volume di E.T. Lawson e R. McCauley del 1990.13 Pertanto il suo intervento intendeva essere una presentazione di alcuni «elementi di un possibile approccio cognitivo alle rappresentazioni religiose», quale egli stesso afferma di volere configurare in forma più sistematica in un volume in preparazione, edito poi nel 1994.14 Da allora lo sviluppo della nuova disciplina ha avuto una notevole accelerazione,15 essendo essa stata accolta con entusiasmo, non privo talora di eccessi, soprattutto in ambiente inglese e statunitense, con importanti contributi da parte di studiosi del nord Europa, in particolare norvegesi e danesi. Un “Institute of Cognition and Culture” è attivo presso la Qeen’s University di Belfast e una rivista specializzata (Journal of Cognition and Culture) è edita da E.J. Brill, sotto la direzione di E. Th. Lawson e P. Boyer. In entrambi i casi è fatto spazio anche alle problematiche religiose, più direttamente coinvolte nel progetto su «Religion, Cognition and Culture» elaborato presso l’università di Aarhus (Danimarca) sotto la direzione di A.W. Geertz, di cui si segnala – tra i numerosi interventi sul tema – innanzitutto l’ampia panoramica dello stato della ricerca e degli obiettivi perseguiti nel campo della Cognitive Science of Religion (CSR) proposta nella relazione alla IX Conferenza della Società Europea per lo Studio delle Religioni (EASR), svoltasi presso l’Università degli Studi di Messina (14-17 settembre 2009) e pubblicata nella rivista «Historia Religionum».16
Una nuova serie editoriale, Cognitive Science of Religion Series, presso l’editore AltaMira Press Book conta ormai numerosi volumi. La bibliografia sul tema ha raggiunto pertanto proporzioni notevoli, come si può constatare anche dai numerosi interventi sulle principali riviste di studi storico-religiosi, e in particolare in «Method & Theory in the Study of Religion». Sarebbe impossibile in questa sede presentare un bilancio, per quanto sintetico, delle ricerche e analizzare in dettaglio tutte le implicazioni di una teoria variamente articolata presso i numerosi interpreti, alcuni dei quali, radicalizzando le sue premesse epistemologiche, pervengono a risultati francamente inaccettabili dal punto di vista storico.17 Può essere utile tuttavia muovere da un esame dei principali aspetti dell’impianto teorico delineato dal Boyer, per cogliere in nuce la formulazione di questa «nuova spiegazione» dei fenomeni religiosi. Un contributo più recente di Th. Vial18 che, pur dichiarandosi simpatizzante della teoria cognitiva, ne presenta con chiarezza ed equilibrio critico le premesse epistemologiche, gli snodi fondamentali, i punti di forza ma anche la fragilità di alcuni aspetti e insieme lo scarso approfondimento di importanti elementi e problemi, potrà servire da guida per illustrare questa teoria che, pur nella sua conclamata e per alcuni versi reale novità, non manca di ricalcare sentieri antichi e riproporre soluzioni già contestate.
P. Boyer definisce previamente l’approccio della scienza cognitiva a singoli fenomeni religiosi, che sarà quello sostanzialmente adottato dalla maggior parte degli aderenti al metodo della Cognitive Science.19 Dopo aver dichiarato che «this paper is therefore largely programmatic and partly speculative», lo studioso riconosce che la teoria proposta «is about religious ideas rather than “religions” in the broad sense. The aims is to describe that processes whereby subjects acquire, represent and transmit certain ideas and practices. The theory may not be sufficient to account for the social dynamics of religious movements or the historical development of religious doctrines. Such “macro-phenomena” of religious transmission are not directly within the scope of a cognitive theory».20
Non potrebbe essere più netta e programmatica la frattura tra teoria e storia, tra un ‘a-priori’ ideologico e la concreta realtà culturale e sociale, diversificata e continuamente ‘ri-creata’ nel flusso mobile dei processi storici di quelle che definiamo ‘religioni’, unico legittimo oggetto di una ricerca positiva intesa a ‘ricostruire’, nella misura possibile sulla base della documentazione, natura, origine e sviluppo di tali fenomeni. Essi di fatto – come afferma l’autore e come risulta evidente dalle molteplici formule interpretative proposte dagli altri studiosi del medesimo indirizzo interpretativo – sarebbero dei ‘macro-phenomena’ trascurabili e di fatto spesso trascurati dalla ‘cognitive theory’.
Ci si chiede allora quale possa essere – per la comprensione di questi fenomeni che, nella loro dimensione socio-culturale qualificano e determinano l’identità e il destino degli individui e dei popoli – l’utilità di una teoria costruita a-priori, sulla base di premesse scientifiche certamente assai importanti sotto il profilo della definizione dei meccanismi mentali dell’homo sapiens, quali sono indagati dalle scienze neurologiche, che fondano la conclusione dell’unità biologica dell’umanità ma non “spiegano” i processi diversi e creativi delle culture in genere e delle religioni in particolare.
Lo studioso, dopo aver discusso alcune forme di approccio dell’antropologia agli aspetti religiosi della cultura ritenute inadeguate, afferma la necessità di riconoscere «la diversità cognitiva dell’ambito religioso», ossia la circostanza che le rappresentazioni religiose rientrano in ambiti diversi e quindi possono avere «diverse proprietà cognitive». Senza voler entrare nel merito del dibattito sulla «categoria religione», egli accetta una definizione approssimativa riconoscendo che le «rappresentazioni culturali prese in considerazione riguardano entità extra-umane e processi non osservabili».21 Si tratta dunque di una definizione pratica e operativa che permette l’avvio del discorso e che comunque focalizza quella dimensione del dato religioso come riferimento ad un livello di agenti attivi e potenti, ma non visibili né tangibili, dalla consistenza culturalmente determinata, che può essere riconosciuta come peculiare di esso rispetto alle altre componenti di un quadro culturale.
A fronte dell’ammissione implicita da parte degli antropologi di una «unità cognitiva dell’ambito religioso», il Boyer afferma che le «rappresentazioni riguardanti le entità e i processi extraumani appartengono a differenti repertori, che hanno differenti proprietà funzionali».22 Egli distingue pertanto quattro fondamentali sfere concettuali all’interno delle quali ciascuna cultura si organizza, secondo modalità proprie: quella ontologica, definita come «il complesso di assunzioni che la gente possiede riguardo all’esistenza di entità non osservabili. Questo catalogo includerà idee riguardo all’esistenza, ad esempio, di un creatore impersonale distante in qualche parte nei cieli, spiriti delle acque presso stagni e fiumi, antenati invisibili che si annidano nelle tenebre della foresta, etc. Questo catalogo di idee è chiamato ontologico poiché consiste di assunti elementari riguardo a quali specie di cose ci sono nel mondo». Sembra dunque di poter individuare in questa formulazione non solo il riconoscimento della circostanza che il dato religioso implica l’ammissione di esistenza (a suo modo una «ontologia») di entità invisibili extraumane ma anche il postulato che tale ammissione è strutturalmente connessa ai vari elementi dello scenario cosmico e della sua «ontologia», esperibile con i normali strumenti cognitivi.
Il secondo «repertorio di idee» è definito «causale» in quanto implica l’ammissione di un rapporto di causa-effetto fra le entità del «repertorio ontologico» e gli eventi osservabili dall’uomo. Da ciò deriva, ad esempio, la nozione che eventi sfortunati, malattia etc. sono attribuiti alla disposizione negativa o ira di quelle entità, per non essere state opportunamente rispettate. Il «repertorio episodico consiste di descrizioni di un certo ordine di eventi-tipo, connessi con le idee contenute nei repertori ontologico e causale». Le attività rituali sono le più importanti forme di tale repertorio. Infine il «repertorio sociale» include le rappresentazioni relative alle prerogative e ai ruoli diversi degli individui all’interno della società, e quindi in particolare alle funzioni di sacerdoti, sciamani o altri specialisti religiosi.
È peraltro importante notare che lo studioso propone anche una concreta esemplificazione delle categorie enunciate, facendo riferimento alle concezioni religiose del popolo dei Fang del Camerun, oggetto delle sue ricerche. Egli conclude riconoscendo come la classificazione proposta sia di ordine analitico mentre nella concreta vita religiosa gli elementi dei vari «repertori» convergono in varia misura. Tale classificazione rimane peraltro ai suoi occhi fondamentale in quanto dimostra che «ciascuno di tali repertori è di fatto l’estensione alle materie religiose di strutture concettuali e assunzioni che possono essere trovate anche in altri ambiti, non religiosi».
Pur apprezzando le analisi dello studioso non si può fare a meno di riconoscere che esse sboccano nell’ammissione dell’esistenza di una struttura mentale cognitiva sostanzialmente unitaria nell’uomo come individuo e negli uomini di tutte le culture. Né sembra particolarmente innovativa la conclusione secondo cui «(i) some implicit assumptions and principles from non-religious knowledge are carried over in religious representation (ii) that these principles and assumptions play a crucial role in the acquisition and transmission of religious representations ».23
Ciò che è qui confermato è il sostanziale procedimento razionale-causale del processo cognitivo in genere e di quello relativo alla sfera religiosa in particolare. Se questa sottolineatura è importante perché ancora una volta smentisce il carattere irrazionale delle credenze religiose e le differenze di «mentalità» fra gli uomini di culture diverse, essa tuttavia fa emergere un dato peculiare dell’impostazione teorica di base, qualificante in tutte le sue formulazioni e nelle sue più recenti elaborazioni, ossia l’attenzione preminente, se non esclusiva, al dato razionale e quindi l’impostazione intellettualistica della problematica religiosa.
In polemica con il comune atteggiamento degli antropologi i quali – si nota – insistono sulla trasmissione culturale senza chiarirne le modalità, anzi presupponendo che essa sia sostanzialmente un processo passivo e semplice, il Boyer dichiara che «le proprietà universali delle menti umane sono in grado di imporre forti costrizioni cognitive (cognitive constraints) sull’ordine e l’organizzazione delle rappresentazioni culturali che possono essere trasmesse da generazione a generazione»,24 e tra esse in particolare quelle pertinenti alla sfera religiosa. Queste ultime, tuttavia, a fronte del generale meccanismo cognitivo fondato sulla percezione immediata delle facoltà intrinseche delle diverse componenti della realtà (uomini, animali, cose), contemplano un elemento cosiddetto contro-intuitivo. Dopo aver descritto il meccanismo cognitivo quale viene studiato nei bambini nel loro processo di apprendimento della realtà che li circonda, lo studioso conclude:
La mia ipotesi è che i principi della conoscenza intuitiva qui descritti impongono costrizioni sul contenuto e l’organizzazione delle idee religiose. Ovviamente, molte assunzioni religiose si focalizzano su oggetti che apparentemente violano le assunzioni di senso comune [ossia – come risulta evidente da tutto il discorso – presuppongono agenti non visibili, non tangibili, onniscienti, non legati alla dimensione spazio-temporale etc.]. Può essere dimostrato, tuttavia, che in ordine all’acquisizione di tali nozioni, i soggetti devono fondarsi, implicitamente, sui principi intuitivi descritti sopra. In questo contesto, un’idea religiosa sarà descritta come “cognitivamente ottimale (cognitively optimal)” se (i) contiene un’esplicita violazione del comune modo di pensare e (ii) se fa uso implicito dei principi intuitivi del comune modo di pensare. L’ipotesi è che le rappresentazioni religiose che sono cognitivamente ottimali saranno quelle più ricorrenti. Essendo più facile impararle e memorizzarle, esse avrebbero un maggiore “valore di sopravvivenza” in termini di trasmissione culturale rispetto ad altre idee.25
Sebbene tutto il ragionamento sia presentato come un’ipotesi di lavoro, esso di fatto costituisce la struttura di base dell’intera teoria interpretativa, quale sarà successivamente formalizzata dallo stesso studioso e, più ampiamente, nell’ambito della «Scienza cognitiva della religione». Essa sarà espressa nella formula delle idee religiose come «minimalmente contro-intuitive» (MIC=minimally counter intuitive) cioè tali da non infrangere in toto o sovvertire i principi della logica, ma pure contraddittorie rispetto al fondamento della conoscenza empirica. «Nell’ambito delle posizioni religiose – nota infatti Boyer – troviamo un complesso di idee che non hanno referente naturale, neppure sono l’oggetto di alcuna intuizione esplicita». Tuttavia la trasmissione di tali idee sarebbe facilitata dal fatto che esse, nonostante tutto, recano alcune caratteristiche fondamentali nel dominio naturale.
Rimane tuttavia irrisolto un problema di fondo: individuato un «doppio binario», intuitivo e contro-intuitivo che – in termini tradizionali non sarebbe improprio definire «razionale» e «irrazionale» – per quale ragione questa sorta di tertium genus che sarebbe il pensiero religioso marcerebbe senza difficoltà sul filo di entrambi, in un equilibrio perfetto, assumendo un valore «cognitivamente ottimale» ad una condizione però, ossia «se le rappresentazioni religiose combinano esplicite violazioni di alcuni principi intuitivi, e implicite conferme di altri principi intuitivi»?26 Ci si chiede infatti sulla base di quali criteri si possa misurare questo opportuno “dosaggio” che addirittura conferisce al pensiero religioso un “diritto di precedenza” nelle trasmissioni culturali e quali siano i principi intuitivi che si possono violare senza danno, ovvero senza fare precipitare il pensiero stesso nell’assurdo irricevibile. E per finire, quali criteri permettono di decidere la congruenza “logico-intuitiva” di un certo scenario religioso e la mancanza di essa in un altro? Quale posto occupa in questo quadro la componente cultuale, rituale?
L’analisi della teoria cognitiva della religione proposta da Th. Vial (2006) può essere un utile strumento per valutare, in maniera sintetica e con equilibrio critico, gli aspetti positivi e i limiti di tale teoria e in ogni caso per situarla correttamente in quella linea di “tradizione cumulativa” che, secondo la formula di E. Sharpe,27 assume la storia degli studi storico-religiosi dalle sue prime espressioni fino alle sue attuali, più scaltrite e programmaticamente “innovative” manifestazioni. Lo studioso si chiede se la Scienza cognitiva della religione sia in grado di proporre una «grande teoria alla Hume», ossia una spiegazione «comprensiva e coerente» di ciò che è la religione, come è stato fatto dal filosofo inglese David Hume (1711-1776), autore, con la dissertazione La storia naturale della religione» (1757) e i Dialoghi concernenti la religione naturale (1779),28 della «prima teoria completamente naturalistica della religione». Con questo riferimento, la nuova «Scienza» risulta collocata in una precisa posizione teoretica, in cui si situano autori come Durkheim e Freud, ossia appunto quella del paradigma naturalistico per la spiegazione dei fenomeni religiosi.
Il Vial definisce previamente i sette criteri che configurano una teoria interpretativa organica, ossia una definizione del suo oggetto, una epistemologia, un’antropologia, una descrizione delle occasioni o circostanze che danno origine alla religione e la descrizione del meccanismo che ha permesso questa origine. A quest’ultimo proposito si noti che già Hume indicava tale meccanismo nella tendenza “antropomorfizzante” tipica dell’uomo, propenso a ritenere simili a sé tutti gli esseri, tendenza che parimenti assume valore esplicativo nella teoria in esame, nella veste “moderna” dell’agente (agent, agency) extraumano dello scenario religioso (ma dotato di prerogative e funzioni di tipo umano, in particolare dell’attività volitiva). Si aggiungono infine, nell’elencazione dei criteri necessari proposta dal Vial, un’indicazione delle cause di tale origine (per Hume la difficoltà di scoprire le cause di eventi dannosi) e infine una strategia interpretativa.29
In prima istanza lo studioso individua il postulato fondamentale della teoria in esame: la cultura, e con essa la religione, secondo tale teoria sta nella mente umana. In tal senso si scopre un’ascendenza o almeno un’affinità kantiana: «La storia cognitiva è che la creazione, memoria e trasmissione delle idee e pratiche, incluse le idee e pratiche della religione, sono modellate dall’hardware cognitivo con cui la mente umana si è evoluta».30 Di fatto Religion in Mind è la definizione sintetica e “parlante” di una rassegna critica di vari studi sul tema proposta da J. Sørensen.31 Ne risulta che, invece di configurarsi come una stranezza, la religione «tende ad essere lo stato naturale degli uomini» sebbene, in questa condizione, si può consentire con il Vial quando obietta che bisogna spiegare il problema dell’ateismo dei tanti Hume, Freud e Durkheim della storia umana. Inoltre, debole appare la riflessione critica sulle diversità funzionali e direi “caratteriali” degli agenti MCI che configurano uno scenario religioso: se la religione è «credenza in esseri moderatamente contro-intuitivi», si può obiettare con Vial che non risulta sufficientemente analizzata e chiarita la diversità, spesso assai notevole, fra questi agenti, le rispettive prerogative e le modalità di intervento nella vita umana e cosmica. In altri termini se “lo scheletro” dell’organismo “religione” è strutturato secondo schemi solidi (in base alle premesse ideologiche date), non altrettanto si può dire dei nervi, carne e sangue di cui quell’organismo si compone e che gli permettono di funzionare e di avere senso nei rispettivi contesti culturali.
Infine, e questo appare un punto nodale di tutto il quadro, notiamo che l’antropologia sottesa alla teoria cognitiva risulta mutila, tutta concentrata com’è sull’aspetto logico, sulle strutture mentali, trascurando invece tutte le componenti emozionali e sentimentali del comportamento umano e quindi anche della sfera religiosa. Questa “lacuna” appare colmata da studi recenti intesi a esplorare il terreno della prassi rituale, nell’ambito della quale – con modalità e strumenti diversi – trovano espressione quelle componenti.32
Il Vial conclude la sua ampia analisi in questi termini: «Io non penso che le persone in esame (ossia gli studiosi aderenti alla corrente della Scienza cognitiva della religione) difenderebbero un modello cartesiano dell’attività umana, ma esattamente questo modello soggiace a gran parte del loro lavoro». Ma, aggiungiamo, il motto tipico del filosofo, cogito ergo sum, non può certo definire in toto l’identità dell’uomo nella complessità della sua dimensione naturale e culturale, e tantomeno nel suo operare in quella sfera densa e mobile che definiamo religiosa.
Nelle parole di uno dei suoi più qualificati rappresentanti, Jesper Sørensen, la Cognitive Science is «a genuinely new and very promising approach to explaining religious phenomena».33 Si propone pertanto quello che è l’assunto fondamentale del nuovo approccio metodologico che peraltro, sebbene su basi peculiari, biologico-naturalistiche, ricalca strade antiche nella ricerca di una “spiegazione” onnicomprensiva ed esclusiva dei fenomeni religiosi.34 Si tratta infatti di una «explanatory theory» ritenuta indispensabile «to understand religion». La ricerca storico-idiografica è pertanto ritenuta soltanto «a laudable endeavour», utile ma non sufficiente, poiché «we need to adress the universal questions raised above35 and this cannot be done by means of localised interpretations».36 Lo studioso elabora questo assunto attraverso un’ampia rassegna critica di alcuni dei principali contributi alla Cognitive Science of Religion e in particolare mostra di apprezzare quello di Pascal Boyer – come si è detto – uno dei primi e più ragguardevoli esponenti del nuovo indirizzo teorico.
Un utile correttivo della dichiarata e quasi programmatica assenza della componente storica nel quadro epistemologico proprio della Cognitive Science of Religion, è offerto dalla presa di posizione di Armin W. Geertz, autore del progetto su «Religion, Cognition and Culture» elaborato presso l’università di Aarhus (Danimarca), nell’ampia panoramica dello stato della ricerca e degli obiettivi perseguiti dalla Cognitive Science of Religion (CSR) proposta – come già segnalato – nella relazione alla IXth Conference of the European Association for the Study of Religion (EASR), svoltasi presso l’Università degli Studi di Messina (14-17 settembre 2009) e ora pubblicata nella rivista «Historia Religionum».37
Dopo aver ribadito che «in the cognitive science, there is is little interest in religion» e affermato «human cognition is embodied, embrained and encultured» conclude tuttavia riaffermando l’utilità di tale approccio: «Just because the standard cognitive science is too mentalistic, computational, scientistic, ahistorical and culture-blind does not mean that we should give it up».38 Richiamandosi all’affermazione di Clifford Geertz secondo cui «culture is indispensable to the construction of mind»,39 lo studioso riconosce ancora una volta che la cultura è «a powerful factor» nel determinare il funzionamento della mente umana e auspica una conciliazione e integrazione della prospettiva intellettualistica della Cognitive Science of Religion e del «general and comparative study of religion», attribuendo peraltro a quest’ultimo una sorta di “sudditanza” e di incompletezza quando non accettasse l’integrazione con il metodo cognitivo.40
Lo stesso studioso, peraltro, modifica questa prospettiva quando riconosce «that only a few theories seems to be useful to historical studies»,41 confermando implicitamente il carattere postulatorio e preconcetto della maggior parte delle teorie cognitiviste, la cui validità può essere falsificata proprio dal confronto con quei fenomeni che intendono “spiegare”.
Importanti riflessioni sui problemi inerenti al metodo delle scienze cognitive in quanto applicato ai fenomeni religiosi e ai rischi che molto spesso questa operazione epistemologica comporta, sono state proposte da A.W. Geertz in un recente intervento, in cui prende posizione contro le dure critiche mosse a lui stesso e alla CSR da parte di I. Strenski.42 Questo studioso, infatti, nel rispondere alle riserve avanzate da A. Testa che, in una dettagliata discussione critica dell’opera Understanding Theories of Religion gli rimproverava di non aver dato alcuno spazio alle numerose ricerche ispirate dai principi delle scienze cognitive,43 aveva espresso un giudizio assai duro su queste ricerche, giudicandole inadeguate allo studio dei fenomeni religiosi e in particolare aveva chiamato in causa proprio A.W. Geertz come esponente autorevole di questo indirizzo esegetico.44
La risposta dello studioso danese è ferma ma molto articolata, accompagnando ad una ricca documentazione valutata con spirito critico una netta enunciazione della propria posizione che, nel corso dei suoi studi, ha coniugato all’adesione anche una forte e motivata manifestazione di dissenso su alcune posizioni della CSR. Egli infatti dichiara, fondando ciascuna affermazione sui numerosi suoi interventi sul problema:45
“I have been one of CSR’s critics. I am fairly sure that if Strenski had read some of my work, he would have been surprised to learn how much we agree on a few matters. I have consistently criticized CSR proponents for their extreme focus on mental representations, their disinterest in historical, social and cultural causal-factors and contexts, their definitions of religion, their questionable reliance on the evolutionary psychology of Tooby and Cosmides, and their misplaced triumphalism”.46
A conclusione delle articolate ed equilibrate argomentazioni, A.W. Geertz propone una sorta di “composizione”, ritenuta auspicabile e possibile, tra la metodologia storica e quella della CSR ai fini dello studio e di una più corretta comprensione dei fenomeni religiosi, appellando anche a quanto dichiarato in occasione del Congresso di Messina:
“We need to develop constructive criticism of results from the cognitive science of religion. We must test their theories, but we must also test our own theories. The study of religion must develop a true comparativism and re-invente a true humanism by bulding bridges between disciplines. If the academic study of religion won’t do these things, others, who are less competent in comparative religion will”.47
Dopo aver ricordato l’auspicio espresso da Bulbulia a proposito delle arti48 e aver ribadito, con D. Xygalatas, che la metodologia della CSR non intende rimpiazzare altri approcci allo studio dei fenomeni religiosi,49 lo studioso conclude con un’affermazione di E. Thomas Lawson, secondo cui «When the sciences and the humanities cooperate rather than skirmish, our Knowledge of human beavior is enriched rather then impoverished. And the world iust might be a better place for us all».50
Senza poter allargare la discussione ad un più ampio ventaglio di posizioni critiche,51 aggiungerò soltanto un breve riferimento al recente volume di Jepper Sinding Jensen che si propone come una risposta offerta a un lettore curioso di conoscere “che cosa è la religione ?”, fornendogli una “introduzione” allo studio accademico della religione e alle diverse soluzioni proposte al problema.52 Lo studioso, nel confermare la propria appartenenza all’ambito teorico e metodologico della CSR, tuttavia ritiene necessaria la formulazione di una «fenomenologia tipologica o classificatoria della religione» come componente importante di quello che definisce «lo studio comparativo e generale della religione». Nella nota introduttiva all’edizione italiana, J.S.Jensen illustra le direttrici del proprio progetto di “conciliazione” tra l’apporto delle scienze cognitive e la prospettiva inevitabilmente comparativa di uno studio scientifico dei fenomeni religiosi nella loro dimensione storica. A suo parere, infatti, il volume intende dimostrare «come un numero aperto di metodi, teorie, problemi e argomenti siano coinvolti nello studio comparativo e generale della “religione”. In ogni caso, il primo requisito è costituito dal fatto che possediamo ora un certo numero di strumenti concettuali che è possibile applicare a tutte le tradizioni religiose, passate presenti, È qui che entra in gioco la fenomenologia tipologica o classificatoria della religione».53
3. Note conclusive
Senza presumere di offrire una sintesi delle diverse posizioni in gioco, dirò che in questa fase della “situazione dell’arte” si può legittimamente affermare che uno studio “generale e comparativo” delle religioni quale è realizzato nell’ambito di una disciplina che si denomina “Storia delle religioni” (History of Religions), mantiene tutta la sua validità e autonomia scientifica, anche se deve aprirsi al confronto con altre discipline e utilizzarne i risultati che contribuiscano alla corretta ricerca e interpretazione del suo oggetto. In questa prospettiva la posizione teorica tenacemente sostenuta da Ugo Bianchi, nella sua personale e originale rivisitazione dell’insegnamento di Raffaele Pettazzoni con il rifiuto del postulato storicista ritenuto anch’esso di tipo “riduzionista”, mantiene ancora intera la sua validità.
Come è noto, U. Bianchi ha ribadito la propria posizione, con tenacia e piena consapevolezza, nel confronto con diverse e talora contrapposte opzioni metodologiche e teoriche fino alla conclusione della sua carriera scientifica e umana. Esposta in perspicua sintesi nel contributo alla Encyclopedia of Religion edita da Mircea Eliade, sotto la rubrica “History of Religions”54 , essa ha ispirato quella che doveva essere la sua ultima grande iniziativa scientifica che, in qualità di vice-Presidente della IAHR, lo ha indotto a convocare nel 1990 nell’Università “La Sapienza” di Roma, in occasione del XVI Congresso dell’associazione che vedrà la sua elezione a Presidente, il consesso internazionale degli studiosi della disciplina, per dibattere – nel confronto dei metodi e delle teorie interpretative – sul nodo centrale di essa, ossia “The Notion of ‘Religion’ in Comparative Research”.55
Pur naturalmente aperta a discussioni critiche e anche riserve sempre utili per il progresso della ricerca,56 tale posizione costituisce un necessario e forte richiamo alle esigenze di un metodo storico-comparativo, induttivo dunque e aperto al confronto di diversi contesti, indispensabile per una corretta indagine sui fenomeni religiosi, attenta alla forte densità storica e alla specifica identità di ciascuno di essi, nei rispettivi scenari culturali.
2 La formulazione del tema in discussione, proposta dagli organizzatori dell’Incontro, è infatti la seguente:
a) Quale è l’approccio epistemologico negli studi storico-religiosi?
b) Che valenze ha il metodo storico-comparativo rispetto allo storicismo, alle nuove metodologie (si considerino gli apporti delle “neuroscienze”) e agli orientamenti della ricerca “antropologica”?
c) Il punto di vista storico ha un rilievo determinante per la comprensione del “religioso”?
3 Cfr. G. Sfameni Gasparro, Advantage and Risks of Typology of Religions: the Case of «Monotheism» «Historia Religionum» 1 (2009) 51-68 (in particolare 51-55).
4 J.S. Jensen, Universals, General Terms and the Comparative Study of Religion «Numen» 48 (2001) 238-266 (in particolare 248-250).
5 Cfr. Ph. Borgeaud, Aux origines de l’Histoire des religions, Paris 2004.
6 Per una sintetica panoramica degli studi più recenti sul metodo comparativo, oltre R.A. Segal, In Defence of the Comparative Method «Numen» 48 (2001) 339-373, segnalo soltanto F. Boespflug – F. Dunand (eds.), Le comparatisme en histoire des religions. Actes du Colloque international de Strasbourg (18-20 septembre 1996), Paris 1997; Ph. Borgeaud, Una disciplina da costruire: la storia (comparata) delle religioni antiche «Storiografia,» 6 (2002) 3-12; Idem, L’histoire (comparée) des Religions: une discipline au futur, in G. Sfameni Gasparro (ed.), Themes and Problems of the History of Religions in Contemporary Europe, Proceedings of the International Seminar Messina, 30-31 March 2001, Cosenza 2002 («Hierà. Collana di studi storico-religiosi», 6), 67-77; J. Carter, Comparison in the History of Religions: Reflections and Critiques, «Method and Theory in the Study of Religion» 16 (2004) 3-11; L.H. Martin, «Desenchanting» the Comparative Study of Religion, «Method and Theory in the Study of Religion» 16 (2004) 36-44; W. Paden, Comparative Religion, in R. Hinnells (ed.), The Routledge Companion to the Study of Religion, London-New York 2005, 208–225; M. Burger – C. Calame (eds.), Comparer les comparatismes. Perspectives sur l’histoire et les sciences des religions, Paris-Milan 2006; M. Stausberg, Comparison, in M. Stausberg-St. Engler (eds.), The Routledge Handbook of Reasearch Methods in the Study of Religion, London-New York 2011, 21-39; O. Freiberger, Elements of Comparative Methodology in the Study of Religion, «Religions» 9,38 (2018) 1-14. Utili le monografie di H.G. Kippenberg, Die Entdeckung der Religionsgeschichte. Religionswissenschaft und Moderne, München 1997 (trad.it. La scoperta della Storia delle religioni. Scienza delle religioni e modernità, Brescia 2002), e di G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi metodi problemi, Torino 2004. Tra gli ultimi interventi si veda ancora la raccolta di saggi edita da C. Calame – B. Lincoln (eds.), Comparer en histoire des religions antiques. Controverses et propositions, Liège 2012, con l’utile discussione critica di A. Testa in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 80/1 (2014) 426-434 e R. Gagné – S. Goldhill – G.E.R. Lloyd (eds.), Regimes of Comparatism: Frameworks of Comparison in History, Religion and Anthropology, Leiden-Boston 2019. Dopo questa rapida e necessariamente selettiva rassegna è d’obbligo, anche se sgradevole, sottolineare il silenzio pressoché totale sugli studi di autori italiani di impostazione storico-comparativa. Salvo qualche sporadica menzione di R. Pettazzoni, il nome di U. Bianchi è di regola ignorato. Sembra vigere la regola italicus est non legitur sebbene sia superfluo ricordare che larga parte degli interventi di U. Bianchi sul tema sono stati formulati nel privilegiato idioma inglese.
7 P. Antes, A.W. Geertz – M. Rothstein (eds.), Contemporary Views on Comparative Religion in Celebration of Tim Jensen’s 65th Birthday, Sheffield- Bristol 2016.
8 In proposito rimando alla successiva breve discussione del contributo di A.W. Geertz a quel volume (ved. oltre).
9 Jensen, Universals, 249-250.
10 Tra i numerosi interventi sul tema dello studioso, mi limito a segnalare la monografia del 1970 (La storia delle religioni, in G. Castellani (a cura di), Storia delle religioni fondata da Pietro Tacchi Venturi, Torino, 1970, vol. 1, 1-168) edita in traduzione inglese (The History of Religions, Leiden 1975), e la relazione alla Conferenza della IAHR a Turku del 1979 (The History of Religions and the «Religio-anthropological Approach», in L. Honko, ed., Science of Religion. Studies in Methodology, Proceedings of the Study Conference of the International Association for the History of Religions, held in Turku, August 27-31, 1973, (Religion and Reason 13), The Hague-Paris-New York 1979, 299-321). Ampia esemplificazione di questi postulati metodologici nei Saggi di metodologia della Storia delle religioni, Roma 1979 («Nuovi Saggi», 75). Per una discussione più ampia della posizione metodologica di U. Bianchi, costantemente ancorata a specifici oggetti storici, mi permetto di rimandare ad alcuni miei interventi: G. Sfameni Gasparro, An introduction: Ugo Bianchi and the History of Religions. Some preliminary remarks on a method of religious-historical research, in Eadem (ed.), Themes and Problems of the History of Religions in Contemporary Europe, 19-30; Ugo Bianchi e il mondo cristiano, gnostico e manicheo: scelta di temi e impianto metodologico della ricerca storico-religiosa, in G. Casadio (a cura di), Ugo Bianchi. Una vita per la Storia delle Religioni, Roma 2002, 233-257; Ugo Bianchi e “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni » 72, n.s. 30,1 (2006) 73-84; Temi e problemi del cristianesimo antico in prospettiva storico- religiosa: Ugo Bianchi e il metodo comparativo, Giornata di studio: Omaggio a U. Bianchi e J.P. Culianu. Una stagione “milanese” di Storia delle religioni, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, «Annali di Scienze Religiose» 6 (2013) 19-43; Lo gnosticismo nella prospettiva di Ugo Bianchi: tra storia e tipologia. Una proposta interpretativa alla luce dell’attuale stato della ricerca, «Annali di Scienze Religiose» ٩ (٢٠١٦) ٣٣-٨٤; A Method Without Explanatory Theory: Ugo’s Bianchi Historico-Comparative Methodology after Thirty Years, in P. Antes – A.W. Geertz – M. Rothstein (eds.), Contemporary Views, 73-86; Ugo Bianchi e la storia delle religioni: l’eredità di un Maestro, in M. Geraci – A. Ndreca (a cura di), Insigni Maestri. Tra storia, etnologia e religione, Atti della Giornata di studio in onore di Bernardo Bernardi, Ugo Bianchi, Teobaldo Filesi, Vinigi L. Grottanelli, Italo Signorini, Città del Vaticano 19 aprile 2018, Città del Vaticano 2020, 31-58.
11 La “definizione” della nozione di “religione” è oggetto di un dibattito antico e ancora aperto. Mi limito a ricordare i risultati del XVI Congresso internazionale della IAHR svoltosi a Roma nel 1990, i cui Atti, pubblicati a cura di U. Bianchi che ne ha organizzato i lavori (U. Bianchi, ed., The Notion of «Religion» in Comparative Research. Selected Proceedings of the XVI IAHR Congress, Roma 1994), tuttavia risultano scarsamente citati nella storiografia contemporanea, che pure -con ampio rilievo proprio nell’ambito delle scienze cognitive- continua a discutere sul tema. Apprezzamento dei risultati del Congresso sono espressi da Ph. Borgeaud (recensione degli Atti in «Revue de l’Histoire des Religions» 213,2, 1996, 213-215). Osservazioni critiche in R.T. McCutcheon, The Category “Religion” in Recent Publications: a Critical Survey, «Numen» 22 (1995) 284-309, in particolare 295-306.
Opportune argomentazioni sulla legittimità storica dell’uso -in prospettiva comparativa- del termine e della nozione di “religione” in G. Casadio, Historicizing and Translating Religion, in M. Stausberg, St. Engler (eds.), The Oxford Handbook of The Study of Religion, Oxford 2016, 33-50. Una perspicua enunciazione delle Conceptions of Religion in the Cognitive Science of Religion è offerta da A.W. Geertz nel suo contributo al volume in onore di Tim Jensen (Contemporary Views, 127-139). Si veda anche la panoramica generale proposta nel contributo di M. Stausberg, M.Q. Gardiner, Religion. Definition, in M. Stausberg-St. Engler (eds.), The Oxford Handbook of The Study of Religions, 9-32.
12 Riprendo in questa sede, con ulteriori osservazioni e nuova documentazione, le argomentazioni svolte nel mio volume Introduzione alla storia delle religioni, Bari 2011, con successive ristampe (2020), la cui finalità – preminentemente didattica – peraltro, ha inteso coniugarsi con una valutazione critica dei principali nodi tematici della disciplina.
13 E.Th. Lawson – R.N. McCauley, Rethinking Religion: Connecting Cognition and Culture, Cambridge 1990. Si veda anche E.Th. Lawson – R.N. McCauley, Crisis of Conscience, Riddle of Identity. Making Space for a Cognitive Approach to Religious Phenomena, «Journal of American Academy of Religion» 61 (1993) 201-223.
14 P. Boyer, Explaining Religious Ideas: Elements of a Cognitive Approach, «Numen» 39,1 (1992) 27-57; id., The Naturalness of Religious Ideas. A Cognitive Theory of Religion, Berkeley & Los Angeles & London 1994.
15 Senza presumere di offrire una dettagliata esemplificazione della relativa letteratura, mi limito ora a segnalare la monografia di I. Pyysiäinen, How Religion Works. Toward a New Cognitive Science of Religion, Leiden-Boston 2003, il cui titolo connota efficacemente l’obiettivo della nuova disciplina. Si vedano il contributo di aggiornamento dello stesso studioso (Cognitive Science of Religion: State-of-the-Art1, «Journal for the Cognitive Science of Religion», 1.1 (2012) 5-28) e i saggi in l. Pyysiäinen – V. Anttonen (eds.), Current Approaches in the Cognitive Science of Religion, London – New York 2002 e A.W. Geertz – J.S. Jensen (eds.), Religious Narrative, Cognition and Culture: Image and Word in the Mind of Narrative, Sheffield and Oakville 2011.
16 A.W. Geertz, Too much Mind and not enough Brain, Body and Culture. On what needs to be done in the Cognitive Science of Religion, «Historia Religionum» 2 (2010) 21-37.
17 Per un’esemplificazione di un ventaglio di posizioni teoriche e metodologiche, con prevalente attenzione all’apporto delle scienze cognitive allo studio dei fenomeni religiosi, si vedano gli atti del XVII Congresso della IAHR: A.W. Geertz – R.T. McCutcheon (eds.), Perspectives on Method and Theory in the Study of Religion, Adjunct Proceedings of the XVIIth Congress of the International Association for the History of Religions, Mexico City, 1995, Leiden-Boston-Köln 2000. Un’ampia panoramica e discussione delle principali opere ispirate dalle teorie cognitiviste nei saggi di A.N. Terrin, Introduzione alle Scienze cognitive della religione, Brescia 2019.
18 Th. Vial, How does the Cognitive Science of Religion stack up as a Big Theory, à la Hume?, «Method and Theory in the Study of Religion» 18 (2006) 351-371.
19 Tra i primi interventi sul tema -che attualmente è oggetto di rinnovato interesse- si segnalano quelli di L.N. Martin, History, Cognitive Science, and the problematic study of folk religions: The case of the Eleusinian Mysteries of Demeter, «Temenos» 39-40 (2003-2004) 81-99 e di P. Pachis. Imagistic modes of religiosity and the study of the cults of Graeco-Roman world, in L.N. Martin – P. Pachis (eds.), Imagistic Traditions in the Graeco-Roman World: A Cognitive Modeling of History of Religious Research, Acts of the Panel held during the XIX Congress of the International Association of History of Religions (IAHR), Tokyo, Japan, March 2005, Thessaloniki 2009, 15-34, intesi a verificare nell’analisi di specifici contesti storici i principi teorici della Cognitive Science. Con le parole di Armin Geertz (2010, 36) si può dunque affermare che «there are several scholars now working on historical topics… but this is still uncharted territory». Aggiungo che, purtroppo, alcuni di questi interventi su specifiche tematiche, nell’interesse predominante per i principi teorici della CSR e il proposito di “adattare” ad essi il tema storico in oggetto, trascurano in maniera più o meno rilevante, proprio la dimensione storica. Valga per tutti segnalare – a titolo di esempio – il contributo di O. Panagiotidou, che vanifica l’oggetto che intende esaminare (il culto del dio medico Asclepio, uno dei culti più diffusi e popolari del mondo mediterraneo, dall’età classica al periodo tardo-antico), posto in una sorta di vacuum storico-culturale (The Asklepios Cult: Where Brains, Minds, and Bodies Interact with the World, Creating New Realities, «Journal of Cognitive Historiography» 1.1 (2014) 14-23).
20 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 28.
21 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 34.
22 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 35.
23 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 40.
24 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 41.
25 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 45.
26 P. Boyer, Explaining Religious Ideas, 52.
27 E.J. Sharpe, Typology of Religion and the Phenomenological Method, in Honko (ed.), Science of Religion. Studies in Methodology, 204-212. Si veda, dello studioso, la monografia Comparative Religion. A History, London 1975, 19862.
28 D. Hume, Storia naturale della religione, traduzione di U. Forti, Roma-Bari 1994, 20074; Id., La religione naturale, traduzione di A. Graziano, Roma 2006.
29 Th. Vial, How does the Cognitive Science of Religion stack up, 352-353.
30 Th. Vial, How does the Cognitive Science of Religion stack up, 354.
31 J. Sørensen, Religion in Mind: A Review Article of the Cognitive Science of Religion, «Numen» 52 (2005) 465-494.
32 R.T. McCauley – E. Th. Lawson, Bring Ritual to Mind: Psychological Foundations of Cultural Forms, Cambridge 2002, con le osservazioni critiche di S. Engler in «Numen» 51 (2004) 354-358. Si veda anche E.Th. Lawson – R.N. McCauley, The Cognitive Representation of Religious Ritual Form: A Theory of Participant’s Competence with Religious Ritual Systems, in Pyysiäinen, Anttonen, (eds.), Current Approaches, 154-177. Per un sintetico approccio al tema cfr. E. Th. Lawson, Cognition, in J. Kreinath – J. Snoek – M. Stauberg, Theorising Rituals. Classical Topics, Theoretical Approaches Analitical Concepts, Leiden – Boston 2008, 307-319. In questo volume un’aggiornata discussione sui vari aspetti del problema.
33 J. Sørensen, Religion in Mind, 465.
34 Si conferma in tal modo la nozione della ricerca storico-religiosa come una «cumulative tradition», elaborata da E. Sharpe, Typology of Religion.
35 J. Sørensen, Religion in Mind, 467. Lo studioso si riferisce alle «questions of (a) the universality of religion and (b) recurrence of religious phenomena».
36 Ibidem, 467.
37 A.W. Geertz, Too much Mind, 21-37.
38 A.W. Geertz, Too much Mind, 23-25.
39 C. Geertz, The impact of the concept of culture on the concept of man, rist. in Id., The Interpretation of Cultures: Selected Essays, New York. 1973, 49, citato da A.W. Geertz, Too much Mind, 28.
40 A.W. Geertz, Too much Mind., 25: «I am afraid that without the cognitive science of religion as a legitimate and important part of the general and comparative study of religion, then the comparative study of religion will remain a half science».
41 A.W. Geertz, Too much Mind, 36.
42 A.W. Geertz, How Did Ignorance Become Fact in American Religious Studies? A Reluctant Reply to Ivan Strenski, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 86/1 (2020) 365- 403.
43 A. Testa, Religion: evolutionism, modernism, postmodernism; what comes next? A review essay of Ivan Strenski’s Understanding Theories of Religion: An Introduction, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 85 (1/2019) 342-364.
44 I. Strenski, Much Ado about Quite a Lot. A Response to Alessandro Testa’s Review of Strenski, Understanding Theories of Religion, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 85,12 (2019) 365-388.
45 Alcuni di questi contributi sono disponibili anche in traduzione italiana nel volume A.W. Geertz, Saggi su approcci cognitivi ed evoluzionistici alla religione. Traduzione di G.P. Viscardi, Bologna 2020.
46 A.W. Geertz, How Did Ignorance Become Fact, 366-367.
47 A.W. Geertz, To much Mind, 36-37.
48 J. Bulbulia, The arts transform the cognitive science of religion, «Journal for the Cognitive Science of Religion» 1, 2 (2014) 141-160, ivi citato.
49 D. Xydalatas, The biosocial basis of collective effervescence: An experimental anthropological study of fire-walking ritual, «Fieldwork in Religion » 9,1 (2014) 53-67, in particolare 64-65, ivi citato.
50 E.T. Lawson, Foreword, in S.Y. Diallo et alii, Human simulation: Pespectives, Insights, and Applications, Cham, 2019, VII-VIII ivi citato. In direzione di una convergenza, per quanto parziale e condizionata dal preminente ruolo riconosciuto alla CSR, fra i diversi indirizzi metodologici muove lo studioso anche nel contributo sul tema del pellegrinaggio e dei luoghi sacri: A.W. Geertz, Religious Bodies, Minds, and Places. A Cognitive Science of Religion Perspective, in L. Carnevale (a cura di), Spazi e luoghi sacri, Espressioni ed esperienze di vissuto religioso, (Biblioteca Tardoantica 11), Bari 2017, 35-52.
51 Importanti aggiornamenti e messe a punto sul metodo della CSR nel volume in onore di A.W. Gertz: A. Klostergaard Petersen – I. S. Gilhus – L.H. Martin – J. S. Jensen – J. Sørensen (eds.), Evolution, Cognition, and the History of Religions: A New Syntesis. Festschrift in Honour of Armin W. Geertz, Leiden-Boston 2019, la cui Prefazione si propone come A Call for a New Synthesis.
52 J.S. Jensen, What is Religion?, Durham 2014; 2a ed., New York 2020; traduzione italiana, Roma 2018, da cui cito.
53 J.S. Jensen, What is Religion?, 20.
54 U. Bianchi, History of Religions, in M. Eliade (ed.), The Encyclopedia of Religion, vol. VI, 399-408, New-York 1987.
55 U. Bianchi, The Notion of Religion, XIX-XXI; 919-921.
56 Severe, anche se talora fondate su una scarsa comprensione delle argomentazioni di Bianchi, le critiche di A.W. Geertz, Theory, Definition, and Typology. Reflections on Generalities und unrepresentative Realism, «Temenos» 33 (1997) 29-47 e di A.N. Terrin, La fenomenologia “criptica” della religione in Ugo Bianchi? Interpretazione critica del metodo di studio del maestro romano, in Casadio (a cura di), Ugo Bianchi, 353-391.