Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna
L’altro come non-proprio. Considerazioni filosofiche sul paradigma relazionale
Sante Maletta
Università degli Studi di Bergamo
In un recente contributo dedicato al paradigma relazionale Sergio Belardinelli si interroga in merito alla sua rilevanza culturale e sociale. Tra le varie risposte che lo studioso propone ce n’è una che ha un indubbio spessore filosofico: il paradigma relazionale «serve a vedere la normatività insita nella relazione», la quale permette di «costruire una teoria della società che sia adeguata, ossia capace di descrivere come le cose stanno, ma sia anche critica, ossia capace di denunciare le patologie sociali, senza cadere in cattiva ideologia».1 Se questo è vero, allora il paradigma relazionale diviene interessante anche dalla prospettiva della filosofia sociale contemporanea, vale a dire dal punto di vista di un’indagine sulle interrelazioni tra le forme della soggettività e i modi di vita sociali in una prospettiva descrittiva e critica, la quale di conseguenza rimanda a un criterio morale più o meno esplicito e quindi a un ideale di compimento umano. Un simile approccio mi sembra giustificato anche alla luce di ciò che Pierpaolo Donati afferma in merito alla pluralità delle forme sociali, la quale non implicherebbe una loro equivalenza nel configurare le relazioni in modo adeguato a motivo della normatività delle relazioni sociali che trascende le virtù personali di coloro che vi sono coinvolti.2
Esistenzialismo e filosofia dell’esistenza
La prospettiva che sostiene l’esistenza di una normatività interna alle relazioni sociali va considerata all’interno del clima culturale tardo-moderno, caratterizzato com’è dalla diffusione oramai capillare di un’etica basata sull’ideale dell’autocostituzione sperimentale dell’individuo. Semplificando senza banalizzare, si può dire che il senso comune odierno ha tra i propri presupposti più o meno consapevoli la tesi fondamentale dell’esistenzialismo di stampo sartriano che nell’essere umano l’esistenza precede e determina l’essenza.3 Sarebbe però ingannevole affermare che tale esistenzialismo irreligioso (in quanto non riconosce per l’essere umano alcuna forma di radicale dipendenza) rappresenti la magna pars della filosofia contemporanea. Se è vero – come ha mostrato Alasdair MacIntyre – che esso è simpatetico con l’antropologia prevalente nella filosofia di stampo analitico, è giusto e doveroso rimarcare che una parte rilevante della riflessione filosofica contemporanea lavora a partire da una concezione dell’essere umano che insiste sulla sua strutturale finitezza, intesa come alterità, negatività, non-proprietà. Un esempio paradigmatico di tale posizione teorica è quello di Hannah Arendt, la quale ha saputo sottoporre una filosofia dell’esistenza di taglio fenomenologico come quella heideggeriana alla prova del giudizio sulla realtà coeva.4 L’interesse dell’antropologia arendtiana agli occhi della cultura contemporanea sta nel fatto di essere costruita come una dottrina non della natura umana, ma della condizione umana. Parlare in questi termini significa affermare che si danno fattori decisivi e ineliminabili che rendono la vita umana e che quindi sono dei veri e propri esistenziali in senso heideggeriano, individuando per l’essere umano non solo i suoi limiti, ma anche le sue condizioni di possibilità.5
Tra le condizioni dell’esistenza umana evidenziate da Arendt hanno per noi un grande rilievo la natalità e la pluralità. La natalità è espressione di un principio di “naturalità” ineliminabile dall’esistenza, una naturalità che è indice di una radicale non-proprietà. C’è un’origine che ci precede, un dono del quale ci parla il nostro stesso corpo alla luce di un’interrogazione fenomenologica.6 L’essere umano è una creatura, dipende da qualcosa che precede e trascende la condizione umana, ed è proprio tale dipendenza creaturale che impedisce di ridurre l’essenza a mero prodotto dell’esistenza.7 Tale irriducibilità – la quale bandisce la possibilità di una piena proprietà del soggetto su se stesso – funge da principio dell’azione; l’essere umano infatti agisce (cioè esiste) per manifestare agli altri essere umani e a se stesso la propria essenza e tale dinamica copre tutta l’estensione della vita umana sino alla sua fine e oltre, visto che è nella parola altrui che il significato di un’esistenza può apparire in una unitarietà seppur provvisoria. È solo in tale dialettica tensionale tra essenza ed esistenza che l’individuo acquisisce lo spessore di un essere personale. Con l’azione l’individuo non solo produce cambiamenti esteriori, generando corsi di eventi tendenzialmente imprevedibili in cui si manifesta la spontaneità e quindi la libertà umana, ma modifica se stesso a partire dalle possibilità date contribuendo così alla costituzione della sua propria identità; in questo senso (e solo in questo) esso si dà la nascita. In entrambi i casi l’individuo entra in relazione con altri individui secondo dinamiche che hanno una logica interna da esplicitare. Se la natalità è principio di singolarizzazione, la pluralità è principio di fenomenalizzazione: se non ci fossero degli altri esseri simili, ma diversi da me, non ci sarebbe nessuno al quale manifestare la mia natura attraverso l’azione dialogica. Ora, come è evidente la natalità emerge come un esistenziale “ibrido”: essa dipende dal fatto naturale della nascita, però si emancipa dalla necessità naturale attraverso l’azione che essa stessa fonda. La libertà umana non è quindi incondizionata – come vorrebbero l’umanesimo ateo e il post-umanesimo –, ma è finita in quanto dipende da un fatto naturale, la nascita.
Il problema della soggettivazione
Tali considerazioni di stampo arendtiano risultano assai interessanti nella prospettiva della storia contemporanea e illuminano il presente. L’intenzione profonda che anima i movimenti e i regimi totalitari e che si rivela negli effetti prodotti è identificabile proprio come negazione della libertà e della pluralità dalla condizione umana. È questo che Arendt intende quando parla di male radicale la cui opera è evidente soprattutto nei lager, considerati dalla studiosa tedesca e da altri interpreti del fenomeno totalitario non come eccessi o incidenti di percorso, ma come veri e propri esperimenti sociali, modelli paradigmatici della società futura. La riduzione programmatica dei prigionieri a esseri ossessionati dal terrore, dalla fame, dal freddo e dalla stanchezza intende eliminare ogni traccia di spontaneità dai loro atti, ridotti a essere mere risposte a stimoli. In tal modo la loro individualità tende a scomparire e la sostituzione dei nomi personali con dei numeri di matricola non è altro che il segno di tale riduzione.
Ciò che è decisivo ai nostri fini (l’individuazione di una normatività intrinseca delle relazioni) è che tale esperimento sociale non sia riuscito completamente, che nelle varie esperienze totalitarie dello scorso secolo ci sono state persone in grado di non rinunciare completamente alla propria libertà e responsabilità salvaguardando così la propria individualità. La storiografia più recente ci mette davanti tanto a esempi di oppositori politici o dissidenti morali quanto a coloro che hanno espresso la propria resistenza nell’aiuto delle vittime.8 La filosofia morale arendtiana vera e propria prende spunto da questi esempi paradigmatici per indagare in merito ai presupposti di una tale condotta, i quali vengono da lei individuati in una forma particolare di soggettivazione, quella della non-partecipazione. In altri termini si può individuare negli scritti arendtiani successivi alla teorizzazione della banalità del male una sorta di fenomenologia del bene che ha un valore allo stesso tempo descrittivo e normativo della quale qui è possibile solo fornire un profilo schematico.9
In un contesto totalitario il bene si presenta innanzitutto nella forma della non-partecipazione al male. Questa presuppone nel soggetto un’autonomia del pensiero rispetto a ogni forma di ideologia, definita da Arendt come logica di un’idea, come sviluppo sistematico e deduttivo di conseguenze a partire da un principio primo. Ciò significa che, se il principio è quello razzista del nazismo, tutto il passato e il futuro viene spiegato alla luce della lotta tra razze superiori e inferiori e l’azione presente viene informata da un giudizio che si limita a dedurre le conclusioni dal principio primo. I non-partecipanti sono innanzitutto coloro che hanno mantenuto in sé la capacità di pensare in senso autentico, vale a dire di immaginare, ricordare, riflettere. Solo tale pensiero profondo ha impedito il loro allineamento con l’ideologia dominante e quindi ha reso possibile una posizione morale, seppur negativa: io questo non lo posso fare! (altrimenti dovrei contraddirmi o disprezzare me stesso). In realtà Arendt sottolinea che in un contesto totalitario, caratterizzato dall’ideale della mobilitazione totale della popolazione e dell’omologazione ideologica, tale posizione negativa acquisisce immediatamente una visibilità pubblica e quindi un significato politico.
Ai nostri fini occorre soffermarsi sull’aspetto soggettivante di tale dinamica, la quale è essenzialmente intellettuale. Il pensare profondo caratteristico del non-partecipante (l’immaginazione, il ricordo, la riflessione) implica la produzione di una differenza tra sé e sé che non nega l’identità, ma che la dinamicizza. È la nascita della coscienza di sé, della consapevolezza (consciousness, Bewußtsein). Il punto di riferimento principale arendtiano è qui il Socrate del Gorgia (482 b-c) e il due-in-uno che lo caratterizza: piuttosto che essere in guerra con se stessi è meglio subire l’ingiustizia. La mossa teorica problematica che Arendt compie è quella di considerare la coscienza morale (conscience, Gewissen) come un prodotto della consapevolezza e quindi dell’io pensante.
Perché il “due-in-uno” possa però evolvere in una personalità matura dal punto di vista morale, oltre a quello della consistenza con sé occorre mettere in evidenza la presenza di altri due presupposti, uno che sta a monte e uno che sta a valle. Nel primo caso si tratta del Selbstdenken, il “pensare (a partire) da sé”, il quale ha come caratteristica fondamentale di essere legato a un punto di vista che ne costituisce allo stesso tempo il limite e la condizione di possibilità. Si tratta di una parzialità appassionata nella quale è decisivo quel colpo sulla struttura percettivo-cogitativa del soggetto (mind, Geist) che inerisce alla sua natura passionale. Pensare (a partire) da sé quindi non significa ritirarsi dal mondo, ma pensare a partire da un rapporto concreto e vivace con la realtà. Nel secondo caso si tratta di sviluppare in modo rigoroso ciò che nel Selbstdenken è già implicito, vale a dire il confronto più o meno polemico con altri punti di vista. Tale dialogo anticipato o effettivo produce quell’allargamento della mente analizzato magistralmente dal Kant della Critica del giudizio a proposito del giudizio estetico, vera e propria matrice del senso comune inteso come senso comunitario (nel linguaggio di Kant: gemeinschaftlicher Sinn).
L’altro come non-proprio
In definitiva per Arendt è tale soggettività per sua essenza dialogica e plurale che funge da fondamento della moralità. Dialogicità e pluralità quindi sono tipiche non solo della polis, ma anche della psyche, le quali presentano perciò una struttura analoga. Qui troviamo un modello di soggettività allo stesso tempo robusto, in quanto dotato di un proprio punto di vista, ed elastico, una forma di personalità coesa e aperta, ciò che Paul Ricoeur definirebbe un’ipseità.
Tale soggettività è generata e intimamente relazionale e il luogo della generazione è il rapporto con l’altro. Ma chi è o cos’è questo altro? In Arendt questo è innanzitutto l’alter ego nel quale l’io si imbatte nel momento in cui sviluppa facoltà quali l’immaginazione, il ricordo, la riflessione. Ma è anche l’altro inteso come realtà che produce in me un affetto, nel quale io prima di essere attivo sono passivo: senza questa alterità io non avrei un posto nel mondo, un punto di vista a partire dal quale allargare la mia mente e pervenire a un giudizio meno parziale. La filosofia contemporanea di ispirazione fenomenologica ci rende consapevoli anche di altre forme di alterità, come quella che si esprime nella corporeità (nel mio corpo, o meglio: nel corpo che io sono) e nel linguaggio, che parla a me prima di essere parlato da me. Il tratto comune a tutte queste forme di alterità è l’esperienza di un’originaria passività, di un ineliminabile spossessamento e quindi del negativo – in una parola l’esperienza del non-proprio.
Considerare l’alterità in termini di non-proprietà rende possibile ripensare la nozione di responsabilità, la quale viene in genere vissuta o nei termini di una capacità di considerazione preventiva delle conseguenze di un’azione oppure come adeguazione al dovere di prendersi cura di chi è in stato di bisogno. In entrambi i casi la responsabilità appare come qualcosa a disposizione del soggetto e la moralità come regola o norma estrinseca rispetto alla costituzione soggettiva, qualcosa che richiama l’attenzione di un soggetto già autonomamente costituito e al quale deve fornire delle ragioni per agire. Nel momento in cui invece la moralità appare come qualcosa di generato a partire dal rapporto con il non-proprio, essa è collocata al cuore del processo di soggettivazione come qualcosa rispetto a cui il soggetto non può essere indifferente e che può al peggio disconoscere in una prassi di illusoria auto-appropriazione che conduce all’inautenticità. Emerge quindi una struttura più originaria: all’affezione come rapporto con un non-proprio il soggetto è chiamato a rispondere e in tale dinamica si costituisce la sua autentica responsabilità. Più originaria della responsabilità è la responsività.
Tale struttura originaria è il tema fondamentale della ricerca fenomenologica di Bernhard Waldenfels, il quale mette in guardia dal pensare all’affezione e alla risposta come due momenti cronologicamente successivi. Tra affezione e risposta vige una reciprocità abitata da uno iato il quale, se da un lato impedisce ogni forma di sintesi, dall’altro permette alla risposta di essere creativa. È qui all’opera un differimento temporale originario a motivo del quale l’affezione arriva sempre troppo presto e la risposta sempre troppo tardi: «Soltanto nel rispondere a ciò da cui siamo colpiti entra in scena ciò che ci colpisce come tale».10 La fenomenologia waldenfelsiana apre la prospettiva di un’etica dei sensi in cui ciò che è decisivo, prima ancora del giudizio e della decisione, è il modo in cui si percepisce ciò che accade. Da tale punto di vista la virtù fondamentale è quella dell’attenzione, in quanto questa decide che qualcosa compaia nell’esperienza, che sia questo piuttosto che quello e che sia così e non altrimenti. L’attenzione si colloca sul crinale tra affezione e risposta. La centralità del ruolo giocato dall’attenzione non deve tuttavia fare dimenticare che si tratta di una virtù fragile, poiché trova il proprio fondamento in altro da sé, vale a dire nella volontà. Lo iato tra affezione e risposta va considerato come una scissione interna al soggetto nel suo essere tanto sé paziente quanto sé rispondente. È una scissione produttiva della stessa soggettività, visto che ognuno diviene ciò che è attraverso il suo rispondere. In questa prospettiva la soggettivazione non può essere pensata nei termini dell’auto-costituzione tardo-moderna in quanto il soggetto non controlla affatto la logica dell’affezione e della risposta.
Oltre l’immunità del soggetto tardo-moderno
La fenomenologia arendtiana del bene e l’etica responsiva waldenfelsiana gettano una luce sulle dinamiche patologiche sociali che la storiografia contemporanea ci presenta. La diffusa acquiescenza al male – rilevabile a livello di massa nei regimi totalitari, ma presente anche nelle società liquide contemporanee seppur in forme diverse – è in ultima istanza comprensibile come effetto di un incompiuto processo di soggettivazione, di un’imperfetta differenziazione interna che non genera né la scissione arendtiana tra sé e sé né tanto meno la scissione tra affezione e risposta individuata da Waldenfels. E senza scissione non si costituisce la personalità morale. Quando descrive Adolf Eichmann – l’ufficiale SS responsabile dell’organizzazione della deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio processato e condannato a morte a Gerusalemme tra il 1961 e il 1962 – Arendt nota che egli è privo di immaginazione e quindi incapace di affezione, di condivisione del punto di vista altrui, di empatia. La sua flebile memoria fa il paio con la sua apparente incapacità di riflessione e quindi con l’assenza di rimorso e di scrupoli morali. Per Arendt Eichmann non è un criminale astuto che cerca di passare per stupido per evitare la pena capitale, ma è veramente tale. La figura di Eichmann è comprensibile nei termini di una sorta di immunizzazione dal non-proprio: la sua mente e il suo spirito sono protetti dal contatto con l’alterità che si manifesta nel rapporto con la realtà e con gli altri esseri umani e con l’alterità che può svilupparsi in sé grazie al pensare in senso profondo. L’ideologia gioca un ruolo centrale in tale processo di immunizzazione in quanto fornisce una griglia interpretativa tendenzialmente totalizzante rispetto a ogni evento per cui non si dà mai nulla di inaspettato e di sorprendente: «Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere».11 Per contrasto i non-partecipanti sono coloro che non sono immunizzati dal non-proprio e ciò grazie al fatto che il loro processo di soggettivazione ha generato un’alterità e una differenza in loro stessi. Come abbiamo visto, il “due-in-uno” arendtiano può evolversi in una personalità morale matura solo se pensa a partire da sé in una parzialità appassionata che è indice di un rapporto col mondo coinvolgente tutte le sue facoltà. È proprio tale coinvolgimento integrale che permette l’irruzione dell’evento inaspettato, dell’altro e del non-proprio. E tale irruzione può comportare uno sconvolgimento della mente e dello spirito, una metanoia, una sorta di riorientamento gestaltico all’interno del quale cambia la percezione, il pensiero e la valutazione e di conseguenza anche la prassi.
In definitiva la filosofia dell’esistenza di stampo fenomenologico permette di pensare alla struttura relazionale della vita umana nei termini di un rapporto col non-proprio. Il guadagno teoretico di tale mossa sta nell’identificare tale rapporto nel cuore stesso della dinamica soggettivante che appare in tale prospettiva anche come una dinamica socializzante. Quanto più l’essere umano sviluppa la scissione interiore nell’esercizio di una coscienza di sé capace di generare la coscienza e la personalità morale tanto più risulterà capace di relazionarsi a un mondo sociale caratterizzato dalla differenza e dalla pluralità; e viceversa: «Il fenomeno della coscienza umana ci dice insomma che la differenza e l’alterità – che sono tratti caratteristici del mondo delle apparenze per come esso si dà all’uomo, nella misura in cui egli abita in mezzo a una pluralità di cose – sono al contempo i requisiti stessi dell’esistenza di un io umano».12 La differenza e l’alterità sono rese possibili – come abbiamo visto – dalla natalità e dalla pluralità; e queste, in quanto condizioni dell’esistenza, giocano allo stesso tempo un ruolo generativo e normativo dell’humanum. Una modificazione di tali esistenziali implicherebbe la fine dell’esistenza umana per come la conosciamo, soprattutto per quanto riguarda i caratteri che di solito associamo alla libertà: spontaneità, innovazione imprevista, responsabilità personale. Un ruolo simile lo giocano pure i principi che stanno alla base della nascita della consapevolezza e della coscienza morale: la coerenza con se stessi, il pensare (a partire) da sé, l’allargamento della mente. Questi hanno un carattere normativo nei confronti dello sviluppo di una matura personalità morale.
Il passo innanzi che ci permette di fare Waldenfels consiste nell’esplicitazione dei presupposti teoretici e antropologici di un’etica che, come quella arendtiana, non intende rinunciare alla categoria di responsabilità morale personale – presupposti che nelle società tardo-moderne divengono sempre più problematici. L’etica dei sensi elaborata dal fenomenologo tedesco sulla base della struttura fondamentale dell’affezione e della risposta infatti evidenza nell’esperienza morale il ruolo fondamentale giocato dalla facoltà dell’attenzione, la quale è sempre incorporata in strutture abituali costituite da pratiche, tecniche e media che contribuiscono in modo decisivo alla costituzione del senso e che determinano, in senso positivo o negativo, l’attenzione stessa. Di conseguenza questa oscilla tra due estremi: la risposta priva di affezione di chi è dominato da idee fisse e stereotipi ideologici (è il caso di Eichmann) da un lato e l’affezione priva di risposta di chi è disperso nell’esperienza dall’altro. L’attenzione costituisce l’ethos fondamentale, vale a dire la postura spirituale del soggetto nel rapporto con sé e con gli altri – un fondamento fragile di cui prendersi cura in cui l’utopia di un soggetto auto-costituentesi appare in tutta la sua in-credibilità.
1Sergio Belardinelli, “Dalla persona alla società e viceversa: a che serve il paradigma relazionale?”, in Pierpaolo Donati, Antonio Malo, Giulio Maspero (a cura di), La vita come relazione. Un dialogo fra teologia, filosofia e scienze sociali (Roma: Edusc, 2016): 253.
2Donati, “L’enigma della relazione e la matrice teologica della società”, in Donati, Malo, Maspero (a cura di), La vita come relazione, 23-72. In questo saggio Donati chiarisce che «le forme sociali sono adeguate quando rispettano e sviluppano la natura propria di ogni relazione vissuta in maniera riflessiva» (ivi, 49).
3Questo diviene evidente nell’attuale dibattito in merito allo human enhancement. A tale proposito vedi Luca Grion (a cura di), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica (Bologna: Il Mulino, 2012).
4È significativo che, nella sua ricostruzione delle origini della filosofia dell’esistenza proposta in un saggio giovanile risalente al 1946, Arendt individui queste nella filosofia positiva di Schelling, la quale implica che la ragione riconosca di non essere essa stessa il principio assoluto e ammetta che il proprio pensare proviene da un essere che lo rende possibile. Vedi Hannah Arendt, Che cos’è la filosofia dell’esistenza? (Milano: Jaca Book, 1998).
5Vedi il contributo di Elena Colombetti in codesto volume.
6Vedi Stephan Kampowski, Ricordati della nascita. L’uomo in ricerca di un fondamento (Siena: Cantagalli, 2013): 19.
7Vedi Miguel Vatter, “Natality and Biopolitics in Hannah Arendt”, Revista de ciencía politica, 26 (2) (2006): 137-159.
8Lo studio delle varie tipologie di resistenza al male politico e la memoria di coloro che l’hanno messa in pratica è il cuore dell’attività della Foresta dei giusti nel mondo, al cui ricchissimo sito web rimando: https://it.gariwo.net.
9Ho affrontato questo tema in Il soggetto dif-ferente. Peripezie della responsabilità (Milano, Mimesis: 2016): 45-58.
10 Bernhard Waldenfels, Bruchlinien der Erfahrung (Frankfurt a.M.: Suhrkamp, 2002): 59.
11Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (Milano: Edizioni di Comunità, 1967): 642.
12Hannah Arendt, La vita della mente (Bologna: Il Mulino, 1987): 159. Sarebbe interessante verificare tale intuizione arendtiana alla luce dell’approccio sociologico sviluppato da Margareth Archer ne La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale (Gardolo: Erikson, 2006).