Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna
La relazione uomo-donna tra natura e cultura
Sergio Belardinelli
Università di Bologna
Non ho nessuna competenza per discutere la relazione di Giulio Maspero al livello che le è proprio, ossia quello teologico, tuttavia mi pare che la sua lettura del rapporto uomo-donna alla luce del mistero trinitario rappresenti un arricchimento importante per la prospettiva sociologica relazionale di Pierpaolo Donati, specialmente per quanto riguarda la risignificazione, trinitaria e relazionale, della natura e della corporeità, dietro alla quale vedo anche una decisiva risignificazione di uno dei problemi più urgenti del nostro tempo: il rapporto tra natura e cultura.
Premesso che Dio, come dice Maspero all’inizio del suo testo, «è sempre eccedente rispetto alla nostra capacità di descrivere e formulare il suo mistero»; premessa la radicale trascendenza di Dio, quindi la radicale differenza ontologica tra Dio e mondo, è proprio nel mistero trinitario di Dio che si mostra al meglio il carattere relazionale della natura in generale, dell’uomo, come pure del rapporto uomo/donna. A guidare le riflessioni di Maspero su questo punto sono soprattutto Agostino e Gregorio da Nissa. Il primo è importante per aver chiaramente collocato la somiglianza dell’uomo con Dio a livello dello spirito e delle sue facoltà (la mente, l’intelletto e la volontà), piuttosto che al livello della triade padre-madre-figlio. In questo senso Adamo è “immagine e somiglianza” della Trinità intera, non del solo Padre. Il che significa che la singola persona umana, nella sua specifica sessualità, non può essere collegata a una singola persona divina. «Per Agostino – scrive Maspero – l’immagine trinitaria è impressa a livello di natura razionale dell’uomo e la differenza sessuale è assolutamente esclusa da ogni connessione con essa».
Diversa invece è la posizione di Gregorio da Nissa, il quale, muovendo anch’egli dalla netta distinzione tra creatore e creatura, giunge tuttavia a una lettura teologico-relazionale delle determinazioni della persona umana, alle quali appartengono sia le facoltà spirituali, sia il corpo e la differenza sessuale. Tutto il creato e l’uomo nella sua interezza storica e naturale, quindi anche sessuale, trovano insomma nel Dio trinitario la loro origine, e sebbene l’immagine divina non sia costituita dal corpo, tuttavia lo modula e in esso, nelle sue attività, si esprime. Come dice Maspero, «proprio il gap ontologico che impedisce ad Agostino di accostare la distinzione sessuale a Dio, in quanto l’ordine creaturale è metafisicamente assolutamente separato dalla Trinità, permette (a Gregorio) di rileggere relazionalmente la dimensione corporale dell’uomo in quanto essa esprime il livello ontologico dell’esistenza che, nella prospettiva trinitaria, deve essere accostato all’essenza».
Sta qui, in fondo, il senso di quella risignificazione trinitaria del corpo e della natura di cui dicevo sopra, grazie alla quale corporeità e natura non esprimono più qualcosa di inferiore, ma la concreta determinatezza della persona umana immagine di Dio. L’avere un corpo, essere per questo concreti e limitati, non appare più antitetico al divino. Il Dio uno e trino non può essere ovviamente limitato, ma la sua dimensione personale, quindi relazionale, può esprimersi ormai anche nella limitatezza della materia e della corporeità. Proprio perché Dio è sostanza e relazione, la nostra natura corporale non è più estranea a Dio. In questo modo, come scrive Maspero, «il senso del mondo, della storia e del corpo dell’uomo si situa al livello della persona e non solo a quello della natura. Dalla necessità ci si sposta nell’ambito della libertà».
Quanto alla relazione tra uomo e donna, questa prospettiva trinitaria nissena, al pari di quella agostiniana, non consente che si associ l’uomo al Padre e la donna al Figlio o allo Spirito Santo, ma rende possibili due passaggi di fondamentale importanza per l’approccio relazionale: in primo luogo sia l’uomo che la donna, «anche individualmente, sono segnati dall’immagine trinitaria nella loro identità relazionale»; in secondo luogo, l’essere uomo o l’essere donna «non significa solo un aspetto accidentale, perché l’essere uomini si dà in due modi di esistenza concreti, che implicano un ordinamento reciproco». Inutile dire quanto questa risignificazione trinitaria e relazionale della differenza uomo-donna sia preziosa per una cultura, quale è la nostra, sempre più incapace, e non da oggi, di dare il giusto significato alla suddetta differenza, interpretandola ora come differenza di “sostanza”, ora come differenza indifferente.
Emblematica in proposito l’odierna cultura del gender, la quale riduce la differenza uomo-donna a fatto puramente accidentale, dipendente addirittura dalle scelte dell’interessato e, come tale, gestibile a piacimento. Dall’identità di “essenza” si giunge alla negazione della differenza, come se essere uomo ed essere donna fossero riducibili semplicemente al “sentirsi” uomo o sentirsi donna. D’altra parte, come ha ben sottolineato Charles Taylor, l’uguaglianza moderna, essendo declinata come uguale diritto di ciascuno alla propria differenza, non riguarda più ciò che tutti gli uomini, quindi anche le donne, hanno in comune per il fatto di appartenere al genere umano, ma semplicemente il diritto di ciascuno di scegliere la propria identità individuale, sociale o sessuale. Neutralizzando tutte le differenze, la stessa differenza diventa indifferente.
Se ci pensiamo bene, nella riflessione odierna sulla differenza uomo-donna si scaricano un po’ tutte le idiosincrasie di un problema assai più vasto: quello del rapporto tra natura e cultura. Se ieri le caratteristiche del maschile e del femminile venivano pensate come derivanti dalla natura, fondate sulla natura, legate per lo più al sesso, oggi esse vengono legate esclusivamente alle scelte degli individui. Ognuno ha diritto di essere ciò che vuole essere. La natura viene concepita come un materiale di cui disporre a piacimento, non come qualcosa con cui armonizzarsi. Siamo passati insomma da una concezione della natura talmente potente e “naturalistica” da rappresentare persino la fonte normativa di ciò che dovevano fare gli uomini e ciò che dovevano fare le donne, a una natura talmente impotente da non significare più nulla nemmeno a livello di differenza sessuale.
Di passaggio, vorrei far notare come persino certo femminismo radicale tragga la sua forza soprattutto dalle discriminazioni, giustificate in nome della natura, di cui le donne sono rimaste vittima nel passato. Era per natura che esse dovevano stare in casa; per natura il loro unico status sociale doveva essere quello di madre. Ma, come scrive Pierpaolo Donati, «La differenza biologica fra i sessi, che è ontologica, non deve far pensare che anche i ruoli sociali e i valori culturali siano ontologicamente diversi; ciò può creare solo degli stereotipi. L’umanizzazione della relazione uomo-donna consisterà nel personalizzare l’uno e l’altra tenendo conto della loro diversa struttura fisica, ma senza derivarne differenze ontologiche su altri piani».
Mi pare una considerazione d’importanza fondamentale, specialmente se consideriamo l’uso discriminatorio e poliziesco che nel passato abbiamo fatto della normalità naturale, e che ci impedisce oggi anche solo minimamente di evocarla, come se la differenza tra maschio e femmina non sia una differenza capace di fare differenza anche per la relazione uomo-donna.
«In sostanza – come scrive Donati – i processi di morfogenesi ci costringono a fare un salto di qualità nel modo di concepire e gestire la distinzione fra uomo e donna. Dobbiamo capire se e quando va tolta, oppure, al contrario, va scritta con lo slash (uomo/donna), volendo significare una differenza ontologica strutturale incolmabile, oppure ancora va scritta con un trattino (hyphen) (uomo-donna), volendo significare il fatto che i due termini sono distinti, ma anche combinati fra loro da un qualcosa (entità latente) che li lega e li co-implica mentre li differenzia».
Donati dice giustamente che oggi le scienze sociali partono da un duplice assunto: a) la scissione tra corporeità e identità personale (si pensi al lavoro sui corpi, quasi che siano diventati oggetto di disponibilità assoluta); b) la scissione tra identità personale e identità sociale.
Certamente non è pensabile che la causa di tutte le differenze psicologiche e sociali tra uomo e donna sia riconducibile meccanicamente a una differenza biologica. D’altra parte occorre evitare sia una frattura incolmabile tra i sessi, sia la loro omogeneizzazione, fino al limite del “matrimonio con se stessi” a cui Donati fa riferimento. Ma per far questo occorre una consapevolezza relazionale anche rispetto al più generale rapporto natura-cultura che oggi non mi sembra adeguatamente diffusa. Siamo passati da un naturalismo dal quale si supponeva che potessero essere dedotte addirittura le norme morali e sociali, a un culturalismo che della natura letteralmente non sa più che farsene.
Tutti noi, chi più chi meno, siamo convinti che l’approccio relazionale potrebbe salvarci da queste derive. Lavorare sulle relazioni, renderle il più possibile riflessive è sicuramente la strategia migliore che abbiamo per salvare sia l’autonomia delle singole persone, sia la realtà sui generis del sociale, sia la possibilità che le parole “padre” e “madre” abbiano ancora un senso. Bellissimo a questo proposito il commento di Maspero alla posizione di Ratzinger, secondo il quale Dio è padre, non madre. La madre, infatti, «in quanto origine della vita, significa per l’uomo sempre identità originaria. Il padre, invece, per la sua posizione relazionale rappresenta, fin dalle esperienze prenatali, il mondo esterno, l’oltre del reale. Quindi, a livello simbolico, la dinamica generativa della natura umana induce una connessione tra la madre e l’identità, da una parte, insieme a quella tra il padre e la differenza, dall’altra».
A confronto con quanto si legge oggi su paternità e maternità, sostituite ormai con locuzioni tanto ridicole quanto fasulle, tipo “genitore uno” e “genitore due”, certe parole rappresentano una straordinaria boccata d’aria fresca, un modo molto “laico” di salvare ciò che la vita presenta ancora di umano. Così come rappresentano una boccata d’aria fresca rispetto a certo tradizionalismo familiare, letteralmente arroccato su una ripartizione dei ruoli del padre e della madre così rigida da risultare ugualmente fasulla. Giunti a questo punto, però mi sia consentito fare un po’ l’avvocato del diavolo.
«Di fronte a queste tendenze – scrive Donati – io credo che la sociologia possa e debba fare delle obiezioni per mettere in luce che le attuali tendenze all’individualizzazione e soggettivizzazione delle identità, come dei ruoli sociali, in particolare maschili e femminili, sono di fatto una pura illusione. Le analisi sul campo sono lacunose o silenti nel rilevare i bisogni reali delle persone, fuori delle manipolazioni mass mediatiche».
Fin qui nulla da eccepire; sono pienamente d’accordo con le parole di Donati. Ho invece qualche dubbio in ordine a ciò che si dice nel prosieguo del testo: Tali analisi sul campo – continua Donati – «mancano di comprendere le esigenze della gente di essere-in-relazione, non in un modo qualunque, ma significante e gratificante, non indagano l’intrinseca struttura delle relazioni sociali e i loro effetti, positivi o negativi. Le persone necessitano delle relazioni come dell’aria per respirare, ma la gran parte di esse non le vedono e non le tematizzano, ne ricevono gli influssi senza capire il perché e il come ciò avvenga».
Lo domando un po’ bruscamente: che cosa è che rende significante e gratificante una relazione, positivo o negativo un suo effetto?
Sono d’accordo con Donati che il senso ultimo della relazione sia la sua “sovrafunzionalità”; sono anche d’accordo sul fatto che «È lì dove dobbiamo cercare l’umanizzazione oltre la modernità. Il problema sta nelle qualità e nei poteri causali della relazione di cui parliamo». E tuttavia mi pare si possa dire che anche una relazione omosessuale è sovrafunzionale. Dal mio punto di vista, quando ci sono di mezzo gli uomini, tutte le relazioni hanno in sé qualcosa di sovrafunzionale, anche quelle più strettamente strumentali. Oltretutto questa mia convinzione mi pare egregiamente confermata proprio da quanto ci ha detto Giulio Maspero in ordine alla nostra stessa corporeità «conformata per l’uso del logos». Ma il punto è che stiamo parlando di relazioni significative e gratificanti, positive e negative. Che cos’è che le rende tali?
Sono d’accordo con Donati, quando dice che «La distinzione fra uomo e donna è un Terzo sui generis, che non ha equivalenti funzionali (nemmeno fra due persone dello stesso sesso), ed è da questo Terzo che dipende la loro umanizzazione. Rifiutare il legame sociale che l’incontro può portare con sé significa uscire dall’umano e produce individualismo (una individualizzazione per negazione), mentre la personalizzazione consiste nel cogliere, anche intuitivamente, l’unicità di quella relazione che nasce dall’incontro». Ho l’impressione però che coglierla “intuitivamente” non sia sufficiente; in fondo anche una relazione tra omosessuali ha il suo “Terzo”, per il quale vale quanto Donati dice per le relazioni eterosessuali.
Lo stesso vale per la pagina, peraltro molto bella, dove si dice: «L’uomo è tale “in relazione” (alla donna), la donna è tale “in relazione” (all’uomo). Ciò significa che il loro essere rispettivamente uomo o donna, e non solo maschio o femmina, dipende dal carattere generativo della loro relazione perché solo la relazione produce quell’effetto emergente (il Terzo) da cui essi, come uomini e donne, traggono il senso del loro agire. Quando dico “carattere generativo”, non intendo riferirmi esclusivamente alla generazione fisica dei figli, attraverso rapporti intimi, ma mi riferisco più in generale a qualunque prodotto della relazione interumana, come il riconoscimento reciproco, l’empatia, la fiducia, l’apprezzamento delle differenze sensibili quando sono o possono diventare sinergiche. L’essere uomo e donna riflette la dinamicità di questa relazione generativa in ogni specifico contesto sociale».
«Se prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui uomini e donne non si nasce, ma si diventa, ciò può voler dire che l’umanizzazione dell’essere uomo o donna si realizza nel potere generativo che queste due identità hanno nelle loro relazioni quando esse danno vita ad un Terzo. Potere generativo in senso lato, non solo dei figli, ma anche di una cultura, di stili di vita, di qualità della vita umana in ogni sfera sociale. Il Terzo è un bene relazionale. Se fosse un male relazionale, la relazione uomo-donna non verrebbe umanizzata».
Che cos’è che fa sì che una relazione sia un bene anziché un male?
Per me è molto importante l’insistenza di Donati sulla qualità umana delle relazioni sociali. Siamo di fronte infatti a una normatività sui generis, che certamente non è compatibile con la neutralità e il relativismo etico oggi imperanti, ma neanche con gran parte delle etiche che vi si contrappongono. Il carattere “normativo” della relazione non va confuso con le virtù morali o con i principi morali dei singoli soggetti in essa coinvolti, né viene calato dall’alto sulle relazioni stesse, bensì cercato al loro interno, senza determinismi e nel rispetto della loro autonomia: un’istanza di umanizzazione, così l’avevo definita, che si realizza nella relazione stessa, nella misura in cui i soggetti coinvolti se ne prendono cura. E questo mi sembra uno dei contributi più interessanti del paradigma relazionale.
Sul piano strettamente morale, abbiamo un approccio che, guardando soprattutto al “bene” concreto della relazione, evita non soltanto il relativismo etico imperante, ma anche il dogmatismo di chi ritiene che un qualche “Bene” con la maiuscola possa essere imposto contro la volontà dei diretti interessati. L’imperativo categorico dell’approccio relazionale sembra essere uno soltanto: guarda la relazione e prenditene cura, prenditi cura dell’umano che in essa vive, dei beni relazionali che essa produce, e sappi rifiutare eventuali mali relazionali. La domanda che però continuo a pormi e a porre a tutti coloro che in qualche modo si riconoscono nel paradigma relazionale è la seguente: può l’approccio relazionale dire una parola sulla differenza bene-male? Io credo di sì. La strada che occorre battere è sicuramente quella dei “beni relazionali” che la relazione produce. Ma siccome questi beni vengono prodotti anche all’interno di relazioni, diciamo così, controverse, evidentemente, almeno secondo me, è necessario un supplemento di riflessione.