Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna
Ecologia integrale della relazione uomo-donna. L’incapacità relazionale
Milena Provenzi
Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze ASST di Monza- UO Psichiatria Direzione Universitaria
La dualità è una costante nell’uomo, basti pensare al concepimento, atto dove due energie differenti ma complementari, quali quella della donna e quella dell’uomo, si incontrano e compenetrano dando vita ad una creatura che come continuum avrà in sé i due principi del maschile e del femminile.
Sebbene ognuno sviluppi maggiormente una delle due parti, siamo esseri completi nella misura in cui riusciamo a farle cresce entrambe; nella filosofia orientale, il lato destro corrisponde al maschile e il sinistro corrisponde al femminile, ossia la parte che ci offre protezione, che ci aiuta a manifestare i nostri bisogni, e quella che ci fa riconoscere e accettare le nostre esigenze, che fa in modo che ci prendiamo cura di noi. Quindi, la vita umana nasce e si sviluppa in un tessuto relazionale, in cui si intrecciano le varie parti di noi, dell’altro e dell’ambiente.
Stiamo però assistendo ad una progressiva riduzione delle diversità, in particolare in ambito sessuale, come ampiamente spiegato nell’intervento di Malo; le relazioni, dunque, divengono sempre più difficili o persino impossibili. Questo innegabile cambiamento è letto da Bauman come il tentativo dell’uomo di adattarsi alla ’modernità liquida’, ove anche le relazioni si devono adattare ai bisogni immediati e mutevoli dell’uomo postmoderno, dotato di ’identità liquida’. Infatti, possiamo servirci di un termine tecnologico come connessione per caratterizzare le ’relazioni liquide’: vincoli scarsamente duraturi, fragili e che rispondono alle regole del profitto.1 Non c’è tempo e non esiste luogo ove andare oltre alla mera interazione, che non assurge, come esposto da Iafrate, alla stabilità e alla costruzione di un legame relazionale.
Il feto, attraverso suoni, movimenti e sostanze, può ricevere le espressioni d’amore e protezione della madre; attraverso tali canali vengono veicolate anche le interazioni con il modo sociale, che iniziano quindi già dalla vita intrauterina. La madre sovraintende all’ambiente del nascituro, portandogli il mondo e portandolo al mondo attraverso la sua mediazione, cercando di farlo sentire in armonia con la natura che lo circonda.
D’altra parte negli organismi biologici, quanto più a lungo procede il processo di maturazione, tanto maggiore sarà l’influenza dell’ambiente sull’organismo stesso. Gli esseri umani sono quelli che in natura godono del periodo di maturazione più lungo; processo che inizia all’interno della famiglia, che per tornare al paradigma cosmologico è rappresentabile, secondo Adler, sotto forma di costellazione. Egli infatti descrive la famiglia come il primo nucleo sociale: una costellazione in cui il padre e la madre rappresentano il sole e la luna, mentre i figli sarebbero tante stelle, che ruotano intorno; ciascun figlio peraltro sarebbe influenzato dall’ambiente familiare a seconda della posizione occupata nella costellazione.
Al di là della storia, la famiglia ha funzionato da argine atto a convogliare i desideri embrionali delle giovani generazioni in un alveo socialmente accettabile, compatibile con le leggi vigenti. Oggi però il consumismo è la legge in vigore. Quindi, da subito si apprende che il bene materiale è un surrogato dei sentimenti (autostima, sicurezza, amore); da qui è breve il passo che riduce il sesso a merce di scambio disponibile sul mercato. Sesso non già relazioni, essendo il primo suscettibile delle regole del commercio e permettendoci di evitare la complessità dei rapporti tra esseri umani, paurosamente imprevedibili nella loro vitalità.
Il feticismo si è gradualmente infiltrato nei sentimenti e nell’esistenza umana là dove il bene materiale viene sostituito alla reciprocità delle relazioni, in termini di gratuità e spontaneità dell’amore e dell’accettazione. Nel quotidiano ci troviamo a decidere se indirizzare il nostro amore alle cose o alle persone, essendo diventato questo un dilemma di questa forma di società mercificata ritenuta società moderna.2
L’abolizione e la de-umanizzazione del desiderio, vissuto come non governabile e pericoloso, attiene al concetto di perversione. Il termine di fétichisme fu utilizzato per la prima volta dal filosofo e linguista francese Charles de Brosses nel 1760 e secondo gli analisti francesi deriverebbe da fetice, ovvero “fittizio, artificiale”. Generalmente si fa invece riferimento al termine portoghese feitiço,3 “artificiale”, a sua volta derivato del latino facticius, “fabbricato, costruito”, e dunque anche “falso, finto”. Il termine4 sarebbe stato coniato per indicare «la venerazione o l’apprezzamento incondizionato di oggetti apparentemente inutili, che gli esploratori portoghesi avevano rinvenuto in varie religioni africane». Definizione che ci rimanda al 1847 ovvero al “feticismo delle merci” di Marx.5 «Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso instupidire la vita umana, riducendola ad una forza materiale».6
Prima ancora di raggiungere gli oggetti che vorremo acquistare, grazie allo sfruttamento del rapporto tra bene superfluo e artificiosità del desiderio, le moderne tecniche di vendita ci inducono a comprare tutt’altro, continuamente esposti a tentazioni visive; proprio come Monsieur Lheureoux risvegliava le aspettative di felicità di Emma Bovary. Questo artificio è descritto da Tanner come il «cercare di trasformare la vaghezza e confusione di desiderio erotico-emozionale in una bramosia specifica per un’infinità di merci superflue».7 Affannosamente ella cercava di sanare il debito con il commerciante, ma inevitabilmente questi le proponeva altri oggetti, cose che la facessero sentire «tranquilla, priva di tristezze nel cuore come di rughe sulla fronte».8
Tutte le emozioni possono essere evitate attraverso il bene di consumo. Diversivi che distolgano dai dilemmi umani e morali, nonché dai sentimenti di paura, tristezza, collera, dolore, terrore, rabbia, ambizione sociale; questi oggetti possono essere definiti beni feticcio. Quindi, come Madame Bovary, quando non si riesce a sostenere l’angoscia o a prevenirne l’assalto, placato solo per breve tempo dagli oggetti di cui ci attorniamo, preferiamo languire nell’attesa di un nuovo trastullo. «Emma» citando Tanner «presto non saprà più distinguere tra bisogni, appetiti, desideri e bramosie, e cercherà sempre più di compensare la sua insoddisfazione emotiva saziandosi di marchandises».9
L’illusione è inclusa nel prezzo dell’inganno e ci consente di rendere la vita “civilizzata” maggiormente tollerabile; illusione che deve essere quindi distinta dal feticcio. L’oggetto transizionale, come l’illusione, ci permette di alleviare il timore del relazionarci con l’esterno, permettendoci di aprire i nostri orizzonti, e può essere abbandonato quando si acquisisce una adeguata sicurezza. Il feticcio ci cristallizza nel suo divenire irrinunciabile, impedendo la creazione di una reale sicurezza. Attraverso l’esperienza transizionale, secondo Winnicot,10 il bambino può uscire dall’onnipotenza soggettiva, ove tutto è sotto il suo controllo e tutto avviene a seconda dei suoi desideri; quindi, è in grado di abbandonare la visione edonistica del mondo. È questa la tappa fondamentale per la strutturazione di un Sé autentico; ovvero quando le frustrazioni dosate della mamma “sufficientemente buona” permettono il ridimensionamento dell’onnipotenza, mediato dall’oggetto transizionale che, fungendo da ponte tra realtà interna ed esterna, diventa il primo oggetto “non-me”; ne consegue la possibilità di distacco ed autonomia, processo definito dalla Mahler “individuazione-separazione”. Il feticcio, catalizzando e congelando i vissuti minacciosi o eccessivamente idealizzati e temuti, all’opposto alimenta quella onnipotenza infantile che rende fragile la strutturazione di una personalità, soprattutto nei termini di accettazione del limite.
Sebbene gli effetti dell’inganno feticistico si facciano ora più evidenti, questo prende le mosse dal 1880. Dopo l’avvio dell’era industriale si è realizzata l’aspirazione della società del consumo con il grande magazzino. Evento sostanzialmente preconizzato da Marx. Nel giugno del 1989 in Cina i lavoratori e gli studenti manifestavano pacificamente a Piazza Tinanmen, per chiedere una società democratica; saranno poi dispersi a colpi d’arma da fuoco e con l’intervento dei carri armati. In America, nella stessa settimana, il New York Times salutava, come simbolo della democrazia Americana, l’arrivo del megamall: «una nuova droga per i futuri consumomani». Il primo cittadino di Bloomington non dovette ricorrere alla forza per arginare dei timidi segnali di protesta, convincendo la popolazione che l’insediamento commerciale avrebbe costituito un miglioramento. Samuel Kaplan, sociologo del Bryn Mawr College, sostenne in merito: «Il mall risponde al bisogno antropologico di essere circondati da altri esseri umani».11 Nell’ottica per cui la vicinanza fisica e non la prossimità affettiva siano da ricercare nell’altro.
I laudatores temporis acti, i sostenitori dei bei tempi andati, ci saranno sempre, ma la tecnologia non possiede un’anima, e solo l’uomo può vivificarla e farne uno strumento di vita; da sola non è neppure, come affermano i catastrofologi, uno strumento di morte perché, come tutte le cose, è indifferente, non sa nulla, come l’universo contrapposto all’uomo da Pascal: l’univers qui ne sait rien. L’uomo, dunque, grazie alla tecnologia ha oggi un potere sulle cose del mondo che prima era prerogativa esclusiva della natura o delle divinità, che nell’immaginario mitologico o nella fede delle religioni governavano il mondo. Condivide, però, questo potere di distruzione con le forze che, anche se in parte conosciute, sfuggono ancora al suo controllo. Tutti gli input che riguardano i generi di consumo hanno la prerogativa di essere al tempo stesso suggestivi ma non stabilmente penetranti, proprio per rispondere alla logica della produzione che si rinnova e ha bisogno di un consumo continuo. L’abbondanza non riguarda solo il benessere in cui viviamo, e quindi la quantità e la qualità degli oggetti di cui disponiamo, ma anche la dovizia di immagini e di notizie da cui siamo stimolati. L’oggetto e tutte le immagini ad esso associate sono confezionati per non essere conservati a lungo e i recettori di questi stimoli, noi tutti, appunto, rispondiamo con l’atteggiamento di chi mantiene sull’oggetto investimenti affettivo-cognitivi labili, ma al tempo stesso sufficientemente forti da consentirne l’acquisto e l’uso. L’interesse per l’oggetto è mantenuto sempre desto e può essere, entro limiti di tempo anche molto brevi, molto intenso, tanto da creare quasi uno stato di necessità obbligata; ma tutto rimane esterno, ci riveste senza marcare l’interiorità.
Si realizza quindi un paradosso della alienazione dagli oggetti: una istanza di forte idealizzazione, grazie alla forte carica suggestiva con cui vengono presentati, e, nello stesso tempo, una istanza di dequalificazione per la loro istantanea obsolescenza. Si rischia quindi di instaurare con l’oggetto, nell’accezione più ampia del termine, ossia con tutto ciò che non è il Sé individuale, un rapporto caratterizzato dalla presenza contemporanea di meccanismi di idealizzazione e squalifica. Ciò si declina anche nella difficoltà a stabilizzare una identità ben definita, essendo favorite le fluttuazioni rapide di interessi e investimenti.
Un compito molto più difficile per gli adulti consiste nel presentare ai ragazzi una selezione di valori fondati sulla tradizione, su un passato non solamente familiare ma anche storico e sociale, che possano essere capiti, assimilati e ridefiniti se necessario, con un nuovo linguaggio ma conservando lo stesso significato e il senso profondo. Italo Svevo con una frase profetica affermava che il «futuro ha un cuore antico».12
La famiglia, quindi, non riesce a trasmettere il senso profondamente diverso tra il desiderio adulto e quello infantile onnipotente, privando quindi le giovani generazioni della possibilità di elaborare e cercare di risolvere i sentimenti di invidia, di gelosia, di mortificazione e di rabbia. Sentimenti che vengono esperiti soprattutto quando, come avviene per ognuno di noi, ci si scontra con il limite connaturato alla nostra stessa esistenza. In questa atmosfera narcisistica il senso del limite è vissuto come un dramma: il terrore di avere una sola vita da vivere, invecchiare e morire, angosce infantili (abbandono, separazione, castrazione, annullamento) e la disperazione di dover appartenere ad un sesso solo. La limitazione è considerata intollerabile, a volte nemmeno contemplabile; nulla può interferire con la gratificazione narcisistica, o come descrive meglio Sade: «Il piacere non chiede né scambio, né dono, né reciprocità e neppure generosità gratuita. La sua tirannia è quella dell’avarizia, che sceglie di distruggere ciò che non può assimilare».13 Oppure, utilizzando la descrizione di una paziente affetta da anoressia, che esplica il solipsismo e l’autoreferenzialità del moderno narciso: «Era riuscita a diventare parte del terzo sesso. […] In un certo senso aveva raggiunto l’indipendenza assoluta, per cui non aveva bisogno di alcun rapporto estraneo e poteva dar vita a un rapporto amoroso con se stessa».14
Il limite invece, aiutando a demarcare i contorni della nostra personalità, permette l’emergere della differenza, requisito essenziale per il riconoscimento dell’uguaglianza di due termini in opposizione, senza negazione della differenza.15 Solo da questo presupposto può realizzarsi una relazione autentica, che si sviluppa nel dialogo e in grado di divenire, impermanente come l’esistenza umana.
1Zygmud Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Roma: Editori Laterza, 2012).
2Louise J. Kaplan, Perversioni femminili. Le tentazioni di Emma Bovary (Milano: Raffaello Cortina Editore, 1992).
3Allan Bass, “On the History of a Mistransition and the Psychoanalytic Movement”, saggio inedito presentato alla Società Psicoanalitica di New York nel febbraio 1984.
4Ivi, 27.
5Cfr. Robert C. Tucker (a cura di), The Marx-Engels Reader (New York: Norton, 1972), 215-225.
6Karl Marx, “Discorso per l’anniversario del People’s Paper” (1856), in Opere complete, vol. XIV (Roma: Editori Riuniti, 1982), 656.
7Tony Tanner, L’adulterio nel romanzo: contratto e trasgressione (Genova: Marietti, 1990), 302.
8Gustave Flaubert, Madame Bovary (Milano: Garzanti, 1965), 32.
9Tanner, L’adulterio nel romanzo: contratto e trasgressione, 302.
10Donald W. Winnicot, Dalla pediatria alla psicoanalisi (Firenze: G. Martinelli Editore, 1975).
11Isabel Wilkerson, “Magamall: A New Fix for Future Shopping Addicts”, New York Times, 9 giugno 1989: A14.
12Italo Carta, L’età inquieta (Roma: Frassinelli, 1991).
13Simone de Beauvoir, “Faut-il brûler Sade”, Les Temps Modernes, dicembre 1951-gennaio 1952, 1026.
14Hilde Bruch, Patologia del comportamento alimentare. Obesità anoressia mentale e personalità (Milano: Feltrinelli, 1977), 132-133.
15Erik H. Erikson, Infanzia e società, vol. 4 (Roma: Armando Editore, 1973).