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Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna

La differenza uomo-donna tra identità e relazione. Il punto di vista della psicologia sociale

Raffaella Iafrate

Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

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1.1 Il punto di partenza: l’identità relazionale del soggetto

Uno dei temi portanti della riflessione psicologica è quello relativo alla domanda sull’identità del soggetto.

Su questo tema, la posizione condivisa da molta parte della psicologia (in particolare la psicologia dello sviluppo e la psicologia sociale) ritiene che l’uomo sia originariamente relazione: la sua origine scaturisce da un incontro, da una relazione tra un padre e una madre e la sua crescita dipende dalla sua capacità di stabilire altre relazioni adeguate con le persone che costituiscono il suo ambiente familiare e sociale.

In particolare, gli psicologi dello sviluppo sottolineano che il bambino già da quando è nel ventre materno è un soggetto capace di comunicazione e relazione. I più recenti studi sul rapporto tra la madre e il figlio nella sua vita fetale, ripresi e sviluppati nell’ambito della neonatologia e della patologia neonatale – in particolare per ripensare l’organizzazione dei reparti dei grandi prematuri – mostrano il profondo legame addirittura già tra la madre e il feto, e la profonda complementarietà dialogica tra madre e figlio nelle prime settimane di vita.

La “condivisione” di esperienze sensoriali e di emozioni tra il feto e la madre – pensiamo anche solo al ritmo costituito dal battito del cuore della madre e al suono della sua voce – entrerà probabilmente a far parte della memoria implicita,1 cioè di quella memoria che non è più accessibile come contenuto, ma che rimane come tendenza a porsi in un determinato modo nelle relazioni. Da questi studi emerge uno sguardo alla persona nel segno del riconoscimento dei legami presenti nella vita del neonato, che appare da subito come persona competente e con una storia emotiva e relazionale, non solo biologica e individuale.

Se gli studi di psicologia dello sviluppo evidenziano dunque l’origine relazionale della persona, la psicologia sociale si spinge ancora oltre arrivando ad affermare che l’individuo non può nemmeno definirsi se non in relazione agli altri: l’identità, infatti, nasce e si struttura nelle diverse forme di relazione sociale, che vanno dalle relazioni intime (in particolare familiari) all’appartenenza a gruppi più o meno ampi. È noto il cosiddetto modello tripartito del Sé2 secondo cui ogni persona, accanto al Sé individuale, che si struttura attorno a quegli aspetti che la differenziano dagli altri individui, possiede un Sé relazionale, che si riferisce a quegli aspetti che si costruiscono nelle relazioni significative e che definiscono anche il ruolo delle persone nelle relazioni stesse, e un Sé collettivo, che fa riferimento all’appartenenza a gruppi sociali più ampi. Mentre il Sé individuale confluisce in quella che in psicologia sociale è definita identità personale, il Sé relazionale e collettivo rappresentano due dimensioni della cosiddetta identità sociale degli individui. D’altra parte, anche quando semplicemente si tratta di dare una definizione di sé, rispondendo alla domanda “chi sono io?”, ci accorgiamo che tale definizione (figlio/figlia, moglie/marito, madre/padre, fratello, amico, professionista…) è fondata su aspetti che non si limitano al livello individuale, ma che sono riconducibili a relazioni e legami con l’altro. Il nostro vivere nel mondo passa attraverso esperienze di appartenenza diretta a gruppi specifici: famiglia, classi scolastiche, compagnie di amici, gruppi di lavoro, che definiscono la nostra identità. La dimensione relazionale è dunque connaturata con l’umano e anche l’individuo più isolato e solitario porta i segni di un’appartenenza sociale, che è prima di tutto familiare ed è già presente nel nostro cognome e nome, che altri hanno scelto per noi. Gli esseri umani sono dunque “esseri relazionali”. Potremmo dire che l’uomo è originariamente relazione e non può essere compreso né spiegato in una prospettiva riduttivamente individualistica.3

Ciò spiega anche perché dal punto di vista psicologico le persone “stanno bene” nelle relazioni e “stanno male” quando in qualche modo è minacciata la dimensione relazionale.

Ma comprendiamo meglio cosa intendiamo per dimensione relazionale. Innanzitutto relazione è ben più di interazione. Le relazioni rimandano ad altro rispetto a ciò che si osserva, ad un legame che precede l’interazione in atto e ne costituisce il contesto significativo. Le numerose interazioni e scambi che costellano la vita quotidiana delle persone che si amano, si possono comprendere appieno solo se si considera che i soggetti sono profondamente legati a monte e hanno una storia comune. Caratteristica della relazione, a differenza dell’interazione contestualizzata nel qui ed ora, sono infatti i tempi lunghi, è la storia personale e sociale che lega un uomo e una donna, due amici, un genitore e un figlio, un educatore e un discepolo. La relazionalità non può essere esaurita nell’istante dell’interazione di scambi immediati: essa supera il qui e ora e si proietta in una dimensione storica e progettuale.

1.2 Relazione presuppone differenza

Affermare che la persona è originariamente e costitutivamente “relazione” significa però introdurre un concetto fondamentale, quanto oggi avversato, ossia quello di “differenza”.

La relazione non si dà se non attraverso la differenza. La relazione infatti implica “l’altro”, pertanto implica qualcuno differente da sé. Se non c’è differenza non ci può essere relazione. Nell’essere umano assistiamo pertanto ad una sorta di paradosso: la sua identità passa attraverso il riconoscimento della differenza tra l’“io” e il “tu”. “Io sono ciò che non sei tu, tu sei ciò che non sono io”, “io posso definire me stesso solo attraverso il tu”.

Ciò significa dunque riconoscere il limite intrinseco dell’essere umano: quel “non” presente nelle due espressioni sopra riportate evoca immediatamente il senso di tale limite-mancanza “ciò che non sei tu” “ciò che non sono io”.

Ecco perché il rapporto tra dimensione individuale e sociale dell’identità della persona è un rapporto non privo di conflitti.

L’altro è ciò che mi de-finisce, e quindi, al tempo stesso, è il mio limite. Questo, in un’ottica individualista che concepisce l’umano come “individuo autodeterminato e autodeterminante”, libero e svincolato da qualsivoglia costrizione, è inaccettabile. Fondamentale dunque, per affrontare temi che sollecitano riflessioni su concetti quali quelli di identità, differenza, relazione, è chiarire da dove si parte; occorre innanzitutto compiere un’opzione antropologica che contropropone ad una visione individualistica dell’umano, una concezione di persona come “essere in relazione, frutto di legami e generatrice di legami”.

1.3 Differenza incarnata e generativa

Facciamo allora un altro passo: questa differenza costitutiva dell’umano che definisce l’io in rapporto a un tu, non è astratta o solo teorica, ma incarnata.

La persona umana è corpo e, come ci insegna la biologia, già dall’embrione corpo sessuato: lo dimostra il fatto che non esiste esperienza relazionale che non abbia una profonda e larga implicazione corporea e non ci interpelli come persone con proprie caratteristiche genetiche e sessuali.

Che il corpo sia una parte ineludibile del nostro io e della nostra individualità è un dato evidente ed innegabile. Basti pensare a come lo sviluppo della coscienza parta dall’esistenza corporea e come la nostra identità si sviluppi attraverso le trasformazioni che il nostro corpo subisce (pensiamo ai processi di costruzione di identità in adolescenza), o a come il corpo possa esprimere il nostro benessere ed il nostro malessere al di là delle parole (si vedano tutti gli studi sui disturbi psicosomatici, o sui disturbi dell’alimentazione come l’anoressiae la bulimia).

Prescindere dal corpo è pertanto impossibile e quando si tenta di farlo i rischi che ne derivano sono enormi. Scrive un paziente in cura per problemi di dipendenza da internet: «Dove il corpo non c’è, dove non c’è il corpo che ti ferma, tu puoi andare avanti all’infinito a fare cose insensate, dallo sviluppo di ossessioni ed elucubrazioni solo cerebrali alla perdita del senso di realtà con il rifugio in ambienti virtuali, fino alle esperienze più aberranti di tradimenti via chat, o costruzioni di relazioni perverse e distruttive coltivate in rete…».

Si tratta allora di capire come il corpo esprime l’identità della persona, ossia se a dominare la scena è un “corpo per sé” o un “corpo per l’altro”.

Oggi assistiamo ad un uso del corpo facilmente riconducibile ad una prospettiva individualistico-narcisistica (corpo da distruggere, negare, superare vs corpo narcisisticamente e ossessivamente curato e al centro di attenzione).

La chiave di lettura per parlare del corpo opposta a quella individualistico-narcisistica è invece quella relazionale. Il corpo rende visibile la differenza (“ciò che non sei tu”) il riferimento ad “altro” fuori dal sé, al senso del limite che inevitabilmente accompagna l’incontro con l’altro: il corpo in relazione ci mette di fronte al “limite”, ci segna un “confine” con il quale continuamente fare i conti. Il narcisismo fagocita l’altro o lo espelle, mentre la relazione fa spazio all’altro riconoscendo il proprio limite: ancora una volta si tratta di operare un’opzione culturale a favore di una prospettiva relazionale o individualistica.

Il paradosso di questa prospettiva relazionale è che proprio su questo limite intrinsecamente umano si colloca la più grande potenzialità, la più straordinaria risorsa della persona: solo in questa prospettiva è infatti possibile interpretare il corpo come strumento capace, proprio grazie al suo limite, di incontrare l’altro “diverso” da sé e di generare un terzo. Il mondo va avanti grazie a questo incontro di limiti!

Il corpo ci parla della relazione nella sua origine (la somiglianza fisica ci parla per esempio del legame tra generazioni) e nel suo scopo (il corpo nella sua differenza sessuale può procreare).

A fronte di una realtà culturale dove spesso ci si pensa “autogenerati” e forse proprio per questo spesso spaventati dalla differenza – se non addirittura violenti nei confronti di essa –; a fronte di una cultura attraversata dalla fantasia onnipotente di superamento del limite (tra cui quello del genere di appartenenza) e poco interessata a fornire un senso e ad indicare obiettivi alle esperienze di vita degli individui, la concezione di “corpo in relazione” si propone come luogo dell’incontro tra le differenze orientato ad un obiettivo che si può tradurre nell’espressione “generatività biologica e sociale”. La differenza biologica è infatti generativa. Ma in una concezione unitaria della persona, dove corpo e mente non sono in antitesi, o indipendenti, non si può non sottolineare che alla differenza generativa del maschile e del femminile si accompagna una generatività della differenza di tutte le componenti umane, psichica, spirituale e culturale.

La vera sfida culturale di oggi sta dunque nel recuperare il senso, l’obiettivo della vita umana, la sua più intrinseca funzione, ossia quella generativa.

Educare alla generatività è quindi un compito fondamentale non solo per il bene dei giovani, ma dell’intera società. Ricordiamo che, come afferma Erikson, il contrario della generatività è la stagnazione.4

Va detto peraltro che – come acutamente ha osservato Eugenia Scabini5 – vi è una relazione reciproca tra generatività e paura della morte (il limite, la creaturalità): è la consapevolezza della fine che spinge ad essere generativi, e tutte le forme di generatività progressivamente favoriscono l’accettazione della morte facendo maturare l’amore per la vita. Drammatico dunque quando una società non è più generativa, perché comunica una mancanza di accettazione del limite. La tentazione onnipotente di un corpo senza limiti, nemmeno quello della sua de-finizione sessuale, forse ci parla di questa paura inaffrontabile, che è poi fondamentalmente una mancanza di speranza; in altre parole è come se l’uomo contemporaneo cercasse di superare il limite della morte fantasticando un’onnipotenza impossibile.

Individuare nella generatività – realizzabile nell’incontro tra le diversità incarnate di uomini e donne – la piena realizzazione dell’identità della persona e lo scopo per cui siamo al mondo, attribuisce dunque ai nostri limiti un respiro di speranza.

1.4 La differenza generativa di uomo e donna nelle relazioni familiari

Le riflessioni della psicologia sociale, specie quelle dedicate alla coppia e alla famiglia, mostrano concretamente la preziosità della differenza uomo-donna nella costruzione dell’identità della persona che nella famiglia ha il suo luogo primario di realizzazione.

Coppia e cura della differenza

La coppia innanzitutto si presenta nella letteratura scientifica come il luogo per eccellenza dell’incontro tra le differenze fondative dell’umano, quelle tra generi, generazioni e stirpi.6

Le ricerche sulla coppia nelle quali si analizzano le differenze di genere, mostrano l’importanza di una reciprocità uomo-donna e di alcune peculiarità che caratterizzano i due generi dal punto di vista psicologico7 e che definiscono l’identità proprio grazie al confronto tra differenze.8

La letteratura mostra come uomini e donne differiscano nella concezione di sé, nel modo di sviluppare la propria moralità e nella modalità di concepire i rapporti umani.

Le donne, ad esempio, non solo si definiscono nel contesto dei rapporti umani, ma si giudicano in base alla propria capacità di prendersi cura delle cose e delle persone; la bellezza e l’importanza dell’intimità e dell’accudimento risulta un’esperienza essenziale dell’identità femminile. L’identità maschile, al contrario, si definisce in base a criteri quali la ricerca di autonomia, la separatezza, la capacità di prendere decisioni, la riuscita individuale, caratteristiche che portano a far coincidere la maturità dell’individuo con la capacità di essere autonomo ed indipendente.

Inoltre, mentre per gli uomini il pericolo nasce da situazioni di intimità, cioè da situazioni in cui temono di essere intrappolati, traditi, oppure di rimanere prigionieri, le donne concepiscono il pericolo come qualcosa di impersonale e, sostanzialmente, temono l’isolamento.

Un altro significativo aspetto di differenza è l’attenzione alla concretezza tipica delle donne che le porta a ragionare contestualmente, a risolvere i problemi considerando tutti gli elementi della situazione, piuttosto che seguendo un ragionamento formale e categorico come quello maschile.

Le ricerche sulla coppia mostrano che tenere insieme queste differenze non è automatico, è una tensione costitutiva del rapporto di coppia. Mantenere la comunione (cum-unione) senza annullare la differenza, percepirsi diversi e autonomi, ma legati è un compito e una sfida. Identità personali dei singoli e identità di coppia9 si costruiscono in questo movimento dialettico nel quale si avvertono due pericoli: o il vedere solo la differenza, fino a considerarla estraneità, o il sottolineare solo la somiglianza, fino alla fusionalità, annullando la diversità e non vedendo l’alterità del coniuge, ma proiettando sull’altro i propri bisogni e le proprie aspettative: si parla a questo proposito di struttura “drammatica” della coppia10 che, attraverso un processo dinamico, porta ad integrare, non senza conflitti, le differenze in un’unità. Il compito fondamentale a cui la coppia è chiamata è proprio quello di sapere gestire questa conflittualità derivante dalla differenza tra uomo e donna, dall’incontro-scontro tra storie familiari diverse, dai mutamenti a cui il patto viene sottoposto dal trascorrere del tempo, dai cambiamenti dell’assetto relazionale che la famiglia subisce durante le diverse transizioni che l’attraversano. D’altra parte non ci sarebbe bisogno di un patto di coppia (la cui radice etimologica rimanda a pax-pacis) se non ci fosse nulla da “pacificare” e se nella relazione coniugale l’accordo fosse “automatico” e “spontaneo”.

Questo atteggiamento si pone in contrasto con “il mito del naturalismo” che erroneamente porta le persone a credere che ogni coppia debba stare insieme “naturalmente”, senza sforzi, in una utopistica armonia priva di incrinature, pena la sua rottura. Questa pericolosa rappresentazione rende la coppia fragile e vulnerabile alla delusione. Le difficoltà si presentano allora come sintomo della fragilità della relazione: «se ci sono difficoltà allora tra di noi qualcosa non va» e si dimentica che esse possono essere invece un’occasione per sperimentare l’eccedenza e la generatività del legame. La dimensione conflittuale dell’esperienza di coppia, nel suo significato etimologico di cum-fligere ossia di “combattere insieme”, non può essere negata, ma merita di essere trattata e valorizzata anche nelle sue componenti costruttive e nello slancio innovativo di cui è pregna. Integrare gli aspetti conflittuali nella relazione, infrangere il “mito del naturalismo” dell’amore coniugale, superare la visione idealizzata della relazione tra partner (l’altro deve essere a tutti i costi colui che soddisfa ogni bisogno in ogni momento della vita), per approdare ad una consapevolezza realistica e serena del diritto di ogni persona (anche del proprio partner!) di avere dei limiti, di poter cambiare, si pone allora come una delle sfide più intriganti del percorso di una coppia che decida di investire sul futuro del proprio legame.11 La costruzione di una identità di coppia non può che passare dal confronto-conflitto di differenze, che approda – nelle situazioni più “riuscite” – al riconoscimento reciproco dell’identità di ciascun membro: «amo te perché sei tu, esattamente per quello che sei».

Coppia e genitorialità: cura responsabile

L’importanza della differenza è particolarmente rilevante quando dalla riflessione sulla coppia si passa a quella sulla famiglia, ossia si introduce la dimensione intergenerazionale (essere genitori/essere figli).

Per crescere e costruire la propria identità di persone, le nuove generazioni hanno infatti bisogno di una “cura responsabile”, ossia di aspetti di affetto/accudimento (aspetto affettivo) e, al tempo stesso, di norma/responsabilità (aspetto etico).

Ciò ha a che fare con gli aspetti fondativi dell’umano che ha sempre origine dall’incontro tra un materno e un paterno. Il dono materno, il matris munus (da cui “matrimonio”) è simbolo del versante affettivo dell’educazione e consiste sostanzialmente nel dare vita, nell’accettazione e valorizzazione incondizionata del figlio, nel suo accudimento, nel proteggere e dare nutrimento affettivo perché il figlio acquisisca fiducia in sé e negli altri, stima di sé, vitalità e capacità di relazione. Tale dono costituisce una sorta di “serbatoio psichico” di fiducia e di speranza a cui attingere lungo tutta l’esistenza per contrastare l’angoscia della perdita e della morte.

Il dono paterno, il patris munus (da cui “patrimonio”) è simbolo del versante etico-normativo dell’educazione; ricordiamo che la norma rappresenta la ratio di ciò che è bene e ciò che è male, pone di fronte al limite, aiuta a riconoscere la realtà esterna con cui si deve fare i conti. Il dono paterno si esprime nel conferire e legittimare appartenenza alla storia familiare (non a caso il cognome proviene dal padre) e nel dare aspetti normativi di “responsabilità” (regole, norme, spinte emancipative, limiti) per fornire ordine e senso alla vita e alla crescita. Il dono paterno aiuta anche la lettura del significato virtuoso del limite, che non è solo privazione, ma anche condizione alla nascita del desiderio per il suo superamento. È solo l’esperienza del limite che consente infatti la nascita di un desiderio e in questo i genitori hanno una grande responsabilità: consentire alle giovani generazioni di accedere all’esperienza del desiderio. A questo proposito l’esperienza clinica insegna come molti episodi di devianza o di dipendenza riscontrati negli adolescenti o nei giovani adulti siano legati all’impossibilità sperimentata da questi ragazzi di incontrarsi con dei divieti da parte dei genitori.

Dunque solo offrendo dei limiti, dei “no”, si può innescare una relazione virtuosa tra limite e desiderio, tra finitezza personale e ricerca dell’altro, favorendo la piena umanizzazione del figlio: uscire dall’onnipotenza infantile e costruire un’identità adulta significa infatti incontrarsi (o scontrarsi) con “l’altro da sé”, esperienza fondamentale che evidenzia il limite (tu sei quello che io non sono) e al tempo stesso la potenzialità dell’umano (solo insieme a te posso andare oltre me stesso).

L’educazione alla capacità di relazione – ossia alla piena realizzazione della persona nella sua identità di essere relazionale – è l’obiettivo comune a cui tendono sia il dono materno che il dono paterno: una relazione verso la quale rivolgersi con lo sguardo aperto e fiducioso – promosso dal dono materno –, ma anche con la consapevolezza del limite e della differenza propri e dell’altro – promossa dal dono paterno.

Il dono materno e quello paterno abbisognano l’uno dell’altro e si promuovono a vicenda lungo tutto il percorso di crescita del figlio.

In particolare, è stata da sempre ampiamente sottolineata l’importanza di instaurare dalla primissima infanzia un buon legame di attaccamento con la madre, così come, soprattutto negli studi più recenti, è stata enfatizzata la centralità della funzione paterna man mano che figlio cresce, a motivo della necessità di regole e di orientamento verso l’autonomia che, specie dall’adolescenza in poi, divengono fondamentali.

D’altra parte, già dalla nascita del figlio al padre è chiesto – attraverso la facilitazione del processo di separazione-individuazione dalla madre – di consentire nel bambino la rinuncia al senso di onnipotenza tipico delle prime fasi della vita, quando egli si sente un tutt’uno con la madre ed è soddisfatto da lei in tutti i suoi bisogni vitali.

È dunque fondamentale che nella relazione madre-figlio/a ci sia il riferimento ad un terzo. È il padre che istituisce la differenza/differenziazione dall’originaria simbiosi con la madre (come ha sempre affermato la psicoanalisi) e che, riconoscendo il figlio e dandogli il nome, “taglia”, “separa”, “de-finisce” il figlio sottraendolo dallo stato di onnipotenza ed introducendo il senso del limite e contemporaneamente il senso e la direzione della sua crescita, favorendo così la sua piena umanizzazione.

Se il parto è dunque affidato interamente alle donne (per questo mater semper certa est), la nascita è rappresentata dal riconoscimento del padre, dalla nominazione (in nomine patris), dall’ingresso del nuovo nato nella famiglia come persona unica e irripetibile proprio perché “distinta”, “separata” e per questo “nominata”. È il padre ad infondere ad un atto biologico come la nascita un carattere propriamente “umano”. La donna dunque mette al mondo, ma non genera da sola. Perché il processo della nascita sia compiuto occorre spostarsi da un piano puramente biologico ad uno simbolico-sociale, che proprio il riconoscimento paterno e l’assegnazione del “nome del padre” consente di introdurre.

Non va dimenticato inoltre che tutta la letteratura psicologica mette da sempre in evidenza come i padri giochino un ruolo fondamentale anche nelle fasi successive alla nascita, lungo il percorso di crescita dei figli, nella loro educazione e nella trasmissione di competenze e valori. Se è vero – come è vero – che per crescere un individuo ha bisogno di fare esperienza della differenza, ossia di essere in grado di mettersi in rapporto, confrontarsi e imparare dall’altro, la presenza della funzione maschile/paterna nel processo educativo appare decisiva. A fronte di una posizione materna che, come mostrano molte ricerche, è spesso idealizzante e a volte “cieca” nei confronti delle carenze del figlio, la funzione paterna consente al figlio di fare i conti con le proprie risorse, ma con realismo e accettazione del limite e al tempo stesso con la garanzia di una protezione e di un sostegno costanti.12

Numerosi studi, inoltre, hanno mostrato in più occasioni come, in situazioni familiari peculiari caratterizzate dall’assenza o dalla carenza della figura paterna, si possano riscontrare non poche difficoltà, anche a lungo termine, per i figli. In questi casi si ribadisce l’importanza di garantire sempre ai figli un accesso, almeno simbolico, al proprio padre, favorendo comunque il mantenimento del legame, del suo significato o del suo ricordo, anche qualora esso sia stato interrotto o spezzato da separazioni, lutti o fratture familiari. Il legame con il padre è il legame con la propria origine, la propria storia, le proprie radici: il fondamento dell’identità di ogni persona non può prescindere da questo dato di fatto inconfutabile, che non può essere negato se non a costo di gravi squilibri e rischi di sofferenza psichica e spirituale.

Abbiamo dunque un bisogno vitale del padre: ne ha bisogno ciascuno di noi nella sua esperienza personale e familiare, ma ne ha bisogno l’intera società per recuperare il valore della norma, del limite, ma anche della sfida coraggiosa di scommettere sul futuro, che solo chi sa proiettarsi oltre il proprio narcisistico e autoreferenziale confine del sé può affrontare.

In sintesi, lungo il percorso di crescita dei figli, la compresenza di un “codice affettivo materno” e di un “codice etico paterno”, è fondamentale per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale:13 pertanto madre e padre giocano ruoli e funzioni diverse e complementari nella crescita dei figli, pur modificandosi nel tempo a seconda della loro età.14

L’educazione di un figlio richiede dunque che siano esercitate entrambe le funzioni, perché esse rispondono a bisogni umani e universali.

Il tema della “necessità” per ogni essere umano di un paterno e di un materno, o meglio, proprio di “quel padre” e di “quella madre” implica uno spostamento di attenzione dal piano materiale-fenomenologico (può succedere che un figlio si trovi a crescere senza un genitore) ad un piano simbolico-antropologico e, soprattutto, impone un capovolgimento della prospettiva dal punto di vista dei genitori a quello del figlio. Se c’è infatti un dato indiscutibile su cui non si può obiettare, è che per nascere, “quel figlio” ha bisogno di “quel padre” e di “quella madre”. La differenza di genere e di generazione sono inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica: il figlio è sempre generato da due e da due “diversi”, da un maschile e da un femminile, da due stirpi familiari, da due storie intergenerazionali e sociali e di tutto ciò ha costante bisogno nella sua crescita.15

Pertanto il figlio nel tempo, per strutturare la propria identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno generato. Non c’è identità senza un’origine. In altre parole non riusciamo a rispondere esaurientemente alla domanda “chi sono io?” senza far riferimento alla nostra origine, ossia al padre e alla madre che ci hanno generato.

Dunque poter fare riferimento sul piano della realtà a due genitori, ovvero a quel padre e a quella madre nella loro essenziale unicità e, attraverso di loro, alle due stirpi familiari è una condizione necessaria per dare un fondamento reale e non immaginario alla propria identità. Ne è prova l’angoscia di chi, per i motivi più diversi, non ha accesso alle proprie origini e non sa o, non di rado, è impedito od ostacolato nella conoscenza, come ad esempio nei casi di adozione.

In sintesi, possiamo dire che la necessità di riconoscersi in “due differenti”, in un padre e in una madre, è un’istanza originaria dell’umano e, al di là della presenza/assenza fisica delle due figure, il diritto inalienabile di chi è figlio, ciò che non può essere censurato e che pretende di essere rispettato è l’accessibilità almeno simbolica – quando non è possibile quella reale – alla propria origine, il potersi riconoscere in un’appartenenza che da sempre e per sempre costituirà i “mattoni” della propria identità personale e lo definirà come persona pienamente umana.

1Joseph Sandler, Anne-Marie Sandler, Gli oggetti interni. Una rivisitazione (Milano: Franco Angeli, 2002).

2Marilynn B. Brewer, Wendi Gardner, “Who Is This ‘We’? Levels of Collective Identity and Self Representations”, Journal of Personality and Social Psychology, 71 (1) (1996): 83-93.

3Raffaella Iafrate, Anna Bertoni, Gli affetti. Dare senso ai legami familiari e sociali (Brescia: La Scuola, 2010).

4Erik H. Erikson, The life cycle completed: A review (New York: Norton, 1982) (tr. it. I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma: Armando, 1984).

5Eugenia Scabini, Giovanna Rossi (a cura di), Le parole della famiglia (Milano: Vita e Pensiero, 2006).

6Scabini, Iafrate, Psicologia dei legami familiari (Bologna: Il Mulino, 2003).

7Pilar Vigil, ginecologa ed antropologa della Pontificia Accademia per la Vita, ha proposto interessanti riflessioni sulle differenze tra maschile e femminile anche dal punto di vista neurofisiologico.

8Iafrate, Bertoni, Come musica (Milano: Edizioni San Paolo, 2015).

9Iafrate, Camillo Regalia, “Come colonne di un tempio. L’identità di coppia”, in Regalia, Elena Marta (a cura di), Identità in relazione. Le sfide odierne dell’essere adulto, (Milano: The McGraw-Hill Companies, 2010): 35-51.

10Scabini, Vittorio Cigoli, Il familiare (Milano: Edizioni Cortina, 2000).

11Iafrate, Maria Luisa Gennari, “Cura della relazione coniugale”, in Scabini, Rossi (a cura di), Le parole della famiglia: 105-116.

12Iafrate, Bertoni, Figli dati al mondo. Educare oggi in famiglia (Roma: Editrice Ave, 2013).

13Scabini, Cigoli, Il familiare (Milano: Edizioni Cortina, 2000).

14Iafrate, Rosa Rosnati, Riconoscersi genitori. I percorsi di Promozione e Arricchimento del Legame Genitoriale (Trento: Edizioni Erikson, 2007).

15Iafrate, Giancarlo Tamanza, “Essere padri e madri oggi”, in Centro d’Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia (a cura di), Familiarmente: la qualità dei legami familiari (Milano: Vita e Pensiero, 2012): 41-48.