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Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna

Non c’è due senza tre: relazione e differenza tra uomo e donna alla luce del Mistero di Dio uno e trino

Giulio Maspero

Pontificia Università della Santa Croce

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7.1 Introduzione e premessa

La prospettiva del presente intervento non è semplicemente quella dell’antropologia teologica, come ci si potrebbe aspettare dal titolo. La scelta, invece, è stata quella di collocarsi a monte di tale approccio, per inquadrare il rapporto uomo-donna nella matrice trinitaria introdotta dalla rivelazione cristiana. In tal modo il contributo vuole essere in primo luogo un saggio di ontologia trinitaria,1 cioè un’analisi che mira a rileggere la relazione dell’uomo e della donna alla luce che prorompe dell’identificazione dell’Ipsum Esse Subsistens con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’articolazione di relazione e differenza cui rimanda la formulazione del Mistero del Dio uno e trino sarà, infatti, applicata alla distinzione uomo-donna.

Si tratta, ovviamente, di un passaggio estremamente delicato, da affrontare con rigore e senza approssimazioni affrettate, che portino a proiettare una dimensione antropologica in Dio, violando il primo principio dell’epistemologia teologica: l’apofatismo. Tale termine indica, infatti, la constatazione che Dio è sempre eccedente rispetto alla nostra capacità di descrivere e formulare il Suo Mistero.2 Nello stesso tempo, però, il tentativo è ineludibile, sia per gli stimoli del Magistero, sia per il dialogo con la sociologia relazionale, in quanto la distinzione uomo-donna è elemento essenziale della costituzione della famiglia, cellula della società. Questo approccio pare a chi scrive il più efficace per portare oltre la crisi della distinzione stessa cui ha condotto la postmodernità.3

Sul fronte sociologico l’approccio di Pierpaolo Donati alla matrice teologica della società, con la constatazione della connessione tra la rivelazione trinitaria e la possibilità di concepire un’identità relazionale, è il punto di riferimento naturale della proposta qui avanzata.4

In linea con tale prospettiva, e come premessa a quanto segue, pare essenziale chiarire immediatamente che nella presente proposta si farà riferimento costante ad una connessione implicita tra la ricerca metafisica dell’uomo e la prospettiva religiosa. Quello che si vorrebbe evidenziare è che ogni uomo deve necessariamente rispondere alla domanda convergente che sottostà sia all’ambito filosofico sia a quello religioso: cosa vale veramente la pena? Cosa è più vero nella vita? Su cosa conviene investire nella propria esistenza? Anche se una persona non si occupa esplicitamente di metafisica, o se nemmeno desidera affrontare la questione religiosa, la sua vita costituisce in sé una risposta a tali interrogativi, i quali erano alla base anche della ricerca filosofica classica. Platone e Aristotele non cercavano il primo principio per un mero esercizio intellettuale, ma perché volevano vivere davvero. La filosofia è sempre stata ricerca di salvezza e, per questo, ha sempre avuto una componente essenzialmente religiosa, anche se implicita.5 Quando il primo principio – ciò che veramente è in pienezza – viene individuato nell’idea del bene, la contemplazione del bene e del bello è indicata quale via alla pienezza della vita, come avviene con Platone. Se il primo principio viene identificato con il pensiero, allora la via alla felicità passa dalla dimensione intellettiva, secondo quanto suggerisce Aristotele.

E ogni uomo, volente o nolente, risponde a tali domande, in un modo che configura radicalmente il suo sguardo sul mondo. Se la scelta esistenziale cade sul potere come realtà più fondamentale, allora i mezzi e i metodi che portando ad esso saranno l’oggetto principale dell’attenzione. Analogamente con il denaro, il sesso, il successo accademico, la scienza o la famiglia. Tutto sarà illuminato dalla risposta (metafisica) alla domanda (religiosa) su cosa vale veramente la pena, cosa è in pienezza nell’universo della propria esperienza.

Quello che qui si cercherà di proporre è cosa significa per il cristiano contemplare il rapporto uomo-donna alla luce dell’assunzione che il primo principio di ogni cosa è la Trinità.

7.2 Pars (apparentemente) destruens

7.2.1 Ratzinger

Tale percorso appare, però, fin da subito arduo, in quanto l’esperienza fondante di Israele nel suo incontro con Dio è la radicale trascendenza che Lo caratterizza. Nella Scrittura è teologicamente molto chiaro che il vero Dio non ha origine da una teogonia, ma è eterno e superiore alla creazione, in quanto unico principio di ogni cosa. La differenza rispetto alle divinità pagane dei popoli vicini ad Israele è radicale: le divinità femminili, legate proprio alla generazione, vengono negate in modo assoluto. La potnia e ogni presenza di figura materna relativa alla terra è assolutamente esclusa.

Così, da una prospettiva di storia delle religioni, Joseph Ratzinger scrive: «Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. “Madre” nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio».6 La ragione, secondo lo stesso autore, è proprio l’insufficienza del linguaggio umano, legato anche alla poligamia, per esprimere la natura trascendente di Dio. Così i culti della fertilità, con il loro abituale riferimento alla prostituzione sacra, sono soppiantati della connessione tra monoteismo e matrimonio-alleanza.

L’analisi del teologo tedesco è qui propriamente ontologica. Dio, chiaramente, non è né uomo né donna, ma è il Creatore di entrambi. Proprio la trascendenza implicata dalla creazione è la ragione più profonda della negazione della possibilità di applicare la terminologia femminile e materna a Dio. Questa, infatti, è intrinsecamente connessa al politeismo conducendo di necessità a un offuscamento della distinzione e differenza fondante tra il Creatore e la creatura. Per il pensiero giudeo-cristiano, infatti, il mondo non è emanato «dal grembo materno dell’essere».7

Al contrario la paternità poteva essere utilizzata per esprimere la pura trascendenza divina. Qui entra in gioco la prospettiva metafisica, poiché la madre, in quanto origine della vita, significa per l’uomo sempre identità originaria. Il padre, invece, per la sua posizione relazionale rappresenta, fin dalle esperienze prenatali, il mondo esterno, l’oltre del reale. Quindi, a livello simbolico, la dinamica generativa della natura umana induce una connessione tra la madre e l’identità, da una parte, insieme a quella tra il padre e la differenza, dall’altra. Il padre in molte culture antiche tagliava il cordone ombelicale, così come era lui a separare il figlio dalla madre introducendolo all’iniziazione che faceva di lui un uomo adulto, nel caso del maschio, o concedendo la mano della figlia, nel caso della donna.

La prospettiva di Ratzinger nel testo citato è contemporaneamente ontologica, liturgica e biblica. Per questo conclude: «nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto».8

Differenza e identità sono dunque i riferimenti ontologici fondamentali che Ratzinger riconosce essere alla base della domanda sul rapporto tra la maternità e Dio. Da qui emerge chiaramente il primato della paternità come prospettiva necessaria per approssimarsi alla relazione tra l’uomo e il mistero divino. Tutto ciò sembra allontanare ulteriormente la possibilità di rinvenire una qualche connessione teologicamente valida tra la distinzione uomo-donna e la Trinità.

7.2.2 Agostino

Agostino, fonte privilegiata di Ratzinger, rinforza tale percezione. Nel capitolo XII del De Trinitate egli tratta esplicitamente la possibilità di connettere la famiglia al Dio uno e trino, giungendo a una conclusione nettamente negativa. Fulcro del suo ragionamento è l’affermazione che non ogni trinità che si può rinvenire a livello antropologico è di per sé immagine di Dio, in quanto quest’ultima si può dare propriamente solo nell’ambito puramente spirituale della natura umana.9 La posizione dell’Ipponate non lascia spazio alcuno, ponendosi anche in contrapposizione esplicita con diversi autori a lui precedenti:10 «Per questo non mi sembra possibile sostenere l’opinione di coloro che ritengono di poter rinvenire la trinità dell’immagine divina in tre persone al livello della natura umana, come si dà nel matrimonio dell’uomo e della donna (masculi et feminae) e nella loro prole. Così l’uomo (vir) rappresenterebbe la Persona del Padre e quello che da lui procede per nascita la Persona del Figlio. Dicono anche che la donna in quanto terza persona è come lo Spirito, che procede dall’uomo (viro), senza essere suo figlio o figlia, sebbene la prole nasca da lei attraverso il concepimento».11

Nel commentare Gn 1, 26-27, Agostino interpreta l’aggettivo possessivo in prima persona plurale che accompagna l’endiade “immagine e somiglianza” come riferimento a tutta la Trinità applicato al singolo uomo, in modo tale da escludere la possibilità di porre in parallelo Adamo con il solo Padre.12 Invece è lo spirito umano a portare impressa l’immagine della Trinità divina, attraverso l’analogia psicologica che connette la mente, l’intelletto e la volontà di ciascuno al Padre, al Figlio e allo Spirito. Così le relazioni mutue delle Persone divine richiamano la dinamica immanente dell’uomo: le processioni delle facoltà spirituali sono lette, dunque, alla luce delle processioni divine.

Dalla prospettiva agostiniana, se l’immagine della Trinità fosse nella triade dell’uomo, della donna e del figlio allora essa non sarebbe autenticamente costituita prima del concepimento e della nascita del primogenito di Adamo ed Eva.13 Anche 1 Cor 11, 7 entra in gioco in questo momento, poiché il divieto di velarsi il capo rivolto all’uomo in quanto immagine di Dio pone una distinzione rispetto al comando contrario che riguarderebbe la donna, definita nel testo paolino «gloria dell’uomo».14 L’argomento esegetico è utilizzato da Agostino per mostrare l’impossibilità di collegare la singola persona umana nella propria specificità sessuale alla singola Persona divina. Immediatamente, infatti, egli chiarisce che anche la donna è immagine di Dio, ma per la dimensione spirituale della sua anima che l’accomuna all’uomo e non in quanto donna.15 Il principio conclusivo non può essere più netto e chiaro: «ubi sexus nullus est, ibi factus est homo ad imaginem Dei (Gn 9, 6), ubi sexus nullus est, hoc est in spiritu mentis (Ef 4, 23) suae».16

Quindi in sintesi estrema si può dire che la dottrina agostiniana esclude che una trinità di persone umane possa essere immagine della Trinità, anche nel caso in cui le loro relazioni reciproche siano fondate su processioni e rapporti di origine similmente a quanto avviene per le tre Persone divine. Per quanto possa apparire poco moderno o antisociale, la presenza del tema nel De Trinitate rivela, tuttavia, l’importanza della questione. L’elemento dogmatico fondamentale è il salto ontologico assoluto che si deve dare per passare dall’uomo a Dio. Il Creatore e la creatura sono separati da un abisso ontologico che impedisce ogni possibile proiezione dal basso verso l’alto. L’attenzione esegetica stessa, dimostrata da Agostino, mira a leggere l’uomo alla luce della Trinità, senza cadere mai nel viceversa. Così, anche nell’ambito analogico da lui accettato, cioè al livello dell’immagine trina impressa nell’anima razionale della singola persona, tale parallelismo continua a non dir nulla su Dio assolutamente eccedente, ma offre uno squarcio rivelativo fondamentale sull’uomo e il suo valore.

Quindi, la dottrina esposta, da una parte, afferma la possibilità di rinvenire una relazione tra l’essenza divina con la sua immanenza e il singolo uomo, per l’analoga struttura delle sue facoltà interiori, dall’altra, esclude la possibilità che la differenza sessuale possa avere a che vedere con l’immagine divina impressa nell’uomo. L’ontologia trinitaria e lo sviluppo della posizione agostiniana che si propone di seguito non vuole tracciare connessioni indebite o introdurre nessi necessitanti tra l’ontologia creata e quella eterna, ma solo esplorare la ricchezza racchiusa nella verità rivelata che il vero Ipsum Esse Subsistens è il Dio uno e trino insieme al riflesso di ciò nella creazione, la traccia trinitaria nel mondo e nell’uomo. Il movimento è, dunque, sempre dall’alto verso il basso, non dal basso verso l’alto: una volta che siamo stati introdotti dalla rivelazione, attraverso l’incontro con Cristo, al Mistero di Suo Padre, della Sua Filiazione e del Suo Spirito, possiamo rileggere tutto in questa luce.

7.3 Pars (essenzialmente) construens

7.3.1 Gregorio di Nissa

Per Agostino, dunque, l’immagine trinitaria è impressa a livello di natura razionale dell’uomo e la differenza sessuale è assolutamente esclusa da ogni connessione con essa. Come ha osservato Piero Coda, ciò rappresenta anche un limite dell’approccio del grande Ipponate, che così elimina ogni dimensione sociale dall’immagine trinitaria nell’uomo.17 Eppure il salto ontologico difeso da tale posizione si rivela elemento essenziale anche per una ricomprensione dell’immagine in chiave sociale.18

Gregorio di Nissa, alla fine del secolo IV, aveva dedicato un’opera alla questione del rapporto tra la Trinità e un qualsiasi gruppo composto da tre uomini, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.19 Evidentemente si trattava di una critica ricorrente che sarà poi ripresa anche dalla polemica islamica.

La posizione del Nisseno sulla differenza sessuale è complessa e tema discusso dagli esperti in letteratura. Da una parte egli deve reagire alle tendenze encratite del tempo che, in vista di un ascetismo esasperato, negavano il matrimonio e, quindi, il valore della differenza sessuale.20 Tuttavia, la dimensione escatologica, essenziale nel suo pensiero, sembra in alcuni punti mettere in ombra la distinzione uomo-donna, indicando che il piano originario di Dio prevedeva una generazione simile a quella degli angeli. La riproduzione sessuale analoga a quella degli animali sarebbe, invece, legata alla previsione da parte di Dio della caduta dei progenitori.21 Piuttosto che essere soggetta a influssi neoplatonici, la posizione nissena mira a superare la connessione necessaria dell’unione sponsale e della procreazione con la ferita, per come esse si danno nella condizione attuale dell’uomo.22 Si tratta dunque della distinzione tra sessualità e genitalità, sviluppata a partire da quanto si dice nel Vangelo, ad esempio, laddove Gesù risponde all’obiezione dei Sadduccei sulla sposa dei sette fratelli dicendo che «Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo».23 Per questo, diversi autori, più recentemente, sostengono una lettura alternativa del pensiero nisseno, in base alla quale la differenza sessuale permarrebbe invece anche nell’eschaton.24 Senza entrare qui in discussioni tecniche, ciò che si vuole mostrare di seguito è come la distinzione netta tra il Creatore e la creatura, fondamento di tutta l’architettura teologica di Gregorio e base delle affermazioni agostiniane già viste, permetta, in realtà, una rilettura teologica delle determinazioni relazionali dell’uomo, alle quali appartengono sia la molteplicità personale sia la differenza sessuale.

Infatti, il gap infinito tra Dio e il mondo è il fondamento ontologico della possibilità di ripensare tale differenza come relazione, in quanto il mondo stesso è creatura, cioè ha avuto origine da Dio. Questi ha tratto ogni cosa dal nulla per puro amore, quindi attraverso un atto di volontà che nasce dalla Sua stessa intimità e la dischiude. Ciò indica che la sorgente in qualche modo ha lasciato traccia nei suoi effetti. Questo non avverrebbe nel traboccare necessario cui facevano riferimento le teorie gnostiche e neoplatoniche.25 Nella teologia cappadoce, infatti, la struttura ontologica dice molto di più, in quanto tutta la risposta alla critica ariana, cioè a quegli eretici che consideravano il Figlio una sostanza diversa dal Padre e a Lui inferiore, si gioca sulla ricomprensione dell’azione divina nel mondo alla luce dell’unità e della distinzione del Padre, del Figlio e dello Spirito. In termini tecnici ciò si indica come connessione tra immanenza ed economia: la prima è la dimensione interna dell’essenza divina nella quale si distinguono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, dimensione conoscibile solo attraverso la rivelazione; la seconda indica, invece, l’agire divino al di fuori di sé. Ciascuna Persona è lo stesso unico Dio, Creatore, dal quale ha origine ogni cosa. E ciascuna Persona lascia la propria traccia unica nell’unica azione, in modo tale che, per chi già ha conosciuto i tre attraverso l’incontro con Cristo, è possibile riconoscere le caratteristiche personali di ciascuno anche nella storia e nel mondo.26 L’agire divino è segnato dalla dimensione personale che in esso si esprime proprio perché è libero e non meramente necessario: in tal modo l’azione rivela le Persone sia nella loro unità di essenza, sia nella loro distinzione fondata sulle relazioni di origine. Attraverso la grazia del battesimo, una volta introdotti nella vita trinitaria in Cristo, si diventa capaci di contemplare trinitariamente se stessi e il mondo. La materia è così trasfigurata. E proprio la relazione gioca un ruolo fondamentale in tale ricomprensione.

Si pensi a come Gregorio legge la narrazione della duplice creazione nel primo libro della Bibbia e lo si confronti con la posizione precedente di Agostino: «Quando il testo della Scrittura dice che Dio fece l’uomo, con l’indeterminatezza della designazione, indica tutto il genere umano. Infatti, ora la creatura non si chiama Adamo, come la narrazione dice nel seguito. Ma, il nome [dato] all’uomo creato non è quello particolare, bensì quello dell’insieme (οὐχ ὁ τὶς, ἀλλ΄ ὁ καθόλου). Dunque, dalla denominazione universale della natura (τῇ καθολικῇ τῆς φύσεως κλήσει) siamo indotti a ritenere che tutta l’umanità è stata compresa nella prima creazione dalla prescienza e dalla potenza divina (τῇ θείᾳ προγνώσει τε καὶ δυνάμει). Infatti, non si deve pensare nulla di indefinito (ἀόριστον) per Dio in ciò che ha avuto da Lui origine. Ma ciascuno degli esseri ha un certo limite e una certa misura, definiti dalla sapienza di Colui che ha creato. Come, dunque, il singolo uomo è circoscritto da una certa quantità corporea e misura della sua concreta individualità (τῆς ὑποστάσεως) è per lui la dimensione, che corrisponde esattamente all’apparenza esterna del corpo; così penso che tutto il pleroma dell’umanità fu racchiuso come in un solo corpo dalla potenza presciente del Dio dell’universo e che questo insegna il testo [della Scrittura] dicendo e che Dio creò l’uomo e che lo fece ad immagine di Dio».27

Il testo è estremamente ricco dal punto di vista ontologico, perché risemantizza il limite a partire dalla relazione con la sorgente infinita: per il mondo greco l’essere persona era legato all’essere circoscrivibili, delimitabili.28 Perciò Dio non poteva essere in alcuno modo personale. Il confronto tra la nuova visione ontologica che emerge dalla rivelazione cristiana e la metafisica greca si può presentare a partire da cinque coppie di aggettivi:

finito – infinito
determinato – indeterminato
intellettuale – materiale
universale – singolare
astratto – concreto

Nell’architettura metafisica classica la prima colonna è dialetticamente opposta alla seconda. Infatti, sia Dio sia il mondo sono finiti e appartengono ad un unico ordine ontologico, composto da una scala di gradi dell’essere connessi necessariamente e ordinati in perfezione discendente a partire dal primo principio. In tale prospettiva l’infinito è identificato con l’indeterminato e, quindi, con ciò che non può essere perfetto, in quanto privo di un principio di intelligibilità, come avviene per la materia puramente potenziale cui fa riferimento Aristotele. Per questo l’universale deve essere astratto e solo la dimensione puramente intellettuale può essere pienamente intellegibile. Si pensi alle idee platoniche o alle forme intellegibili aristoteliche.

La dottrina della creazione e la rivelazione trinitaria introducono, invece, una struttura ontologica differente, nella quale Dio uno e trino è infinito, ma non indeterminato, intellettuale (o meglio spirituale) e non astratto, in modo tale da poter anche essere concreto e singolare nelle tre Persone divine. D’altra parte il creato è finito e materiale, ma perfetto (a meno delle conseguenze del peccato originale) per la relazione costitutiva che lo unisce al Creatore. Da qui emerge che il darsi del Dio uno e trino nella storia, il farsi carne del Figlio, non è contraddittorio rispetto alla sua essenza, in quanto la determinazione singolare e concreta espressa dal corpo non è dialetticamente opposta alla sua perfezione.

Così, alla luce della concezione trinitaria la dottrina della creazione presenta l’essere persona come perfezione perfino nella dimensione materiale. Dall’ipostasi si passa al corpo e da quest’ultimo si giunge alla storia, che in tal modo cambia segno. Per questo secondo il Nisseno la natura umana ha un’intrinseca dimensione sociale e storica.29 Ma non solo, l’essere immagine di Dio riguarda anche questa natura che è stata risignificata a livello relazionale. Quello che è in gioco qui è un elemento essenziale del pensiero cristiano basato proprio sulla distinzione ontologica assoluta tra Dio e il mondo.

Infatti, se Dio è trascendente rispetto all’ontologia dell’uomo, allora sarà anche eccedente rispetto alla sua capacità conoscitiva. Ciò implica che l’identificazione greca tra l’essere nella sua dimensione più autentica e l’intellegibile deve saltare. La creatura non può conoscere da sola il Creatore. Questi conosce ogni cosa, tutto è a Lui noto nel Suo Logos che è una cosa sola con Lui, eterno e assolutamente trascendente. Ma l’uomo non può conoscere la profondità trinitaria e personale di Dio con le sole sue forze e, per questo, non può cogliere da solo in tutta la sua pienezza la verità del mondo. Infatti, l’origine del creato, e quindi anche quella del corpo, va cercata dentro Dio stesso, nella sua dimensione trinitaria immanente, e non può più essere dedotta necessariamente dal pensiero dell’uomo a partire dall’osservazione esterna. Se l’uomo è immagine di Dio e Dio è uno e trino, allora l’intelligibilità dell’uomo, compresa la sua dimensione corporale, andrà ricercata nella relazione con la Trinità. In altri termini, il senso del mondo, della storia e del corpo dell’uomo si situa al livello della persona e non solo a quello della natura. Dalla necessità ci si sposta nell’ambito della libertà.

La forza della distinzione ontologica è tale e il rinnovamento epistemologico così radicale che Gregorio di Nissa può permettersi, sulla scia di un approccio molto attento e positivo rispetto alla dimensione materiale condiviso con Basilio e Gregorio di Nazianzo, di rileggere relazionalmente il corpo umano. Così, nel De hominis opificio, il Nisseno muove da una considerazione fenomenologica ante litteram: «L’uomo ha una posizione eretta, è ritto verso il cielo e guarda in alto. Tali caratteristiche indicano signoria e la sua dignità regale. Il fatto che tra gli esseri solo l’uomo è così, mentre i corpi di tutti gli altri sono rivolti verso il basso, mostra chiaramente la differenza di dignità tra coloro che sono sottoposti al suo dominio e il potere che li assoggetta».30

Ciò viene connesso immediatamente alla possibilità di liberare gli arti superiori dalla funzione svolta dai piedi, in quanto la posizione eretta richiede solo due appoggi e non quattro. Ma questo è il passaggio essenziale che, secondo Gregorio, ha permesso lo sviluppo del linguaggio. Non solo perché le mani sono così in grado di rappresentare le parole attraverso lettere,31 ma ancora più radicalmente perché hanno liberato la bocca dalla necessità di dover frantumare il cibo, in modo tale che le fauci e la lingua hanno potuto assumere una configurazione che permette l’articolazione della parola: «Dunque, poiché l’uomo è un animale caratterizzato dal logos (λογικόν), era appropriato che la struttura del suo corpo fosse conformata per l’uso del logos».32

La traduzione intenzionalmente lascia il termine logos non tradotto, in quanto al significato ovvio di parola si sovrappone implicitamente e inscindibilmente uno spettro semantico che va dal discorso al pensiero. La lettura di Gregorio sembra davvero ardita perché, da una prospettiva quasi evolutiva, evidenzia come in assenza di mani il viso dell’uomo sarebbe rimasto simile al muso degli animali. Labbra dure, lingua forte e fauci aguzze sarebbero stati necessari per la raccolta e consumazione del nutrimento. Invece, la posizione eretta si è tradotta nella possibilità di utilizzare gli arti superiori per tutti questi altri compiti, permettendo alla bocca di sviluppare la capacità di modulare il suono: «Dunque, le mani si dimostrano proprie della natura dotata di logos e così il Creatore mediante di esse ha concepito [per l’uomo] la possibilità del logos».33

La scelta nella non-traduzione di logos vuole anche impedire una proiezione anacronistica della concezione linguistica del pensiero che è stata sviluppata dalla modernità. Il punto è delicato e cruciale insieme, perché tocca proprio la distinzione netta tra Dio e il mondo, vista nella sezione precedente. Logos è termine che indica la seconda Persona della Trinità e che nello stesso tempo assume una teoria di significati che si estendono da causa fino a numero, da parola a discorso, da pensiero a ragione, distinzione, quest’ultima, che la modernità non riesce più a cogliere. Invece per Gregorio di Nissa la questione in gioco è cruciale, in quanto riguarda l’architettonica della sua ontologia: se Dio è uno e trino, quindi è caratterizzato da un’immanenza a noi inaccessibile senza la rivelazione, immanenza nella quale il Logos è univocamente identificato con il Figlio del Padre nella perfezione del loro rapporto costituito dalla generazione eterna, è possibile riconoscere nel logos umano e nella sua analoga immanenza una parte essenziale dell’immagine divina impressa nell’uomo.34 E ciò è “logico” in quanto il Logos divino è colto trinitariamente come pura relazione al Padre in modo tale da indurre una ricomprensione analogica del logos umano, per la quale la dimensione relazionale e la conseguente radicale apertura diventano elementi essenziali.35

In altri termini, la ricomprensione della densità ontologica della relazione ha permesso al Nisseno di rileggere il corpo ad un livello più profondo di intellegibilità che era precluso allo sguardo greco. L’atto dell’intuslegere anche la dimensione materiale è fondato proprio nella relazione fondante che unisce il dentro dell’uomo al dentro di Dio.

Di per sé non ci sarebbe nulla di nuovo rispetto a quanto visto nell’analogia psicologica di Agostino il quale identificava la parte razionale con la sede dell’immagine. Ma l’ulteriore elemento fondamentale qui presente è la connessione con il corpo, con la materialità. L’immagine divina non è costituita dal corpo, ma lo conforma, lo modula, tanto da esprimersi in esso. Secondo il Nisseno, l’uomo è l’unità di anima e di corpo, fino all’estremo che ogni lavoro, anche il più materiale, può essere cammino di unione con Dio.36 La dimensione fisica e storica non è più accessoria, ma essenziale per arrivare a Dio grazie all’incarnazione del Logos. Così gli angeli stessi non possono accedere alla conoscenza della Trinità se non attraverso il Corpo di Cristo che è la Chiesa.37

7.3.2 Monoteismo del corpo

Tutto ciò è connesso a quello che Leonardo Lugaresi ha definito il monoteismo del corpo come opposto al politeismo delle idee: si possono pensare molte cose diverse, ma poi ciascuno di noi nella sua realtà fisica è solo in un modo determinato.38 Nella mente posso pensare di essere alto o basso, ma il mio corpo avrà un’unica altezza specifica. Così l’uomo pagano proiettava nei miti le diverse concezioni della divinità, mentre il monoteismo ebraico-cristiano parla di un’unicità che si realizza nella singolarità storica dell’alleanza e degli incontri dell’Altissimo con uomini concreti nella storia della salvezza. La dimensione storico-corporale è qui al servizio della rivelazione teologica dell’unicità di Dio. Questa è la base anche della necessità di abbandonare la poligamia connessa da un punto di vista religioso proprio al politeismo. Per l’ebreo, invece, vige la connessione «un solo Dio = una carne sola».39

Il punto essenziale è che in una architettura ontologica costituita da un solo ordine finito che comprende Dio e il mondo, come avviene ad esempio nella concezione aristotelica, l’essere più autentico e il pensiero coincidono. L’intelligibilità è a priori e intrinseca, rendendo la materia e la storia, con la loro determinazione e limitatezza, elementi dialettici rispetto alla pienezza dell’essere stesso sottoposto all’identità tra intellegibile, universale e astratto. Per Gregorio, invece, proprio il gap ontologico che impedisce ad Agostino di accostare la distinzione sessuale a Dio, in quanto l’ordine creaturale è da una prospettiva metafisica assolutamente separato dalla Trinità, permette di rileggere relazionalmente la dimensione corporale dell’uomo in quanto essa esprime il livello ontologico dell’esistenza che, nella prospettiva trinitaria, deve essere accostato all’essenza. Dio è ed è in tre Persone relazionalmente distinte, così il corpo umano è ed è in relazione costitutiva con altre persone che sono altri corpi, in quanto il logos rinvia sempre all’alterità dell’interlocutore e ad un mondo extra-mentale.

Una realtà identificata con il pensiero può essere quaedammodo omnia, invece la dimensione materiale è determinata, finita, concreta (quindi non astratta). Così il corpo, con la sua singolarità, non poteva essere, per i greci, trasparenza del divino. Per questo l’incarnazione è assolutamente inconcepibile nella prospettiva pagana, ma scandalo e follia. Ciò che, invece, permette al Nisseno di rileggere il corpo dalla prospettiva del logos e, quindi, dell’immagine divina, è la relazione tra il Creatore e la creatura. Una relazione, infatti, contemporaneamente distingue e unisce, distingue senza separare e unisce senza confondere, secondo il canone cristologico introdotto dal dogma di Calcedonia per esprimere il rapporto tra la natura umana e quella divina nel Cristo. Riconoscere il gap porta a prendere coscienza di ciò che separa Dio e l’uomo, ma nello stesso tempo una piena lettura trinitaria dell’ontologia implica la ricerca anche di quello che unisce l’Uno all’altro, sempre verticalmente, dal Creatore alla creatura, nella libertà più assoluta dell’amore che crea e dona.

Il passo compiuto da Gregorio nell’estendere al corpo l’immagine trinitaria dell’uomo è fondato proprio a livello dell’ontologia del Dio uno e trino. Infatti, in Lui si riconosce l’unità di natura e di essenza, ma con la rivelazione cristiana contemporaneamente e inscindibilmente si prende coscienza di un nuovo piano dell’essere costituito dalla dimensione personale e relazionale. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una cosa sola, l’infinita ed eterna unica sostanza divina, ma sono anche distinti l’uno dall’altro, perché il Figlio è generato dal Padre, in modo tale da esserne l’immagine perfetta, che proprio per questo si distingue da Lui. Così lo Spirito procede distinguendosi dalle altre due Persone divine. La ragione della distinzione è la stessa dell’unione, ciò che rinvia alla molteplicità personale è lo stesso che fonda l’unità numerica della sostanza. Le relazioni di origine in questo modo distinguono e segnano le particolarità delle tre Persone divine. Ciascuna ha caratteristiche proprie che la individuano rispetto alle altre: sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito sono un unico Creatore, ma ciascuno lo è in un modo personale, in quanto l’atto creativo ha la sua origine nella prima Persona, è realizzato mediante la seconda e portato a compimento nella terza. Le immagini si moltiplicano nelle letture patristiche, come per la Luce: tutte e tre le Persone divine si identificano con essa, e con la Bellezza, la Bontà, l’Onnipotenza e ogni altro attributo, ma il Padre è come il sole, origine della luce stessa, il Figlio come il raggio e lo Spirito come lo splendore o il calore.

Tutte queste espressioni sono mirate a coordinare la predicazione dell’universale rappresentato dall’attributo divino con il particolare costituito dalla dimensione personale. In questo senso la lettura teologica del corpo umano avanzata da Gregorio di Nissa compie un passo straordinario nella storia del pensiero, poiché mostra come la determinazione del corpo, il suo essere concreto e limitato, non sia più antitetico rispetto al divino, in quanto il nostro Dio è uno e trino. Ovviamente Egli non è limitato, ma la sua dimensione personale può essere espressa dalla limitatezza della materia.

È questo passaggio di ontologia trinitaria che permette di riconoscere Cristo come l’universale concreto, secondo una bella espressione di Balthasar.40 Il corpo, la materia, la vita concreta di ogni uomo, non sono più estranei a Dio, perché Dio è sostanza e relazione insieme. E proprio la relazione introduce una dimensione personale in Dio che si aggiunge a quella universale. Appunto tale dimensione è quella che si può esprimere nel corpo, nel volto, nella voce. Rispetto alla metafisica classica, all’essenza si affianca l’esistenza. E questa rimanda al corpo nella sua determinazione e nella resistenza che pone all’idealizzazione e all’astrazione alle quali, anche per il peccato originale, sempre l’uomo tende.

In sintesi, i diversi passaggi concettuali che portano dalla concezione metafisica classica alla prospettiva ontologico-trinitaria di Gregorio di Nissa possono essere schematizzati nel seguente modo:

  1. per la filosofia greca
    1. Dio e il mondo costituiscono un’unica realtà finita;
    2. la loro essenza è di per sé intelligibile, sia che si tratti dell’idea come in Platone o della forma secondo Aristotele, poiché il primo principio è universale e astratto;
    3. per questo, la realtà è trasparente al pensiero dell’uomo il quale da sé può conoscere Dio e il senso ultimo del mondo;
    4. ma allora la distinzione tra i diversi livelli di questa unica realtà non può essere realizzata se non degradando gli elementi inferiori rispetto ai superiori;
    5. quindi il corpo e la materia devono essere letti dialetticamente rispetto a Dio, in quanto concreti e non astraibili.
  2. Se Dio è uno e trino, invece,
    1. Dio e il mondo sono radicalmente separati perché il primo è infinito ed eterno mentre il secondo finito e contingente;
    2. per questo l’essenza stessa del mondo, il suo senso più profondo, li conosce solo Dio in quanto ne è il Creatore;
    3. ma allora si può conoscere davvero solo nella relazione con il Dio uno e trino, nel Cristo, che è il Logos incarnato;
    4. dunque non si ha più bisogno di opporre dialetticamente perché la relazione permette di mostrare nello stesso tempo ciò che unisce e ciò che distingue;
    5. così il corpo può essere riletto come espressione della dimensione personale e relazionale.

Di fatti, nella prospettiva greca che conosce esclusivamente la dimensione accidentale della relazione, la possibilità di esprimere l’individuazione è connessa solo all’essenza. In questo senso dire che qualcosa è una realtà determinata implica negare che sia un’altra realtà da essa diversa in quanto sostanza. In Dio, però, tale possibilità di individuazione non basta, perché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un’unica sostanza, eppure si distinguono tra di loro. I Padri della Chiesa hanno sviluppato a poco a poco il principio di individuazione relazionale, in base al quale una Persona divina si distingue dall’altra per la relazione di origine. Così il Padre non è il Figlio perché il primo non procede da nessuno mentre il secondo procede da Lui nella generazione eterna. Così lo Spirito Santo non è né il Padre né il Figlio non perché sia di sostanza diversa, ma perché è la Vita, la Gloria, la Potenza, o il Dono d’amore che le prime due Persone divine eternamente si scambiano. L’identità di Ciascuno è fondata negli altri due.

Ma questo nuovo modo di declinare l’identità attraverso la relazione permette di rileggere la dimensione storico-corporale, includendo anche la differenza tra uomo e donna.

7.4 Pars (relazionalmente) construens

7.4.1 Risemantizzazione relazionale

Come detto, Gregorio di Nissa non si spinge fino ad una risignificazione della differenza sessuale in chiave relazionale, ma pone le basi di quanto il Magistero ha proposto nel secolo XX. La rilettura del corpo attraverso la prospettiva relazionale permette di superare l’aporia fondamentale dell’antropologia greca, per la quale corpo e anima erano sostanze diverse, in modo tale da dover scegliere tra sacrificare il primo come elemento essenziale dell’umano o accettare una concezione divisiva dell’uomo stesso.

Si noti a questo proposito che ciò che noi chiamiamo spirito è scoperta essenzialmente cristiana, in quanto il mondo greco conosceva la distinzione somanous, ma considerava il pneuma realtà corporale, seppur sottile e rarefatta.41 I Padri dovranno chiarire per questo che l’affermazione giovannea «Dio è pneuma»42 non implica la presenza di una dimensione corporale, secondo quanto gli stoici insegnavano.43 La rivelazione cristiana potrà così rileggere la tripartizione antropologica in termini relazionali, identificando l’uomo con la relazione di questi tre elementi, che solo insieme costituiscono un’unica sostanza. La dimensione propriamente spirituale passerà a indicare anche l’aspetto della volontà, che si affianca a quella puramente intellettuale del nous. Così per Gregorio di Nissa tutto l’uomo è impregnato di spirito, per l’unità che contraddistingue il suo essere. Anche se il corpo è elemento ontologicamente inferiore rispetto allo pneuma, non c’è nulla nel primo che non sia impregnato del secondo, in modo tale che l’umano è concepito come ponte tra la realtà spirituale e quella materiale, non perché tertium rispetto ad essi, ma in quanto contemporaneamente (quindi relazionalmente) e l’uno e l’altro. La non contraddittorietà di tale affermazione è fondata proprio sulla possibilità di rileggere la sostanza alla luce di una dimensione ad essa immanente nella quale si possono situare le relazioni. La luce trinitaria illumina così l’antropologia.44

La persona è aperta all’universo, può entrare in comunione con tutto. E questo si fonda sulla dimensione intellettiva che conosce in un certo senso ogni cosa: io posso avere in mente un cavallo, un monte, un fiore e persino Dio. Ma per entrare in comunione con la realtà extramentale non basta l’intelletto da solo, ci vuole anche la volontà, quella volontà che si esprime nella dimensione propriamente spirituale e non solo intellettuale. La volontà, infatti, implica un rapporto diretto con l’esistenza e non solo con l’essenza: un uomo, ad esempio, può conoscere intellettualmente il male o il bene senza diventare cattivo o buono, ma nel momento in cui desidera realtà cattive o buone diventa anch’egli tale.

Il corpo è stato creato per essere totalmente abitato dallo spirito, perfino nelle dimensioni più materiali, più determinate. Attraverso di esso si esprime la persona che è aperta all’universo, che è rivolta all’altro. Il desiderio di unione con il mondo non si realizza a priori, ma solo a posteriori mediante relazioni concrete con altri concreti. Gli spiriti umani entrano in comunione attraverso i corpi, sempre nell’esistenza, in quanto solo gli esistenti concreti amano. Non c’è altra strada, come non c’è altra strada per conoscere la Trinità che non sia il Cristo e la Sua storia, la Sua esistenza. Le persone umane non sono idee o forme intellegibili ipostatizzate.

Il logos finito del mondo greco poteva passare solo dall’intelletto perché era rinchiuso in un ordine metafisico finito che mortificava e occultava l’infinitezza del desiderio dell’uomo, negazione di cui la tragedia è risultato. Il logos cristiano è, invece, radicalmente aperto perché immagine e traccia del Logos trinitario, cui rimanda. Così il pensiero dell’uomo è aperto all’infinito perché è spirituale, cioè è pensiero desiderante, pensiero rivolto alle stelle, al cielo. E tale apertura riceve risposta perché la volontà permette l’unione reale che si dà attraverso i corpi, attraverso la storia concreta, attraverso le relazione. Si giunge quindi al paradosso che il logos umano è capace dell’infinito proprio attraverso il corpo ed è inscindibile dal corpo nella sua identità più autentica proprio perché è immagine della Trinità.

Quindi, se Agostino ha ragione nel negare la possibilità di parlare di differenza sessuale per Dio in base alla Sua radicale trascendenza rispetto al creato, nello stesso tempo la prospettiva nissena permette di vedere come l’elemento di differenza colto dall’Ipponate non sia l’ultima parola. Infatti, in ogni relazione oltre a ciò che distingue si ha anche ciò che unisce: se la dimensione corporale richiama una distinzione essenziale rispetto a Dio, nello stesso tempo la prospettiva dell’immanenza trinitaria permette di riconoscere come il corpo stesso possa riflettere la profondità relazionale dell’uomo, e quindi l’immagine divina in esso iscritta. Allora, la differenza sessuale tra uomo e donna può essere riconosciuta, alla luce delle indicazioni magisteriali e grazie ad uno sviluppo dell’ontologia trinitaria dei Padri, come immagine della differenza personale intratrinitaria proprio per l’identità relazionale che si riscontra sia per il Creatore sia per la creatura.

La difficoltà di questo passaggio consiste nella necessità di mantenere il velo apofatico, il quale impedisce di affermare corrispondenze necessarie tra le Persone divine e quelle umane. Ciò implica che la distanza analogica è sempre superiore alla prossimità, come si evince dalla constatazione che in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito si identificano ciascuno con l’unica sostanza infinita ed eterna, mentre ogni uomo solo partecipa della natura umana. Così la relazione tra uomo e donna non è semplicemente immagine di quella tra il Padre e il Figlio, ma è espressione creata della perfezione relazionale dell’immanenza trinitaria, dove l’identità di ciascuna Persona è data non da una singolarità sostanziale, ma dalle relazioni di origine rispetto alle altre. Non si può, così, collegare l’uomo al Padre e la donna al Figlio o allo Spirito Santo, ma ciascun uomo e ciascuna donna, anche individualmente, sono segnati dall’immagine trinitaria nella loro identità relazionale. Infatti, l’identità del primo non può essere pensata senza quella della seconda e viceversa. L’essere l’uno o l’altra non significa solo un aspetto accidentale, perché l’essere uomini si dà in due modi di esistenza concreti, che implicano un ordinamento reciproco. E ciò è dovuto proprio alla nostra perfezione in quanto creati ad immagine del Dio uno e trino, la cui immanenza è caratterizzata dall’identità relazionale.

Questo è un punto cruciale che la modernità per la crisi della sua matrice trinitaria non riesce più a vedere. Infatti, la secolarizzazione ha a poco a poco riportato verso una prospettiva greca, fondata solo sul polo identità-dialettica, senza più la possibilità di ricorrere all’identità relazionale. Si ricade, allora, nella dicotomia per la quale uomo e donna o sono sostanze diverse o hanno una differenza meramente accidentale di fatti insignificante. Con il desiderio positivo di affermare la pari dignità si termina per ridurre l’espressione “uomo e donna” a una mera endiadi, una ripetizione priva di significato. Invece, l’ontologia relazionale permette di riconoscere come l’uomo e la donna hanno radicalmente la stessa dignità perché condividono la stessa natura umana e non hanno differenza alcuna a livello di essenza. Ma nello stesso tempo l’uomo non è la donna e la donna non è l’uomo, poiché la loro identità relazionale è portatrice di un’ulteriore dimensione fondamentale che costituisce un’autentica ricchezza, senza la quale il mondo soffre.

7.4.2 Tre, due, uno

Alla luce di ciò si può cogliere la portata di alcune affermazioni degli ultimi Papi che da San Giovanni Paolo II a Francesco ricordano come la differenza sessuale appartenga all’immagine trinitaria iscritta nell’uomo dal Creatore. Bastino solo i più recenti insegnamenti nell’Amoris Laetitia: «La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio (cfr. Gn 1, 28; 9, 7; 17, 2-5.16; 28, 3; 35, 11; 48, 3-4). A questo si deve che la narrazione del Libro della Genesi, seguendo la cosiddetta “tradizione sacerdotale”, sia attraversata da varie sequenze genealogiche (cfr. 4, 17-22.25-26; 5; 10; 11, 10-32; 25, 1-4.12-17.19-26; 36): infatti la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente. Ci illuminano le parole di san Giovanni Paolo II: “Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo” (San Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa a Puebla de los Ángeles, 28 gennaio 1979, 2: AAS 71 [1979], 184). La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina (Ibidem)».45

Le indicazioni magisteriali non possono essere più chiare: la dimensione familiare della vita umana è parte dell’immagine divina impressa dal Creatore nella creatura. Qui diventa essenziale leggere teologicamente la connessione tra la famiglia stessa e la reciprocità dei sessi, che anche corporalmente si situa al centro della relazione uomo-donna. Per questo è fondamentale il riferimento alla generazione che Papa Francesco mette in evidenza. Anche la tradizione patristica fin da subito aveva individuato in essa un elemento costitutivo dell’immagine. Clemente di Alessandria, a cavallo tra il II e il III secolo, scriveva: «L’uomo diventa un’immagine di Dio nella misura in cui coopera con Dio alla creazione dell’uomo».46

Il riferimento alla generazione è fondamentale perché indica come la rivelazione trinitaria conduce a leggere la distinzione uomo-donna alla luce della relazione tra padre e madre, la cui valenza metafisica è stata evidenziata da Ratzinger nel testo citato nella prima parte. La presente proposta mira, dunque, a leggere trinitariamente la differenza tra uomo e donna a partire dalla coppia padre-madre che, oltre all’identità relazionale binaria, rinvia anche al “terzo” costituito dalla sorgente di quella vita che entrambi trasmettono. La questione fondamentale qui in gioco è ontologicamente il passaggio dal due al tre. In italiano, e probabilmente lo stesso avviene in altre lingue, un proverbio diffuso recita che “non c’è due senza tre”, da cui il titolo del presente contributo. Esso intuisce la connessione tra la coppia e la relazione, nel senso che un’autentica coppia tende a generare, portando al tre. Un uomo e una donna attraverso il loro rapporto giungono ad essere sempre più se stessi desiderando generare, cioè desiderando ridonare il dono che loro stessi sono e che nella relazione percepiscono. Dal due finito, che corre sempre il pericolo della ricaduta nel monismo di una falsa identità speculare, come per l’ermafrodito platonico47 o nel mito di Narciso ed Eco,48 si passa al tre della trascendenza, in quanto l’uomo e la donna accedono alle loro identità più autentiche e piene nel terzo, nell’altro che rinvia alla sorgente della vita, all’assolutamente Altro di Dio. Infatti, paradossalmente questo terzo è già presente nello stesso momento della costituzione della coppia, in quanto la decisione di accogliere l’uomo o la donna nella propria vita implica il riconoscimento di sé e dell’altro come di un dono, che quindi rinvia a una sorgente di bene che teologicamente è identificata con il Dio uno e trino che è tale proprio perché è Padre, Figlio e Amore. Anche a livello filosofico si può parlare di un terzo come origine dei due attraverso la loro filiazione e il rinvio ad un oltre generazionale, in questo caso intrastorico e non assoluto. Tale terzietà sorgiva fonda la terzietà della relazione come effetto emergente.49

Il punto è stato evidenziato magistralmente ancora da Joseph Ratzinger, il quale mostra come la generatività della coppia abbia luogo innanzitutto a livello della relazione che emerge ontologicamente tra l’uomo e la donna: «L’amante scopre la bontà dell’essere in questa persona, è felice della sua esistenza, dice sì a questa esistenza e la conferma. Prima ancora di ogni pensiero su se stesso, prima di ogni desiderio sta il semplice essere felici quanto all’esistenza dell’amato, il sì per questo tu. Solo in un secondo momento (non in senso temporale, ma reale) l’amante scopre in questo modo (perché l’esistenza del tu è buona) che anche la sua propria esistenza è diventata più bella, più preziosa, più felice. Mediante il sì verso l’altro, verso il tu, io ricevo me stesso nuovamente e posso ora in modo nuovo dire sì anche al mio io, a partire dal tu. […] Questo tu è un atto creatore, una nuova creazione. Per poter vivere l’uomo ha bisogno di questo sì. La nascita biologica non basta. L’uomo può accogliere il suo io solo nella forza dell’accettazione del suo essere, che viene da un altro, dal tu. Questo sì dell’amante gli attribuisce la sua esistenza in un modo nuovo e definitivo. Egli vi riceve una specie di rinascita, senza la quale la sua nascita resterebbe incompleta e lo lascerebbe in contraddizione con se stesso».50

La relazione è proprio l’ubi di tale capacità creativa in senso analogo. In questo modo ogni io aspira a diventare pienamente se stesso mediante la scelta libera che un tu realizza nei suoi confronti confermando dall’esterno l’atto generativo che ha costituito quell’io stesso. L’asse verticale genitore-figlio viene percepito in termini di necessità e non è colto in tutta la sua ricchezza senza la relazione orizzontale con un tu che scelga quell’io nell’insieme di tutte le possibili persone di sesso diverso nel mondo. Qui la lettura ontologica della relazione risulta particolarmente feconda perché mostra come il raccordo di identità e differenza sia legato proprio al passaggio dal due al tre. Infatti il rapporto con i genitori costituisce un triangolo nel quale l’identità è ricevuta, ma rispetto al quale occorre poi differenziarsi per poter essere se stessi in pienezza. A ciò fa riferimento il comando divino di lasciare il padre e la madre.51 Il rapporto tra uomo e donna realizza questa dimensione, che si riflette sul rapporto con i genitori stessi, facendone emergere la profondità del dono. In questo senso il rapporto verticale giunge a compimento grazie a quello orizzontale e a sua volta nel rapporto orizzontale è presente quello verticale. La propria identità di uomo e di donna è, infatti, segnata profondamente, nel bene e nel male, dall’esperienza di paternità e di maternità che si è vissuta come figli. La crescita della relazione tra l’uomo e la donna implicherà una ricomprensione di tale esperienza, che sarà sempre più ricca nella misura in cui sarà integrata nella relazione. Questa, infatti, è costituita ontologicamente da identità e differenza, quindi da ciò che unisce e ciò che distingue. Nella misura in cui tale integrazione cresce e la relazione uomo-donna si “trinitarizza”, cioè si fa sempre più libera e profonda, diventa naturale la generazione, che in primo luogo si gioca a livello di beni relazionali, fino alla realizzazione massima nella nascita del figlio. Ha scritto Karol Wojtyla, in un suo profondissimo, e purtroppo poco noto, pezzo teatrale: «Riflettete tutti: quanto occorre scegliere per generare! Non ci avete pensato. Per generare occorre molto più scegliere che non per creare».52

Questa inversione tra la creazione e la generazione racchiude tutta la forza dell’ontologia trinitaria, che non si ferma al gap metafisico tra Dio e il mondo (creazione), ma si spinge ad esplorare il contenuto relazionale espresso nell’atto generativo del dono di sé. Il ridonare se stessi nell’altro implica, infatti, il riconoscimento di un valore proprio che va al di là del mondo stesso e, quindi, un giudizio sul mondo stesso, sulla storia e sul proprio corpo, sulla propria identità.

Si noti che quanto detto sul rapporto uomo-donna e la sua connessione con la paternità e la maternità non riguarda solo le coppie sposate, ma si estende ad ogni persona umana indipendentemente dalla situazione matrimoniale o celibataria. Infatti, se la vita dell’uomo è segnata nella sua origine dalla paternità e dalla maternità, il rapporto con il mondo composto di uomini e di donne passerà per queste “trinità” connesse le une alle altre, insieme alla scelta del senso della propria vita da cui si è mossa l’analisi del presente contributo. Ciascuno, anche se non crede o non è interessato alla metafisica, compie un’opzione di valore che lo spinge a investire la propria esistenza in un modo generativo e meno. L’analisi proposta suggerisce che il rapporto uomo-donna è sempre presente in tale determinazione nella quale si gioca la propria vita in quanto decisione sul suo valore e sulla sua fecondità. A partire dalle stesse parole di Gesù nel Vangelo secondo Matteo, dove lo scandalo degli apostoli per l’affermazione dell’indissolubilità del matrimonio riceve risposta attraverso il rimando a coloro che scelgono di essere eunuchi per il Regno dei Cieli,53 si può dire che il celibe per amore, o per una scelta di servizio, rimanda relazionalmente alla sorgente dell’amore stesso e della vita. In tal modo egli svolge il prezioso compito di “terzo” che aiuta i due sposi a dischiudersi a quella dimensione ulteriore che è proprio la sorgente della loro relazione.54 E ciò vale non solo nel caso soprannaturale, ma anche in quello esclusivamente naturale, per il quale il rinvio del “terzo” punta verso l’eccedenza del reale.

Così, da tale prospettiva, sempre la persona umana si appoggia su tre “trinità” relazionali il cui rapporto implica un passaggio continuo – ma senza confusione – tra paternità, maternità, filiazione, sponsalità e fraternità: al primo triangolo padre-madre-figlio, segue quello genitori-uomo-donna, che si traduce in quello tra uomo-donna-figlio. Ancora Karol Wojtyla lo ha descritto magistralmente nella stessa opera citata, facendo dire alla donna: «In questo consiste l’irradiazione della paternità. Non è affatto una metafora, ma una realtà. Il mondo non può consistere soltanto in una metafora, il mondo interiore ancor meno del mondo esteriore. Ritorniamo al padre attraverso il figlio. Il figlio poi a sua volta ci restituisce nel padre lo sposo. Non dividete l’amore. Esso è uno».55

L’appello a non dividere l’amore può essere inteso come rilettura relazionale dello stesso, in quanto ogni padre e ogni madre in primo luogo sono figlio e figlia. Per essere sposi hanno dovuto lasciare il proprio padre e la propria madre, prendendo le distanze fisiche da essi, ma ciò li porta a rielaborare nella propria interiorità la paternità e la maternità ricevute, per integrarle relazionalmente nel rapporto sponsale, che si apre così generativamente in una novità ontologica che è radicata, in primo luogo, nella relazione emergente dei due. Così ogni sposo è nello stesso tempo figlio e padre della sposa. A sua volta quest’ultima è nello stesso tempo madre e figlia dello sposo. A seconda dei momenti e delle situazioni uno dei due dovrà accogliere e curare l’altro oppure essere accolto e curato. La stessa dimensione sessuale dell’unione tra gli sposi viene illuminata dalla luce trinitaria, in quanto espressione del desiderio di comunione totale di vita, che si traduce, per quanto possibile, nella compenetrazione dei corpi, in quell’essere uno nell’altro che è l’archetipo anche del comune darsi la mano e dell’abbraccio, ma che nell’atto proprio del matrimonio è realizzato in grado eminente.

Ontologicamente tale prospettiva richiede la presenza della rete relazionale seguente, come fondamento della interiorizzazione e integrazione a livello psichico (e prima ancora ontologico) dei rapporti stessi:


Maspero


Nella figura di sinistra si mostra la posizione esistenziale della coppia del padre (P) e della madre (M) rispetto ai loro genitori (PP e MP per il primo e PM e MM per la seconda) e rispetto al figlio (F). La figura di destra riesprime la stessa struttura in termini di relazioni, evidenziando maggiormente la ricchezza della rete. Infatti, la relazione emergente PP-MP si ipostatizza nel P, analogamente a quella PM-MM rispetto a M. A questo punto la relazione P-M è in primo luogo frutto del rapporto con la sorgente, rappresentato dal triangolo bianco, che sembra non esserci, rispetto a quelli più scuri, ma che è essenziale in quanto è dato da loro, ma è più di loro. In questo senso il triangolo grigio che dà origine a F, ipostatizzazione della relazione P-M, può essere letto alla luce del triangolo bianco come dono ridonato. La semplice analisi relazionale proposta mira solo a suggerire che l’essere stesso del mondo può essere contemplato a partire da tale rete contemporaneamente verticale e orizzontale.

La forza del testo di Karol Wojtyla è proprio quella di ricondurre la connessione relazionale della dinamica triplicemente triangolare appena esposta alla sua origine trinitaria. Come il fiume dalla sorgente, di “trinità” in “trinità”, il mondo si regge sulla Paternità della prima Persona divina, radicandosi nella Trinità stessa. Parafrasando Rémi Brague si potrebbe dire che l’essere (relazionale) dell’uomo e della donna è ancré dans la Trinité.56 Teologicamente, infatti, Padre non è nome comune di persona, ma nome proprio di Persona, in quanto solo l’atto di generazione intradivino è assoluto, eterno e perfetto. Così non si dà altra possibilità di generare che non abbia in Lui il suo archetipo e la sua origine. Ma l’identità della prima Persona è fondata proprio in tale atto generativo e quindi è inseparabile dall’identità del Figlio che attraverso tale atto si riceve eternamente e perfettamente dal Padre ridonandosi a Lui, in quanto Sua Immagine perfetta. Così, tale eterno e perfetto donare e ridonare la Vita divina non è altri che lo Spirito Santo, Dono che unisce le due prime Persone e ne costituisce l’identità in quanto loro vincolo d’Amore.

Teologicamente il riferimento trinitario al Padre come relazione sorgente di relazioni è il punto di raccordo con la prospettiva fenomenologica della sociologia relazionale di Donati, il quale scrive: «partecipando della famiglia, gli esseri umani partecipano di un fatto (essere-evento, dunque struttura latente) che li trascende».57

Così le tre forme di identità fondamentali58 possono essere ricomprese alla luce dell’ontologia sorgiva che teologicamente connette la relazione come effetto emergente con il Padre nella Trinità. Infatti, sia A = A sia A = -(-A) possono essere considerati casi concreti di A=R(A,-A), dove R è ridotta alle sue componenti elementari dell’identità come copia e della differenza come dialettica. Entrambe costituiscono una decomposizione della relazione nei suoi elementi costitutivi che dicono unità e distinzione insieme. Di per sé questi casi sono estrapolazioni, in quanto la realtà è sempre relazionale, se è vero che l’Ipsum Esse Subsistens è trinitario. L’esistenza porta ontologicamente con sé un’autentica profondità relazionale che, in quanto tale, rinvia al terzo, cioè riconduce l’identità dei due ad un terzo che non è riducibile a loro. L’identità greca e la dialettica moderna, allora, non possono darsi che a livello di pensiero, in modo tale da poter sussistere solo in un contesto ontologico che identifica l’essere con l’intellegibile, rin-chiudendo il logos in sé, come avviene appunto nel mondo antico e dall’epoca di Cartesio in poi. Ogni approccio autentico al reale, invece, si rivela efficace nella misura in cui riconosce la dimensione relazionale, per la quale l’identità data dalla relazione rinvia (relazionalmente appunto) ad un’eccedenza che è fonte (in senso ontologico e non meramente metaforico) dell’emergere della relazione stessa.

Applicando ciò al rapporto tra uomo e donna, si può dire che ciascuno dei due è se stesso attraverso l’altro non in senso speculare, né in chiave dialettica, ma in quanto riferimento ad una sorgente buona di entrambi, che dona l’essere nei due modi di esistenza distinti perché l’origine stessa dell’Essere è trinitaria, cioè sussiste ontologicamente nelle tre Persone divine. In tal modo appare con forza come la differenza sessuale non è né accidentale né segno di limitatezza, ma rivela la perfezione più profonda dell’uomo nella relazione con la sorgente della vita. A livello esegetico, pare questa la ragione più profonda del fatto che nel Cantico dei Cantici lo sposo chiama sempre la sposa prima sorella.59

Quindi, dalla prospettiva dell’ontologia trinitaria “non c’è il due senza il tre” non significa semplicemente che quando si hanno due oggetti se ne desidera e cerca un terzo, come avviene mangiando delle ciliege, ma più radicalmente la prospettiva relazionale suggerisce che senza il tre non c’è nemmeno il due. E questo, in ultima analisi, rinvia all’uno, anzi all’Uno che non è semplicemente la sostanza, come la metafisica classica già pensava, ma è il Padre, la prima Persona della Trinità. Infatti, teologicamente, dire Padre e dire Trinità è lo stesso, in quanto le identità delle tre Persone divine sono relazionali. Così si può dire che il due sta ontologicamente tra l’uno e il tre.

Forse questo è anche alla base di una delle più profonde intuizioni mistiche di San Josemaría Escrivá de Balaguer, il quale era solito risalire alla Trinità del Cielo passando attraverso la trinità della terra, cioè la Sacra Famiglia:60 «È giusto che nella meraviglia immensa di bellezza e di sapienza di Dio ci siano cose che sulla terra non comprendiamo. Se le comprendessimo, Dio sarebbe un essere finito, non infinito, ci starebbe nella nostra testa. Come sarebbe povero Dio! Perciò tu va da Giuseppe, Maria e Gesù e sai che Gesù è Dio, e che Dio è trino nelle Persone: Padre, Figlio e Spirito santo. E adori la Trinità e l’Unità, ami lo Spirito Santo amando Gesù Cristo».61

Il testo può costituire come una sintesi del percorso proposto e mostra, in un certo senso, l’origine stessa e il primo elemento della catena relazionale rinvenuta attraverso la presente analisi ontologico-trinitaria come struttura più profonda della creazione. Si vuole qui mettere in evidenza la profondità teologica delle parole di San Josemaría, che parte dall’apofatismo, cioè dall’affermazione dell’eccedenza del Dio uno e trino rispetto alle nostre capacità conoscitive, per rinviare alla dimensione relazionale come unica via di accesso a Lui. La sguardo contemplativo si sofferma su quello che è come il punto di innesto dell’economia nell’immanenza, attraverso il quale la Trinità del Cielo riversa il suo Amore e la sua Vita nel mondo nelle esistenze e relazioni concrete della trinità della terra. Il corpo e la storia vengono in tal modo trasfigurati dalla luce relazionale che la Trinità Beatissima sprigiona attraverso Gesù, Maria e Giuseppe.

7.5 Conclusione e proposta

La conclusione del presente lavoro aspira ad includere anche una dimensione propositiva a livello operativo. Infatti, la struttura ontologica tracciata, che dalla comunione tra la Trinità del Cielo si irraggia nella struttura “trinitaria” della relazione generativa dell’uomo e della donna, suggerisce l’importanza della cura delle reti di famiglie. Se l’Essere stesso, infatti, è “Famiglia” e si dà all’uomo attraverso una concreta famiglia, la pienezza dell’essere e, quindi, il benessere delle famiglie sarà legato proprio alla ricchezza relazionale che la struttura sia orizzontale sia verticale illustrata può assicurare. E in un momento di crisi, quando più è facile che la singola famiglia sia ferita, la rete sia naturale sia soprannaturale diventa ancor più essenziale, in quanto “luogo” reale dove l’identità relazionale dell’uomo, della donna e del figlio viene custodita e costantemente rigenerata.

Il mondo greco e la modernità non possono “vedere” tale realtà, perché sono intrappolati in un pensiero finito che conosce solo l’individuazione sostanziale, cioè fondata esclusivamente sulla correlazione tra identità e dialettica, perché senza relazione ontologica si può differenziare l’identità solo con la dialettica. In tale contesto la relazione uomo-donna viene ridotta necessariamente al livello meramente accidentale. In questo sia l’identità greca sia la dialettica moderna convergono. Invece, se la relazione uomo-donna stessa è fondata nell’ontologia trinitaria, allora sarà alla luce della paternità e della maternità che essa acquisterà pieno senso, in quanto la prima dice differenza, mentre la seconda dice identità, in modo tale che il rapporto uomo e donna potrà essere riletto come autentica relazione, cioè come contemporaneo darsi di identità e differenza, rispetto alla riduzione a una delle due operata dall’approccio greco o moderno.

In tal modo anche la pars destruens proposta attraverso Ratzinger e Agostino acquista un profondo significato, proprio perché preserva la differenza tra il Creatore e la creatura. Infatti per la relazione è necessario avere strumenti ontologici che permettano di dire nello stesso tempo l’identità e la differenza, l’identità che fonda la forza unitiva della relazione e la trascendenza che sta alla base della forza distintiva della stessa. In Dio questo si dà in forma infinita, sorgiva, dinamica, eterna e onnipotente. La reciprocità assoluta e l’identità sostanziale perfetta che caratterizza l’immanenza divina è, ovviamente su un altro piano rispetto all’identità relazionale che caratterizza il livello creaturale, in modo tale che il dono verticale che costituisce l’uomo e il suo amore è chiaramente asimmetrico. Tra la Trinità e il mondo c’è, ovviamente, autentica differenza ontologica, e non solo distinzione. Dio e l’uomo sono su piani ontologici diversi, tanto che il secondo potrebbe non esserci. Ma proprio per questo la creazione è dono autentico e la distanza ontologica permette di rileggere l’incarnazione come vera divinizzazione dell’uomo, con la sua dimensione corporale e storica. Così chi desidera pensare a partire dall’incarnazione deve riconoscere il gap ontologico tra Dio e il mondo proprio perché l’essere ha assunto una forma concreta e determinata. Il concreto e l’universale si sono dati insieme.

Ciò ha la sconvolgente conseguenza che la materia dice qualcosa di Dio che la mente e l’anima da sole non possono dire. L’unicità del nostro Dio è espressa dall’essere che ha corpo. Così Gregorio può rileggere il rapporto tra corpo e Logos perché ha riletto relazionalmente il logos, anche se non riesce ancora ad estendere tale sguardo alla distinzione sessuale. Il Magistero più recente giunge, invece, fino a questo punto, sviluppando la stessa logica trinitaria dei Padri.

Alla fine del percorso proposto si può, così, dire che la profondità della distinzione tra uomo e donna si rinviene a livello di identità relazionale, in modo tale da acquisire pieno rilievo proprio alla luce della rivelazione del Dio uno e trino. Quando, infatti, si assume uno sguardo che contempla il creato alla luce dell’immanenza trinitaria del Creatore si può riconoscere l’effetto emergente costituito dalla relazione stessa tra uomo e donna, che è così sottratta all’idealizzazione greca o alla dialettica moderna. Quest’ultima nell’esasperazione postmoderna sta conducendo all’annientamento della famiglia e, di conseguenza, a una radicale crisi ontologica. Dopo l’uccisione nietzschiana del padre, che ha segnato l’acme della modernità, si scatena nella postmodernità la lotta anche contro la madre, in modo tale da negare ogni possibilità alla grammatica dell’identità e della differenza. Senza cedere a nessuna tentazione millenarista, sembra proprio di assistere allo scontro tra il drago e la Donna narrata nel dodicesimo capitolo dell’Apocalisse.62 Di per sé esso non riguarda solo gli ultimi tempi, ma segna ogni epoca della storia della salvezza. Eppure non si può fare a meno di notare come ora il conflitto sia più manifesto.63

Per questo la direzione indicata dal Magistero, il quale ripetutamente invita a rileggere il rapporto uomo-donna alla luce della rivelazione trinitaria, pare essere questione di vita o di morte. Non si tratta di un mero esercizio accademico, in quanto il futuro dipende dalla generazione, che ha luogo proprio nella relazione tra il padre e la madre. Il futuro è generato dalla e nella relazione, così come la pace dipende radicalmente dalla possibilità di articolare nella parola, nel pensiero e nell’azione, l’identità e la differenza. E proprio all’interno della relazione tra uomo e donna il figlio impara, anche in modo doloroso, la necessità di tale articolazione. In questo senso la concezione del rapporto tra uomo e donna e, in particolare, la sua relazione con la paternità e la maternità, può essere ricondotta alla Trinità stessa. E l’opzione assunta riguardo a ciò costituisce, che lo si voglia o meno, una presa di posizione sul Primo Principio e, dunque, una decisione metafisica e religiosa, come spiegato nella premessa.

È urgente, quindi, lo sviluppo dell’ontologia trinitaria che si traduca in una teologia del corpo e in una teologia della storia. Infatti, ciò che rende il corpo tale rispetto alla mera materia indifferenziata è proprio il suo contenuto relazionale, così come la storia è tempo segnato dalle relazioni che determinano contemporaneamente la distinzione degli eventi e l’unità dell’insieme. Il corpo e la storia stessa parlano di una relazionalità orizzontale che in quanto effetto emergente rinvia ad una origine verticale, riportando, quindi, teologicamente verso la sorgente trinitaria di ogni cosa.

Nel testo di Amoris Laetitia 11 si faceva riferimento all’amore sponsale come “scultura” vivente di Dio. Alla luce di tutto questo un’immagine che, forse, illustra meglio delle molte parole usate quanto si cerca di esprimere è l’opera di Rodin intitolata La Mano di Dio:64 in essa Adamo ed Eva vengono all’esistenza nel palmo della mano del Creatore e sono generati insieme in questo “grembo” che non è altro che quel “seno del Padre” di cui parla Giovanni alla fine del Prologo al suo Vangelo. Questa è la casa (oikia) nella quale si può sviluppare un logos che possa essere veramente relazionale, cioè aperto alla Sorgente, nella quale il Padre eternamente genera il Logos nell’Amore che è lo Spirito Santo. Ecologia (oikologia) è termine teologicamente profondo65 in quanto rinvia ad un pensiero (logos) che sappia fare casa (oikia), cioè che sappia riconoscere e curare le relazioni generative. La prima e più necessaria ecologia è, dunque, proprio il pensare la relazione, la “logica” della relazione.

E tutta la storia dell’uomo è sospesa tra due relazioni di un uomo e una donna, delle quali la prima si lascia trascinare lontano dalla sorgente trinitaria cadendo nella dialettica e perdendo la “casa” più autentica della persona umana, cioè quel luogo dove è stata creata, quel palmo della mano del Padre. La seconda, invece, costituita da Cristo e Maria riporta tutto il mondo al Padre stesso, riunendo ogni cosa alla Sorgente dell’Essere. Così ogni rapporto uomo-donna è radicato trinitariamente in quello tra Cristo e Maria, Maria che è donna per sempre e Gesù, vero Dio e vero uomo, e per questo per sempre uomo.

1Per un’introduzione all’ontologia trinitaria, si veda: Piero Coda, “L’Ontologia Trinitaria: Che Cos’è?”, Sophia 2 (2012): 159-170.

2Nel Concilio Lateranense IV del 1215 si formula tale principio nel seguente modo: «Inter creatorem et creatura non potest tanta similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (DH, 806).

3Ha scritto Pierpaolo Donati: «Certo, una società è fatta così come è fatta la famiglia: se la famiglia si spezza, anche la società si spezza; se la famiglia diventa liquida, anche la società diventa liquida. Non possiamo lamentarci della frammentazione della società, delle ingiustizie sociali, della povertà, della mancanza di rispetto della dignità umana, se tutto questo proviene dal fatto che la legislazione e le politiche sociali non promuovono la famiglia, ma invece sostengono stili di vita che producono precisamente quei mali sociali» (Pierpaolo Donati, La famiglia. Il genoma che fa vivere la società [Soveria Mannelli: Rubbettino, 2013]: 9).

4Cfr. Id., La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010).

5Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (Torino: Einaudi, 2005).

6Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret I (Milano: Rizzoli, 2007): 170.

7Ibidem.

8Ivi, 171.

9Cfr. Agostino, De Trinitate, XII, 4.4.

10Cfr. Ireneo, Adversus haereses. 1, 30, 1; Mario Vittorino, Adversus Arium 1, 57, 7 – 58, 14.

11Agostino, De Trinitate, XII, 5.5.

12Cfr. ivi, 6.6.

13Cfr. ivi, 6.8.

14Cfr. ivi, 7.9.

15Cfr. ivi, 7.10-12.

16Ivi, 7.12.

17Cfr. Piero Coda, Dalla Trinità: l’avvento di Dio tra storia e profezia (Roma: Città Nuova, 2011): 469.

18Su questo punto di veda Kathryn Tanner, Social Trinitarism and its Critics in Giulio Maspero, Robert J. Wozniak (eds.), Rethinking Trinitarian Theology: Disputed Questions and Contemporary Issues in Trinitarian Theology (London-New York: T&T Clark, 2012): 368-386.

19L’opera è l’Ad Ablabium, per un commento si veda Maspero, La Trinità e l’uomo (Roma: Città Nuova, 2004).

20Cfr. Lucas F. Mateo-Seco, voce Matrimonio, in Mateo-Seco, Maspero, Gregorio di Nissa. Dizionario (Roma: Città Nuova, 2007): 379-381.

21Cfr. Gregorio di Nissa, De hominis opificio, XVI e XVII: PG 44, 188-192. Si veda Peter C. Bouteneff, “Essential or Existential: The Problem of the Body in the Anthropology of St. Gregory of Nyssa”, in Hubertus R. Drobner, Albert Viciano (eds.), Gregory of Nyssa: Homilies on the Beatitudes (The Eighth International Colloquium on Gregory of Nyssa) Congress Held in Paderborn 14-18 September 1998 (Boston: Brill, 2000).

22Nella teologia cappadoce l’approccio alla bontà del creato e, quindi, del matrimonio è chiaramente presente. Si veda ad esempio l’affermazione di Gregorio di Nazianzo: «Non ci sarebbero celibi se non ci fosse matrimonio» (Gregorio di Nazianzo, Oratio in Mattheum 19, 1-12, PG 36, 293).

23Mt 22, 29. Cfr. anche Mc 12, 25 e Lc 20, 34-36.

24Cfr. John Behr, “The Rational Animal: A Rereading of Gregory of Nyssa’s De Hominis Opificio”, Journal of Eastern Christian Studies 7 (1999): 219-247.

25Si veda Gregorio di Nazianzo, Oratio 29, 2 (SC 250, p. 180) e il parallelo in Plotino, Enneades V, 1, 6.

26Cfr. Maspero, Uno perché trino (Siena: Cantagalli, 2011): 73-75.

27Gregorio di Nissa, De hominis opificio, PG 44, 185BC.

28Cfr. Jean Daniélou, “La notion de personne chez les Pères grecs”, Bulletin des Amis du Card. Danièlou 19 (1983): 3-10.

29Cfr. Maspero, “Ontologia trinitaria e sociologia relazionale: due mondi a confronto”, PATH 10 (2011): 19-36.

30Gregorio di Nissa, De hominis opificio, 8, PG 44, 144AB.

31Cfr. ivi, 144BC.

32Ivi, 148B.

33Ivi, 149A.

34Cfr. ivi, 149BC.

35Si veda Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa (Roma: Città Nuova, 2013). Per una introduzione, si rimanda al mio intervento nell’Expert Meeting del 2015: Univers(al)ità: ontologia trinitaria e ricerca interdisciplinare, in Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione. Un dialogo tra teologia, filosofia e scienze sociali (Roma: ROR Studies Series, Edusc, 2016): 73-111; specialmente 75-79.

36Cfr. Gregorio di Nissa, Ad Apollinarem, 48.

37Cfr. Id., In Canticum, 8: GNO VI, 253,8-257,5.

38Cfr. Leonardo Lugaresi, Perché non possiamo più dirci pagani. Spunti patristici per una critica del politeismo contemporaneo, in Angela Maria Mazzanti (a cura di), Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda antichità (Bologna: ESD, 2009): 282-347, qui 314-315, n. 65.

39Cfr. Gn 2, 24.

40Cfr. Hans Urs von Balthasar, Teologia della storia: abbozzo (Brescia: Morcelliana, 1969) e Il tutto nel frammento: aspetti di teologia della storia (Milano: Jaca Book, 1990).

41Si veda, per questo, Gérard Verbeke, L’évolution de la doctrine du pneuma (Louvain: Desclée De Brouwer, 1945).

42Gv 4,24.

43Cfr. Origene, Commentarii in evangelium Joannis, XIII, 23, 139, 1-140, 12.

44Cfr. Kevin Corrigan, Evagrius and Gregory: Mind, Soul and Body in the 4th Century (London: Routledge, 2016).

45Papa Francesco, Amoris Laetitia, n. 11.

46Clemente di Alessandria, Pedagogo II, 10, 83, 2.

47Cfr. Platone, Simposio, 190cd. Si veda anche Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, IV 4.6.5.

48Ovidio, Metamorfosi, III, 339-50.

49Si veda, da una prospettiva teologica: Alessandro Clemenzia, Sul luogo della terzietà reciprocante, in Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione, 191-219.

50Ratzinger, Guardare Cristo (Milano: Jaca Book, 1989): 72.

51Cfr. Gn 2, 24.

52Karol Wojtyla, Raggi di paternità, in Id., Opere letterarie (Città del Vaticano: LEV, 1993): 522.

53Cfr. Mt 19, 3-12.

54Da tale prospettiva il celibato sacerdotale acquista una rilevanza particolare, in quanto il maschio rinvia alla paternità divina proprio per la connessione tra differenza e trascendenza. Inoltre, e a un livello ancora più profondo, se la relazione non fosse della stessa densità ontologica dell’essenza allora sarebbe davvero difficile sostenere in termini non meramente prescrittivi anche il sacerdozio esclusivamente maschile: se la distinzione tra uomo e donna, infatti, fosse solo accidentale, l’esclusione delle donne dal ministero rischierebbe di essere intesa come arbitrio o, peggio, di essere fraintesa come affermazione di una inferiorità sostanziale. L’identità relazionale, invece, permette di mantenere la struttura simbolica, ontologicamente fondata nella relazione stessa, senza subordinare nessuno dei sessi: come il Padre è distinto dalle altre due Persone senza che queste siano a Lui inferiori, e come il Padre stesso è Padre solo in e attraverso le altre due Persone, così il sacerdote vir è tale solo attraverso la donna. Basti pensare al rapporto tra Gesù, Sommo Sacerdote, e Maria, Regina del Cielo e della terra.

55Wojtyla, Raggi di paternità, 522.

56Cfr. Rémi Brague, Ancore nel cielo: l’infrastruttura metafisica (Milano: Vita e pensiero, 2012).

57Donati, Genoma, 65.

58Cfr. Id., La matrice teologica, 211-216.

59Cfr. Ct 4, 9-12 e 5, 1.

60San Josemaría Escrivá, meditazione Consumados en la unidad, citata in Salvador Bernal, Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer (Milano: Ares, 1985): 360.

61Id., risposta ad una domanda in Argentina, 14 giugno 1974: Catequesis en América, I, 449 (AGP, Biblioteca, P04).

62Si pensi all’ideologia del gender e alla pratica dell’utero in affitto.

63L’ultima opera di René Girard identifica l’apocalissi con una crisi mimetica globalizzata dovuta alla cancellazione di ogni differenza, crisi che richiederà il ritorno del Cristo per salvare l’uomo: cfr. René Girard, Portando Clausewitz all’estremo: conversazione con Benoît Chantre (Milano: Adelphi, 2008).

64L’opera risale probabilmente al 1896.

65Si veda, per il parallelo, con l’oikonomia: Maspero, Ontologia trinitaria e speranza: dimensione eco-nomologica della crisi attuale, in Enrico Garlaschelli, Giovanni Salmeri, Paolo Trianni (a cura di), Ma di’ soltanto una parola… Economia, ecologia, speranza per i nostri giorni (Milano: EDUCatt, 2013): 143-152.