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Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna

Essere si declina al plurale. Identità e generazione

Elena Colombetti

Università Cattolica del Sacro Cuore

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Introduzione: l’itinerario della riflessione

La pluralità costituisce una categoria imprescindibile per comprendere il reale e, in particolare, riveste un’importanza centrale nella filosofia della morale. Hannah
Arendt riflettendo sul collasso morale che ha investito la Germania e l’Europa con la Seconda Guerra Mondiale, richiama l’etica socratica come estremo baluardo nei momenti di crisi. Il riferimento è al paradosso per cui «è meglio subire il male che compierlo»: essendo, come sostiene Socrate, due-in-uno, compiendo il male si sarebbe costretti a vivere con un mal-fattore. Si parla dell’io, tuttavia «questo due-in-uno, osservato dal promontorio della pluralità umana, è come l’ultima traccia di una compagnia […], una traccia che diventa tanto importante solo perché scopriamo la pluralità dove meno ce lo saremmo aspettati».1

La sfida, però, è quella di assumere la pluralità nella più complessa categoria della relazione. Le stesse problematiche etiche per essere comprese richiedono di individuare i diversi beni in gioco in una situazione, beni che però, in gran parte, spesso si sottraggono allo sguardo se la prospettiva assunta è solo quella dell’individuo. Ne è un esempio, tra gli altri, la considerazione della vulnerabilità. Vulnerabile è infatti un concetto che porta inscritto in sé il riferimento alla relazione, posto che ciò (e in particolare chi) è vulnerabile lo è perché può ricevere da altro o altri un vulnus. Andando ancora più in profondità, troviamo poi che la stessa riflessione sull’identità dell’essere umano non può prescindere dalla relazione, a partire dall’evento originante del suo apparire nell’essere.

Proprio questo riferimento alla nascita, e ancora prima alla generazione, mette al centro la corporeità. L’essere umano è corporeo. La persona umana è corporea.2

In che modo possiamo trovare la pluralità e la relazione in questa sua ontologia carnale? A volte, sembra che il pensiero filosofico si dimentichi proprio di questa centralità: del fatto che siamo esseri corporei. Non solo, siamo esseri corporei sessuati.

L’itinerario di riflessione che qui sinteticamente propongo tiene al centro proprio questa dimensione somatica. Il tentativo è quello di indagare l’umano, uomo e donna, osservando la relazionalità e la corporeità dal punto di vista dell’ontologia. Proprio perché si tratta di un essere che è sessuato, considero di particolare interesse prendere in considerazione alcune sollecitazioni apportate all’antropologia dal pensiero delle donne a partire dalla metà del XX secolo, dato che sono state loro a mettere in luce un aspetto deficitario della riflessione filosofica sull’essere umano, in passato osservato unicamente dalla prospettiva maschile e avendo nel solo maschile il modello dell’umano stesso. In questo cercherò di mostrare come la via di soluzione ad alcune esigenze messe in luce dai
women’s studies non sia quello della destrutturazione del soggetto o del soggetto nomade, ma proprio quello di un soggetto relazionale. A partire da qui potremo osservare come il fatto che l’essere umano sia uomo e donna torni ad illuminare la questione dell’identità. Ma se la corporeità costituisce parte integrante dell’identità personale umana, la specificità della donna, indipendentemente dal suo essere o non essere di fatto madre, può introdurci ancora più in profondità in quel mistero che è l’identità relazionale umana.

9.1
Una premessa: relazione e identità

Per dire veramente chi sia qualcuno, occorrerebbe poter narrare tutta la sua storia. Una persona (che in quanto tale è appunto un chi e non solo un cosa), è anche quello che gli è accaduto e il modo in cui si è posto in relazione a ciò che gli è accaduto, è le azioni che ha compiuto, benché nessuna lo esaurisca, è le relazioni che intessono questa storia, a partire dal suo nome. Il nome, infatti, è ricevuto da altri e dice di una appartenenza famigliare, di una genealogia. I concreti rapporti che costituiscono la sua vita dicono, anche qui senza esaurirne l’estensione, qualcosa di chi quella persona sia. Le relazioni – con le cose, i luoghi, ma soprattutto con le persone – entrano nella definizione dell’identità, a prescindere dal fatto che siano riflessivamente comprese come tali. Quanto più si sale nella scala degli esseri, quanto più profondo è l’atto di essere, tanto più possono darsi relazioni che implicano il coinvolgimento di tale profondità. Solo da questa prospettiva si può comprendere come, con intensità differente, si possa dire che le relazioni entrino in senso forte nella costituzione dell’identità. Nel concetto di profondità dell’essere, inoltre, va inclusa anche la capacità di una certa dialogicità con se stessi (che di fatto è a sua volta descrivibile nei termini di una relazione) che, nel suo darsi, crea uno spazio di intimità che permette di tenere (en-timeo) l’altro da sé in sé.

Ma propriamente che cosa è la relazione? In un impianto aristotelico la troviamo tra le categorie, come semplice riferimento ad altro da sé, accidentale rispetto alla sostanza. Effettivamente la sostanza entra incidentalmente in relazione con altro senza che questo muti il suo essere ciò che è. Troviamo quindi relazioni logiche, spaziali, temporali ecc. che possono mutare nel tempo. È vero che non esiste una sostanza senza qualità e senza relazioni (possiamo distinguere questa da quelle senza separarle), ma gli accidenti possono, proprio in quanto tali, cambiare senza con questo mutare la sostanza che, classicamente, è designabile come ciò che ha l’essere in sé. Tuttavia, a ben vedere la sostanza stessa è data da una certa relazione (e non altre) tra elementi diversi. Possiamo dire che c’è un ordine (potremmo addirittura chiamarlo logos) che costituisce un individuo, che rende tali elementi così relazionati questa sostanza e non altro. A questa considerazione dobbiamo aggiungere che la comprensione di che cosa sia uno specifico individuo rimane sempre parziale proprio perché non riusciamo, per un nostro limite gnoseologico, a comprenderlo rispetto al tutto di cui è partecipe. Questo non inficia la veridicità della nostra conoscenza, dice semplicemente della sua parzialità. Anche quando ci muoviamo a livello di definizione accade lo stesso: quando, ad esempio, diciamo che una formica è «un insetto imenottero di piccole dimensioni, con corpo snello, capo grosso, addome peduncolato che vive in comunità organizzate, costituite da individui differenziati» non stiamo dicendo il falso, ma semplicemente stiamo dando solo alcune informazioni su questo tipo di enti (le formiche, appunto, al plurale). La comprensione delle formiche è più completa se consideriamo anche il loro ruolo nella catena alimentare e nel mantenimento dell’ecosistema, o addirittura passiamo al piano ontologico-metafisico e consideriamo la contingenza del loro essere e quindi la partecipazione all’essere di un essere necessario che dia ragione del loro esserci; andando oltre si potrà anche vedere se questo essere, con cui le formiche sono dunque in relazione, sia immanente o trascendente.

A partire da queste considerazioni, ritengo che la relazione abbia un ruolo diverso rispetto a quello degli accidenti: è originaria come la sostanza, tanto da dover essere inclusa nella attestazione dell’individuo nella sua singolarità.
Aguilar3 propone di usare il termine relazionalità per indicare questa dimensione, ossia un trascendentale, e non quello categoriale di relazione che avrebbe invece a che fare con la mutevolezza delle relazioni concrete. Il suggerimento è estremamente interessante, ma di fatto sembra segnato dal limite di non riuscire a dare pienamente conto del dinamismo dell’essere e della sostanza. Se infatti consideriamo le relazioni reali, che aggiungono qualcosa agli enti in relazione, vediamo che col loro darsi tali enti cambiano. Il cambiamento è tanto più forte quanto più si sale nella scala di complessità degli esseri. Tali modificazioni incidono in modo diverso sulla sostanza (in questo occorre fare attenzione: stiamo parlando di sostanza e non di essenza. La sostanza è questo individuo con tutte le note individuanti che lo rendono se stesso e non altro). Quanto più l’ente è capace di includere nel proprio essere la realtà di relazione, tanto più ne verrà modificato. Ecco perché nella scala degli esseri la relazione con l’altro da sé incide differentemente nella definizione di ciò che l’individuo è, ossia nella sua identità, pur senza trasformarlo in altro da sé. Più l’ente si esaurisce nella materia organizzata che lo costituisce, meno è capace di interiorità, più estrinsecamente la relazione con l’altro da sé incide nel suo essere.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in questo modo, o ci si perde la sostanza o si sta parlando di modificazioni accidentali che, in quanto tali, non mutano l’identità. Tuttavia se l’identità non è un concetto logico, ma indica l’essere se stesso di un concreto individuo, occorre anche tenere conto della dinamicità dell’essere: poiché non è statico, ma dinamico, l’identità non può che esserlo a sua volta, includendo anche la dimensione dell’essere divenuti.4

Possiamo formulare tutto questo anche dicendo che in parte la propria identità è ricevuta dalla relazione con l’altro da sé e costruita in quella relazione: l’idea di un sé chiuso in se stesso e che si rapporta solo accidentalmente con l’altro non sembra rispondere fenomenologicamente alla realtà. Da qui la constatazione di come la povertà di relazioni dica di una povertà di essere. Possiamo addirittura scorgere una necessità di riferirsi all’altro per definire se stessi: siamo le nostre relazioni, non perché ci si dissolva in esse, ma perché senza di esse, semplicemente, non esistiamo. Ecco allora che la domanda che la realtà pone al nostro agire è una domanda che, proprio perché reale, ci interpella nel nostro essere anche queste e non altre relazioni e si struttura essa stessa all’interno di tali relazioni.

Tutto ciò ha forti ricadute sul piano etico-morale. La responsabilità emerge proprio nella relazione con l’altro. L’essere autore delle proprie azioni (dove l’esserlo non richiede affatto una utopica incondizionatezza del soggetto) fa sì che queste siano imputabili, che il soggetto ne debba rispondere nei confronti di se stessi e nei confronti degli altri: in questo senso libertà e responsabilità hanno la stessa estensione. Ma c’è un’altra dimensione della responsabilità, quella nei confronti dell’altro per il fatto stesso del suo essere in relazione con noi. L’altro non è un concetto, ma un essere reale e che si presenta, interpellandoci, proprio all’interno di questa relazione. Tenendo presente che dobbiamo parlare in modo analogico, dati i gradi dell’essere e delle relazioni di cui prima parlavamo, possiamo dire ancora di più: l’altro dice di noi e ci interpella da tale prospettiva. L’antica domanda di Caino «sono forse il guardiano (fulax) di mio fratello (adelfh, dalla stessa matrice)?» racchiude la risposta: lo è proprio perché è suo fratello, perché nell’indicare l’altro indica parte di se stesso. La relazione con l’altro, in altre parole, è originaria e spesso, nel suo darsi concreto, precede ogni atto di volontà.

Partire dalle relazioni non significa però presupporre una loro omogenea positività. Come osserva Cristina Botti, «prendere in seria considerazione le relazioni non vuol dire negare la presenza di conflitti e dilemmi, ma vuol dire leggerli in altro modo, dargli un’altra forma, per esempio non pensare di risolverli semplicemente premiando gli interessi di una delle due parti, assumendole come contrapposte e divisibili». Declinando questo discorso nella particolare relazione tra una donna e il nascituro, Botti continua dicendo che «considerare per esempio la madre e il feto in relazione, non vuol dire che ci sia un’armonia perfetta tra i due, ma che il conflitto possibile tra i due non si possa risolvere premiando gli interessi dell’uno o dell’altra come se il legame tra i due non fosse rilevante» 5
. La questione delle relazioni negative e persino perverse solleva però un’obiezione: non ogni relazione va mantenuta e alcune sono lesive del bene proprio o altrui, quindi non possono essere fonte di responsabilità. Mi sembra che la pista di soluzione si situi nel fatto che la relazione non può contraddire (de iure, perché lo può de facto) l’identità del proprio essere divenuti fino a quel momento e agire in modo lesivo dei beni che le sono propri. Detto in altre parole: oltre alla relazione originante, quella della filiazione, tutte le altre non istituiscono l’identità del soggetto, ma possono mutarla a seconda del loro grado di profondità. Poiché non ogni mutamento è però un bene, occorrerà valutare le relazioni che si instaurano a partire dai beni umani e dalla loro realizzabilità pratica, dai beni e dai mali relazionali che producono. Tuttavia non esiste alcuna responsabilità fuori dalla relazione con l’altro da sé e la stessa responsabilità nei propri confronti deve tenere conto che ciò che si è, la propria identità, include le relazioni.

Prendere sul serio questa dimensione relazionale significa allora assumere che la nostra identità trovi in parte, quasi paradossalmente, il suo baricentro fuori da noi stessi. Se fosse centrata nel soggetto, tutte le relazioni potrebbero essere misurate, accettate o rifiutate in funzione del soggetto solipsisticamente considerato, qualunque sia il criterio assunto in questo dinamismo di selezione. Ma il soggetto è, proprio per essere se stesso, relazionale: entrando nella definizione di ciò che siamo, tali relazioni impediscono una chiusura ultima del soggetto in sé e richiedono di misurare le azioni a partire da queste relazioni. 6

9.2
Persona, corpo e relazione

Tra le novità storicamente introdotte dal cristianesimo nella storia del pensiero occidentale si situa anche la particolare riflessione sul concetto di persona. L’esigenza, totalmente nuova, di esprimere la pluralità senza perdere l’unità di Dio ha obbligato il pensiero a fornirsi di nuovi strumenti concettuali. Senz’altro si tratta di un tema che sin dall’inizio si è sottratto all’isolamento della sola riflessione speculativa, perché in gioco era la concezione stessa della verità della Redenzione e quindi, per usare qui un’espressione
heideggeriana, ne andava dell’uomo stesso. Tuttavia, anche dal punto di vista squisitamente filosofico la questione è tutt’altro che marginale perché per la metafisica classica se si può arrivare a parlare di un Fondamento dell’essere – che chiamiamo Dio – questi non può essere molteplice. Non è un caso che, come nota Pavan, le preoccupazioni per il monoteismo venivano non solo dagli ambienti giudaici, ma anche dai circoli pagani colti.7

Il due in uno socratico che abbiamo prima richiamato si situa in parallelo all’attenzione aristotelica per la polis e la vita politica, ma non sembra avere direttamente alcuna significatività ontologica. Sul versante dell’ontologia, di fatto, tutto il pensiero greco è preoccupato esattamente del contrario, ossia di trovare l’unità nella molteplicità, di ricondurre all’Uno. L’irrompere della pluralità nell’unità che si trova nel Dio cristiano ha costituito non solo una sfida per il pensiero, ma anche una rivoluzione.

Tutto questo ci interessa nella comprensione dell’uomo perché è all’interno di tale riflessione che prende corpo la nozione di persona, concetto che segna una svolta nel processo di auto-interpretazione dell’essere umano. Forzando in estrema sintesi un complesso e articolato cammino teorico, possiamo vedere come il termine persona parta da e poi torni a l’essere umano profondamente mutato. Il significato greco di prosopon da un lato come “maschera” (in ambito teatrale) e dall’altro come “colui che è concretamente presente”, che “cade sotto gli occhi” viene progressivamente inserito, specialmente nella tradizione latina, nella riflessione trinitaria. Successivamente “persona” torna a designare anche l’essere umano attraverso la mediazione del Figlio incarnato. La creatura umana, a immagine e somiglianza di Dio, è persona
8
. Indipendentemente dall’assenso di fede, il pensiero filosofico rimane indelebilmente segnato da questa svolta nella comprensione che l’uomo ha di sé: la sua identità non è più designabile solo come quella di un animale razionale, o di un animale politico; la persona umana non è semplicemente una parte del mondo animale (genere) specificato dalla sua razionalità, non può più essere adeguatamente compreso come una parte del tutto naturale. L’uomo si coglie con più intensa chiarezza come sporgente rispetto all’ontologia degli altri viventi.

Questo enorme guadagno speculativo si è però fattualmente scontrato con un limite: nella formulazione del concetto di persona posta al centro dello sforzo teorico per esprimere il mistero dell’Uno che è Tre, il pensiero, anche nella ridesignazione antropologica del termine, sembra aver reso periferica la peculiarità umana dell’essere persona, ossia la corporeità. La stessa formulazione boeziana (rationalis naturae individua substantia), che tanta fortuna ha avuto nei secoli, non ne fa menzione e risulta in questo senso deficitaria. Tommaso, che la adotta anche difendendola da possibili fraintendimenti, quando parla della persona umana caratterizzata dalla corporeità aggiunge il preciso riferimento a questa carne e queste ossa.9

L’attenzione che poi lo stesso Tommaso dedica al corpo si declina teologicamente a partire dalla prospettiva dei suoi rapporti con l’anima,10 lasciando inesplorate o solo accennate altre dimensioni. A questo va aggiunto che il riferimento alla relazione, che tanta parte ha in ambito teologico, negli articoli della Summa costituisce una categoria poco utilizzata per esplorare il senso dell’umano.

9.2.1
La relazione nel corpo

Il fatto che la persona in quanto umana sia corporea costituisce un punto prospettico che può offrire notevoli dati. Lasciando per il momento sullo sfondo la considerazione che l’identità corporea implichi una relazionalità tra persone di sesso diverso, a cui dedicherò alcune riflessioni più avanti, possiamo cominciare ad osservare che la relazione si inscrive in primo luogo nello stesso evento dell’essere generati e che coincide con l’apparizione di ciascuno all’esistenza. Non si tratta solo dell’ovvio riferimento al fatto che tutto ciò che non ha in sé la causa del proprio essere deve essere causato, e che quindi all’origine di qualsiasi cosa si trova una relazione causale. Questo è vero, ma possiamo e dobbiamo aggiungere un’altra considerazione. Nell’ordine del divenire, quella che classicamente chiamiamo causa fiendi è necessaria perché si dia il causato, non perché continui ad esistere. La relazione, dunque, si pone al principio, ma non accompagna necessariamente la persistenza nell’essere. Nel vivente, però, tale relazione con ciò che lo ha fatto sorgere in qualche modo permane nel tempo. La sua struttura corporea, infatti, porta inscritta in modo permanente la relazionalità con ciò che lo ha generato. È chiaro che qualunque vivente continua a sussistere anche dopo la scomparsa di ciò (o di chi se si tratta di un essere umano) lo ha generato. Tuttavia nella generazione la causa agente e la causa materiale coincidono, rendendo di fatto indelebile la relazione tra generante e generato. Non vi rimane in senso puramente simbolico (come per esempio negli artefatti), ma nella struttura stessa del suo essere. E ancora di più: là dove la generazione richiede il concorso di due sessi, nella struttura del generato si trova traccia anche della interazione o della relazione tra le cause.11

In un essere libero, questa relazionalità va poi riconosciuta e assunta. Poiché la reciproca disposizione struttura un modo di essere nel mondo, da quella relazione segue una disposizione di beni che proprio nella concreta situazione relazionale si mostrano secondo una gerarchia. Dalla concreta relazione e dalla reciproca azione che in essa nasce sorgono quindi anche doveri che richiedono di essere ottemperati e che differiscono da quelli di relazioni di altro genere. In questa dimensione del riconoscimento e dell’assunzione riflessiva della relazione stessa, si situa la soglia di passaggio dalla conoscenza speculativa al dominio della ragione nel suo uso pratico. In tal senso vale la pena notare come già a questo primo livello di descrizione della relazionalità si possa intravedere lo stravolgimento antropologico dettato dalle tecniche di generazione extracorporea, dove le cause agenti si trasformano in sole cause materiali e dove la relazione tra i genitori – non in atto generanti – diviene interazione diacronica. Alle cause materiali si aggiungono poi altre cause agenti, che però non sono a loro volta cause materiali (i medici, i biologi ecc). Nel causato (generato) troviamo comunque traccia strutturale delle cause “materiali” e il suo statuto rimane, come per ogni altro essere umano, quello di un figlio a cui fa da corrispettivo una oggettiva relazione di genitorialità, a prescindere dalla consapevolezza che possono averne i protagonisti. La questione si complica ulteriormente nel caso della gestazione vicaria. La moltiplicazione e l’ambiguità delle relazioni parentali a partire da un disconoscimento della portata della corporeità è, di fatto, deflagrante. Proprio perché l’apparire della persona umana nel mondo è in primo luogo un apparire corporeo, si può cogliere come la relazione originante, non appena si rende manifesta nell’originato, sia in sé sempre anche sociale. Il corpo è vissuto dall’interno (Leib), ma al tempo stesso manifesta all’altro il soggetto. La stessa costituzione fisica con delle caratteristiche e non altre, con una storia di ereditarietà e non altre, dice di una relazione. Poiché si tratta di un corpo personale, questa relazione richiede una attestazione identitaria, un chi. Proprio perché l’essere umano non è un prodotto (solo un che cosa), ma deriva da persone in relazione tra loro.

In ogni caso, l’ineludibilità della relazione con l’altro desitua la questione dal solo livello morale per collocarla, come dicevamo, in quello ontologico. Una relazione che permea già le fibre dello stesso statuto corporeo, ponendosi dunque non come dialetticamente contrappositiva, ma addirittura come istitutiva, benché non esaustiva, dell’identità. Proprio perché chiama in causa l’ontologia, però, la pregnanza della relazione nell’identità varia col variare dell’essere che è in relazione e del modo in cui si pone in essa. Detto altrimenti: come l’essere è analogo, così lo è la relazionalità che entra nella sua costituzione. Benché la relazione inscritta nella corporeità sia rinvenibile oggettivamente in tutti i viventi, nell’essere umano assume una maggior densità e profondità. Ecco allora che, sempre tenendo come punto privilegiato di osservazione la corporeità, possiamo scorgere ulteriori elementi propri dell’identità umana.

Osservando il nostro comune statuto di esseri generati, vale a dire il nostro comune statuto di figli, possiamo vedere come per l’uomo in primo luogo essere significhi essere-con. Pur essendo capace di progettualità e di trascendenza, nel suo darsi l’essere umano non è frutto del proprio progetto: anche il per sé di sartriana memoria non è comunque mai da sé. Proprio a partire dal suo essere generato da altri ciascuno si trova posto all’interno di dinamiche relazionali che non lo hanno per protagonista. Posto non solo nel senso di essere situato, ma anche posto nel senso di essere fatto apparire. Non c’è alcuna intenzionalità e trascendenza possibile senza questa originaria passività che situa all’interno di una storia che primariamente appartiene ad altri, e nella cui rete di relazioni si apre questo nuovo cominciamento. In particolare, l’intimità corporea con la madre, indispensabile relazione nel processo della formazione di chi in modo inedito si affaccia alla storia, svela come l’essere-con sia letteralmente incarnato. Un darsi in-carne, nella carne dell’altro, che sgretola sin dal principio l’idea moderna del soggetto autonomo, trasparente a se stesso, indipendente dall’altro da sé e quindi, in fondo, an-archico, privo di principio. Questa idea dell’uomo forte e indipendente costituisce, quasi come in una legge di contrappasso, una utopia fragile che si sgretola di fronte alla fattualità delle reciproche dipendenze che costituiscono il vivere 12.

Hannah Arendt ha fatto della natalità la categoria principe per parlare del cominciamento, un posizionarsi nel mondo che apre alla novità e s’inscrive immediatamente nella pluralità. L’esordio del nascere segna una discontinuità che sottrae la storia umana all’ineluttabilità del ciclo naturale. L’uomo non è un essere per la morte, come asserisce Heidegger, ma un essere nato per incominciare. 13

Questo cominciamento è da subito nello spazio della pluralità (e quindi della politica) poiché si appare sempre ad altri. Il politico, infatti, è arendtianamente inteso come il luogo in cui, attraverso il discorso e l’azione, reciprocamente si appare. Tuttavia, come nota un’attenta studiosa quale è Adriana Cavarero, il suo sguardo concentrato sul solo neonato si perde la concretezza delle relazioni, permettendosi così di rubricare tutti nella generica categoria di “altri”. La madre, nella sua specificità, scompare. Ma se manteniamo lo sguardo sull’essere corporeo di questo essere personale, ci accorgiamo che la categoria della nascita staccata da quella del far nascere costituisce un’astrazione non priva di conseguenze. Come osserva Cavarero, «se si elimina la sua figura [della madre], la scena finisce per perdere i suoi tratti specifici, ossia proprio i tratti che fanno del primo apparire un originario dipendere invece che un teatro di interdipendenza e di mutua apparizione». 14

Proprio a partire dalla corporeità cogliamo, insomma, come la relazione di dipendenza sia costitutiva dell’umano, precedendo e fondando tutte le altre dipendenze. Non solo, unicamente il riconoscimento e accoglimento di questa strutturale dipendenza rende possibile ogni autonomia. Lo stesso linguaggio, luogo della comprensione del reale, della comunicazione e dell’espressione di una costante novità, richiede una comunità di parlanti per essere appreso, uno strutturarsi di atti locutori al cui interno il soggetto si situa imparando a parlare, sviluppando quella capacità che, pur appartenendogli, non può essere attualizzata in autonomia. Il linguaggio richiede la pluralità e la relazione: si dà nella relazione di una concreta comunità di parlanti che precede l’individuo e da cui l’individuo, prendendovi parte, lo riceve. Ed è peculiare come anche in questo dinamismo il corpo non costituisca semplicemente lo strumento estrinseco dell’atto del parlare, ma in qualche modo ne fondi la possibilità. Per usare parole di Ricoeur, «la carne precede ontologicamente ogni distinzione fra il volontario e l’involontario. Si può certamente caratterizzarla mediante lo “io posso”; ma, precisamente, “io posso” non deriva da “io voglio”, ma offre a questo una radice».15

Questa attenzione al binomio non contrappositivo tra linguaggio e corporeità permette di affacciarci ad una dimensione della relazionalità umana che rischia di restare in ombra – non solo obliata, ma addirittura riflessivamente mai conosciuta – quando si osserva la persona umana relegando la specificazione di umana ad una posizione subalterna. La modernità ha immaginato con Cartesio l’idea di un soggetto forte, auto-fondantesi, auto-cosciente, auto-costruito e auto-centrato. Quello presentato dal cogito ergo
sum è un soggetto generato dal suo stesso pensiero, incurante del fatto che, al contrario, ciò che lo ha generato sono i corpi dei suoi genitori, in particolare quello di una donna, e che il pensiero lo presuppone. Quello stesso pensiero che può strutturare un ordine simbolico che dimentica la propria identità corporea e la dipendenza, non può che emergere in un corpo e in una dipendenza. In un corpo di donna e in una dipendenza da donna.

9.3
Il pensiero delle donne: l’attacco al logos universale

A prescindere dal dibattito che ha suscitato, il celebre volume Il Secondo Sesso di Simone de Beauvoir esprime un punto comune a gran parte della riflessione femminista, pur nelle sue diverse anime: si tratta della constatazione che l’elaborazione concettuale sull’essere umano si sia sempre mossa a partire dal maschile, considerato paradigmatico. Ne deriva una duplice conseguenza già a livello speculativo: si parla di uomo in universale – perdendo la particolarità dell’unicità di ciascuno – e in quell’universale non viene contemplata la donna. Questa è invece interpretata a partire dall’uomo e quindi, come osserva la de Beauvoir, è colta come l’altro: ciò che la caratterizza non si trova in lei con titolarità positiva, ma nella differenza dialettica. La donna è un non-uomo, e il secondo termine indica la norma da cui il primo si discosta. Se ci si situa in questa prospettiva, anche un discorso sul femminile che tenti di strutturarsi come riconoscimento è destinato a fallire. Persino Levinas, in uno scritto sulla differenza tra i sessi in cui è impegnato a parlare dell’alterità appunto in termini positivi, finisce col dire che questa si compie nel femminile, il quale costituisce un termine di pari livello, ma di senso opposto alla coscienza.
De Beauvoir non esita a sottolineare come la prospettiva maschile di Levinas porti a definire la donna come l’altro (e non viceversa) e che, presentandola come «termine di pari livello, ma di senso opposto alla coscienza»», si dimentichi che anche lei sia una coscienza.16

La riflessione a partire unicamente dal maschile costruisce una antropologia intrinsecamente deficitaria, strutturando un ordine simbolico incapace di cogliere ed esprimere non solo la donna, ma la constatazione elementare che né l’uomo né la donna esauriscono il genere umano. La conseguenza pratica è spesso stata una comprensione della differenza tra i sessi in chiave gerarchica e subordinante. Da qui il rifiuto del femminismo per quello che è stato definito l’ordine fallologocentrico, ossia per quel discorso che pone l’uomo al centro e a partire da questo permea la tradizione e l’ordine politico.

Dopo la stagione del femminismo radicale, più sbilanciato sull’azione e rivendicazione politica, a partire dagli anni Ottanta molte pensatrici hanno cominciato a strutturare una più profonda riflessione concettuale della logica androcentrica. Qui vorrei richiamare e discutere brevemente, in modo funzionale al nostro discorso, un particolare nodo teorico: la critica al logos universalizzante.

Il logos unificante e il sistema binario

Un elemento trasversale del pensiero femminista è indubbiamente costituito dalla critica di una metafisica occidentale concentrata sull’Uno, tesa a cercare una espressione universale e unificante. In quest’ottica, e in particolare tra le pensatrici di area statunitense, la concezione solida della sostanza e del soggetto divengono il bersaglio di un attacco incrociato. Non solo, come abbiamo visto, viene rifiutata la falsa immagine del soggetto autonomo e trasparente a se stesso della modernità, ma con lui è posta sotto attacco la solidità della sostanza, accusata di essere il residuo del tentativo di ipostatizzare un’idea astratta. L’attacco a questo logos, identificato come androcentrico, non si struttura però nei termini di un rifiuto della ragione (cosa che risulterebbe palesemente contraddittoria), ma in quelli di una duplice opposizione: al discorso caratterizzato da un ordine simbolico di autorappresentazione maschile presentato come paradigmatico per la comprensione dell’umano, al concetto di natura considerata come il risultato normalizzante della supremazia di chi ha il potere e che, stabilendo la norma, istituisce la normalità e per converso la devianza. 17

Ciò che viene in vario modo sostenuto è che un discorso che cerchi di unificare le differenze si perde l’unicità e rende ogni differenza, appunto, indifferente: un logos che privilegi l’universale a scapito del particolare, perde la complessità e la ricchezza della realtà individuale. Da un logos che sia espressione rigida e necessaria dell’uno, consegue poi un pensiero che procede dialetticamente per negazioni e che finisce con lo strutturarsi secondo un codice binario. Tale codice, nelle sue declinazioni, trova il perno in una opposizione primaria: universale versus particolare, dove il primo polo sarebbe quello razionale e attribuito al maschile e il secondo quello corporeo ed emotivo appartenente al femminile. Se il logos verte sull’universale, l’attenzione più spiccatamente femminile al particolare se ne situa al di fuori. Su questo si fondano poi tutte le altre contrapposizioni: politico versus domestico; razionalità versus sentimenti; cultura versus corpo. Lo stesso tentativo di interpretare le differenze delle attribuzioni ai due sessi indicandole come complementari, per alcune pensatrici si inscrive inconsapevolmente nella medesima logica binaria: l’idea della complementarietà renderebbe l’uomo e la donna parti di un intero e, quindi, incompleti in se stessi. Si tratterebbe della riproposizione dell’ordine simbolico androcentrico, benché in forma pacificata. 18

Mi interessa richiamare qui questo punto sia perché, nel suo nucleo, mi sembra mettere in luce una esigenza legittima, sia perché a mio avviso è proprio nel logos relazionale che si può trovare la soluzione. Il punto vero è che un discorso che astragga dalla singolarità e dall’unicità per poi ipostatizzare il concetto raggiunto rischia effettivamente di dire poco della realtà e di generare una dialettica negativa. Si tratta di uno sguardo non totalmente falso e per certi versi anche funzionale, in quanto catalogando la realtà e leggendola secondo un ordine causale generale e necessario la si rende prevedibile ed utilizzabile. Al tempo stesso questo discorso non dice tutto sulla realtà e, in particolar modo, non è in grado di rendere ragione di quella realtà apportatrice di novità che sono le persone. Torniamo proprio a quanto richiamavamo in apertura riguardo al concetto di persona. Dire che un uomo o una donna sono persone è vero e ci fornisce anche un certo grado di informazioni. Tuttavia la persona umana è corporea e, in quanto tale, è sempre sessuata. Dimenticare il corpo in favore di una definizione neutra, solo sbilanciata sulla considerazione della trascendenza, della capacità di linguaggio, della razionalità, significa semplicemente o non parlare delle persone umane, o rendere il corpo periferico rispetto alla profondità ontologica dell’essere una persona. Inoltre, se il corpo non è importante, la distinzione sessuale diviene indifferente o, tuttalpiù, funzionale solo alla specie. Poiché però, di fatto, chi opera tale concettualizzazione è pur sempre un essere umano, e quindi corporeo, si presenta il rischio (poi di fatto storicamente verificatosi) che le caratteristiche di quell’essere umano corporeo e quindi concretamente sessuato siano implicitamente assunte come definitorie dell’universale. In questo modo effettivamente ci ritroviamo imbrigliati nel movimento dialettico di un’eterna contrapposizione tra tesi e antitesi che non si può risolvere se non con la subordinazione dell’una all’altra, come la figura hegeliana della lotta servo-padrone illustra.

Ciò che non viene considerato nella critica al logos unificante, però, è l’esistenza di un altro tipo di logos, quello che negli studi di Maspero sull’ontologia trinitaria troviamo indicato come logos-ut-relatio,19 che ampia senza contrapporsi il logos-ut-ratio delle relazioni necessarie.

I concetti, di cui non si può fare a meno, de-finiscono, indicano i confini di ciò di cui si parla e lo rendono esprimibile. Tuttavia la realtà personale non è mai propriamente de-finibile perché richiede di coniugare l’universale con l’irripetibile dell’unicità. Da un lato possiamo designare quella concreta persona come un essere umano, indicare se è di sesso maschile o femminile, dire che lavoro svolge (è una docente, un giornalista, un operaio ecc.), se è coniugata, ecc. Questa descrizione ci fornisce alcune importanti informazioni su colui o colei di cui stiamo parlando. Dire che è un essere umano indica che si tratta di un membro di questa specie e non di un altro vivente, fatto che porta con sé un implicito riferimento al suo essere razionale, libero, capace di linguaggio e di trascendenza. Dire la sua professione porta con sé il rimando a un certo orizzonte di atti abituali e a un certo tipo di relazioni con gli altri e con il mondo. Affermare che qualcuno è coniugato dice di un tipo di relazione oggettivamente descrivibile: quel soggetto, e quindi la sua vita, è unita (con-iunto) a quella di un’altra persona con cui condivide la stessa sorte (con-sorte) e con cui può potenzialmente generare altri esseri umani. Tuttavia: lui o lei sono solo un individuo della specie umana? O solo un individuo degli esseri umani di sesso maschile o femminile? E quanti docenti, giornalisti, operai esistono? Quante coppie sposate? Certo, sono informazioni che ci dicono qualcosa dell’identità, ma devono comunque sempre essere colte come un tratto di narrazione incompiuta. La persona non è qualcosa e, nelle definizioni, si trova stretta. L’unico modo per conoscere chi sia l’altro è lasciare che questi si riveli nella sua unicità con la parola e con l’azione. Svolgere una certa professione implica delle relazioni, ma la specifica identità di coloro che ne fanno parte e il modo in cui il soggetto di cui parliamo vi si pone modulano la relazione stessa, da un lato, e cambiano il modo in cui quel soggetto è dall’altro. Per scoprire tutto questo occorre mettersi in relazione con lui perché solo così un chi si può rivelare. Detto altrimenti: le stesse concrete relazioni che entrano a costituire la sua identità possono essere comprese solo a partire da una prospettiva a sua volta relazionale. Se semplicemente nominate, si risolvono in concetti, ma perdono la loro unicità che deriva dall’essere una realtà che connette persone uniche. L’esistere è sempre singolare, pur se sempre immerso nel plurale. L’essere umano è un essere unico e si deve trovare il modo di poter dare parola a quella stessa unicità. Se non si esce dal logos-ut-ratio, il pensiero filosofico sembra disinteressarsene o non avere gli strumenti per interessarsene. In una prospettiva relazionale, invece, il codice binario di inclusione-esclusione viene meno perché la relazione indica sempre almeno una triade: i soggetti in relazione e il loro legame. La persona è sempre sé e le sue relazioni.

Kristeva scrive che «troppo presa dalle frontiere del corpo e forse anche della specie, una donna si sente sempre in esilio […] nei confronti del potere di generalizzazione del linguaggio. Questo […] fa sì che una donna sia sempre singolare, e che essa manifesti anzi il singolare del singolare». 20

Si tratta di una osservazione che ci offre una pista di come a partire dalla donna sia possibile accedere ad una antropologia retta da un logos che oltrepassi la dimesione della misura e della necessità, traducibili in leggi e concetti universali, per includere il singolare e l’irripetibile. Mi sembra interessante notare, a questo proposito, come lo stesso pensiero della differenza che si è conquistato l’egemonia nell’orizzonte del femminismo italiano, veicoli la sua difesa proprio attraverso delle prassi plurali (politiche). Il punto di avvio è il sé: partire da sé e dalla propria esperienza all’interno di pratiche di autocoscienza e autonarrazione che acquistano valore politico. In un contesto relazionale, ciascuna donna si espone alle altre raccontando la propria vita. Il sé che viene alla luce è allora da subito singolare perché emerge intessuto del vissuto, ed è anche da subito inserito nella pratica relazionale da cui solo poi emerge la teoria. La riflessione speculativa non è quindi astratta, non parte da ciò che c’è di comune tra le persone umane, ma dalla particolarità, strutturando in tal modo un linguaggio contestuale e relazionale. Mi sembra un punto di interessante convergenza che vale la pena esplorare. Tuttavia mi pare altrettanto importante cogliere una profonda differenza: la pratica relazionale non è ancora il logos relazionale. Se ci si ferma alla singolarità della narrazione, il logos che ne deriva torna ad essere opposto a quello universale, non esce dalla contrapposizione. Il dialogo e la narrazione riconoscente dell’unicità richiede infatti una integrazione per potersi presentare come guida dell’azione là dove le singole identità entrano in una zona di reciproco conflitto. Occorre invece partire proprio dalla relazione e dal suo ruolo costitutivo nell’identità del soggetto.

Può offrire una pista tornare a considerare tale “singolarità in relazione” dal punto di vista del corpo, filo rosso di tutta questa riflessione. Il corpo riconduce alla singolarità, e proprio la singolarità situa il soggetto nelle concrete relazioni personali che lo costituiscono e che sfuggono al discorso universalizzante delle relazioni necessarie. A questo proposito reputo significativo che con l’avvento storico del pensiero cristiano, oltre all’irruzione della pluralità nell’unità faccia presto la sua comparsa la tematizzazione della maternità, testimoniata dalla ricca iconografia della Madre e del Bambino. L’Incarnazione (che è corpo) prende corpo (si struttura) in un corpo (di una donna) e in una relazione materna e filiale. Nella cultura greca al centro c’è l’eroe, il pensatore, il politico, ma non la donna e men che meno la madre. La donna con la sua bellezza seduttrice è fonte di guerre e contese (Elena) o attende fedelmente il ritorno dello sposo (Penelope), ma le avventure da narrare non sono le loro: sono quelle di Paride, o di Ulisse. Attraverso le loro figure si rappresentano piuttosto dei concetti: troviamo la donna legata all’idea impersonale della fertilità della terra (pensiamo a Demetra e a Persefone), alla sfrenatezza priva di senno (le Baccanti, sacerdotesse di Dioniso), alla cura del singolare che non può coniugarsi con l’universale della Polis retta dalla legge (Antigone). Il suo essere situata come custode della vita e di ciò che è domestico, al margine dell’agire politico – affidato all’uomo – e quindi al margine della rappresentabilità, è sottolineato per contrasto nell’orrore della figura di Medea che, travolta dalla passionalità e dal desiderio di vendetta, uccide i suoi figli. La contrapposizione tra la donna e il logos è poi superbamente espressa nelle Eumenidi di Eschilo con le parole di Atena: «è mio compito la scelta del giudizio conclusivo. Il mio voto: ecco, l’aggiungo alla parte di Oreste. Non c’è madre
che m’abbia dato la vita. Il mio favore va sempre alla parte maschile – purché non si tratti di nozze – dal fondo del cuore. Io sono figlia soltanto del padre. Perciò non calcolo troppo la fine di una che ha ucciso lo sposo, scolta delle mura domestiche».21

Quando una figura femminile (benché divina) ha il ruolo di giudice e quindi di ragione, non è nata da madre ma, significativamente, dalla testa di Zeus.

Ecco invece che con il cristianesimo troviamo un annuncio sconvolgente che ribalta gli equilibri: il Logos si fa carne e nasce da una donna. Se da un lato questa immagine può essere letta come la riproposizione dello stereotipo che colloca l’uomo nel dominio della ragione e la donna in quello del corpo, a ben vedere troviamo piuttosto che il Logos stesso risulta di fatto dipendente dalla donna. L’iconografia materna trova allora uno spazio tutto nuovo che va dalla figura della Vergine col Bambino alla Pietà in cui la Madonna sorregge il corpo del Figlio morto. La relazione singolare di questa donna con questo figlio (così come di questo figlio e di questa donna) esce dai confini del privato e del non rappresentabile.

9.4
Uomo e donna

L’immediato dato del nostro essere sessuati apre il capitolo della relazione tra uomini e donne. A partire dalla constatazione di un’antropologia e di un assetto sociale e politico che, nel linguaggio del pensiero femminista, abbiamo già indicato come “fallologocentrico”, possiamo identificare tre generali macroposizioni, avendo l’accortezza di ricordare che il variegato pensiero femminista e i women’s studies sono difficilmente riconducibili a griglie di rigida catalogazione.

Quasi coincidendo con la prima stagione del movimento, troviamo la rivendicazione di una uguaglianza tra l’uomo e la donna a prescindere dalle differenze di sesso, puntando sulla lotta per la conquista di una serie di diritti civili. Tra le sue due anime iniziali, liberale e socialista, ci sono punti comuni e divergenze, ma semplificando all’estremo possiamo indicare nell’uguaglianza formale l’obiettivo tanto delle manifestazioni pubbliche quanto della riflessione teorica. Il punto debole di questa posizione si situa nell’elementare dato di fatto che uomini e donne non sono identici e che l’idea di un essere umano in cui la differenza sessuale non conti opera un’astrazione dalla realtà. Mi riferisco non tanto al sussistere di possibili discriminazioni di fatto, ma al dato ontologico che l’essere umano non è neutro, ma sessuato: considerarlo a prescindere da questa dimensione significa fargli violenza. Un soggetto perfettamente e unicamente razionale nonché disincarnato non esiste. Dalla rivendicazione dell’assimilazione egualitaria risulta fattualmente un’uguaglianza che si risolve nella assimilazione della donna al modello maschile, da sempre antropologicamente considerato paradigmatico. Non è difficile constatare come questo generi una nuova contrapposizione, poiché la simulazione funzionale di essere ciò che non si è struttura una dinamica relazionale dialettica. Da un lato, anziché presentarsi contenutisticamente in positivo, la donna finisce col doversi porre ancora una volta a partire da una negazione: “non è” meno dell’uomo; dall’altro il fatto della sua singolarità deve essere intimamente silenziato.

Una posizione diametralmente opposta è quella assunta dalle sostenitrici di una improponibilità della riconoscibilità del soggetto al di fuori del suo costante e singolarissimo mutare. Sono autrici accomunate dall’esigenza definita come “post-moderna” di fare spazio al mutamento e alla pluralità attraverso una destrutturazione dell’essere e della sostanza. Una pensatrice come Rosi Braidotti, ad esempio, sostiene che la differenza sessuale richieda di transitare in modo nomade tra tre livelli: 22

quello della differenza tra i due sessi, criticando la falsa universalità del sistema simbolico maschile; 23

quello della stessa categoria di donna, che non può resistere di fronte alla pluralità delle variabili che la attraversano (quali l’orientamento sessuale, l’etnia o la classe sociale); quello delle differenze che si intrecciano nella stessa singola donna (tra il conscio e l’inconscio, ma anche tra tendenze, posizioni e relazioni che intesse nel tempo, diacronicamente e sincronicamente). L’idea è quella di «trasportare i flussi nomadici, la libera circolazione nel cuore stesso della soggettività, rendendola multipla e non unitaria».24

Con tratti diversi, ma con una analoga preoccupazione di destrutturare qualunque riferimento privilegiato ad un soggetto additabile come norma, si colloca il lavoro di Judith Butler25 che, attraverso un uso eversivo del linguaggio, mira a non rispettare alcun codice o discorso che comporti una attribuzione di identità. Il genere, il sesso e la sessualità sono da lei considerati usi performativi del linguaggio che, rafforzati dalla loro reiterazione, istituiscono ruoli e attribuiscono identità. Ritenendo dunque ogni identità come il frutto di una costruzione culturale,
Butler trova la soluzione nell’adozione di condotte costantemente mutevoli che scompaginino i ruoli. In questo senso la questione stessa del rapporto tra uomini e donne viene a cadere. 26

Pur senza entrare nella disamina puntuale di queste tesi, mi limito ad avanzare un’osservazione generale di merito. Una volta eliminata la possibilità di indagare l’identità, infatti, viene meno la possibilità stessa della relazione. Per entrare in relazione con qualcuno (la cui identità si modula anche attraverso questa relazione) occorre poter in qualche modo avventurarsi nel percorso di scoperta di chi egli sia. Se ciò che dell’altro appare e ciò che l’altro rivela di sé è sempre da interpretare o come il frutto della costruzione sociale, o come il momentaneo apparire di qualcuno che un attimo dopo è già altro, la relazione interpersonale viene meno. Ci possono solo essere transazioni puntuali di servizi, prestazioni o informazioni di livello tecnico, ma mai un legame che, pur se di intensità variabile, permetta la condivisione dell’intimità. Ecco allora che ciò che apparentemente disarma il potenziale bellico delle relazioni le rende in realtà semplicemente impossibili. Non solo l’inimicizia, ma anche l’amicizia risulta impraticabile, perché si dissolve l’altro o l’altra di cui essere amici. Se non si vuole rinunciare alla comunicazione di sé e alla condivisione del mondo con l’altro, questa costruzione teorica nella prassi non può che essere messa tra parentesi.

Un’articolazione ulteriore è rinvenibile in quello che è stato chiamato il pensiero della differenza, a cui abbiamo già accennato (almeno per il suo versante al di qua delle Alpi) a proposito delle pratiche di autocoscienza e autonarrazione. Vi è riconducibile anche il pensiero della già citata Rosi Braidotti, ma, per lo più, all’interno del panorama italiano questa scuola si è in qualche modo liberata del problema del soggetto concentrandosi su due poli: quello della politica del simbolico e quello del recupero della figura della madre. Proprio la madre (su questo Luisa Muraro è certamente la figura di spicco) è vista come la fonte sia della corporeità sia della trasmissione simbolica. È la relazione fra donne, e in particolare la relazione con la madre, ad avere un ruolo performativo della soggettività femminile. Nell’orizzonte maschile la donna o risulta irrapresentabile, o costituisce lo specchio dell’uomo, assumendo alternativamente l’immagine che lui vi proietta (madre, moglie, amante). Secondo Muraro occorre recuperare la genealogia femminile e riconnettersi alla madre, poiché l’origine dell’ordine simbolico maschile affonda le radici proprio nella sua rimozione. Si tratta invece di riconoscere il debito dovuto alla madre, non a quella reale, ma all’ordine simbolico della madre. In altre parole, l’obiettivo è quello di recuperare la genealogia femminile, la consapevolezza dell’essere nati da donna. Per questo amare la madre fa ordine simbolico.27

L’espressione “pensiero della differenza” vuole rispecchiare l’affermazione non teorica, ma attraverso pratiche, della differenza della donna. Propriamente, come sottolinea la stessa Muraro in più di una occasione, questo pensiero è nato nel momento in cui le donne si sono staccate dagli uomini per costruire una società femminile, abbandonando l’idea precedente di unirsi agli uomini come ad eguali. La novità consiste nel recupero dell’antica idea che le donne sono diverse, ma dandogli statuto simbolico nuovo, non inserendosi nel contestato logos maschile e a partire dallo sguardo di questo. Da tale prospettiva si comprende allora come la differenza sessuale non stia tra le donne e gli uomini, ma sia in,28 interna a ciascuna e a ciascuno.

Proprio da questo suggerimento vorrei partire ora per tratteggiare quale relazione possa intercorrere tra l’uomo e la donna partendo dalla differenza sessuale, ma una differenza riguadagnata senza partire da un soggetto immediatamente colto come “altro da”.

Conoscersi nella relazione

Se come abbiamo più volte ribadito il nostro essere esseri corporei sessuati fa parte della nostra identità, allora la differenza sessuale ha valore non solo sociale, ma primariamente ontologico. La relazione con l’altro da sé, e con l’altro del genere opposto al proprio, svela qualcosa proprio di questa identità. Per conoscere qualcuno che non siamo noi occorre entrare in relazione con lui o con lei, e certamente tanto più la relazione sarà profonda tanto più accesso avremo alla sua identità. Tuttavia è anche vero che conoscersi nella relazione svela qualcosa di noi a noi stessi, permette di conoscere con un nuovo livello di riflessività non solo l’altro o l’altra, ma la propria persona.

Né l’uomo né la donna, da soli, sono l’essere umano, nessuno dei due esaurisce i tratti che gli sono propri. Per dire chi sia l’essere umano occorre considerare che questi si dà nella dualità del suo essere sessuato, del suo essere uomo e donna. A questo proposito Luce Irigaray osserva come l’essere non sia uno, ma due, e che proprio questa dualità renda esplicito come nessuno dei due generi esaurisca l’essere, 29 come ci sia una parte del mondo che resti accessibile solo attraverso l’altro. Tale differenza che si radica nel corpo e parte, senza in esso esaurirsi, dal corpo, per la pensatrice belga costituisce la forza della nostra società, poiché è la differenza da cui hanno origine tutte le altre differenze. La fedeltà a se stessi e al proprio genere feconda il mondo, lo porta alla luce, permette di dare e di attingere.

L’impossibilità di esaurire il genere umano nel proprio essere donna o uomo è una ricchezza. Abbiamo visto come per lungo tempo il pensiero, nelle sue diverse declinazioni, abbia osservato i sessi come negazione dell’altro, e più propriamente la donna come un suo essere un non-uomo. Nella concettualizzazione della realtà, però, la negazione lasciata a sé sola non è mai feconda, perché ciò che non è, appunto, si caratterizza come assenza di essere. Dire che l’uomo e la donna da soli non esauriscono l’ontologia dell’umano non comporta definirli per negazione; se dicessimo che la donna non è il tutto dell’umano perché non è anche un uomo (e viceversa per l’uomo) non avrebbe senso. Piuttosto questa peculiarità identitaria comporta l’apertura all’altro e all’altra. Se ciascuno di noi è un essere umano, ma non lo esaurisce nel suo essere, solo l’apertura all’altro può svelare aspetti di sé, del proprio essere un essere umano, che da soli rimangono inaccessibili. Sono aspetti della propria identità, ma che al tempo stesso per essere colti nella loro ricchezza vanno mantenuti nella loro alterità, nell’essere caratteristica dell’altro e dell’altra. E questo va mantenuto insieme ai tratti di sé che si manifestano solo nella relazione con il simile che non è identico e che appaiono a partire da uno sguardo che li coglie nella loro differenza.

Si comprende qui tutto il limite dell’immagine androgina proposta da Platone. Conformemente alla narrazione del Simposio, senza l’altra metà l’uomo e la donna sarebbero manchevoli, con un’identità frantumata, persa, infranta all’origine. L’unità con l’altro, sempre puntuale e mai perpetuabile, mira ad una fusione, a ricostituire quell’uno che è andato perduto. In questi termini il conato all’unione tende a sopprimere l’alterità per ricostituire, appunto, l’uno. Questo tentativo produce una duplice frustrazione. Ciascuno dei due soggetti viene nullificato, deve perdere se stesso e quindi non è voluto per se stesso: la sua preziosità è funzionale, la sua unicità è cercata per essere negata. Né l’uomo né la donna sono riconosciuti e valorizzati in sé e, fattualmente, la relazione si torce facilmente in una dialettica di potere, dove il più forte si impossessa dell’altro. Tale tensione all’uno è poi ulteriormente frustrata nell’impossibilità di essere mantenuta: uomo e donna non sono uno, ma due. L’unità androgina non permane. Anche se uno dei due dominasse l’altro o l’altra perpetuando la relazione di nullificazione, si perderebbe l’apporto specifico della pienezza orgogliosa e fiorente della soggettività umana che è donna e della soggettività umana che è uomo.

L’apertura a quell’essere un essere umano che è propria dell’altro e dell’altra è ricchezza e porta ad un oltre. C’è una trascendenza tra l’uomo e la donna, tra la donna e l’uomo. Ciascuno è altro o altra da sé senza essere totalmente altro o altra. Ciascuno va mantenuto nella sua alterità, si arricchisce e ci arricchisce in questa apertura alla propria unicità. Un arricchimento che richiede il permanere della relazione e nella relazione.

Proprio partendo da qui cogliamo una fecondità che trascende quella fisica. Che cosa porta a scoprire la profondità di sé? In parte lo sguardo dell’altro che, come uno specchio inconsapevole, rende manifesto qualcosa di quel punto che rimane invisibile all’osservatore, proprio perché ne costituisce il posizionamento e l’interiorità insondabile. Come l’occhio non può guardare se stesso così la persona non è totalmente accessibile al proprio sguardo. Non lo è neanche a quello altrui, ma sono due sguardi, due accessi, mai totalmente dati e su cui non è possibile soffermarsi se non sulla soglia. Io non sono il mio sguardo, né lo sguardo altrui. Entrambi rivelano. Tale rivelazione non è esclusiva del rapporto con il sesso che non è il nostro: la narrabilità della propria storia e l’accesso alla propria identità è affidata al dialogo e al racconto anche tra persone dello stesso genere, fatto massimamente presente nelle amicizie tra donne30. Tuttavia proprio la diversità di genere – quella diversità che abbiamo detto essere la fonte di ogni altra diversità – dà accesso a tratti dell’umano che viceversa resterebbero celati, non colti nella loro peculiarità e, quindi, non coltivabili.

C’è una profondità che si svela nel tempo e che si apprende e si amplia solo in uno spazio di relazione. Fecondità del vivere. Fecondità che per essere tale richiede l’altro da sé. In questo senso i due sessi non sono complementari se non in modo sui generis. Come la sua stessa radice suggerisce, complementare indica una parte che, insieme ad un’altra (o altre), costituisce un intero. Ma l’uomo e la donna non sono la frantumazione di un tutto, due esseri in sé manchevoli. È la ricchezza dell’essere personale, non la manchevolezza, a permettere la relazione con l’altro. L’uomo e la donna sono piuttosto unicità aperte che, per diventare ciò che possono essere, hanno bisogno dell’altro. Questa apertura è resa manifesta anche (non solo) dalla generazione fisica: chi nasce da questa reciproca fecondità si svela a sua volta come un altro che, nella sua unicità, intesserà una relazione diversa che svelerà nuove profondità.

In questo orizzonte, dove nessuno costituisce la posizione paradigmatica dell’umano, trova spazio la comprensione di sé come essere per l’altro. Tale espressione è a volte contestata perché intesa come subordinante, o al massimo come una mediazione eventualmente necessaria, ma da superare per tonare a sé. Pur comprendendo la preoccupazione, mi sembra che il problema così sia mal posto in partenza. Di fatto non si tratta mai, propriamente, di un tornare a sé. Se infatti il punto di partenza e di arrivo coincidessero, il viaggio sarebbe vano. Si tratta piuttosto di avere accesso a sé, alla ricchezza nuova di sé (come la medesima sorgente da cui si trae sempre nuova acqua) attraverso il dare la vita all’altro e per l’altro. Ciò che è chiuso in sé è infatti privo di vita, a tutti i livelli ontologici. A sua volta l’essere aperto all’altro da sé può essere frantumante e dispersivo, depauperante se, semplicemente, inteso come un vivere fuori di sé e in altro da sé. 31

Essere per l’altro significa invece essere se stessi e promuovere, a partire da ciò che si è e quindi si può, l’essere dell’altro in quanto altro, colto non in astratto, ma nella relazione con sé, ossia in quello spazio in cui appare, appunto, nella sua singolarità. «Sono tutta, forse, ma non il tutto» osserva ancora Luce Irigaray, «e se mi ricevo da te, mi ricevo come me. […] Essere fedele a te richiede essere fedele a me. Esistere significa forse offrirti una possibilità di divenire te?». 32

L’apertura e la fedeltà all’essere dell’altro non richiedono l’annullamento di sé. Per entrare nella relazione ed essere in essa fecondi, per sé e per l’altro, c’è bisogno di avere una identità. Questa cambia nella relazione (si arricchisce o, se è una cattiva relazione, si impoverisce), ma non è costituita dalla sola relazione. A questo si aggiunga che, per restituire l’altro a se stesso, non ci si può annullare.

È più facile cogliere come essere-per non costituisca un asservimento, una strumentalità, se recuperiamo l’originario posizionamento dell’essere-con. Lo abbiamo precedentemente visto richiamando il nostro comune statuto di esseri generati. La persona umana è un essere-per perché è originariamente un essere-con. Non può essere pienamente se stessa senza questo con che le è costitutivo. Ecco perché la relazione va curata: qui si colloca il senso del per. Una relazione è generante perché coniuga questa duplice dimensione: si rimane-con (nella relazione) e in essa si promuove l’altro nella cui relazione si ha accesso a sé.

Su questa linea vorrei fare ancora due rilievi. Il primo è che la relazione con l’altro richiede la parola. Il mondo che si costituisce fra l’uomo e la donna richiede che il corpo sia sempre colto come corpo personale, soglia di accesso a un altro e altra che rimane sempre trascendente a sé. A quel corpo occorre dare e lasciare la parola (così come i silenzi che rendono possibile e significante la parola stessa). Il logos relazionale che permette di coniugare lo spazio dell’interiorità e della libertà con la possibilità della comunicazione e della generatività richiede che si rimanga, appunto, nel logos. Occorre sempre narrare all’altro chi siamo e permettere all’altro di narrarci chi siamo. In questo mi sembra si possa trovare una particolare assonanza tra la riflessione filosofica sul ruolo del corpo nell’identità personale e l’attenzione psicoanalitica sul desiderio, o meglio sulla trasformazione dell’impulso in desiderio che, per avvenire, ha bisogno dello spazio della parola data e attesa. 33

Quando si trasforma il bisogno (e l’impulso a soddisfarlo) in desiderio, questo è allora rivolto non a una cosa ma a qualcuno. Qui si trova il motivo per cui il desiderio non trova soddisfazione nel possesso di qualcosa, fosse anche il corpo dell’altro o dell’altra, ma rimane aperto alla profondità insondabile della sua unicità. Nella relazione tra l’uomo e la donna la parola è capace di far emergere l’interiorità dell’altro e dell’altra e di com-prenderla – pur riconoscendo sempre la sua inesauribile trascendenza – apprendendo anche il reciproco ordine simbolico e il diverso nesso con l’altro che, nell’immediatezza, il corpo riveste per entrambi. 34
Efficace a questo proposito l’osservazione di Irigaray: «al di là dell’istinto, rinunciando al gesto predatore, avviene lo scambio. […] Condividere la parola non significa credere: l’incarnazione sventa la fede cieca, vuole che ciascuno/a sia presente e parli. Spetta a noi essere fedeli a quest’incrocio: corpo e verbo. Da una tale fedeltà allontana il diventare universale della parola, mentre parlarci la attua rifiutando ogni condividere che non sia anche parola. Né corpo né linguaggio semplicemente, ma incarnazione fra noi: il verbo essendo carne e la carne verbo» 35.

La seconda osservazione verte sulla generatività dell’incontro. C’è una generazione spirituale, che include il simbolico, e una generazione fisica, dove la prima trascende la seconda. In ogni caso, senza diversità non c’è fecondità. Proprio perché la relazione entra nell’identità, quella che include l’attestazione e l’accoglienza dell’altro e dell’altra nella sua diversità, genera e ri-genera in primo luogo chi sta nella relazione. In questo senso, antropologicamente, la stessa genitorialità si scopre e scopre chi ne è protagonista. Si scopre che la relazione con l’altro da sé ha creato qualcosa di radicalmente nuovo, che non è frutto del proprio progetto, che appare e si presenta nella sua alterità, irriducibile a sé eppure che è ciò che è anche a partire da sé. Scopre perché l’apparire del terzo svela quel di più che deriva dalla relazione (il suo potere causale) e manifesta come questo ridondi nei soggetti modificandoli. Per questo c’è una fecondità dei corpi e una fecondità dello spirito, dove la prima è immagine della seconda, anche se la prima risulta più tangibile e concreta di quest’ultima. La generatività richiede sempre l’altro: non è immagine di sé, ripetitiva. È qualcosa di nuovo, che è più della somma dei due. Ci si sorprende pregni dell’altro senza essere in lui o lei assorbiti e ci si stupisce di una novità che appare e che non è prodotta dai singoli, che chiede di essere scoperta, tutelata e fatta crescere. In nessun caso l’altro che sta con sé nella relazione può mai essere assorbito a sé, annullato nella sua alterità. Proprio questa alterità richiede di riconoscere la sua novità costante, così come nella generazione di un figlio questi è a sua volta una novità che ha origine senza essere destinata alla sua origine, ma a nuova fecondità. Il riferimento all’essere pregni dell’altro proprio di ogni generatività appartiene sia all’uomo sia alla donna. Quest’ultima però ne è più facilmente consapevole perché, nella specificità della generazione nel corpo, solo lei è pervasa dall’altro e custodisce in sé la novità che deriva da entrambi. La donna rende questo processo visibile. Su questo vale la pena soffermarsi: attraverso di lei possiamo cogliere qualcosa dell’umano che sfugge allo sguardo che parta dal maschile.

9.5
La donna: un essere che può essere due

La prospettiva antropologica di un soggetto relazionale può offrire una luce per comprendere la peculiarità femminile di essere colei che può far nascere. A sua volta, partire dalla donna e dalla sua specifica generatività può apportare qualcosa alla comprensione della struttura umana della relazione. Se per secoli il pensiero antropologico è partito dall’uomo (soggetto del pensare) e sull’uomo (come oggetto pensato) mancando di fatto dell’elemento dalla e della donna, forse ricominciare con una antropologia che prenda da lei le mosse può apportare elementi importanti. Naturalmente occorre vigilare per non cadere nel meccanismo simmetrico e opposto dell’esclusione e della parzialità. L’obiettivo è infatti la comprensione del nostro comune essere esseri umani, persone umane. Non si tratta pertanto di abbracciare un pensiero rivendicativo, ma di osare uno sguardo che si spinga sull’ontologia. Per questo il punto di partenza non è immediatamente la morale, né la politica, ma la teoresi sull’umano. Una teoresi che però, proprio per questo motivo, è incarnata.

La donna può essere madre, così come d’altronde l’uomo può essere padre. Molte delle esponenti del femminismo e dei women’s studies si sono battute per rompere l’identificazione tra il concetto di donna e quello di madre. I due termini non solo non sono fattualmente coestensivi (ci sono donne che non sono madri), ma la tesi forte è che non lo siano neanche simbolicamente, poiché la realizzazione della donna non passa né esclusivamente né necessariamente attraverso la maternità. In alcuni casi, per la verità divenuta oggetto di critica anche nel panorama femminista, tale rottura ha avuto origine e al tempo stesso ha condotto ad un disprezzo della maternità, considerata lesiva dell’identità femminile; altre volte, invece, ha portato ad una unilaterale enfatizzazione della progettualità che ha assegnato il valore della maternità alla sola intenzionalità progettante della donna. Entrambe le posizioni appaiono deficitarie. La prima perché finisce col veicolare un giudizio negativo del corpo femminile così come sul modo in cui ogni essere umano viene al mondo: l’umanità sarebbe in questo modo indelebilmente e ineludibilmente segnata dalla violenza e dalla ingiustizia. La seconda perché perde di vista lo statuto relazionale della maternità stessa, dimenticandosi che non si tratta di una progettualità solipsistica in quanto, nel suo stesso darsi, ha a che fare con l’altro da sé. Altre posizioni additano invece non nella maternità in quanto tale, ma nella sua idealizzazione il dispositivo simbolico che ha contribuito all’emarginazione sociale e politica della donna. 36

C’è però un altro modo di distinguere tra l’essere donna e l’essere madre, capace di tenere insieme la ricchezza generativa propria di ogni vivente (nel caso dell’essere umano nel duplice livello spirituale e fisico) con il rispetto della realtà della donna che, effettivamente, non si esaurisce nel suo essere madre e può non essere fisicamente madre. Come abbiamo già visto, l’alterità ci è costitutiva e dall’incontro con l’altro nasce una novità non prevedibile né progettabile. Tale novità può essere generativa o de-generativa: può portare con sé un incremento o un decremento di bene. È generativa quando viene modulata nella reciproca attestazione e apertura alla unicità dei soggetti in relazione. Tale apertura comporta sempre un rischio, perché implica l’esposizione ai limiti fattuali dell’altro concreto e all’imprevedibilità della sua libertà. L’esposizione in generale è inevitabile – come dice Hannah Arendt gli uomini e non l’uomo abitano la terra –, ma l’esposizione intenzionale richiede di decentrare lo sguardo, di accettare di non essere l’unica fonte di significati del mondo. È solo qui che la novità può essere accolta e manifestarsi. Una apertura alla novità dell’altro che porta con sé anche la possibilità di una vera genitorialità spirituale nei suoi confronti. In questo orizzonte, la maternità e la paternità che partono dal corpo mostrano in modo più marcatamente evidente, ma non esclusivo, come l’oblatività arricchisca gli stessi soggetti dando loro accesso ai beni propri della nuova relazione. Al tempo stesso, nessuno dei due è solo padre o madre: quella relazione entra nella costituzione dell’identità, ma l’identità è più di quella sola relazione. Se riprendiamo infatti l’idea che l’identità sia data da noi e dalla relazione con l’altro da noi, ci accorgiamo che questa non sopprime l’et: la relazione con l’altro richiede un soggetto che non sia totalmente assorbito dalla relazione, pur essendo anche un suo frutto. La sfida è proprio quella di saper rispettare e armonizzare la pluralità di indicazioni identitarie che provengono dalle diverse sfere di relazioni.37

Nel caso della genitorialità, mentre nell’uomo questa dinamica risulta più evidente, per la donna è stata spesso oggetto di oblio. Si potrebbe pensare che tale dimenticanza possa ridondare in un rafforzamento e arricchimento della maternità, ma non è così. Nessun vivente può dare senza mai ricevere, tanto corporalmente quanto spiritualmente; l’agape va sempre accompagnata anche dall’eros. Per questo motivo, la morte simbolica della donna in favore della sola madre provoca una ipertrofia di quest’ultima che rischia di negare allo stesso figlio lo statuto che gli è proprio: ricercando in quella relazione il riconoscimento unico della propria identità, ci si dimentica che quella del figlio è una libertà che deve prendere altre vie, che non è destinata alla sua origine. Donna e madre. Una serena distinzione dei due livelli di identità, e quindi di relazionalità, consente invece un loro reciproco nutrimento.

Andando oltre a questo discorso sulla (ir)rappresentabilità della donna nei soli termini della madre, possiamo comunque trovare come la concreta ontologia carnale della persona umana donna possa aprire nuove finestre su che cosa significhi essere un essere umano. Vorrei provare a ragionarci richiamando la figura biblica della prima coppia, un racconto che costituisce una fonte di rivelazione per il credente e, in ogni caso, un posizionamento simbolico nell’auto-interpretazione dell’essere umano per il non credente.

Nei due racconti biblici sulla creazione, il più recente parla immediatamente di maschio e femmina,38 mentre quello più antico, della tradizione Jahvista, narra che inizialmente l’uomo è solo e che questo non è buono.39

Dire che non è buono significa proprio che manca qualcosa che dovrebbe esserci. Ciò che deve esserci è appunto la donna che Dio crea traendola da una costola di lui. Adamo aveva una intimità inenarrabile con Dio, additabile solo con una immagine: passeggiava con Lui nel giardino e dava il nome alle cose, godendo del mondo e godendo dell’Altro. Un reciproco gioire (l’uomo gode dell’Altro e Dio gode dell’altro). L’uomo non svanisce di fronte al tutto di Dio, eppure è solo: persino il rapporto con Dio è personale, ma non individuale. Adamo ha bisogno di un’alterità riconoscibile come tale e che al tempo stesso gli sia più simile: Dio crea l’essere umano uomo e donna, cosa molto
buona.40

Occorre però soffermarsi su questo dato: ad Adamo non viene affiancato un altro uomo, ma la donna. La solitudine è sanata nella relazione con il simile che non è il medesimo, in una relazione che è sessuata, ma non solo sessuale. Ad un primo livello troviamo una conferma di quanto abbiamo visto in precedenza: qualunque sia la concreta storia personale degli uomini e delle donne, c’è comunque bisogno di Adamo e di Eva. È necessaria la presenza dell’altro e dell’altra per creare un mondo umano che sia tra gli uomini e le donne. È richiesta perché l’uomo e la donna possano aprirsi al mondo, uscire da sé e crescere. Neanche la relazione con Dio è possibile nella solitudine assoluta: con l’altro e nella relazione con l’altro entrambi scoprono una nuova verità di sé e una verità che richiede lo sguardo diverso per essere svelata, una verità dell’umano che né lui né lei da soli posseggono.

Osservando la prima coppia possiamo però aggiungere anche una seconda osservazione: Adamo ed Eva sono stati creati, ma non generati. L’essere-con costitutivo dell’umano nella prima coppia è immediatamente affidato alla presenza dei due: in loro non c’è la nascita, eppure c’è la pluralità. Una pluralità sessuata e non simmetrica. Leggendo proprio tale dissimmetria all’interno della relazione e della sua potenzialità generativa troviamo un’evidenza da più parti largamente messa a tema: l’uomo genera fuori di sé e la donna in sé. Una diversità che si riflette poi anche nel modo di porsi nel mondo. Richiamo nuovamente la riflessione di Irigaray: «l’uomo genera fuori di sé e ama fuori di sé, anche quando fabbrica e coltiva fuori di sé per esistere, per essere. Questo modo di fare gli è proprio. La donna diviene o lascia divenire in sé: se stessa o l’altro. Lascia divenire in sé: la donna, il bambino, l’uomo. Se non fa (come) l’uomo, se non esce da sé riducendo se stessa a niente, la donna diviene se stessa in se stessa».41

In lei troviamo una capacità di generare in sé l’altro da sé. Se letta nell’orizzonte di quanto abbiamo visto finora, tale realtà rende la donna custode e aralda per entrambi dell’intimità dell’essere in relazione. Una custode che non nasconde, ma che costantemente col suo stesso esserci è chiamata a ricordare.

Come abbiamo già avuto modo di richiamare, la nascita è stata assunta come segno della pluralità e del nuovo cominciamento (Arendt) e ogni nascita implica il riferimento ad una madre che ci rimanda ad una relazionalità costitutiva: se è vero che non tutti siamo genitori, è pur sempre vero che tutti condividiamo lo statuto di figli. Proviamo però a guardare la questione ribaltando la prospettiva e osservandola non dal lato dei figli, né genericamente da quello dei genitori, ma più specificatamente dalla prospettiva della donna. Non ogni uomo è padre. Non ogni donna è madre. Però ogni donna è un soggetto che da tutti i punti di vista (ontologico, piscologico, simbolico, sociale) può essere due. La conformità fisica che rende possibile la gravidanza porta con sé la paradossale possibilità di essere due corpi in un solo corpo, un sé-con-altro-da-sé, ossia un sé che è con e include l’altro da sé. Per l’uomo è totalmente differente: il suo potenziale essere padre non implica la possibilità di essere due in uno. Per questo motivo risulta interessante una riconsiderazione della maternità a partire dalla questione ontologica della capacità femminile dell’essere madre.

Proprio perché l’esperienza corporea è di primaria importanza, non è privo di significato l’essere nati. Non solo l’avere avuto inizio, ma l’essere stati generati, “gestati” 42 e partoriti. C’è stato un periodo unico e irripetibile in cui, uomini e donne, non siamo stati se non in una relazione di ineguagliabile intimità con qualcuno che è altro da noi. Se questo accomuna tutti i nati da donna, solo la donna è però capace di essere al contempo uno e due. 43

Nella gestazione ci sono due identità de-finibili, ma che al tempo stesso costituiscono nel corpo della donna un’unità. Se il generato è a sua volta di genere femminile, avrà poi la stessa capacità.

Non tutte le donne saranno fisicamente madri, ma in quanto tale ogni donna è un soggetto corporeo che può far nascere, e le sue esperienze sono appunto quelle di un soggetto che può essere due, che può contemporaneamente avere in sé il proprio genere e il genere diverso. Tutto questo può poi dar luogo ad un universo simbolico che veicola l’autocomprensione di sé, una rete di significati che cambia nel tempo, che genera relazioni e che da queste relazioni è generata. Si tratta in questo caso di un secondo livello rispetto alla relazione di fatto originante e che può approfondire il senso umano di quella o contraddirlo dando luogo a fratture.

Generare e intessere in sé il simile e il dissimile. Tale capacità 44 non è comunque autofondata perché implica l’apertura all’apporto di un altro, senza la quale la stessa capacità non esisterebbe come tale. Ecco allora che proprio questa potenzialità rende manifesta un’altra verità umana. L’apertura e l’apporto all’altro richiesto dalla generatività richiede, infatti, una interiorità che la accolga. Lo sbilanciamento nell’azione esterna, che non implica una modificazione di sé immediatamente 45 esperibile, può dare per lungo tempo la falsa impressione di irrelata potenza e completa autonomia. L’astrazione teoretica di questa esteriorizzazione rischia di ipostatizzare un modello umano che non tiene conto dei legami che al tempo stesso lo limitano e lo reggono. La riflessività richiesta dall’assunzione consapevole della relazionalità può essere accantonata. L’ontologia corporea femminile, invece, pone come dato di partenza una realtà intrinsecamente conformata all’accoglienza dell’altro. Solo facendo in sé spazio all’altro emerge la novità della generazione, a tutti i livelli dello spirituale e del corporeo propri dell’umano. Si tratta di un’esigenza comune all’uomo e alla donna, ma in lei è inscritto nella sua stessa corporeità. La donna, allora, pone o ri-pone al centro la considerazione che nell’uomo si trova una esteriorità che deve progressivamente imparare a diventare intima e nella donna una intimità che progressivamente deve sapersi manifestare.

La donna è dunque in sé immediatamente relazionale. Lo è anche l’uomo, ma in lei la relazionalità permea la sua intimità in modo più profondo, proprio perché costitutivamente aperta a generare “dentro” di sé. C’è un nesso tra il fatto che mano a mano che si sale nella scala dell’essere la generatività sia più interiore e quello per cui le relazioni entrano maggiormente in profondità nella costituzione dell’identità. A partire da sé, la donna può ricordarlo all’umano, rammentare che anche il pensiero progettante deve fare i conti con questa apertura e inclusione dell’altro. Anche nella sua fisicità – a prescindere dal fatto che la metta consapevolmente a tema in questa prospettiva – la donna deve infatti considerare questa apertura che (im)pone ritmi, forza, (in)disponibilità del corpo. In modo quasi paradigmatico, lo è nella relazione fisica con l’uomo: non è mai un’azione che termina solo fuori di sé. Se lo si guarda da un logos chiuso, questo fatto costituisce solo un limite per la libertà, ma se lo si osserva nell’orizzonte di un logos relazionale, dà notizia di una ricchezza, afferma che la realtà non si esaurisce nel proprio sguardo né nel proprio progetto.

La violenza del logos chiuso alle relazioni è attestata anche dallo sfruttamento del corpo femminile, su cui si agisce come su una natura retta da necessità e utilizzabile come uno strumento tra gli altri. 46

Tale incomprensione porta anche alla con-fusione delle relazioni che non sono più riconosciute e riconoscibili nella loro realtà. Si vedono solo cose non persone con una intimità e in relazione tra loro. La differenza tra i sessi rivendicata, ma avulsa dal suo senso relazionale si espone alla logica dei rapporti di forza. Non è un caso, allora, che è proprio quella parte del genere umano che più manifestamente porta inscritta la relazione ad essere più vittima della violenza, sotto diverse forme 47
.

Intrascendibilità del nostro essere-in-relazione. Siamo e stiamo in essa, benché possiamo non pensarla, non porla riflessivamente a tema. Proprio questa mancanza di riflessione, però, significa un diminuito accesso alla realtà. Il sé e l’altro stanno in una relazione costitutiva che implica dipendenza e reciprocità, idea opposta, lo abbiamo visto, a quella di una sostanza autonoma e irrelata. Proprio perché il corpo della donna è in grado di generare in sé altri corpi, questa è più capace di comprendere e di rendere presente come ciascuno debba essere pensato sempre in relazione all’altro da sé. Ritroviamo allora qui una attestazione empirica di quanto inizialmente considerato in termini generali: il dinamismo dell’essere implica il dinamismo dell’identità, a sua volta aperta alle modifiche che le provengono dalle e nelle relazioni. Naturalmente non si tratta di una identità fluida, che si risolve nel suo divenire, perché la relazione non si pone mai come il principio assoluto, ma come il co-principio insieme alla sostanza. C’è sempre un essere che è con. Il radicamento della relazione nell’essere, e il suo darsi in quel peculiare essere che è la persona umana, mantiene allora aperto l’apparente paradosso di un soggetto invariante e che al tempo stesso muta. Un mutare non solo accidentale, anche se la direzione di questo divenire ha il carattere dell’accidentalità, perché può sempre essere altrimenti. Approcciare l’identità nei termini della relazionalità, allora, permette di conciliare l’unicità irripetibile di ciascuno con l’universalità del discorso, senza cadere in una dialettica binaria ed escludente che trova il suo perno nell’opposizione tra universale e particolare. In questo senso essere si declina al plurale, non solo perché ci sono gli esseri, ma perché, proprio per essere, ognuno ha in sé la pluralità della relazione con l’altro.

1Hannah Arendt, Some Questions of Moral Philosophy, in Arendt, Responsibility and Judgment (New York: Schocken, 2005) (tr. it. Alcune questioni di filosofia morale, Torino: Einaudi, 2006): 67.

2Per una più articolata trattazione sul ruolo della corporeità nell’identità personale mi permetto di rimandare ad un altro mio lavoro: Elena Colombetti, Incognita uomo. Corpo, tecnica e identità (Milano: Vita e Pensiero, 2006), in particolare al capitolo “Oltre ogni dualismo. L’unità somatonoetica dell’essere umano”.

3Cfr. Alfonso Aguilar, La nozione di relazionale come chiave per spiegare l’esistenza cristiana secondo l’Introduzione al cristianesimo, in Krzystof Charamsa, Nunzion Capizzi (a cura di), La voce della fede cristiana. “Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI 40 anni dopo (Roma: Edizioni Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, 2009): 185-216.

4La formula di Pierpaolo Donati «A = rel (A, nonA)», che sta a fondamento della sua teoria relazionale della società, mi sembra cogliere ed esprimere proprio questo punto (si veda ad esempio Donati, La società come relazione. I fenomeni sociali e la loro conoscenza sociologica, in Donati (a cura di), Sociologia. Una introduzione allo studio della società (Padova: Cedam, 2006): 1-61; Introduzione alla sociologia relazionale (Milano: Franco Angeli 2002 (6ed)). Considerando la relazione come un co-principio rispetto alla sostanza, tale formulazione può infatti esprimere non solo l’ontologia della realtà sociale, ma l’ontologia in quanto tale e, in particolare, l’ontologia dell’umano in cui possiamo scorgere sia la capacità di trascendenza sia la profondità di una immanenza, di una interiorità. Da una diversa prospettiva, un altro apporto di particolare interesse per la comprensione della dinamicità dell’identità è la distinzione ricoeuriana tra ipse e idem come due significazioni dell’identità stessa. Tra i registri di significazione a cui rimanda l’idem si situa, ed è prevalente, quello della continuità e permanenza nel tempo; l’ipse esprime invece l’identità che non è immutabile e che implica costitutivamente un intimo riferimento, a diversi livelli, all’alterità. Si veda Paul Ricoeur, Soi-même comme un autre (Parigi: Éditions du Seuil, 1990) (tr.it. Sé come un altro, Milano: Jaca Book, 2015).

5Cristina Botti, Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza (Milano: Il Saggiatore, 2007): 100.

6La questione, certamente, non va eccessivamente semplificata, perché se da un lato la relazione personale fa parte dell’umano, dall’altro può essere fattualmente rifiutata, costituendo un impoverimento dell’apertura del soggetto al mondo e, quindi, un impoverimento del soggetto e del mondo. Tuttavia si tratta di un rifiuto sempre parziale, perché la sua sistematica negazione pone in qualche modo la relazione stessa. Detto in altre parole il rifiuto della relazione costituisce comunque un preciso assetto disposizionale nei confronti degli altri.

7Cfr. Antonio Pavan, Andrea Milano (a cura di), Persona e personalismi (Napoli: Edizioni Dehoniane, 1987).

8Oltre che nel corposo testo di Pavan e Milano, già citato, si può trovare una sintetica, ma attenta ricostruzione della storia del concetto di persona in Marco Paolinelli, La persona umana tra bioetica e biodiritto, in Adriano Pessina, Mario Picozzi (a cura di), Percorsi di Bioetica (Milano: Vita e Pensiero, 2002): 79-94.

9«Invece il composto formato di questa materia e di questa forma ha natura di ipostasi e di persona. Infatti l’anima, la carne e le ossa appartengono alla struttura dell’uomo, mentre questa anima, questa carne e queste ossa appartengono alla struttura [propria] di questo uomo. Perciò l’ipostasi e la persona aggiungono all’essenza i princìpi individuali» (Summa Theologiae I, Q.29, a.2). E ancora: «La persona in generale infatti, come si è detto, significa una sostanza individuale di natura razionale. L’individuo poi è ciò che è indistinto in se stesso e distinto dagli altri. La persona dunque, in qualsiasi natura, significa ciò che è distinto in quella natura: come nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono i princìpi individuanti l’uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana» (Summa Theologiae I, Q.29, a.4). Su questo tema si veda Pessina, Venire al mondo. Riflessione filosofica sull’uomo come figlio e come persona, in Catia Carboni, Gaetano Oliva, Adriano Pessina, Il mio amore fragile. Breve storia di Francesco (Arona: Xy.it, 2011): 63-93.

10«Ora, al teologo spetta di occuparsi della natura dell’uomo dal punto di vista dell’anima, non del corpo, salvo i rapporti che il corpo ha con l’anima» (Summa Theologiae I Q.75).

11Parlo di interazione là dove le cause apportano la materia in momenti successivi, di relazione dove la causazione avviene attraverso una azione reciproca delle due cause.

12Come osserva Kittay: «siamo prigionieri del mito di un soggetto indipendente, disincarnato – non nato, che non si è sviluppato, non malato, non disabile e che non diventerà mai vecchio – che domina i nostri pensieri riguardo alla giustizia e alle questioni politiche». Eva Feder Kittay, “Dependency, Difference and the Global Ethic of Longterm Care”, The Journal of Political Philosophy, 13 (4) (2005): 443-469, cit. 445 (traduzione mia).

13Sulla categoria arendtiana della natalità si veda Alessandra Papa, Nati per incominciare. Vita e politica in Hannah Arendt (Milano: Vita e Pensiero, 2011).

14Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2013): 161-162.

15 Ricoeur, Sé come un altro, 439.

16Cfr. Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe (Parigi: Gallimard, 1949) (tr. it. Il Secondo Sesso, Milano: Il Saggiatore, 2008): 717-718.

17A parere di chi scrive, in questa critica femminista si sommano in realtà due processi differenti. In primo luogo si trova la constatazione fattuale della confusione, storicamente data e di fatto sempre possibile, tra ciò che è culturalmente familiare e ciò che è naturale. Tale rilievo, però, da solo teoreticamente non conduce al rifiuto del concetto di natura, ma piuttosto ad una rinnovata attenzione a distinguere ciò che possiamo dire della realtà dalla sua mediazione culturale. La negazione senza appello della validità del concetto deriva piuttosto da un lato dalla assimilazione in blocco del cosiddetto ordine “fallologocentrico” all’intera storia del pensiero metafisico, dall’altro dall’influsso del post-strutturalismo francese.

18È questa ad esempio la posizione di Adriana Cavarero. Cfr. Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in Cavarero, Franco Restaino, Le filosofie femministe (Milano: Bruno Mondadori, 2002): 79-115.

19Cfr. Giulio Maspero, Essere e relazione, L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa (Roma: Città Nuova, 2013). Il discorso di Maspero si muove chiaramente in ambito teologico e si riferisce primariamente all’ontologia del Dio cristiano. Tuttavia mi sembra che il riferimento ad un logos ut relatio sia esplicativo anche della realtà creaturale, e pertanto umana, pur trovando la sua più piena realizzazione in Dio. Certamente per procedere in questa direzione occorre conservare l’analogia, posto che solo in Dio la relazione è in sé stessa sussistente. All’interno di un impianto metafisico aperto alla trascendenza, l’essere degli enti finiti è comunque sempre un essere per partecipazione. Procedendo nel solco della rivoluzione di pensiero che ha introdotto la pluralità nell’unità (a cui accennavamo sopra richiamando la storia del concetto di persona), si può effettivamente trarre l’idea che, se l’Essere Primo è relazione, questa relazione immanente al principio in qualche modo si rifletta in ciò che, essendo, di quell’essere è partecipe. In ogni caso, muovendosi nei confini metodologici della filosofia è possibile indagare il ruolo della relazione nell’identità umana anche senza partire direttamente dalla nozione cristiana di Trinità, come si cerca di fare nelle pagine che seguono.

20Julia Kristeva, “Hérétique de l’amour”, Tel Quel 74 (1977): 30-49 (tr. it. Eretica dell’amore, a cura di Edda Melon, Torino: la Rosa, 1979): 35.

21 Eschilo, Eumenidi, vv. 736-740.

22Rosi Braidotti, Nomadic Subjects. Embodiment and Sexual difference in Contemporary Feminist Theory, (Cambridge: Columbia University Press, 1994) (tr.it. Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma: Donzelli,1995).

23A questo proposito Braidotti si pone tra le voci critiche della posizione emancipazionista della donna ritenendo che di fatto comporti, come sopra vedevamo, l’assunzione di un universalismo antropologico fintamente neutro.

24 Braidotti, Nuovi soggetti nomadi (Roma: Luca Sossella Editore, 2002): 9.

25Si veda ad esempio Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (New York-London: Routledge, 1990) (tr. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari: Laterza, 2013); Bodies that matter: On the Discursive Limits of Sex (New York-London: Routledge, 1993) (tr. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Milano: Feltrinelli, 1997).

26 Butler ritiene che la strategia distintiva tra sesso e genere operata da molte femministe sia non solo inefficace, ma anche dannosa, perché ripropone il concetto di donna senza accorgersi delle strutture di potere che ne hanno determinato il formarsi. Su un’analoga scia si pone anche il lavoro di Teresa de Lauretis. Cfr. ad esempio Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici (Milano: Feltrinelli, 1999).

27Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (Roma: Editori Riuniti, 1991).

28Questo tema è sinteticamente ed efficacemente espresso nella lectio tenuta da Luisa Muraro il 29 marzo 2015. Nelle sue linee principali l’intervento è stato pubblicato nella sezione 27ora del Corriere della Sera nell’edizione on line, rinvenibile all’indirizzo http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-differenza-sessuale-ce-e-dentro-di-noi/ (consultata il 3.3.2017).

29Luce Irigaray, Essere due (Torino: Bollati Boringhieri, 1994).

30Si veda a questo proposito Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (Milano: Feltrinelli, 1997).

31Non mi riferisco con questo alla questione metafisica dell’essere mantenuti nell’essere da Dio (e quindi in Dio, partecipando del suo essere) dove il vivere in altro da sé muta radicalmente. Come osserva Kierkegaard, «soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mente si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. L’onnipotenza di Dio è perciò identica alla sua bontà» (S.  Kierkegaard, Diario 1846, VII A 181).

32 Irigaray, Essere due, 24. Corsivo mio.

33Su questo tema si veda ad esempio Massimo Recalcati, Ritratto del desiderio (Milano: Raffaello Cortina, 2012).

34Una sintetica ed efficace descrizione di questo nesso si può trovare nel testo di Mariolina Ceriotti Migliarese, Erotica e Materna (Milano: Edizioni Ares, 2015), capitolo V Il linguaggio del sesso, 103-124.

35 Irigaray, Essere due, 21.

36Adrienne Reich sostiene ad esempio che sia l’istituto della maternità a soggiogare le donne, non l’effettiva esperienza soggettiva di ciascuna madre. Al tempo stesso sottolinea la necessità di non omettere il fatto che ogni essere umano è sempre nato da donna. L’istituto della maternità veicolerebbe l’idea che questa implichi un altruismo assoluto, un sacrificio onnicomprensivo e una costante oblatività a senso unico. Questo quadro passerebbe poi ad identificare la donna in quanto tale, ponendosi come suo destino e come sua realizzazione. Secondo Reich tale destino, passivamente ricevuto, trasforma la maternità nel frutto di un istinto e non della libertà: la donna viene identificata con la maternità, che diventa il suo senso, privandola però contemporaneamente della possibilità di dare senso a quella esperienza. Cfr. Adrienne Rich, Of Woman Born: Motherhood as Experience and Institution (New York: W W Norton & Co Inc, 1995) (tr. it. Nato di donna. Che cosa significa per gli uomini essere nati da un corpo di donna, Milano: Garzanti, 1983(3)).

37Questo significa anche che, a volte, alcune relazioni vadano rifiutate perché incompatibili con delle relazioni già presenti e che si vuole mantenere.

38Gn 1, 27.

39Gn 2, 18.

40Gn 1, 31.

41 Irigaray, Essere due, 87.

42Mi permetto questa forzatura del linguaggio per esprimere il fatto che la gestazione (dal lat. gestationém, azione di portare), non è una cosa, ma l’atto corporeo, prolungato nel tempo, di una donna.

43Un interessante lavoro a questo proposito è quello di Christine Battersby che proprio a partire dal corpo della donna “che può far nascere” cerca di ridefinire la soggettività e di costruire una metafisica materiale. In dialogo critico con la metafisica aristotelica e con Kant, ma anche con il post-strutturalismo lacaniano, Battersby accoglie il pensiero di Kierkegaard e di Bergson incanalandolo nell’idea di una identità fluida, capace di sostituire l’essere con l’essere diventato. Il risultato è appunto quello di una metafisica immanente e del divenire, situata nella concreta carnalità in cui ciascuno nasce e che poi si modula e si risolve nei molteplici ruoli assunti nel tempo e mai definitivi. Nonostante la critica al decostruzionismo al post-modernismo femminista, la sua soluzione non sembra però discostarsi essenzialmente dal soggetto nomade proposto in quel contesto. Cfr. Christine Battersby, The phenomenal woman. Feminist Metaphysics and the Pattern of Identity (Cambridge: Polity Press, 1998).

44È importante tornare a rilevare che ci stiamo riferendo alla capacità generativa della donna nella sua dimensione di costitutiva struttura e disposizione, non immediatamente né necessariamente alla realizzazione fisica della genitorialità.

45Qui “immediatamente” non ha un senso temporale, ma quello di un esperire che non è mediato da altro.

46In ambito bioetico, ad esempio, questo è particolarmente visibile. Oggi tale sfruttamento, insieme ad un potente misconoscimento delle relazioni, è particolarmente realizzato nella pratica della maternità surrogata.

47Violenza che, tra l’altro, è una forma di relazione: va cambiata la relazione per terminare la violenza.