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Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna

La relazione umanizzante uomo-donna secondo il paradigma relazionale

Pierpaolo Donati

Università di Bologna

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6.1 Uomo/Donna, Donna/Uomo: che cosa c’è di nuovo?

1.1. Il mio intento non è quello di esporre un ideale – seppure veritativo – della relazione uomo-donna. Sarebbe troppo facile scrivere un saggio pieno di dotte citazioni, vista la quantità di letteratura in merito. In particolare, tutti sappiamo che il pensiero umano, nel corso della storia, a partire dai commenti sul racconto biblico del Genesi, ha riempito intere biblioteche su questo tema. Come sociologo, ho un altro compito. Debbo indagare la realtà da un altro punto di vista, quello dei fatti sociali. Non posso partire da presupposti teologici o da principi filosofici, ancorché giustificati da fondamenti razionali, ma debbo fare in un certo senso il cammino inverso, cioè debbo indagare la realtà esistente di cui abbiamo esperienza per apprendere da essa, e, in un certo senso, “verificare” l’ontologia (sociale) della relazione uomo-donna.

In altre parole, mi confronto con l’affermazione di Emmanuel Lévinas1, secondo cui «io non vorrei definire nulla attraverso Dio, giacché io conosco l’umano. È Dio che posso definire attraverso le relazioni umane, non l’inverso». Questa epistemologia ha molto di vero, anche per la sociologia, ma non può essere assolutizzata, ossia è vera solo in parte, perché il processo conoscitivo bottom-up (dalle relazioni umane a quelle divine) non può essere pienamente compiuto se non avendo in mente un framework concettuale che fa riferimento ad una matrice teologica relazionale della società2 quale bussola per l’orientamento. Come poi dirò, occorre elaborare una nuova e più complessa nozione di relazione, applicata alle relazioni umane, dato che la filosofia di Lévinas fallisce proprio su questo punto, a causa di una concezione del tutto insufficiente che egli ha della relazione. La qual cosa è dovuta al fatto che la matrice teologica ebraica di tradizione rabbinica non è propriamente relazionale.

Certamente, nel campo della teologia biblica, non mancano gli autori secondo i quali la relazionalità sarebbe il centro dell’intero messaggio dell’Antico Testamento.3 Una serie di filosofi di cultura ebraica, tra cui E. Lévinas e M. Buber, sembrano confermare e sviluppare questa tesi. In particolare è emblematica l’affermazione di Buber, riferita appunto all’A.T., secondo cui “in principio c’è la relazione”.4 Ma, a questo riguardo, io ritengo che vi sia un equivoco di fondo. La loro concezione della relazione è quella di un atto che un soggetto rivolge ad un altro (o ad altri) prendendosene cura. La relazione di cui si parla non è una realtà in sé, non è generativa di un Terzo, non è l’effetto emergente di una azione reciproca come la mia sociologia relazionale la intende (a partire dal concetto di relazione come Wechselwirkung proposto da Georg Simmel5). Tant’è che sia Lévinas sia Buber negano che la relazione sociale abbia una realtà in sé, in quanto tale. È ben vero che nell’Antico Testamento (A.T.), Dio (Jahvé, Yahweh, Elohim) si relaziona all’uomo con una alleanza (un patto è una relazione) e ama prendersi cura delle relazioni umane (per esempio nel Genesi quando crea Eva per darla ad Adamo affinché abbia una compagna; o quando si afferma che le delizie di Dio sono stare con gli uomini, ecc.). Ma questa cura delle relazioni non viene espressa come manifestazione di una relazionalità interna a Dio stesso, cioè alla sua stessa sostanza (la matrice teologica), bensì come l’atto di un Uno. Nell’A.T., l’alleanza viene continuamente riaffermata da Dio come Sua volontà, non è l’effetto emergente di un’azione reciproca con l’uomo. Per questo sostengo che la matrice teologica ebraica non è esplicitamente e propriamente relazionale, e mostro quali ne siano le conseguenze sul pensiero di Lévinas (come di altri autori che qui non posso considerare per ragioni di spazio). Non a caso Lévinas raccomanda di guardare alle relazioni umane per indurre le relazioni intra-divine (cioè dentro il codice simbolico di Dio), proprio perché su queste ultime l’A.T. non dice nulla di esplicito. Il Figlio è figlio dell’Uno. In Lévinas, come in Buber, la relazione sociale fra due entità non genera un ‘Terzo’ (quello che io chiamo ‘bene relazionale’). Per rendere esplicita la relazionalità di Dio in sé stesso e come matrice di tutta la creazione occorre la rivelazione del Nuovo Testamento. Il fatto è che molti teologi moderni ‘rileggono’ l’Antico Testamento sulla base di una sensibilità ‘relazionale’ che, in realtà, è il prodotto della teologia e della cultura cristiana, la quale esalta la generatività della relazione (a partire dal modello trinitario Padre-Figlio-Spirito Santo).

Per arrivare ad una comprensione ontologicamente più profonda della relazione uomo-donna, dobbiamo evitare vari scogli. I principali sono rappresentati dalle sociologie ideologiche o riduzionistiche, che sono tali vuoi perché riflettono un pensiero astratto – per esempio il neo-funzionalismo di Luhmann, che traccia una separazione netta fra l’identità maschile e quella femminile sulla base di un operatore logico –,6 vuoi perché cadono nell’empirismo comportamentistico, come fa la teoria dei sexual scripts, secondo la quale uomini e donne recitano solo un copione teatrale, sono delle maschere,7 come ha scritto Shakespeare nella commedia pastorale As you like it: tutto il mondo è un teatro, e tutti gli uomini e donne sono semplicemente degli attori («all the world is a stage, and all the men and women merely players»).

Il comune denominatore delle teorie che intendo criticare è il costruttivismo filosofico e sociale, che è un modo di pensare basato su una ontologia sociale piatta (flat ontology). Un esempio è dato dalla cosiddetta teoria del gender che separa nettamente la natura fisica dell’uomo e della donna dalla loro identità sociale, considerando quest’ultima come una mera espressione culturale, del tutto variabile nello spazio e nel tempo. Al contrario, io adotterò un approccio di realismo relazionale, critico e analitico.

In poche parole, il mio intento è: (i) innanzitutto quello di capire come cambia di fatto la relazione uomo-donna, in base ai processi strutturali e culturali in atto, in concomitanza con la modificazione delle identità maschili e femminili e delle loro relazioni, e poi (ii) quello di analizzare se, in che senso e modi questi processi umanizzano oppure disumanizzano le persone in quanto donne e in quanto uomini. In un approccio sociologico realistico, infatti, non si parte dal mondo delle idee, ma dall’apprendimento della realtà esperita alla luce di un pensiero sistematico che osserva e valuta, ben sapendo che, come afferma Adorno, «i fatti non sono, nella società, la realtà ultima».8 Per vedere la realtà ultima occorre una sociologia aperta al carattere trascendente dei fenomeni sociali.

1.2. Parto da un assunto fondamentale: uomo e donna, dal punto di vista sociologico, sono realtà e concetti relazionali.9 Il problema è comprendere che cosa significhi “relazionali”. Certo significa che l’uomo è tale in relazione alla donna, e la donna è tale in relazione all’uomo. Ma cosa vuol dire questo in pratica, in tutte le dimensioni della vita sociale, nella prospettiva di una ecologia umana integrale?

È importante comprendere che, così posto il problema, l’oggetto centrale del discorso non riguarda l’essere in sé dell’uomo e della donna (come sostanze individuali), ossia il profilo bio-psico-culturale specifico dell’uno e dell’altra, ma il senso dell’affermazione secondo cui l’uomo si definisce in relazione alla donna e viceversa. La distinzione è nella relazione, e la riprova sta nel fatto che essa viene ricostituita anche nella coppia omosessuale. La relazione riguarda tutte le dimensioni di realtà. Concerne il riferimento al corpo, sia dal punto di vista biologico, sia dal punto vista psicologico e culturale (l’immagine del corpo che i due sessi hanno è relazionale), così come le posizioni, i ruoli e le identità sociali. Dire che l’uno si definisce in relazione all’altra e viceversa significa affermare una struttura di riferimento reciproco che li connette (come poi dirò).

In altra sede10 ho già trattato il tema di che cosa siano rispettivamente il complesso simbolico maschile e quello femminile, in che modo possiamo definirli, e come essi – nel loro nucleo costitutivo – persistano quali universali culturali, che tuttavia sono soggetti ad una dinamica evolutiva, pur essa relazionale. Il nucleo simbolico del complesso maschile è quello della rottura dei legami simbiotici, della penetrazione e della generazione fuori di sé, mentre il nucleo simbolico centrale del complesso femminile è quello della costituzione del legame, dell’accoglienza e della generazione dentro di sé. In apparenza, il complesso femminile è “relazionale”, di contro a quello “lineare” maschile. Ma questa lettura ermeneutica va interpretata correttamente, entro una visione relazionale più complessa di quella del passato. Infatti, dobbiamo affrontare l’enigma di una relazione che allo stesso tempo connette (lega) e differenzia (divide).

In questa sede mi propongo di trattare i due complessi simbolici come modalità di attribuzione di senso alle identità e ruoli sessuati che i processi di globalizzazione vanno ogni giorno di più aprendo ad un mercato di possibilità prive di vincoli (è la società della morfogenesi “a briglia sciolta”, unbound morphogenesis).11 Queste possibilità di ridefinire le identità e i ruoli sessuati sono messe a disposizione delle persone senza che le strutture del sistema sociale facciano delle scelte a priori (il sistema parla di “uguali opportunità”) anche se è piuttosto vero che, in determinati contesti e momenti, esistono pressioni ben precise in una direzione invece che in un’altra (l’ideologia dell’uguaglianza di opportunità, come cercherò di chiarire, nasconde in realtà il sostegno a modifiche strutturali delle relazioni di potere, autorità, diritti e doveri a favore di un sesso piuttosto che di un altro, segnatamente della donna, il che comunque provoca effetti inattesi di backlash da parte degli uomini).

La sociologia empirica ci dice che l’attribuzione dei ruoli a uomini e donne è guidata da pressioni sociali per “associare” un ruolo ad un sesso piuttosto che all’altro (ossia il carattere sessuato di un ruolo sociale viene “costruito” socialmente).12 Per comprendere le ragioni di tale costruzione abbiamo bisogno di attivare una riflessività contro-intuitiva. Per la sociologia relazionale ciò significa guardare alla causalità inerente alle relazioni sociali come tali, piuttosto che alle caratteristiche individuali delle persone o a pressioni collettive.

Per tale motivo, in questo contributo metto a tema la questione della relazione sociale in quanto tale fra uomo e donna, giacché è nella relazione che si decidono le selezioni culturali che riguardano i significati dell’essere uomo o donna.13 Sotto tale punto di vista, lo scenario storico è, grossomodo, quello seguente.

1.3. Tralascio, per ragioni di brevità, l’analisi delle relazioni uomo-donna dall’antichità fino all’epoca moderna. La varietà delle culture e degli stili di vita delle popolazioni che hanno abitato il pianeta lungo i millenni è incalcolabile, e ogni generalizzazione sarebbe indebita. Mi concentro sulla storia più recente dell’Occidente, cioè sul passaggio dalla prima modernità alla società contemporanea.

Nella prima modernità, il sistema culturale e strutturale della società borghese definiva la relazione uomo-donna come complementare nei ruoli sociali e asimmetrica nel potere. L’uomo impersonava certe qualità – dette maschili, quali l’iniziativa imprenditoriale, la forza, la spinta al successo – che lo predisponevano a ricoprire ruoli strumentali e di potere superiore sulle donne, a partire dal ruolo di capofamiglia (breadwinner della famiglia). La donna, viceversa, impersonava qualità opposte e complementari – dette femminili, quali la tenerezza, l’affettuosità, la cura dell’altro – che la predisponevano, sempre secondo questa narrazione, a ricoprire ruoli espressivi e di potere inferiore, ausiliari rispetto a quelli dell’uomo. Scostamenti da questo assetto erano considerati “deviazioni”, cioè comportamenti devianti. Dal Codice Napoleonico, alla psicoanalisi di Sigmund Freud, fino al modello sociologico di Talcott Parsons negli anni Cinquanta, questa è stata la visione della relazione uomo-donna propria della prima modernità fino alla meta del Novecento.

I processi di modernizzazione hanno radicalmente modificato questo assetto. La morfogenesi strutturale e culturale oggi in atto nei paesi cosiddetti occidentali rende impossibile riprodurre una concezione culturale che assegna un ruolo strumentale e di potere superiore all’uomo e un ruolo espressivo e di potere inferiore alla donna. In base ai principi di libertà ed uguaglianza, la cultura dominante in Occidente opera nel senso di egualizzare (uniformare, spianare, livellare, appianare, smussare, pareggiare) i ruoli socio-culturali, economici e politici, e i relativi diritti fra i due sessi.

Con la svolta del secolo XXI, questi processi morfogenetici sono andati sempre più in profondità e hanno investito la stessa natura umana, quella che si specifica nell’essere “naturalmente” uomini o donne. Questa svolta non riguarda più solamente i diritti di uguaglianza inerenti alla dignità morale e giuridica delle persone, siano esse uomini o donne, ma chiede nuovi diritti di libertà verso un assetto “post-umano”, quale negazione della stessa differenza sessuale originaria, sia in sé stessa, sia nei suoi correlati empirici.

Questo punto di arrivo è sostenuto da due tendenze concomitanti: (a) la prima è quella di rendere le differenze corporee fra i sessi indifferenti ai fini della vita sociale, e (b) la seconda, in parallelo, è quella di rimuovere tutti i pattern che stabiliscono una certa relazione fra la diversa struttura biologica maschile e femminile e le aspettative circa i ruoli e comportamenti sociali di uomini e donne.

La relazione uomo-donna viene ora definita dal sistema societario come una relazione autonomistica e simmetrica, cioè basata su due autonomie individualizzate (eteronome l’una per l’altra) e di uguale potere. Le identità maschili e femminili, essendo costituite da aspettative non più complementari, ma di totale indipendenza, non possono più essere gerarchizzate.

Il fatto di mettere in fluttuazione (a) il significato simbolico delle differenze sessuali (cioè il complesso simbolico maschile e femminile) e (b) le relazioni connettive fra bios e ruoli sociali ha come esito l’adozione della teoria del gender. Secondo questa teoria, le identità socio-culturali sono una pura costruzione storica passibile di qualunque cambiamento proprio in virtù della abolizione di una relazione – avente una propria struttura significativa – fra identità biologica e identità sociale di ciascun sesso. La rimozione di tale relazione viene effettuata, da un lato, assimilando la biologia umana a quella animale e vegetale, e, dall’altro, annullando i confini fra il sociale umano e il sociale non-umano (mediante la riduzione di entrambi a pura informazione).

Alcuni neuropsicologi hanno rincarato la dose, affermando che la ricerca scientifica non mette in luce differenze rilevanti fra la struttura mentale maschile e quella femminile. Da ciò si trae l’idea che la relazione fra la natura bio-psichica maschile e quella femminile, quale che essa sia, possa ora essere giocata in qualsiasi modo nei comportamenti sociali. Insisto su questa annotazione: ciò che costituisce il preminente interesse della società iper-modernizzata non è tanto affermare che non vi sono differenze fra uomini e donne, – in fondo tutti gli individui, quale che ne sia il sesso, sono differenti – ma che queste differenze, non essendo “fisse” (ovvero ontologiche), possono essere considerate del tutto contingenti. Pertanto le relazioni uomo-donna diventano configurabili secondo una varietà di modi possibili, varietà che viene continuamente aumentata secondo il principio secondo cui una varietà può essere meglio gestita aumentando la varietà stessa. Le identità sessuate diventano costruibili a piacere. Questo è l’assioma del costruttivismo ontologico, epistemologico e pratico oggi dominante in Occidente.

A questa ontologia “piatta” (flat ontology) del costruttivismo, io oppongo l’ontologia sociale del realismo critico, il quale distingue fra il vero (real), l’attualizzato (actual), e l’empirico (empirical). Si tratta di esplorare le relazioni fra questi diversi modi (livelli, ordini) di esistenza, assumendo che tali relazioni siano internamente necessarie ed esternamente contingenti. Sono internamente necessarie perché occorre fare i conti con la naturalità dell’essere uomo o donna, anche se tale naturalità non è garantita a priori.14

1.4. Se le relazioni possono cambiare, allora possono cambiare anche le identità che erano in precedenza “fissate” da relazioni stabili. Di qui la legittimazione delle identità più diverse. Libero da ipoteche naturali (ascrittive), il costruttivismo – nelle sue versioni relazioniste – mette in interazione sinergica la costruzione delle identità sessuali delle persone e le loro relazioni, ossia riduce la natura delle identità sessuate alle relazioni sociali, negando che la sostanza naturale della persona umana e le sue relazioni siano co-principi dell’essere uomo o donna. In breve, il “fatto” della persona (il suo essere uomo o donna) viene risolto senza residui nelle relazioni che l’individuo ha con il mondo.

I caratteri di ciò che è categorizzato come maschile o femminile, per il momento, mantengono una differenza simbolica, ma possono ora essere combinati nei modi più diversi in una stessa persona e in una stessa relazione in momenti diversi. Di qui nascono le identità Lgbt e le altre numerose varianti. Vengono legittimate le relazioni più disparate, cioè aggregazioni in cui il maschile e il femminile sono elementi giocabili a piacere entro relazioni che mescolano continuamente i loro caratteri generando identità mutevoli che permettono l’attraversamento dei confini identitari a seconda delle contingenze (il Self multiplo e variabile). Si diffondono le famiglie cosiddette “arcobaleno” (con genitori omosessuali), le coppie cosiddette “poliamorose” (dove i partner della coppia, per comune accordo, hanno individualmente anche rapporti sessuali esterni), e così via.

Lo sguardo sociologico sottolinea che queste rappresentazioni si riferiscono a una percentuale di popolazione molto piccola. Tuttavia, ciò su cui il costruttivismo fa leva, al fine di enfatizzare le trasformazioni, riguarda la forza delle tendenze storiche di lungo periodo, che sarebbero tali da modificare molti dei presupposti considerati “naturali” nelle relazioni uomini-donne. Il fatto è che ci troviamo di fronte ad un processo morfogenetico (si veda la successiva figura 6.1) in cui, attraverso cicli temporali successivi, viene accresciuta la variabilità delle identità sessuali in sinergia con la legittimazione di sempre nuove relazioni fra i sessi. La legittimazione delle nuove relazioni va di pari passo con (ma spesso di fatto precede) la costruzione delle nuove identità. Cosicché vengono modificati tutti i ruoli sociali, che non sono più qualificabili come maschili o femminili.

L’aspetto più eclatante di questi cambiamenti epocali sembra riguardare la relazione che connette (o disconnette) la corporeità, rispettivamente maschile e femminile, in rapporto alle identità sociali dei sessi e ai relativi comportamenti e stili di vita in senso lato. Infatti, quando la relazione fra corpo e identità sessuale è messa in fluttuazione, o addirittura è rimossa o resa caotica, diventa pressoché impossibile distinguere fra l’uomo e la donna. Ne vediamo oggi tanti esemplari in persone che amano mescolare caratteri dell’uno e dell’altra. Di qui l’evidenza empirica per cui la società cambia radicalmente tutte le sue forme di vita.

È importante comprendere che la disconnessione fra caratteri fisici e identità psico-culturale non è una “causa prima” di questi cambiamenti, ma è piuttosto l’effetto di processi strutturali e culturali di ben più vasta portata che si muovono nella direzione di una società post-umana, trans-umana, “etopoietica”, iper-umana, in cui nessuna identità può essere più fissata e resa stabile nel tempo. Questa svolta epocale richiede un nuovo paradigma scientifico per essere compresa e affrontata. Tale paradigma deve essere necessariamente relazionale, perché relazionale è la rivoluzione culturale, strutturale, spaziale, temporale, semantica ed etica in atto. Si richiede una nuova concettualizzazione, e perfino un nuovo linguaggio, che rispetti le identità naturali e al contempo sia aperta a modificazioni sensate dei ruoli sociali di donne e uomini senza legittimare vecchie e nuove discriminazioni.

6.2 In che cosa consiste la sfida dell’umanizzazione?

Che cosa può allora significare il fatto di dire che la relazione uomo-donna può e deve essere una relazione “umanizzante”?

È evidente che il concetto stesso di “umanizzazione” diventa problematico, e rischia di perdere senso. Non a caso schiere di pensatori osservano, alcuni con entusiasmo, altri con lamenti, la fine del concetto di persona umana, giustificando tale asserzione con il dire che diventa impossibile tracciare dei confini fra l’umano e il non-umano. In campo antropologico si parla di de-antropologizzare le scienze sociali, dato che non è più possibile restringere il campo degli attori sociali ai soli esseri umani, ma sarebbe necessario includervi anche tutte quelle altre entità (le piante, gli animali, i defunti e qualunque oggetto tecnico e artificiale) a cui può essere attribuita la posizione di attore nelle interazioni e relazioni sociali.15

Questa visione si rifà all’idea che i fatti sociali della vita siano costruiti come le manipolazioni che si realizzano in un laboratorio16. Su tale base è stata formulata la cosiddetta “Actor Network Theory” di Bruno Latour,17 che presume di avere una portata metafisica,18 la quale afferma che l’attore sociale non è più la persona umana, bensì una rete di varie entità (actants) che fanno il sociale. Chi difende la specificità dell’umano viene tacciato di essere retrogrado, antropocentrico, repressivo, e alla fine nemico della vera felicità che può venirci dal post-umano. Dobbiamo abbandonare l’umano o possiamo ridefinirlo?

L’umanizzazione è diventata il grande problema del secolo XXI. Molti la chiamano la “questione antropologica”, espressione che, a mio avviso, non significa soltanto che abbiamo difficoltà a definire l’Uomo (il genere umano), ma che dovremmo liberarci del punto di vista umanistico, perché debole e perdente, ossia dovremmo de-antropologizzare il pensiero, la cultura, la stessa struttura sociale.

Curiosamente c’è chi critica questa deriva culturale, ma propone un punto di vista che la favorisce. Penso a Martin Heidegger e ai suoi seguaci. Se, come Heidegger afferma, ciò che chiamiamo “umanizzazione” uccide la metafisica,19 e se desideriamo salvare la metafisica (in quanto àncora di salvezza di principi e valori fondanti), allora che senso ha perseguire l’umanizzazione? Mentre Heidegger e i suoi seguaci si disperano per la perdita dell’essere, e non sanno come ritrovarlo, gli altri gioiscono per l’avvento di una nuova libertà e di tanti nuovi diritti.

Volendo dare qualche credito ad Heidegger, potremmo osservare che la metafisica si vendica uccidendo le pretese di umanizzazione. Ma con ciò porteremmo acqua al mulino di chi sostiene che, proprio per questo, dovremmo abbandonare il punto di vista dell’umanesimo. Luhmann lo ha proposto a chiare lettere, avvertendo nello stesso tempo che, però, ciò significa andare incontro ad un mondo in cui non è per nulla detto che si possano evitare le regressioni culturali e nuove barbarie. Nondimeno, anch’egli sostiene che è ormai inevitabile svincolare la teoria sociale da un concetto di società di impronta umanistica. «L’uomo – ha scritto – non è più il metro con il quale misurare la società. È questa idea dell’umanesimo che non può più perpetuarsi».20

L’ambiguità della teoria luhmanniana sta nel fatto che, da un lato, legittima le nuove libertà (afferma che «tutto ciò che è possibile diventa lecito»), mentre dall’altro mostra che cosa ci si deve attendere da una società che non può più essere organizzata in modo umano (e quindi si fa anti-umanistica).21 Ci si deve aspettare tutto e il contrario di tutto, inclusa la barbarie, come del resto dimostrano oggi le centinaia di guerre sparse in tutto il mondo, le stragi del terrorismo a livello internazionale, e, sul nostro tema, le crescenti patologie dovute alla perdita di una chiara identità sessuale, a giochi strategici di gender che provocano confusioni e disorientamenti nell’identità sessuale dai quali poi derivano depressioni, fallimenti, violenze nelle relazioni umane.

Non senza una punta di cinismo, Luhmann sembra dire alla gente: avete reclamato uguaglianza e libertà senza restrizioni? Avete voluto attraversare tutti i confini, trattare la natura come se fosse plasmabile a piacere, destrutturare tutte le relazioni aprendole al mondo del possibile? Ebbene, ora ci siete, avete avuto quello che cercavate e adesso questo è il vostro destino.

Condivido con lui l’idea che non serva farsi condizionare dalla paura che può derivare dal fatto di abbandonare il concetto umanistico tradizionale di società, quello che affonda nelle radici culturali della “vecchia Europa”. Diversamente da Luhmann, però, io ritengo che occorra ridefinire l’umanesimo in un contesto dopo(after)-moderno globalizzato. Una posizione puramente difensiva è perdente fin dall’inizio. Dobbiamo ragionare in un quadro diverso dall’idea che, abbandonando l’umanesimo della “vecchia Europa”, il solo sbocco sia quello di una totale disumanizzazione.

Dunque: che senso ha parlare oggi di umanizzazione? Innanzitutto: ha ancora un senso usare questo termine? Se no, perché? Se sì, che cosa significa?

Secondo il paradigma sociologico relazionale la risposta va cercata non già a partire dal singolo individuo umano, appellandosi alle sue qualità (che sono plasmabili), né tantomeno puntare sulla costruzione di un qualche “sistema” sociale o culturale, più o meno ideale, ma va cercata nelle qualità e proprietà causali proprie delle relazioni sociali, nel nostro caso delle relazioni uomo-donna. Un uomo può pensare che la donna sia un essere debole, fragile e poco dotato, ma poi bisogna vedere come di fatto la tratta nella relazione che ha con lei. Può darsi che la tratti male o invece che, proprio in ragione di ciò che ne pensa, la tratti con cura, e dunque è la relazione che parla della presenza di umanità o meno. Una donna può pensare che l’uomo sia solo un animale in cerca di sesso, ma poi bisogna vedere come lo tratta. Può essere che lo disprezzi e lo respinga oppure invece che sviluppi una relazione di affetto. È nella relazione che le persone si umanizzano o meno.

Sono le relazioni che decidono del compimento o svilimento dell’umanità che c’è in ogni persona, in quanto donna o in quanto uomo.22 Il desiderio della società contemporanea di trascendere l’umano va compreso, a mio avviso, come riconoscimento che la persona umana non si trascende nell’atto individuale, ma nel prendersi cura delle sue relazioni. Non sono le qualità maschili o femminili dell’individuo che decidono della umanità della relazione, ma è la cura delle qualità e dei poteri causali propri della stessa relazione.

Il problema del sociologo è quello di verificare sul piano empirico questa affermazione che, così posta, è solo un’ipotesi di ricerca. In questa sede, dati i limiti di spazio, lo farò in modo assai sintetico.

6.3 Gli stereotipi del gender: quale teoria delle distinzioni fra le identità sessuali?

3.1. Un giornalista racconta di aver posto una domanda a Papa Francesco in un colloquio personale:23 «Santità, qual è la funzione delle donne nella vostra Casa? Non parlo soltanto delle suore che vivono in conventi, operano negli ospedali, coltivano la terra e soprattutto pregano; parlo delle donne in generale, dei loro sentimenti, dei loro pensieri e del loro istinto femminile ed anche, se mi permette, dei loro diritti. Per voi, presbiteri, vescovi, sono nulla? Sono una specie subordinata in compiti di moglie, madre, figlia obbediente alle decisioni dei genitori?». La risposta di Papa Francesco, stando al racconto, è stata la seguente: «Le rispondo in un solo modo che rispecchia però la pura verità: la Chiesa è femminile». Il giornalista fa presente che non capisce, e allora il Papa scandendo le sillabe ripete: «La Chiesa è femminile. Maria è la nostra madre che intercede per noi; ma non è solo questo. La Chiesa detesta la guerra, ama i propri figli, li educa al bene, aiuta i poveri, i malati, i derelitti, ama il prossimo e detesta chi violenta. Non sono valori femminili?».

Queste affermazioni, riportate dal giornalista, non sono state smentite, e del resto frasi simili si ritrovano in vari documenti e discorsi di Papa Francesco. In questa sede, non mi interessa entrare nel merito di queste affermazioni, ma vorrei invece mettere in luce il modo in cui il giornalista le ha presentate, come se corrispondessero ad un “manifesto femminista” del Papa, quando invece Francesco ha in tanti e svariati modi assunto una posizione critica verso chi nega la relazione naturale, complementare e reciproca fra i due sessi, respingendo la (cosiddetta) teoria del gender.24

Come sociologo, vorrei soffermarmi un attimo a considerare come il giornalismo può influenzare l’opinione pubblica allorché trasmette un certo messaggio, per esempio la frase «La Chiesa è femminile» oppure «La Chiesa è donna». Quando un messaggio come questo viene immesso nei processi culturali, esso addita dei significati che sollevano delle aspettative generalizzate e incidono sulle norme etiche più diffuse, tanto che, di fatto, la gente è portata a chiedersi: se la Chiesa è femminile, in quanto giustamente si oppone alla guerra, ama i propri figli, li educa al bene, aiuta i poveri, i malati, i derelitti, ama il prossimo e detesta chi violenta, tutto ciò vuole allora dire che il maschile non ha quei valori, ma anzi ha quelli opposti, ossia significa che gli uomini amano la guerra, non amano i figli, non li educano al bene, non curano i deboli, non amano il prossimo e sono inclini alla violenza? Non c’è il rischio di consolidare degli stereotipi?

Certamente Papa Francesco non intendeva con le sue parole affermare o consolidare degli stereotipi. Egli voleva mettere in luce quei valori positivi – quel complesso simbolico femminile che si riassume nella figura di Maria madre di Gesù – che la Chiesa esalta vedendoli incarnati nella donna, quando è donna, senza con questo creare una dicotomia con i valori opposti, che una certa cultura popolare potrebbe attribuire all’uomo. Ma le dinamiche culturali che i giornali diffondono sono un’altra cosa. Il giornalismo seleziona e orienta il lettore in una certa direzione semplificando le opinioni con delle dicotomie primitive. In questo caso, il giornalista aveva il chiaro intento di offrire al pubblico una versione “femminista” del pensiero del Papa.

Dal punto di vista sociologico, esaltare la donna e i cosiddetti valori femminili in un mondo incapace di elaborare una cultura relazionale ha la funzione, se non esplicita, certamente latente, di esorcizzare le tensioni, i conflitti, le guerre, i traffici di esseri umani attribuiti al complesso simbolico maschile. Si ricorre così a quel complesso simbolico della Grande Madre che è stato e permane tuttora come il sottofondo arcaico di tutte culture precristiane, in tutti i continenti, seppure con nomi e forme diverse. Ma questa operazione comporta il rischio di perpetuare degli stereotipi.

Per uscire dal rischio di ricorrere a certi stereotipi del maschile e del femminile, è necessaria una riflessione culturale approfondita. Ma come fare? Come possiamo evitare le continue oscillazioni fra la dominanza di valori (supposti) “maschilisti” e la dominanza di (supposti) valori “femministi”?

Qui c’è uno scoglio molto serio. Se si afferma che i valori positivi appena detti appartengono al femminile, che ne è del maschile? Prendiamo il mondo cristiano. Forse che Gesù, chiaramente maschio, non abbia avuto nella sua esistenza terrena quei valori cosiddetti “femminili” e non abbia, come Risorto, valori che vanno al di là della differenza sessuale? Forse che lo Spirito Santo e il Padre, i cui appellativi suonano maschili, non partecipano di quei valori? Si potrà certo rispondere, come vari teologi hanno fatto, che Dio è padre e madre insieme, e che Gesù non faceva differenze di sesso quanto ai valori umani. Ma il problema rimane, ed è serio sul piano culturale: se quei valori che attribuiamo al femminile esistono anche negli uomini, perché allora attribuirli specificatamente alla donna? Solo perché li vediamo maggiormente incarnati nella donna per via della sua costituzione fisica e in specifico della maternità? L’argomento biologico è molto debole, e di fatto in buona misura smentito sul piano storico e dei fatti empirici.

Il problema, così posto, mi sembra davvero molto serio perché decide di una intera Weltanschauung. Non possiamo attribuire ad un supposto carattere, o addirittura ad un genoma biologico, quello femminile, certi valori, come se fossero propri di quel “genere”, senza con ciò creare una dicotomia. La logica della distinzione è inesorabile. Il fatto di distinguere è istintivamente percepito dalla mente come atto di netta separazione, fino alla discriminazione, senza che fra i due lati della distinzione possano esservi punti comuni o almeno di contatto.25 Luhmann lo ha rilevato e legittimato a chiare lettere.26 Secondo lui, l’operazione di distinzione è tale per cui, quando indichiamo un lato della distinzione, rendiamo automaticamente indeterminato l’altro lato, che contiene semplicemente tutto ciò che è opposto al lato indicato, e ne è la negazione. Se indico l’uomo, la donna è semplicemente tutto ciò che l’uomo non è, è un “altro” indeterminato che si definisce per la mancanza di ciò che caratterizza l’uomo. E, viceversa, se indico la donna qualificandola in un certo modo, l’uomo è semplicemente il suo opposto. Nel distinguere si opera una asimmetria di carattere gerarchico.

La forza dell’argomento di Luhmann è che chi osserva può certamente rovesciare l’osservazione. Per esempio, se un osservatore dapprima indica l’uomo (polo positivo, e la donna come polo negativo), può poi rovesciare l’osservazione assumendo il punto di vista della donna (polo positivo, di contro all’uomo polo negativo), o viceversa. Con ciò resta sempre l’opposizione, che è una gerarchia di un lato sull’altro. Guardare la distinzione da un lato o dall’altro non evita la dicotomia, perché si afferma comunque una logica binaria.

Per sfuggire a siffatta logica dicotomica occorre che sia disponibile un codice simbolico relazionale, e che esso venga adoperato con una adeguata riflessività relazionale. Io ho definito la nozione di riflessività, per distinguerla dalla nozione di riflessività di M. S. Archer, che è prettamente individuale, nel seguente modo: essa «non significa – come qualcuno la intende – solo una particolare empatia e attenzione all’altro termine della relazione (nei rapporti interpersonali, specie quelli di cura, come genitore-figlio, insegnante-alunno, medico-paziente), ma consiste nel fatto che i soggetti si orientano alla realtà che emerge dalle loro interazioni prendendo in considerazione come tale realtà (in virtù dei suoi poteri propri) è capace di ricadere sui soggetti stessi (agenti/attori) dal momento che essa eccede i loro poteri personali e aggregati. Indica dunque la riflessività che i soggetti riferiscono alla relazione sociale come tale per il fatto che essa “ritorna” su loro stessi influenzandone l’agire individuale e reciproco».27

3.2. Come allora dobbiamo intendere e gestire la distinzione fra uomo e donna? Sappiamo quanto il problema sia aperto in campo cattolico. Se i valori proclamati dalla Chiesa sono quelli femminili, che ne è dei valori maschili? Gli uomini sono veramente buoni solo se e quando partecipano dei valori femminili? Se gli uomini condividono i valori femminili, allora perché chiamarli femminili? Solo perché le donne hanno propensioni derivanti dalla loro maternità che gli uomini non hanno? Ma non possiamo basare i valori culturali su un dato biologico. Che cosa dovremmo allora dire della paternità? Esistono dei valori maschili? Se no, perché? E se sì, le donne non hanno alcuna partecipazione ai valori maschili?

Insomma: uomini e donne sono portatori di valori, caratteri, ruoli sociali (non biologici) specifici oppure no? Se li condividono, almeno potenzialmente, in toto non c’è più distinzione fra valori femminili e maschili, se invece ne condividono alcuni e non altri dove tracciamo le distinzioni, e come?

Le risposte a queste domande possono ben girare intorno al problema, e dire che donne e uomini partecipano degli stessi valori “in qualche modo e misura”, così come dei caratteri e dei ruoli sociali. Ma questa risposta non risolve per nulla il problema. Anche quando, nelle ricerche sociologiche o psicologiche, viene rilevato che il sesso è discriminante in certi comportamenti o posizioni sociali, ecc., si può sempre facilmente obiettare che questo è un dato attuale, in gran parte retaggio del passato, e che necessariamente cambierà nel tempo. Allora ritorna il problema.

Ci troviamo di fronte ad una sfida radicale alla simbologia cristiana, e ovviamente non solo a quella. La simbologia non può giocare con le parole quando si tratta di interpretare, valutare, orientare in concreto l’agire umano. Non si può essere patriarcali quando la società dà preminenza all’uomo ed essere matriarcali quando la società dà preminenza alla donna. È chiaro che il pendolo oggi oscilla dalla parte della cultura femminista. Come se, per umanizzare la società, la si debba femminilizzare. Lo sostengono, ad esempio, le teorie che riservano la cultura della “cura” (care) alle donne. La città diventa “città delle donne”. E allora che cosa succede all’uomo? Non ci sono più valori maschili? O, se ci sono, sono negativi o quanto meno ambigui e ambivalenti?

Ne La città delle donne di Federico Fellini troviamo delle tesi su cui riflettere. Il racconto felliniano, pur nella sua primaria dimensione onirico-fiabesca, propone un bilancio dei precedenti lustri di lotta per la liberazione della donna per sostenere che tali lotte hanno completamente stravolto l’immagine e i ruoli femminili nella società contemporanea. In buona sostanza, il film propone la tesi, dal punto di vista maschile, di una donna liberata, ma incapace di costruire un rapporto costruttivo con l’uomo, il quale, in stupita difesa, riceve continuamente attacchi dovuti non alle proprie colpe personali, ma alla propria appartenenza genetica maschile, quasi come una sorta di “pulizia etnica” del maschio. Gli uomini debbono solo chiedere scusa per aver prevaricato per secoli, se non per millenni, sulla donna. Sul piano sociologico delle ricerche empiriche, è indubitabile che nella società attuale questo sia un vissuto molto diffuso e in larga parte dominante, anche nella legislazione. Gli obiettivi dell’uguaglianza di genere, che vanno molto al di là delle pari opportunità fra uomini e donne, diventano imprescindibili, al punto che qualunque comportamento diverso o contrario viene pubblicamente sanzionato. La cultura si regge su una meta-norma, quella del politically correct, che vieta di fare distinzioni, essendo queste, come dicevo, percepite come discriminazioni.

Storicamente, dal dibattito sulla uguaglianza/differenza fra uomini e donne, si è passati al dibattito sex/gender che ha spostato interamente l’attenzione dal tracciare la differenza identitaria fra uomo e donna all’idea che esista fra loro una uguaglianza in natura, la quale uguaglianza sarebbe “coartata” dalla società, cioè dai processi socio-culturali, che del resto è la vecchia tesi di J. J. Rousseau. Questa idea porta con sé molti equivoci, che sono stati messi in luce da un’abbondante letteratura.28 Se, nel sistema di valori che deve essere condiviso da tutti per garantire l’ordine sociale, uomini e donne sono assunti come uguali salvo differenze biologiche che non hanno alcuna rilevanza sociale e culturale, e peraltro possono essere rese medicalmente reversibili, allora viene a crollare tutto l’edificio delle distinzioni/differenze, il che comporta l’azzeramento di ogni cultura della reciprocità, della sinergia, della complementarità. Cioè, sempre e di nuovo, si afferma l’individualismo tipico della cultura occidentale che si immunizza dalle relazioni sociali.

La simbologia cattolica tradizionale centrata sul codice simbolico materno, a discapito del suo apparente successo popolare, si trova in grande difficoltà, perché la sua esaltazione del femminile trova sempre meno riscontro nelle pratiche quotidiane. Certo, si potrebbe sostenere che la dottrina sociale cattolica è chiara quando tratta i due complessi simbolici maschile e femminile come complementari e reciproci.29 Ma l’indubbia verità ontologica di questa dottrina si trova a navigare nell’oceano di una società secolarizzata in cui i fatti concreti la contraddicono ogni giorno di più, perché nei fatti prevale il codice simbolico guidato dal binomio “libertà & uguaglianza” fra i sessi, su cui fiorisce l’individualismo di una sessualità spersonalizzata. Ci si deve domandare quali potranno essere le conseguenze del fatto che la rappresentazione culturale proposta dalla dottrina cattolica contrasti sempre di più con le prassi quotidiane per una parte sempre più consistente di popolazione.

3.3. Il fatto è che siamo di fronte ad una morfogenesi delle identità e delle relazioni che non è stata ancora compresa. Vediamo solo tanti fenomeni poco spiegabili, contraddittori, che vanno in direzioni diverse, senza che se ne possa vedere una logica che li guida.

La mia spiegazione è che la distinzione uomo-donna continua ad essere trattata con un codice simbolico dualistico. Tale codice produce solo conflitti (anche se le gerarchie sono rovesciate: è vero che Eva fu tratta da Adamo, ma Adamo non voleva forse la stessa cosa di Eva?). L’affermazione dell’ideologia dell’uguaglianza fra i sessi non rimedia agli esiti conflittuali della relazione, ma produce solo la sensazione di una certa neutralizzazione delle identità maschili e femminili.

Luhmann parlerebbe di una “circolarità” fra femminile e maschile, una sorta di fusione (central conflation) fra le loro differenze, che non aiuta in nessun modo a dare delle indicazioni operative. Il fatto è, egli sostiene, che quando uno dei due poli si relaziona all’altro, non vede la relazione, non può vederla, perché la relazione è invisibile e ingestibile di per sé: «io sono autonoma/o e tu sei autonomo/a, nessuno dei due “vede” la relazione». Il che porta alla conclusione per cui, sempre secondo Luhmann, l’amore diventa solo «una comune problematizzazione del mondo». In questo codice simbolico, amarsi vuol dire riconoscere che il mio problema è anche il tuo, e il tuo problema è anche il mio. Punto. Non resta, secondo lui, che accettare la logica dell’autoreferenza di ogni sesso (o gender) e gestirla con l’eurialistica:30 cioè guardare alla distinzione uomo-donna come ad una dualità che ha tante e diverse dimensioni e sfaccettature collocandosi sempre da punti di vista diversi e reversibili in modo da non cristallizzare (stereotipizzare) l’immagine dell’uno e dell’altra, e così evitare i conflitti. Ciò si può fare assumendo che tanto l’osservatore quanto gli stessi attori sociali evitino di guardare in faccia la relazione, che viene vista come un paradosso (un enigma) che acceca (uccide) chi la osserva.

In apparenza, Luhmann coglie molti fenomeni reali nella società odierna. Di fatto, se da un lato la cultura laica ufficiale proclama l’uguaglianza giuridica, morale e sociale fra uomini e donne, dall’altro, in tanti fenomeni di consumo e stili di vita, i due complessi simbolici maschili e femminili rimangono distanti, e in certi casi accentuano le loro opposizioni. Di volta in volta l’uno cerca di affermare la propria superiorità sull’altro. Sesso e potere. Questa è ancora una volta la storia. Pensiamo alle vicende delle separazioni e dei divorzi, dell’affidamento dei figli. Se non v’è dubbio che le spinte verso una maggiore indipendenza della donna prevalgono sulla persistenza di un certo potere maschile, d’altra parte gruppi di uomini (pensiamo ai padri separati che reclamano di vedere i figli) si organizzano per rivendicare i loro diritti. Luhmann ha chiarito che non basta vedere le cose dal lato opposto, perché semplicemente si rovescia la gerarchia (l’asimmetrizzazione). Ma io mi chiedo: la soluzione della eurialistica, che evita di guardare in faccia l’enigma cambiando continuamente il punto di vista, è la strada da percorrere?

L’idea ufficiale della assoluta parità uomo-donna si scontra ogni giorno con la persistenza di vecchi conflitti e l’emergere di nuovi. Come mai? La liberazione femminile avviene sotto l’ombrello dell’uguaglianza non solo morale e giuridica, ma anche sociologica e su tutti i piani di realtà, inclusa quella virtuale, fra uomini e donne. Di qui, poi, tutte le conseguenze sul maschile e femminile, e sulle loro relazioni nella società iper-modernizzante. La logica conclusione è che l’unisex e poi l’unigender (nel senso della indifferenza a qualunque gender) diventano oggi la tendenza culturale dominante: fine delle differenze, via libera alle in-differenze. Solo alcune culture premoderne, come quella islamica, si oppongono a questo trend.

La conclusione storica del confronto fra i sessi, nonostante i molti conflitti che rimangono in tanti aspetti nascosti e latenti, andrebbe dunque verso una sempre più radicale neutralizzazione delle differenze fra uomo e donna, così che non si riuscirebbe più a distinguere i cosiddetti valori femminili dai – praticamente assenti – cosiddetti valori maschili, supposto che si riesca a dire quali siano questi ultimi. Tant’è che un certo femminismo lamenta il fatto che la donna venga mascolinizzata (si vedano i prototipi della donna-manager, donna-poliziotto, donna-capo politico, donna-soldato, ecc.) e reclama di nuovo la sua differenza. In ogni caso, le indagini sociologiche ci assicurano che il maschile e il femminile fluttuano in un mondo di simboli in cui si mescolano, si confondono, si ri-differenziano, si combinano e ricombinano nei più diversi modi. Questa è la morfogenesi attuale.

Si comprende allora perché si diffonda l’opinione secondo cui «l’omosessualità è solo un orientamento sessuale, diverso da quello eterosessuale ma del tutto equivalente. È solo una delle tante differenze che caratterizzano ognuno di noi e che non può e non deve impedire a una persona di essere considerata uguale ad un’altra in termini di dignità, di opportunità e di diritti. Da oggi sarà più difficile non vergognarsi quando anche solo l’idea di insultare una persona omosessuale dovesse sfiorare la mente di chi pensa che esista un unico modo di essere o di amare […]. Se siamo stati creati uguali, anche l’amore con cui ci leghiamo l’uno all’altro deve essere uguale».31 L’amore non ha differenze, non può essere distinto nelle sue forme e contenuti, le relazioni di amore sono del tutto equivalenti fra loro. «Love has no labels» è stato lo slogan dei Gay Pride nel 2016. La cosiddetta ‘relazione pura’ teorizzata da Giddens,32 che egli ritiene emergere soprattutto nelle coppie omosessuali, viene da lui proposta come modello del futuro per tutte le coppie, quale che sia l’identità sessuale dei partner.

In sostanza, insistere sulla differenza fra maschile e femminile diventa obsoleto. Se mai si possa ancora parlare di due complessi simbolici diversi, questi sono comunque attraversabili e reversibili. Viene così generato un universo simbolico che offre indefinite opportunità di essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, mentre crea infinite combinazioni differenziali, costruendo e decostruendo i due complessi simbolici secondo le circostanze e le convenienze.

In questo clima, la stessa affermazione secondo cui «la Chiesa è femminile, è donna» perde di senso, a meno che non la si legga alla luce della cosiddetta “emancipazione femminile”, come la si è chiamata fino a qualche decennio fa, e oggi declinata come “liberazione” della donna. Una tale lettura vedrebbe la Chiesa in ritardo rispetto al mondo reale.

Contro questa visione sta la fenomenologia della relazionalità, che indica nella relazione una unicità irripetibile, se si sa coglierne il senso più profondo.33 In realtà, l’esortazione apostolica Amoris Laetitia, pur ribadendo la dottrina tradizionale, riconosce i processi di morfogenesi socioculturale in atto nelle relazioni di coppia e cerca un modo per affrontarli dando più spazio alla soggettività degli attori e alla particolarità delle situazioni nell’applicazione delle norme vigenti.

«È vero – afferma la Amoris Laetitia (304) – che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione».

I valori, dunque, vengono prima della norma, ma nella loro realizzazione non si deve andare contro la norma. Come è possibile?

Una tale svolta, per essere effettiva, sottende la necessità di un codice simbolico relazionale.34 Questo codice simbolico abbandona la logica binaria (di Luhmann) e i sofismi dell’eurialistica per affermare che la distinzione uomo/donna non è uno slash, ma è una relazione, cioè l’effetto emergente di una azione reciproca. Tale effetto opera nella realtà, non è una idea immaginaria. In quanto emergente può anche essere un conflitto, o un male relazionale, che andrà gestito alla luce di quei valori che possono rimediare al male relazionale e generare una relazione positiva, un bene relazionale. Conflitti e asimmetrie fra uomo e donna sono sempre presenti, ma la ricerca del bene relazionale le può rendere strutturalmente reversibili in senso positivo.

In sostanza, i processi di morfogenesi ci costringono a fare un salto di qualità nel modo di concepire e gestire la distinzione fra uomo e donna. Dobbiamo capire se e quando la distinzione vada tolta, oppure, al contrario, vada scritta con lo slash (uomo/donna), volendo significare una differenza ontologica strutturale incolmabile, oppure ancora vada scritta con un trattino (hyphen) (uomo-donna), volendo significare il fatto che i due termini sono distinti, ma anche connessi fra loro da un qualcosa (entità latente) che li lega e li co-implica mentre li differenzia.

6.4 La distinzione uomo-donna giace in un Terzo, che è la loro relazione

4.1. Mi sembra che occorra mettere un po’ di chiarezza su quanto accade nei fenomeni culturali. Il pensiero deve cercare risposte chiare, capaci di orientare delle prassi che siano insieme veritative e adeguate ai tempi. Ma come fare?

Partirei dalle constatazioni empiriche che le scienze umane e sociali fanno relativamente alle conseguenze provocate dalla doppia scissione, (i) da un lato fra corporeità e identità personale (percezione, senso e raffigurazione del Self ), e (ii) dall’altro fra identità personale e identità sociale. Scissione qui significa che la riflessività interiore delle persone si fa sempre di più impedita o fratturata, e che la riflessività relazionale manca o è del tutto deficitaria.

Queste osservazioni empiriche confermano l’affermazione di Papa Francesco secondo cui «i simboli forti del corpo detengono le chiavi dell’anima: non possiamo trattare i legami della carne con leggerezza, senza aprire qualche durevole ferita nello spirito (1 Cor 6,15-20)».35 Hadjadj sembra dire la stessa cosa, sebbene in modo più tranchant, quando afferma che «la trascendenza si trova già nelle nostre mutande», come uomini e come donne.36 Tuttavia, rispetto a quest’ultimo, è bene sottolineare che ricorrere solamente alle differenze corporee non è certo sufficiente per affrontare la distinzione fra i sessi, perché la natura relazionale delle distinzioni uomo-donna viene colta solo sotto un aspetto parziale, quello biologico, da cui si suppone che conseguano le altre differenze, psicologiche e sociali, il che non è.

Occorre una risposta molto più profonda e articolata di fronte a due posizioni: quelle di chi sostiene l’esistenza di una “frattura” fra i due sessi, e chi, per contro, sostiene che andiamo invece verso una loro omogeneizzazione, sotto forma di neutralizzazione delle differenze. Queste due posizioni sono in apparenza opposte, ma in realtà convergono nei fenomeni empirici, e la ragione di questa convergenza sta nel fatto che entrambe hanno un deficit di visione relazionale.

a) La prima posizione è rappresentata da tutti coloro che parlano di una distanza impossibile da colmare, una frattura, fino alla “lotta” fra i sessi (le citazioni sarebbero lunghe). L’argomentazione si basa sulla considerazione che i due sessi sono delle alterità nelle quali si rispecchia un dato ontologico della condizione umana, e cioè il fatto che gli esseri umani, a differenza degli altri esseri viventi, hanno bisogno della relazione con gli altri, in particolare fra i sessi, mentre tale bisogno si presenta come un “impossibile” da realizzare nella sua pienezza e positività, perché questa differenza si presenta come una vera e propria lacerazione.37 Come è possibile superare questa lacerazione? Come è possibile creare un legame stabile e significativo fra due opposti che si attraggono e si respingono allo stesso tempo? La risposta secondo cui è solo con la charitas e l’agape che possiamo rendere vivibile il paradosso dei legami umani è ovviamente un ideale, a cui andrebbe aggiunto, nei rapporti fra i sessi, un certo posto per l’eros. Ma dobbiamo comprendere come ciò possa avvenire in una maniera che non sia una soluzione mitica, idealistica o volontaristica.

Qualcosa potremmo apprendere da Romano Guardini, con il quale potremmo dire di trovarci di fronte ad una “opposizione polare” fra uomo e donna, che devono essere visti come termini carichi di un rapporto di attrazione-repulsione dal quale si sprigiona una tensione positiva, non una discriminazione o separazione, che è fonte di energia e ricchezza.38 Ma lo schema dell’opposizione polare ha una connotazione che si adatta più alle scienze naturali che a quelle sociali. I legami umani hanno una sostanza, una struttura, che è differente da tutti quelli che possiamo vedere in altri esseri viventi per il fatto che sono “significanti”, cioè richiedono una significazione che è sottoposta alla interpretazione soggettiva. Diversamente da animali e piante, il legame umano è activity dependent e context dependent, ossia non è determinato da automatismi. Rimane il problema di come spiegare il fatto che la relazione possa unire due soggetti nello stesso tempo che mantiene e promuove le loro differenze. Dobbiamo fare uno sforzo per accedere ad una prospettiva relazionale più complessa, perché dobbiamo includere nella relazionalità umana ben maggiori contingenze.

b) La seconda posizione è quella di chi sostiene che la modernità occidentale abbia coltivato e continui a coltivare la passione per il neutro39 come forma di differenziazione senza distinzioni (indistinta per via della equivalenza dei differenti), fra culture, modi di vita, scelte etiche sempre più differenti e allo stesso tempo considerate sempre più “uguali”,40 come recita la formula del multiculturalismo globale «tutti differenti, tutti uguali».41 Viene alla mente la previsione di Carl Schmitt, secondo cui la modernità, dominata dalla illusione illuminista e dalla razionalità tecno-scientifica basata sul calcolo, avrebbe portato ad un epoca di spoliticizzazioni e neutralizzazioni di tutte le differenze (lui parla di “istanze in conflitto”).42 Sul piano empirico, le ricerche sociologiche dicono che le persone sono o desiderano essere sempre differenti, e tuttavia lo fanno senza riconoscere e valorizzare le differenze (“essere umano indifferenziato”), non già perché le differenze non esistano, ma perché sono scelte in maniera arbitraria, contingente, e sono sempre attraversabili e reversibili, cioè de-costruibili (alla maniera di Jacques Derrida).

Questi ambigui processi in cui la ricerca delle differenze si accompagna alla incapacità di gestirle sono portati all’esasperazione dalle nuove ICT. Come afferma Luciano Floridi43, la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e la loro penetrazione nella società incidono profondamente sulla condizione umana nella misura in cui modificano il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo in generale. L’incessante espandersi delle ICT scuote dalle fondamenta i tradizionali quadri di riferimento concettuali attraverso le seguenti trasformazioni: a) l’erosione dei confini tra il reale e il virtuale, b) l’erosione dei confini tra uomo, macchina, e natura, c) il rovesciamento della situazione nella sfera dell’informazione: dalla scarsità alla sovrabbondanza, d) la transizione dal primato del soggetto al primato dell’interazione.

Tutto ciò sconvolge la mente umana nella misura in cui essa, dovendo “cogliere” il mondo per mezzo di concetti, vede questi ultimi cambiare continuamente ad opera delle nuove tecnologie. Poiché la percezione sensoriale viene necessariamente mediata da concetti, che sono interfacce attraverso le quali la realtà è vissuta e interpretata, la comprensione della realtà circostante muta continuamente perché cambiano gli strumenti per apprenderla. In breve, l’armamentario concettuale di cui disponiamo oggi non è adeguato ad affrontare le nuove sfide che accompagnano lo sviluppo delle ITC.

Le conseguenze sulla morfogenesi della relazione uomo-donna sono devastanti. Il processo può essere descritto come segue (figura 1). Qualunque sia la struttura della relazione uomo-donna in una certa situazione e contesto sociale al tempo T1, essa va incontro ad una fase temporale di interazioni (nell’intervallo fra il tempo T2 e il tempo T3) che seguono la logica della competizione nelle opportunità che si aprono nel nuovo ambiente comunicativo. La struttura iniziale non può essere mantenuta (la morfostasi diventa praticamente impossibile), e deve necessariamente evolvere verso una struttura elaborata (al tempo T4). Ma la struttura elaborata, in condizioni di morfogenesi unbound, si presenta come “una forma senza forma”, giacché la in-formazione (la forma data dalla informazione) cambia incessantemente.

Questi cicli morfogenetici si susseguono in maniera sempre più rapida e accelerata. Il punto è che, in questi processi ciclici, opera una sinergia fra il cambiamento della struttura sociale dei ruoli (maschili e femminili) e i mutamenti delle immagini e rappresentazioni culturali (delle identità maschili e femminili): è questo meccanismo che genera il continuo cambiamento delle forme relazionali fra uomini e donne.


Figura 6.1: I cicli di cambiamento della relazione uomo-donna nell’attuale morfogenesi socio-culturale
Figura 6.1: I cicli di cambiamento della relazione uomo-donna nell’attuale morfogenesi socio-culturale

Per esempio, se la legislazione equipara i ruoli sociali maschili e femminili, anche le identità dell’essere uomo o donna cambiano, e rafforzano i cambiamenti nei ruoli; e viceversa, se le immagini trasmesse dai media mostrano identità che cambiano, questo legittima i cambiamenti nei ruoli sociali, e rafforza gli interventi strutturali in tal senso.

Le relazioni sociali sono soggette al tempo, esse non possono rimanere ferme e costanti, ma progrediscono o regrediscono.44 I fattori che le muovono sono, da un lato i cambiamenti della struttura sociale (ruoli e posizioni), e dall’altro il tipo di riflessività che i soggetti esercitano sui loro ruoli, posizioni e sulle loro identità nelle reti sociali.

Il risultato di questi processi morfogenetici è presto detto. Nella auto-rappresentazione postmodernista, le persone, come “puri individui”, hanno il diritto di definire le loro identità (sessuali, di coppia e familiari) e le loro relazioni a piacimento: l’identità sessuale, come l’identità di coppia e di famiglia, “è” quella che si immaginano e che pensano di costruire. Qualunque definizione comune delle identità, posizioni, ruoli maschili e femminili scompare. Non c’è più nessuna distinzione, e nemmeno alcun confine, fra le identità e i ruoli maschili e femminili. L’utopia post/trans-umanista vede solo creature in un “mondo post-genere” o senza genere.45 Ciò non significa, però, che tutto sia omogeneizzato, ma significa piuttosto che vengono affermate condizioni e relazioni uniche, che non hanno niente in comune fra di loro.

Siamo ben lontani dagli anni Ottanta-Novanta, quando si parlava di gender solo per riferimento alla differenza fra uomo e donna, maschio e femmina.46 La teoria del gender si apre alla indeterminazione. E allora ci si chiede: questa svolta è sociologicamente e umanamente tenibile?

Lo schema sopra riportato coglie molte dinamiche in atto, ma deve essere integrato includendo l’analisi degli esiti di ogni ciclo morfogenetico e dei modi in cui i soggetti riflettono su ciò che accade in ogni momento e fase dei processi stessi. Le indagini sulla qualità dei modi di vita che emergono e su che cosa essi producono non danno risultati positivi. Certamente si formano nuove reti e nuovi aggregati sociali, ma diminuisce la capacità riflessiva delle persone, i processi mimetici vengono esasperati, la mancanza di una cultura della distinzione rende opache le differenze fra i beni e i mali relazionali, non si vedono le differenze tra la famiglia e gli altri gruppi primari.47 Se si va fino in fondo agli effetti dei processi sopra ricordati, si trova l’individualismo più esasperato, e con esso un crescente isolamento degli individui e nuove patologie relazionali.

Qualche tempo fa, un giornale locale riferiva il fatto che, nel Municipio di Haarlem (Olanda), una donna single (età 30 anni) si è sposata con se stessa, alla presenza della famiglia di origine, parenti e amici. Ha promesso fedeltà a se stessa, di amarsi, onorarsi e aiutarsi per tutta la vita. Parenti e amici hanno gettato fiori e festeggiato. Probabilmente, anzi sicuramente, è stata una pagliacciata. Ma mi è venuto in mente quanto mi disse W. J. Goode, un famoso studioso di famiglia, quando nel 1981 lo intervistai a San Francisco e gli chiesi che cosa ne pensasse dei matrimoni gay che si celebravano in quei giorni in modo puramente simbolico sul Golden gate bridge, e lui mi rispose che erano solo una pagliacciata. Dopo circa trent’anni adesso quei matrimoni sono una realtà legalizzata. Il giornalista britannico Douglas Murray un giorno ha detto: «dove l’Olanda va, gli altri paesi europei seguono». Dunque, quella pagliacciata della donna single di Haarlem anticipa la sorte del matrimonio in Europa?

4.2. Di fronte a queste tendenze, io credo che la sociologia possa e debba fare delle obiezioni per mettere in luce che le attuali tendenze all’individualizzazione e soggettivizzazione delle identità, come dei ruoli sociali, in particolare maschili e femminili, sono di fatto una pura illusione. Le analisi sul campo sono lacunose o silenti nel rilevare i bisogni reali delle persone, fuori delle manipolazioni mass mediatiche. Mancano di comprendere le esigenze della gente di essere-in-relazione, non in un modo qualunque, ma significante e gratificante, non indagano l’intrinseca struttura delle relazioni sociali e i loro effetti, positivi o negativi. Le persone necessitano delle relazioni come dell’aria per respirare, ma la gran parte di esse non vedono e non tematizzano le loro relazioni, ne ricevono gli influssi senza capire il perché e il come ciò avvenga.

La relazione uomo-donna è una relazione sui generis, ma condivide con le altre relazioni interumane un dilemma: è fatta solo dai due soggetti che sono in gioco o c’è qualcos’altro senza cui non si può giocare?

La risposta di Luhmann, mutuata dalla logica di Spencer Brown, è: «solo in due si può giocare questo gioco» (Only Two Can Play This Game).48 Questa idea esclude il Terzo, e pertanto è destinata a produrre una confusione (conflazione centrale) fra i due. Il gioco fra un uomo e una donna non riguarda solo i due individui. È un incontro che, in quanto incontro, introduce un terzo nel gioco.

Accettare di entrare in relazione o rifiutarsi è la prima mossa di un gioco. Se il gioco prosegue, affinché le persone possano giocare, occorre che il gioco sia chiarito e gestito come un contesto relazionale che ha la sua propria realtà, le sue esigenze, e le sue specifiche regole. Il problema sta nel definire il gioco della relazione. Come ho scritto tempo fa, la relazione, non l’ambivalenza o il dualismo, è «il gioco dei/sui giochi».49

In realtà, ogni relazione fra due persone è triadica, nel senso che implica il Terzo della relazione.50 Nel caso in cui le due persone sono un uomo e una donna, il Terzo non è lo stesso che nel caso in cui le persone sono due uomini o due donne, perché l’effetto emergente è necessariamente diverso.

La distinzione fra uomo e donna è questo Terzo, un Terzo sui generis, che non ha equivalenti funzionali (non c’è macchina o tecnologia che possa sostituire un legame umano, e la relazione omosessuale non è un equivalente funzionale della relazione eterosessuale). È da questo Terzo che dipende la umanizzazione dei due. Rifiutare il legame sociale che l’incontro può portare con sé significa produrre individualismo (una individualizzazione per negazione), mentre la umanizzazione consiste nel cogliere, anche intuitivamente, l’unicità di quella relazione che nasce dall’incontro e qualificarla con la personalizzazione.

6.5 L’umanizzazione sta in una certa relazione generativa, cioè nel Terzo

Mi sia consentito proporre qui una breve riflessione su un pensiero ontologico. Scrive Heidegger:51 «In Sein und Zeit è con intenzione e per prudenza che si dice: il y a l’être: “si dà” l’essere. L’espressione il y a non traduce esattamente il “si dà” (es gibt) perché “ciò” (es) che qui “si dà” (gibt) è l’essere stesso. Il “si dà” (gibt) indica l’essenza dell’essere che dà, concedendola, la sua verità. Il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso, è l’essere stesso».

Andando forse molto oltre le intenzioni di questo Autore, propongo di fare una lettura relazionale di questa affermazione che ci consente di vedere le sue luci e le sue ombre. Dire che “l’essere si dà”, significa affermare che l’essere è di per sé “donativo”, che ha le qualità e proprietà della donalità,52 e in tal senso l’essere è intrinsecamente relazionale perché cerca la relazione, ha bisogno della relazione. Se l’essere, come dice Heidegger, è «il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso», non si parla forse, in questa definizione, dell’essere come relazionalità? Penso di sì, ma qui Heidegger si ferma. L’essere è per lui ciò che semplicemente “è”, come se l’essere (la sua verità) non potesse diventare «altro da ciò che è [già] dato». Se c’è inconciliabilità fra metafisica e umanizzazione, evidentemente qualcosa non funziona. Sfortunatamente, nel caso di Heidegger, sia l’una che l’altra sono difettose, perché entrambe non sono relazionali.

Invece, parlando di cose umane, se l’essere è atto (atto di essere, ovvero energeia), e questo atto è relazione, proprio in forza di questa sua intrinseca relazionalità, l’essere non è statico (non è morfostatico), non è immutabile, ma è dinamico e morfogenetico, ossia può pro-gredire o re-gredire nel tempo. L’essere che è nei fenomeni sociali, proprio perché relazionale, ammette la propria trasformazione. Per continuare ad esistere come idem e ipse pone una condizione: che sia rispettata la propria intrinseca relazionalità (è lì dove giace la sua “natura”), altrimenti passa ad altro-da-sé, non ha più il suo essere. Il n’y a pas l’être perché viene meno la sua propria modalità relazionale, anche se ciò per cui e a cui tende cambia al mutare delle situazioni.

La relazione, come afferma Antonio Malo, è energeia, perché, in quanto “essere”, la relazione è un atto, ma è un atto che ha una forma sui generis, diversa dall’atto individuale (di cui si parla, per esempio, in Persona e atto di Karol Wojtyla): è atto che si genera (genera se stesso) nel generare. In questo senso vanno riformulate l’idea heideggeriana dell’es gibt e quella levinasiana dell’il y a,53 che a mio avviso non hanno un carattere propriamente relazionale, nonostante molti autori li considerino tali, mentre per me lo sono solo in apparenza.54Heidegger né Lévinas vedono la relazione in quanto sociale. Poiché la relazione è il darsi dandosi. In ciò si illumina l’affermazione, che ho esposto altrove (Donati 2003), per la quale il dono è il motore della relazione, quando genera un bene relazionale.

Si vede qui il limite della filosofia di Lévinas (1980, 1985) a proposito della differenza sessuale. Per lui, la virilità è il simbolo del soggetto che non vuole farsi alterare dall’Altro, mentre la femminilità è liberazione da questo senso di proprietà e di chiusura. Per lui, è la donna che rappresenta l’alterità. La prima figura di relazione con gli altri, è l’eros, nel quale si esalta un’alterità tra esseri che non si limita ad una semplice alterità erotica. Il femminile è l’origine del concetto stesso di alterità che non scompare nella relazione amorosa, perché l’uomo e la donna costituiscono per lui una dualità insormontabile, due esseri la cui complementarità non implica una relazione necessaria. «La differenza di sesso – egli afferma – non è la dualità di due termini complementari. Infatti, due termini complementari suppongono un tutto preesistente. Ora, dire che la dualità sessuale suppone un tutto, significa porre già prima l’amore come fusione e, dunque, come annullamento dell’ego». Per lui il patetico dell’amore consiste in una insormontabile dualità degli esseri, ossia l’amore è una relazione con ciò che sempre si sottrae, un faccia a faccia, un aut-aut.

In una visione relazionale, invece, l’uomo è tale “in relazione” (alla donna), la donna è tale “in relazione” (all’uomo). Ciò significa che il loro essere rispettivamente uomo o donna, e non solo maschio o femmina, dipende dal carattere generativo della loro relazione perché solo la relazione produce quell’effetto emergente (il Terzo) da cui essi, come uomini e donne, traggono il senso del loro agire. Quando dico “carattere generativo”, non intendo riferirmi esclusivamente alla generazione fisica dei figli, attraverso rapporti intimi, ma mi riferisco più in generale a qualunque prodotto della relazione interumana, come il riconoscimento reciproco, l’empatia, la fiducia, l’apprezzamento delle differenze sensibili quando sono o possono diventare sinergiche. L’essere uomo e donna riflette la dinamicità di questa relazione generativa in ogni specifico contesto sociale.

Nel 1949 Simone de Beauvoir ha lanciato l’antesignano di tutti gli slogan femministi: «Donne non si nasce, lo si diventa», definendo la donna quale «prodotto intermedio tra il maschio e il castrato».55 Lei intendeva combattere la subalternità della donna, il suo sfruttamento, la manipolazione che se ne faceva, e ancora se ne fa, in tante sfere sociali. Propongo di prendere sul serio quello slogan, che può anche essere declinato al maschile: «uomini non si nasce, lo si diventa». Ma che cosa vuol dire? Forse perché la donna è costretta a fare i lavori domestici e l’uomo deve fare carriera nel lavoro? Non mi pare, siamo ormai lontani da quei problemi. Anche quando abbiamo rovesciato i ruoli sociali, con l’uomo che fa il casalingo e la donna che ha un lavoro professionale, non abbiamo certo per questo motivo umanizzato né l’uno né l’altra. Non è questo il problema. Se prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui uomini e donne non si nasce, ma si diventa, ciò può voler dire che l’umanizzazione dell’essere uomo o donna si realizza nel potere generativo che queste due identità hanno nelle loro relazioni quando esse danno vita ad un Terzo. Potere generativo in senso lato, non solo dei figli, ma anche di una cultura, di stili di vita, di qualità della vita umana in ogni sfera sociale. Il Terzo è un bene relazionale. Se fosse un male relazionale, la relazione uomo-donna non verrebbe umanizzata.

L’umanizzazione delle persone dipende dal fatto che siano umane le loro relazioni, perché non è detto che, in quanto la relazione viene attuata da persone che scambiano comunicazioni fra loro, sia umana anche la loro relazione. La de/dis-umanizzazione delle persone è infatti moneta corrente nella vita quotidiana. Emerge quando una persona si relaziona all’altra senza riconoscerne le qualità umane o addirittura le nega la natura umana.56 Ciò si verifica in vari modi. Per esempio: quando una persona stigmatizza l’altra (se una persona è bollata con uno stigma non è considerata del tutto umana); quando una persona nega all’altra le qualità umane (per esempio le attribuisce modi di essere e comportamenti da animale); o ancora le nega l’umanità cioè la stessa natura umana (per esempio perché la considera una cosa – res –, o la tratta come un automa inanimato). In tutti questi casi, e altri ancora, la de/dis-umanizzazione consiste nel rifiuto o stravolgimento della relazione. Siccome noi non vediamo cosa c’è nella mente delle persone, questi comportamenti de-umanizzanti si vedono nelle relazioni agite dalle persone.

Ovviamente l’umanizzazione della relazione ha contenuti e forme differenti a seconda delle diverse sfere sociali. Ma, affinché sia umana, in qualsiasi circostanza e ambiente sociale occorre che le persone si orientino a produrre un bene relazionale nel quale e dal quale sentirsi realizzati secondo la propria natura e la capacità di essere se stessi.

L’umanizzazione della relazione uomo-donna significa poter essere se stessi in un dialogo che produce un bene relazionale con l’Altro in ogni sfera sociale, sia nella sfera privata – e in particolare nella intimità, che è pur essa sociale – sia nella sfera pubblica, ma soprattutto in quella sfera “terza” che è il privato sociale, cioè il privato orientato a produrre beni sociali e non a perseguire scopi o interessi puramente individuali. In tutti i casi, il problema di questa relazione è la sua complessità, che consiste in una combinazione di distinzione e connessione (l’enigma della relazione),57 che va gestita in modo peculiare in ogni ambito sociale. Vediamo brevemente i diversi ambiti.

a)Nella vita di coppia, è l’eros che si accompagna all’agape, di cui parlano Wojtyla58 e Ratzinger,59 non l’erotismo di Alberoni.60 Ma, sociologicamente parlando, tra l’eros individuale (micro) e l’agape comunitaria (macro), c’è un Terzo (meso) che deve essere considerato attentamente per l’umanizzazione della persona: è la philìa, che non è un sotto prodotto, ma ciò che connette-distinguendo le persone dell’uomo e della donna.

L’intimità è il luogo per eccellenza dell’incontro in cui poter essere se stessi, mentre in pubblico on ne peut jamais être soi-même perché in qualche modo la relazione “vela” (ricopre con un velo) il sé per l’altro e viceversa, dando alle interazioni un po’ il carattere dei giochi di ruolo. Nell’intimità invece questi giochi costituiscono un problema: se sono veramente dei giochi fatti con simpatia e ironia, sono positivi e aiutano la coppia ad elaborare le sue fantasie; ma se i giochi diventano delle strategie con fini strumentali o di potere, allora conducono prima o poi al fallimento della relazione.

L’intimità richiede una relazione capace di unire e distinguere al contempo, senza cedere al mito della fusione. La cosiddetta “relazione pura” teorizzata da Anthony Giddens, che è cercata per la reciproca soddisfazione e utilità, non porta alla intimità, ma solo al piacere individuale.61 Tantomeno può produrre intimità il fare il ricorso al punto di vista impersonale del cosiddetto “Altro generalizzato”, ovvero della “terza persona” proposto da alcuni.62 Si vede così perché l’intimità necessiti di una certa relazionalità, profonda e riflessiva.

b) Nella famiglia, il dono non è femminile più di quanto non sia anche maschile, perché non è un “valore”, ma è la disposizione voluta e intenzionale per generare un bene relazionale che non può emergere senza una particolare relazione intersoggettiva e strutturale fra l’uomo e la donna, come corpi e come complessi simbolici e comunicativi. Come giustamente osserva Vincenzo Masini,63 le relazioni evolute sono quelle che perseguono l’obiettivo di purificazione degli archetipi e di invenzione di nuovi modelli di intersoggettività; tale purificazione può però avvenire, sostiene Masini, solo mediante la comprensione della “sostanza relazionale” della intersoggettività. Io chiamo questa “sostanza” la struttura della relazione sociale che è l’effetto emergente del combinato disposto fra riferimento simbolico (refero) e legame (bond) sociale.64

c) Nella sfera pubblica la relazione uomo-donna deve rispondere a specifiche esigenze relazionali che sono state indagate da una immensa letteratura. Come è stato mostrato da Goffman,65 qui si affermano dei “rituali dell’interazione”, che sono tutti modi per gestire una certa distanza con l’altro, ampliandola o restringendola, perché nelle relazioni in pubblico la persona umana si presenta come un attore che mette in scena un “personaggio”, il più delle volte nella speranza di acquistare la stima, la fiducia, la collaborazione dell’altro, ma in altri casi con l’intenzione di circuirlo, di trarne determinate cose o con altre intenzioni ancora.

d) Nella Chiesa, come comunità spirituale dei credenti, la relazione uomo-donna è umanizzata e umanizzante se e nella misura in cui uomini e donne producono dei beni relazionali, non perché prevalgano dei valori maschili o femminili, o perché si realizzi una qualche complementarità fra valori e ruoli femminili e maschili. Ciascuno deve essere se stesso e trovare l’ambiente che lo sostiene nella capacità di essere una persona autentica di fronte all’altro, uomo o donna che sia.

6.6 A mo’ di conclusioni

L’umanizzazione dell’essere uomo o donna consiste nel vivere la loro relazione, intersoggettiva e strutturale, in modo dinamico come relazione generativa di beni relazionali. In definitiva, l’umanizzazione della relazione consiste nel prendersi cura del Terzo, cioè della relazione stessa come un – almeno potenziale – bene relazionale.

Il maschile e il femminile consistono nel loro carattere relazionale, in un duplice modo. Innanzitutto consistono nella relazione che il Self di ogni individuo ha con il proprio corpo (identità personale e riflessività personale), e poi nella relazione che questa relazione instaura con gli altri corpi e simboli tramite la relazione che gli altri hanno con il loro corpo e simboli (identità relazionale e riflessività relazionale). Le due modalità sono necessariamente intrecciate fra loro se la relazione deve essere umanizzata e umanizzante. Nello stesso tempo, è proprio questa realtà relazionale quella che rende il mondo dei rapporti, incontri e scontri, fra uomini e donne così disperante, ma anche così ricco di passione e di promesse.

L’umanizzazione della relazione uomo-donna va compresa attraverso una visione relazionale della loro distinzione, che sintetizzo come segue.

  1. La differenza biologica fra i sessi, che è ontologica, non deve far pensare che anche i ruoli sociali e i valori culturali siano ontologicamente diversi; ciò può creare solo degli stereotipi. L’umanizzazione della relazione uomo-donna consisterà nel personalizzare l’uno e l’altra tenendo conto della loro diversa struttura fisica, ma senza derivarne differenze ontologiche su altri piani.
  2. Ogni persona si determinerà cercando il proprio equilibrio riflessivo fra la sua corporeità, i ruoli sociali che ricopre, e i valori culturali che vorrà vivere. Tutti i mondi della vita (gli ordini di realtà del naturale, sociale, pratico, spirituale e ideale) si pluralizzano sempre di più e ciò mette a seria prova le capacità riflessive delle persone, che sono chiamate ad esercitare le loro capacità di selezione (discernimento), deliberazione e dedicazione. È ovvio che le persone si stratificano in base alle diverse capacità e opportunità, per questo è importante favorire condizioni contestuali nelle quali vi siano l’uguaglianza delle opportunità di partenza e insieme sostegni alla solidarietà fra i sessi.
  3. Le persone, uomini e donne, dovranno sempre più definire la loro relazione come un “Terzo” e gestirla come tale. Ciò significa che la relazione non va pensata solo come prodotto delle loro qualità individuali, ma come un fenomeno emergente che ha un’esistenza propria. Dipende da loro se si configura come un bene o un male relazionale, ma il fatto che sia un bene o un male non dipende da loro.

In linea generale, ci sono due modi di guardare qualcuno o qualcosa. Uno è quello di pensarlo/a di fronte a noi: in tal caso, quel qualcuno o qualcosa ci parla di sé, e nulla più. Il nostro sguardo vede un “s/oggetto”, lo percepisce e lo valuta nell’immagine che ce ne facciamo, e nei sentimenti che suscita in noi, per esempio mi piace o non mi piace. L’altro modo è quello di pensarlo/a in relazione a noi: allora, pensato nella relazione, quel qualcuno o qualcosa ci dice molto di più e di diverso, ci dice non solo cose di sé, ma anche cose che stanno dentro di noi, cose che erano nascoste, silenti, latenti in noi stessi, e che alla fine vediamo perché è la relazione stessa che le suscita; la relazione ci parla di noi stessi, non solo dell’altro. Il primo, lo sguardo frontale, è oggettivante, il secondo, lo sguardo relazionale, è riflessivo. A sua volta, la relazionalità ha due facce: può rimanere dentro noi stessi o può farsi (capace di) alterità. Può limitarsi alla nostra conversazione interiore (quando guardiamo l’altro e ne parliamo dentro noi stessi), e allora è una (auto)riflessività personale, individuale (come la vede Archer). Oppure la nostra riflessività si protende sulla relazione stessa, la conversazione interiore non è rivolta all’Io, ma si rivolge alla relazione che abbiamo con quel qualcuno o qualcosa. In tal caso diventa riflessività relazionale (Donati). È questa seconda forma di riflessività che ci fa comprendere perché e come la vita sia relazione, ad esempio tra uomo e donna.

Lo sguardo frontale non genera beni relazionali. I beni relazionali richiedono lo sguardo proprio della riflessività relazionale.

In breve, l’umanizzazione è un processo che riguarda le persone, ma passa necessariamente attraverso le relazioni che esse attualizzano. Sono le relazioni che umanizzano o meno, in un modo o nell’altro, certo in quanto sono agite in un certo modo o in un altro dai soggetti in gioco. Gestire questa complessità sapendo vedere e prendersi cura della unicità di ogni relazione contestualmente situata, e pertanto di ogni identità sessuata in atto, è il cuore di un neo-umanesimo che deve abbandonare gli stereotipi del passato, del presente e del futuro.

1Emmanuel Lévinas, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito (Roma: Città Nuova, 1984). La citazione è presa da: Maria Martello, L’arte del mediatore dei conflitti (Milano: Giuffré 2008): 97.

2Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010).

3Per esempio Gerhard von Rad, Old Testament Theology, Vol. 1 (Louisville: Westminster John Knox Press, 2001).

4Andrew Metcalfe and Anne Game, “‘In the Beginning is Relation’: Martin Buber’s Alternative to Binary Oppositions”, SOPHIA 51 (3) (2012): 351-363.

5Si veda Davide Ruggieri, La sociologia relazionale di Georg Simmel. La relazione come forma sociale vitale (Milano-Udine: Mimesis, 2016).

6Niklas Luhmann, “Frauen und Männer und George Spencer Brown”, Zeitschrift für Soziologie 17 (1) (1988): 47-71 (tr. it. Donne/Uomini, Paris-Lecce, Pergola Monsavium: iusEAed, 1992).

7Michael Wiederman, “Sexual Script Theory: Past, Present, and Future”, in John DeLamater e Rebecca F. Piante (eds.), Handbook of the Sociology of Sexualities (New York: Springer, 2015): 6-19.

8Theodor Adorno, “Sulla logica delle scienze sociali”, in Dialettica e positivismo in sociologia (Torino: Einaudi, 1972): 132.

9Per la giustificazione di questo assunto, che è una presupposizione generale empiricamente fondata, debbo per forza di cose rimandare il lettore alla mia sociologia relazionale.

10Cfr. Donati, “L’identità maschile e femminile”, in Famiglia. Il genoma che fa vivere la società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2013): 103-136.

11Pierpaolo Donati, “Morphogenic Society and the Structure of Social Relations”, in M.S. Archer (ed.), Late Modernity. Trajectories towards Morphogenic Society (Dordrecht: Springer, 2014): 143-172.

12Andrew Sayer, “System, Lifeworld and Gender: Associational Versus Counterfactual Thinking”, Sociology, 34 (4) (2000): 707-725.

13Va chiarito che, quando qui uso il termine “sociale”, io lo intendo come sinonimo di “relazionale”, cioè di sociale-umano, pur essendo consapevole che esiste un sociale non (specifico dell’) umano, riferibile ad altri organismi viventi. Quando io parlo di “sociale”, intendo ciò che emerge da azioni umane reciproche (rel-azioni), che sono intenzionali, e questo è specie-specifico dell’umano. Certamente, nella tarda modernità l’umano non è più il metro di tutto il sociale. Occorre perciò distinguere fra il sociale umano e il sociale non-umano, e non confonderli.

14Come afferma Jessop: «The actualization of naturally necessary powers is not guaranteed. Indeed, we can go further and argue that the tendencies of social systems, structures, and other social relations are always “doubly tendential”. For these tendencies exist only to the extent that the social relations that generate them are themselves reproduced; if these social relations are modified or eliminated, then their naturally necessary (or intrinsic) properties will be modified or eliminated too» [Bob Jessop, “The Gender Selectivities of the State. A Critical Realist Analysis”, Journal of Critical Realism 3(2) (2004): 207-237; 207].

15Gesa Lindemann, “The Analysis of the Borders of the Social World: A Challenge for Sociological Theory”, Journal for the Theory of Social Behaviour 35 (1) (2005): 69-98.

16Bruno Latour and Steve Woolgar, Laboratory Life: The Social Construction of Scientific Facts (Beverly Hills: Sage, 1979).

17Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network-Theory (Oxford: Oxford University Press, 2005).

18Graham Harman, Prince of Networks: Bruno Latour and Metaphysics (Melbourne: re.press, 2009).

19Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (Milano: Adelphi, 1995).

20Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (Bologna: Il Mulino,1990): 354.

21Un esempio concreto di società anti-umanistica è fornito da coloro che sostengono che, per salvare il pianeta dalla sua distruzione ad opera dell’uomo, occorre ridurre drasticamente la popolazione e imporre limiti allo sviluppo.

22Donati, “Il legame sociale dopo la modernità: limitazione o risorsa generativa dell’umano?”, in Vera Zamagni (a cura di), L’urgenza di un nuovo umanesimo (Roma: Edizioni Orthotes, 2015): 43-84.

23Eugenio Scalfari, La Repubblica, 15 maggio 2016, 1.

24Nell’udienza all’Istituto Giovanni Paolo II del 27 ottobre 2016, ha per esempio affermato: «Il riconoscimento della dignità dell’uomo e della donna comporta una giusta valorizzazione del loro rapporto reciproco. Come possiamo conoscere a fondo l’umanità concreta di cui siamo fatti senza apprenderla attraverso questa differenza? E ciò avviene quando l’uomo e la donna si parlano e si interrogano, si vogliono bene e agiscono insieme, con reciproco rispetto e benevolenza. È impossibile negare l’apporto della cultura moderna alla riscoperta della dignità della differenza sessuale. Per questo, è anche molto sconcertante constatare che ora questa cultura appaia come bloccata da una tendenza a cancellare la differenza invece che a risolvere i problemi che la mortificano. La famiglia è il grembo insostituibile della iniziazione all’alleanza creaturale dell’uomo e della donna. Questo vincolo, sostenuto dalla grazia di Dio Creatore e Salvatore, è destinato a realizzarsi nei molti modi del loro rapporto, che si riflettono nei diversi legami comunitari e sociali. La profonda correlazione tra le figure famigliari e le forme sociali di questa alleanza – nella religione e nell’etica, nel lavoro, nell’economia e nella politica, nella cura della vita e nel rapporto tra le generazioni – è ormai un’evidenza globale. In effetti, quando le cose vanno bene fra uomo e donna, anche il mondo e la storia vanno bene. In caso contrario, il mondo diventa inospitale e la storia si ferma».

25Così sostiene Georg Spencer-Brown nell’opera Laws of Form (London: Allen & Unwin, 1969), da cui deriva la sociologia di Luhmann, «The simplest form or structure we can imagine is a distinction. A distinction can be defined as the process (or its result) of discriminating between a class of phenomena and the complement of that class (i.e. all the phenomena which do not fit into the class). As such, a distinction structures the universe of all experienced phenomena in two parts. Such a part which is distinguished from its complement or background can be called an indication». Ne ho svolto una critica in Donati [Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune (Roma-Bari: Laterza, 2008), 77-90], sostenendo che la distinzione è, in via più generale, una relazione, che naturalmente, sotto certe condizioni, può anche diventare una dicotomia.

26Luhmann, “Frauen und Männer und George Spencer Brown”, cit.

27Donati, Sociologia della riflessività (Bologna: Il Mulino, 2011): 31.

28Si veda la trattazione della teoria del gender, nei suoi complessi svolgimenti storici, fatta da Laura Palazzani, Sex/gender: gli equivoci dell’uguaglianza (Torino: Giappichelli, 2011, in particolare, 39-47).

29Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano (Roma: Città Nuova, 1985).

30Luhmann, “Sthenography”, Stanford Literature Review 7 (1990b): 133-137.

31Michela Marzano, “Il nuovo confine dell’amore”, La Repubblica, 12 maggio 2016, 31 (enfasi mia).

32Anthony Giddens, The Transformation of Intimacy. Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies (Cambridge: Polity Press, 1992).

33Rebecca Coleman, “A method of intuition: becoming, relationality, ethics”, History of the Human Sciences 21 (4) (2008): 104-123.

34Questo codice simbolico è esposto in Donati, Oltre il multiculturalismo e poi sviluppato in Donati, La matrice teologica della società.

35Citazione da Papa Francesco, Udienza generale, mercoledì 27 maggio 2015, 2.

36Fabrice Hadjadj, Ma che cos’è una famiglia? (Milano: Ares, 2015): 80.

37Cfr. Mario Binasco, La differenza umana. L’interesse teologico della psicoanalisi (Siena: Cantagalli, 2013).

38Romano Guardini, Der Gegensatz (Mainz: Matthias-Grunewald, 1925).

39Vaclav Behloradsky, “La modernité comme passion du neutre”, Le Messager éuropéen, Paris P.O.L. 2 (1988): 19-80.

40Iris Marion Young, Justice and the Politics of Difference (Princeton: Princeton University Press, 1990) (tr. it. Le politiche della differenza, Milano: Feltrinelli, 1996).

41Seyla Benhabib, The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era (Princeton: Princeton University Press, 2002).

42Carl Schmitt, Le categorie del politico (Bologna: Il Mulino, 1972).

43Luciano Floridi (ed.), The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era (New York: Springer, 2015).

44John M. Gottman, “Temporal Form: Toward a New Language for Describing Relationships”, Journal of Marriage and Family 44 (4) (1982): 943-962.

45Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Milano: Feltrinelli, 1995).

46Si vedano i capitoli “La famiglia come relazione di gender: morfogenesi e nuove strategie” (25-91) e “The gendering of…: dare un genere alla famiglia, alle sue identità, alle sue relazioni” (379-411), in Donati (a cura di), Uomo e donna nella famiglia: differenze, ruoli, responsabilità (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997).

47Eppure queste differenze esistono: cfr. Linda Henley Walters, “Are Families Different from Other Groups?”, Journal of Marriage and Family 44 (4) (1982): 841-850.

48James Keys (pseudonimo di G. Spencer Brown), Laws of Form (London: Allen & Unwin, 1969).

49Donati, Teoria relazionale della società (Milano: Franco Angeli, 1991): 85.

50Applicato alla relazione uomo-donna, il Terzo prende corpo nel figlio. Per dirla in modo apparentemente paradossale, ma empiricamente fondato, il figlio non è il figlio di due individui, ma della loro relazione: cfr. Donati, Generare un figlio: che cosa rende umana la generatività? (Siena: Cantagalli, 2017).

51Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, 87.

52Annamaria Fantauzzi, Antropologia della donazione (Brescia: La Scuola, 2011).

53Come ha scritto Antonino Magnanimo (voce Emmanuel Lévinas: http://www. filosofico.net/levinas.htm), per chiarire dove nasce l’esistente, Lévinas analizza la nozione di “il y a” che è l’essere in generale. L’esistente esce dall’esistenza, il sensato prende vita spezzando la neutralità dell’essere. «L’essere e la realtà sono puro non senso, chi ha senso e dà senso è l’esistente, l’uomo»; in quest’ottica si può scorgere sullo sfondo il pensiero di Heidegger che vedeva l’uomo come l’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere. Una corretta impostazione di questo problema, richiede una esplicitazione preliminare di quell’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere, e questo ente è da Heidegger indicato col termine di Esserci (Dasein). L’uomo, considerato nel suo modo di essere, è Da-Sein, esser-ci; e il “ci” (da) sta ad indicare il fatto che l’uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti. L’Esserci, cioè l’uomo, non è soltanto quell’ente che pone la domanda sul senso dell’essere, ma è anche quell’ente che non si lascia ridurre ad una nozione statica e generica di essere. Le cose sono diverse l’una dall’altra, ma tutti sono oggetti posti davanti a me: l’uomo non può ridursi ad un oggetto puro e semplice del mondo; l’Esserci non è mai una semplice presenza come le cose, giacché esso è proprio quell’ente per cui le cose sono presenti. Il modo di essere dell’Esserci è l’esistenza, l’“essenza” dell’Esserci consiste nella sua esistenza, e l’essenza dell’esistenza è data dalla possibilità da attuare e, di conseguenza, l’uomo può scegliersi perdendosi o conquistandosi. Ciò detto, l’uomo che si trova a dover decidere della propria vita, conosce la disperazione della solitudine o dell’isolamento nell’angoscia. Secondo Lévinas, il fatto di essere è quanto di più privato ci sia, l’esistenza è la sola cosa che non posso comunicare perché la posso raccontare, ma non condividere. La solitudine appare come lo stesso evento di essere: «siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con il lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l’altro, ma non sono l’altro. Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l’esistere»).

54Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione (Milano-Udine: Mimesis edizioni, 2015): 26-27.

55Simone de Beauvoir, Il secondo sesso [1949] (Milano: Il Saggiatore, 2002).

56Cfr. Nick Haslam, “Dehumanization: An Integrative Review”, Personality and Social Psychology Review 10 (3) (2006): 252-264.

57Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione (Milano-Udine: Mimesis edizioni, 2015). L’enigma sta nel massimo di interazione Ego-Alter che trasmuta nel minino di strutturazione istituzionalizzata della relazione. È il berillo intellettuale di Niccolò Cusano.

58Karol Wojtyla, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale [1960] (Genova-Milano: Marietti, 2007).

59Eros e agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro e devono continuamente tendere a una armoniosa unità tra di loro. L’uomo, in quanto essere psico-fisico, dell’amore non può vivere soltanto il momento dell’agape; ha bisogno dell’eros, perché «non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono» (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 7).

60Così come lo descrive Francesco Alberoni, L’erotismo (Milano: Garzanti, 1986).

61Lynn Jamieson, “Intimacy Transformed? A Critical Look at the ‘pure relationship’”, Sociology 33(3) (1999): 477-494.

62Roberto Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale (Torino: Einaudi, 2007).

63Vincenzo Masini, Relazioni evolute. Volume primo (Lucca: Edizioni Prepos, 2015).

64Donati, Sociologia della relazione (Bologna: il Mulino, 2015b): 113-130.

65Erving Goffman, Relazioni in pubblico (Milano: Bompiani, 1981).