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Ror Studies Series | Ecologia integrale della relazione uomo-donna

La riflessività nella relazione uomo-donna

Giovanna Rossi

Università Cattolica del Sacro Cuore

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Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii
(Dante, Par. IX, 80-81)

10.1 Ripensare la relazione uomo donna riflessivamente

Nell’attuale quadro socio-culturale, contrassegnato da una notevole effervescenza, la riflessione sul tema della relazione tra uomo e donna, oggi fortemente messo alla prova dalle teorie del gender, assume connotazioni di complessità. Il percorso di acquisizione dell’identità personale (sessuata) e sociale (ruoli di genere),1 sempre più frammentato, si prospetta come rischioso, in quanto intreccio nel quale devono combinarsi le sfide poste da un contesto carente di punti di riferimento per l’assunzione di un ruolo di gender e le risorse disponibili per far fronte ad esse, vale a dire, oltre alla base biologica dell’individuo, il patrimonio valoriale e culturale e le trame relazionali nelle quali si è formata e si forma l’esperienza maschile e femminile.

Il concetto di morfogenesi2 consente di cogliere il cambiamento nella relazione uomo-donna mettendone in evidenza le variabili strutturali e culturali. Nell’interpretazione relazionale di tale processo si enfatizza soprattutto l’idea che struttura e cultura sono relazioni stabilizzate in fasi precedenti (cioè possiedono, anzi sono esse stesse proprietà emergenti relazionali), che possono essere rigenerate o modificate attraverso relazioni in atto. Per comprendere l’esito di tale processo occorre chiarire quale tipo di riflessività viene messa in campo. Diversi Autori3 hanno approfondito tale concetto: Beck4 e Giddens,5 ad esempio, considerano la riflessività come esigenza (ma non conseguenza automatica) della società del rischio, che ha portato e porta alla graduale scomparsa dell’azione routinaria (habitus) e delle strutture radicate e a «crescenti pressioni sugli individui perché diventino più riflessivi».6 Anche il pensiero femminista si è confrontato con la questione della riflessività umana in relazione al processo di costruzione identitaria.7

In tema di riflessività appare particolarmente significativa la teorizzazione di Archer: l’autrice afferma innanzitutto che pre-requisito fondamentale dell’identità personale (ciò che noi siamo) è il senso del sé e l’identità personale (così come l’identità sessuale/di genere) dipende da «ciò di cui ci prendiamo maggiormente cura»;8 tali «premure fondamentali» (ultimate concerns) costituiscono «ciò che ci rende morali».9 Esse nascono da un «processo attivo di riflessione che avviene in un dialogo interiore» (internal conversation).10 Attraverso questa attività incessante, per ogni individuo si consolida un modus vivendi in cui le premure entrano in uno specifico ordine di priorità.11 Peraltro, il presupporre il senso del sé a garanzia della continuità dell’esperienza umana non impedisce ad Archer di comprendere che le stesse «premure fondamentali», frutto della personale conversazione interiore, possano nascere solo dall’interazione tra il sé (soggettività) e la realtà sociale (oggettività): l’autocoscienza deriva dalle pratiche quotidiane e l’essere radicati nel mondo e nelle relazioni sociali è parte imprescindibile del nostro essere umani. In questo senso, Archer, secondo un approccio realista, per il quale le specifiche proprietà emergenti e i poteri della riflessività riguardano contemporaneamente struttura, cultura e agency, afferma che la conversazione interiore riflessiva media tra «la formazione strutturale oggettiva e la formazione culturale» dei contesti vissuti dagli agenti.12 L’autrice, dopo aver sottolineato la coincidenza del processo morfogenetico culturale e strutturale che ha caratterizzato la fine del XX secolo, richiedendo un’accresciuta riflessività individuale, osserva che «i modi di dialogo interiore delle persone possono essere molto diversi tra loro», in relazione al contesto nel quale si trovano i soggetti e le premure ultime che li caratterizzano: in particolare, le ricerche empiriche hanno messo in luce quattro diverse tipologie dominanti di riflessività (comunicativa, autonoma, fratturata e meta-riflessiva) che coinvolgono tutti gli individui, pur nell’impatto eterogeneo della discontinuità contestuale.13

Riprendendo la teorizzazione di Archer, Donati approfondisce nella prospettiva relazionale le differenti tipologie della riflessività declinandole secondo lo schema Agil:

«

  1. La riflessività comunicativa è quella che dà priorità alla componente relazionale come tale (comunicazione, qui, vuol dire “messa in comune”, comunus); non è guidata dal calcolo, non è interessata a raggiungere gli scopi in maniera più efficace od efficiente, è legata al simbolismo (sia morfostatico sia morfogenetico).
  2. La riflessività autonoma, invece, è quella che si focalizza sulle ragioni di scopo; i criteri in base ai quali viene condotta la riflessione e l’azione si collocano nelle dimensioni della maggior efficacia possibile per raggiungere gli scopi situati a cui è attribuito un valore prevalentemente di utilità, anche se vi sono annessi dei motivi affettivi e dei significati simbolici.
  3. La riflessività strumentale è quella che si concentra sui mezzi (tecnologie, procedure ecc.) senza attivare un’appropriata conversazione interiore sugli scopi situati, le norme e i valori profondi che sono in gioco.
  4. La meta-riflessività è, invece, essenzialmente “valoriale”, nel senso che i criteri per la riflessione sono simbolici nel senso più pregnante del termine; le ragioni per l’azione sono date da “valori in sé”, che vengono espressi da simboli i quali si riferiscono a dei fini degni di essere perseguiti in sé e per sé, dunque non negoziabili e sempre trascendenti rispetto alle possibili concretizzazioni pratiche».14

Schema Giovanna Rossi

Figura 10.1: (Fonte: Donati)15

L’esito della morfogenesi nella formazione dell’identità maschile e femminile, in famiglia, nella relazione con il lavoro e nella relazione genitoriale, è fortemente legato alla capacità di avviare processi riflessivi e al tipo di riflessività in atto. Pertanto, nel discutere il tema oggetto di questo contributo (la relazione uomo-donna) utilizzeremo le tipologie di riflessività come lente concettuale attraverso cui analizzare alcune rilevanti teorie circa l’identità maschile e femminile e alcune trasformazioni che hanno riguardato la famiglia (in particolare la genitorialità) e il lavoro.

10.2 Gender e differenze

Il tema della relazione tra i generi è stato teorizzato da diversi autori/autrici di differenti discipline, i quali hanno altresì analizzato il rapporto tra mascolinità e femminilità e le connessioni tra differenze di genere, identità e società.

10.2.1 Women’s studies

Una prima interpretazione delle differenze sessuali e di genere ha posto al centro della propria riflessione il dato biologico, come elemento essenziale per la definizione del soggetto “donna” e come base per la trasformazione della condizione sociale femminile. In particolare, coloro che condividono questo approccio16 – definibile come culturalismo essenzialista – sottolineano l’importanza della funzione riproduttiva per la sopravvivenza della società, che rende la donna protagonista nella sua valenza materna e indicano nella diversità biologica l’elemento determinante e valorizzante la sua identità. In altri termini, la femminilità è ricondotta alle qualità biofisiche creatrici della vita, contro la “svalutazione” delle caratteristiche femminili propria della cultura egemonica maschile. Si tratta di un punto di vista riduzionista, per l’attenzione esclusiva al dato biologico dell’individuo che lo caratterizza.

Un secondo approccio, rifacendosi alle teorie femministe di matrice marxista, ha reificato l’identità di genere e la diversità biologica, sottolineando come proprio quest’ultima sia da sempre alla base delle disuguaglianze sociali; l’essenza della soggettività perciò va individuata non solo nel dato fisico, ma nell’attività umana concreta. Più precisamente, l’identità di genere è strettamente correlata alla divisione sessuata del lavoro, sulla base della quale vengono definiti ruoli maschili e femminili distinti, nell’ambito sia della famiglia, sia del contesto sociale.17 Si tratta, come si può intuire, di ruoli contrassegnati da diseguaglianze, che potranno essere superate solo nel contesto di una nuova organizzazione sociale e, quindi, familiare, nel senso del superamento della famiglia monogamica.

Un terzo approccio al tema delle differenze di genere ha trovato la propria origine nell’esigenza e nel desiderio di interrogarsi sul legame tra gender e struttura psichica dell’individuo, per poter “collocare” la sessualità all’interno delle differenze di genere, sollecitando le femministe ad approfondire le basi della psicanalisi. È comunque opportuno sottolineare che, mentre quest’ultima giunge a definire modelli universali di sviluppo psichico, i gender studies contestualizzano il fattore individuale, prendendolo in esame nel più vasto ambito sociale. In generale, si può affermare che la prospettiva psicanalitica sulla dimensione di genere trova il suo interesse originario nella funzione materna e nella propensione femminile alla cura e alle relazioni. Emblematiche, a questo proposito, seppur nelle loro diverse implicazioni, appaiono le tesi di Chodorow,18 Mitchell19 e Gilligan.20

Gli studi di genere sin qui presi in esame hanno evidenziato la potenziale discriminazione presente nella generatività sulla base della differenziazione biologica della donna, mostrando con ciò di continuare a considerare l’identità femminile come data, in quanto assimilabile alla sua corporeità.

Di contro, alcuni autori hanno invece proposto di concepire il genere come costruzione sociale, indipendente dalla dimensione biologica. In questo senso sono individuabili due filoni paralleli, che possono essere indicati rispettivamente come ipotesi costruzionista e pensiero decostruzionista.

L’ipotesi costruzionista si fonda sull’idea che «l’unico processo responsabile dell’esistenza dei due generi è la costruzione sociale: non c’è un prius biologico di cui rendere conto»».21 Secondo i sostenitori di questo approccio, le distinzioni tra maschile e femminile, presenti in ogni società e riferite alla corporeità, vengono plasmate dalla realtà sociale alla quale appartengono. Da questa concezione del genere prende le mosse il pensiero di Scott,22 Nicholson,23 De Lauretis24 e Rubin.25 Il secondo concetto cardine della visione in oggetto è quello di differenza, derivato dalla necessità del pensiero maschile di prendere atto dell’esistenza del mondo femminile, dando così origine ad una realtà polarizzata. Questo punto di vista, che ha ispirato la definizione di genere contenuta nella Convenzione del Consiglio d’Europa, sulla prevenzione e il contrasto alla violenza, pur nell’intento di combattere discriminazioni nei confronti delle donne, implica delicate e controverse questioni relative alla definizione dell’orientamento e dell’identità di genere.

Per quanto concerne il pensiero decostruzionista, esso sostiene, nell’intento di raggiungere un’adeguata soluzione dei problemi sottesi alle differenze di genere, la necessità di destrutturare i processi simbolici, culturali o linguistici che definiscono il maschile e il femminile. Esponenti principali di questa corrente, sviluppatasi tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, sono Derrida,26 Foucault27 e Kristeva,28 che, rispettivamente mediante la psicoanalisi, la grammatica e la storia dei discorsi attaccano e “decostruiscono”29 il concetto di un soggetto dotato di un’identità essenziale. Contro ogni determinismo biologico, essi sostengono che gli individui, dal momento che sono condizionati (“costruiti”) dal discorso sociale e dalla pratica culturale, possono essere decostruiti. Secondo questo orientamento, il termine genere rimanda al “rivestimento” che la società assegna ai due sessi diversi e che deve essere “decostruito” per liberare le donne da ciò che è loro attribuito socialmente.30 Come è possibile decostruire il genere? La teorica più rilevante a tal proposito è Judith Butler:31 il genere a suo parere è «messa in scena»,32 «artificio fluttuante»,33 finzione culturale; ciò significa che non va concepito «come nome, cosa sostanziale o marcatore culturale statico».34 Non è un termine cui corrisponde un referente reale, chiaro e distinto; quindi non ha consistenza.

«Se non è sostantivo, allora come descriverlo?». Per Butler esso è una «invenzione», una «fantasia istituita e iscritta sulla superficie dei corpi»35 attraverso un processo di costante modellamento – di atti, gesti, pratiche, rappresentazioni, desideri. Non è perciò dell’ordine dell’essere, ma del fare. Esso si fa attraverso una ripetizione di atti («un’incessante attività»)36; atti che possono essere giocati in senso convenzionale (quando si vuole stare dentro il sistema di genere) o eversivo (quando ci si tira fuori). Prende così forma la più celebre tesi di Butler: «il genere è un performativo».37

Quale forma di riflessività emerge in tali approcci? L’interpretazione che possiamo dare di tali teorie mette in luce una forte autoreferenzialità priva di relazionamento con l’altro, fortemente permeata – nei suoi primi sviluppi – dall’idea di squilibrio di potere e di sottomissione e dall’enfasi sulla differenziazione biologica, per poi arrivare ad una sopravvalutazione del versante costruzionista che tenta di annullare ogni distinzione eliminando il sostrato biologico dell’essere umano. Pertanto tali teorie ci indicano una possibile attuazione di una riflessività autonoma e/o strumentale.

Le prospettive interpretative sin qui delineate, attente agli aspetti più problematici della condizione delle donne, hanno indotto i gender studies ad occuparsi solo del genere femminile, ignorando quello maschile o prendendolo in considerazione in termini di dominio e oppositivi. A partire dagli anni Ottanta, sulla base della considerazione del rischio che la sottovalutazione o la visione “rivendicazionista” delle differenze possa portare all’annullamento delle differenze stesse, emerge tuttavia lentamente la consapevolezza del fatto che il genere, oltre che un codice binario, è anche un codice che implica reciprocità. Significativo appare, in questo senso, il pensiero di Stanford Friedman38 e di Flax,39 che sottolinea le criticità in cui possono incorrere i modelli binari e i punti di vista che escludano la relazione. Questo approccio, espresso dalla corrente più avveduta del neo-femminismo post-radicale, sembra cominciare a tematizzare la necessità di superare la dialettica della distinzione uguaglianza-diseguaglianza tra i sessi, all’origine di distorsioni e patologie evidenti nell’attuale realtà sociale (omologazione nel rapporto tra maschile e femminile, circolarità entro ciascun gender). Tuttavia, questo neo-femminismo, se, da un lato, ha iniziato a sottolineare la necessità di “pensare il gender nelle relazioni”, dall’altro dimentica di pensare il gender come relazione40 e, quindi, come dimensione identitaria che uomini e donne possono costruire solo nella relazione con l’altro. Una parte della cultura femminista ha perciò sentito l’esigenza di cominciare a pensare il gender con e attraverso le relazioni, secondo un codice simbolico relazionale, che fa riferimento all’interdipendenza relazionale tra i due generi ed è improntato alla reciproca personalizzazione; ciò implica una reale dualità, né realistica, né residuale, ma similare tra uomo e donna. Nell’ambito di tale codice duale e reciprocitario, le diversità si pongono come positive e articolano relazioni tra maschile e femminile che arricchiscono l’umano. A questo proposito Mary Ann Glendon ha osservato che è andato sempre più chiaramente delineandosi «un femminismo basato su un’adeguata comprensione della dimensione sociale della persona umana, un femminismo che forse non si chiamerà più femminismo».41

In tale prospettiva, l’identità è definita attraverso e con la relazione, ma non per negazione dialettica, bensì per relazionamento ad un’alterità.42 Si tratta dunque di una semantica d’articolazione relazionale, ovvero d’integrazione-differenziazione, o, se si preferisce, d’appartenenza-distinzione. L’identità di una persona sta nel distinguersi nel riferimento agli altri (diversi da sé), cioè nel vedere la differenza, ma anche nel fatto che «[…] la differenza si stabilisce attraverso un riferimento reciproco che, al di là della negazione logica, richiede riconoscimento e scambio».43 La relazionalità implicata in questa visione «[…] mentre considera i gender uguali per gli aspetti fondamentali relativi alla dignità umana […]»44 ne valorizza «[…] i diversi vissuti interiori, le diverse configurazioni di personalità, mettendo a disposizione norme sociali e regole d’interazione che rendano possibili le espressioni proprie».45

10.2.2 Men’s studies

All’interno del vasto complesso di studi inerenti il genere e a seguito delle riflessioni che hanno interessato l’universo femminile, lo studio della maschilità si è sviluppato solo in tempi più recenti, con l’obiettivo di rileggere in ottica critica i concetti di potere, virilità e patriarcato che da sempre hanno contrapposto la figura maschile a quella femminile, a favore di uno studio più consapevole della complessità che soggiace alle relazioni tra uomini e donne. Secondo Tosh la prima rivendicazione dell’importanza della relazione tra femminile e maschile è da imputare a Natalie Zemon Davis, storica statunitense che ripercorrendo la storia delle donne nel 1975 sottolineò l’importanza di studiare la storia sia delle femmine sia dei maschi.46

I cosiddetti men’s studies rappresentano un corpus di studi sul genere maschile, nati nei paesi di lingua inglese tra la fine del 1980 e l’inizio del 1990, con l’obiettivo di tematizzare in modo critico la questione dell’identità maschile.47 Le tematiche affrontate sono molteplici – rapporto con il lavoro, con l’educazione, ricerche sulla sessualità, il corpo, lo sport e la carriera atletica, ecc… – tuttavia il punto debole di tali studi può essere rintracciato proprio nel concetto stesso di maschilità che non è definito in modo chiaro ed univoco.48

Pur nella varietà delle tematiche affrontate, all’interno dei men’s studies si è soliti distinguere tre approcci:49

  • la posizione essenzialista:50 enfatizza le caratteristiche intrinseche ed invarianti su cui si formano i comportamenti e le inclinazioni di uomini e donne. Lo studio di Theweleit, considerato il pioniere dei men’s studies, mette in luce i tratti di forza e virilità come caratteristiche essenziali della maschilità ed ulteriormente rinforzati attraverso la trasmissione di stereotipi sociali.

    La forza ed il potere sono determinati da fattori biologici, che definiscono l’identità maschile.

    Benché venga riconosciuta una certa influenza del contesto sociale, sostanzialmente l’identità maschile si forma su una base principalmente biologica,51 che viene poi amplificata dal contesto sociale d’appartenenza.

    La corrente della sociobiologia52 contribuisce a rafforzare il peso dei fattori biologici, sostenendo che l’identità maschile si costituisce sotto l’influsso di spinte ormonali che sono determinate geneticamente in ogni uomo. Un esempio tipico a favore di questa tesi è la maggiore forza fisica di cui gli uomini sono dotati, rispetto alle donne.

  • La posizione pluralista:53 sostiene che il genere maschile non esiste in una unica modalità, ma può assumere diverse forme e diverse modalità di espressione. Emblematico all’interno di questo approccio è, tuttavia, il pensiero di Connell in base al quale si possono identificare quattro differenti tipologie di maschilità: la maschilità egemonica, la maschilità subordinata, la maschilità marginale, e la maschilità di protesta. La prima (egemonica) rappresenta il comportamento normativo entro una determinata società e si costituisce secondo le dinamiche culturali in base a cui un gruppo detiene una posizione di leadership. Nel mondo occidentale in genere questo tipo di maschilità è caratterizzata dal rispetto delle norme e dei valori vigenti, pratica eterosessuale, avere una partner e una famiglia e svolgere un’attività lavorativa. Viene definita come “egemonica” non nel senso di predominante sul femminile, ma in quanto più visibile e convenzionale tra la popolazione maschile. Le persone in posizione egemonica non sono necessariamente le più potenti, ma possono essere anche personaggi televisivi, oppure atleti sportivi, che incarnano tutte le caratteristiche della posizione egemonica ed hanno abbastanza carisma da essere riconosciute; diversamente persone che detengono una posizione istituzionale di potere potrebbero essere ben lontane dal possedere tali caratteristiche. Le altre tipologie di maschilità si definiscono in base ai rapporti – di alleanza, subordinazione e contestazione – che instaurano con il modello dominante (egemonico), pur rappresentando però delle identità in minoranza o di secondo ordine. La maschilità subordinata è propria di gruppi con una identità sessuale atipica (omosessuali o bisessuali), la maschilità marginale che mette in luce tratti di maschilità presenti in minoranze etniche, religiose o culturali (ovvero non egemonici), la maschilità di protesta appartiene ai gruppi devianti e pericolosi.

    Questa posizione in particolare bene evidenzia come i generi non siano «delle gabbie senza uscita che confinano donne e uomini per sempre»,54 piuttosto l’espressione della propria identità è varia e consente l’emergere di nuove forme, non soltanto entro differenti epoche e differenti periodi storici, ma anche entro il medesimo contesto sociale di riferimento.

    Connell in particolare ha sottolineato la pervasività del concetto: egli sostiene che senza accorgercene noi basiamo gran parte delle nostre riflessioni e azioni sulla distinzione tra femminile e maschile, il genere pervade ogni contesto sociale, micro o macro, tanto che le istituzioni stesse (lo stato, le associazioni, i mercati), le relazioni internazionali e i sistemi economici e politici sono da lui definiti «un’arena di riproduzione» delle politiche di gender.55 Conclude che esiste un ordine basato sul genere a livello mondiale e che per tale ragione l’economia e la politica globale siano sostanzialmente sistemi altamente iniqui.

    Al di là di questa considerazione tuttavia la posizione di Connell nella riflessione sul genere è essenziale per comprendere le dinamiche relazionali tra uomini e donne non solo a livello micro sociale, ma anche a livello macro. Il concetto di maschilità è insito nell’organizzazione sociale e per comprenderlo a pieno occorre analizzare il contesto storico, relazionale e sociale. Sul piano empirico questo significa concretamente entrare nel merito di alcuni aspetti particolari della vita sociale, ad esempio la famiglia, ed interrogarsi su come agiscono uomini e donne, maschi e femmine, padri e madri, lavoratori e lavoratrici.

    In altre parole il messaggio che Connell vuole darci è che l’essere maschio non è una idea astratta, ma è rintracciabile nella storia del contesto sociale e nelle relazioni, il genere non è qualcosa di fisso e immutabile, ma è costituito nelle interazioni, la maschilità quindi affonda le sue radici nel sociale.

  • La posizione post strutturalista:56 sostiene il valore della singolarità e delle differenze. L’identità maschile è di per sé un concetto multidimensionale, aperto alla novità e in continua evoluzione, per questo il concetto di maschilità non può essere rinchiuso in definizioni troppo circoscritte. La capacità della persona di vivere esperienze variegate, di compiere diverse scelte e quindi anche di trasformarsi fa da cornice alla definizione dell’identità: la maschilità si acquisisce attraverso l’unicità delle vicissitudini personali e la possibilità di esprimere in diversi modi la propria esistenza. L’acquisizione della maschilità si configura dunque come un processo di scoperta e di sperimentazione continua.57

Quale relazione uomo-donna emerge da tali studi? Differentemente dal primo pensiero femminista il maschile sembra essere tematizzato in relazione con il femminile, ma occorre chiedersi di quale relazione stiamo parlando? Assumendo una interpretazione del genere come costruzione sociale, prevale anche qui una forma di relazione indifferenziata e autoreferenziale, che assume la connotazione di una interazione con l’altro.

Quale riflessività? Prevale una riflessività autonoma e strumentale. La riflessione sulla maschilità che si diffonde attraverso i men’s studies mette in luce, a ben vedere, il processo di individualizzazione che si è e si sta via via affermando: la riflessione sul maschile prende avvio attraverso un dialogo con la riflessione femminista, dando luogo alla morfogenesi di differenti forme di maschilità (pluralizzazione) sino ad esitare in un processo di costruzione di qualsiasi gender possibile.

10.3 La morfogenesi contemporanea nella relazione famiglia-lavoro e nella relazione genitoriale

La riflessione sull’identità maschile e femminile ha un nesso fondamentale con i processi morfogenetici che coinvolgono la famiglia e il lavoro, i due ambiti fondamentali della realizzazione dell’identità adulta.

Il lavoro è stato interessato da grandi trasformazioni dovute sia al massiccio ingresso femminile sia a importanti cambiamenti nell’organizzazione stessa del lavoro;58 parallelamente ed in stretta relazione con le trasformazioni del versante professionale, anche la famiglia ha attraversato un processo rilevante di cambiamento di ordine sia culturale che strutturale.59

Pertanto anche la relazione tra le sfere (professionale e familiare) si è progressivamente modificata, dalla morfostasi parsonsiana (separazione degli ambiti e sfere di vita), si è avviato un processo morfogenetico il cui esito può essere differente: di tipo conflittuale (le richieste dei due ambiti sono inconciliabili ed incompatibili esitando necessariamente in tensioni e privazioni), strumentale e compensativo (uno dei due ambiti viene utilizzato per ottenere dei risultati o benefici nell’altro) oppure relazionale e conciliativo. L’apporto della sociologia relazionale contribuisce a ridefinire tale rapporto in termini conciliativi.

Se l’ottica conflittuale e strumentale di fatto mettono in luce una separazione netta tra le due sfere e quindi una mancanza di riflessività adeguata ai processi morfogenetici attuali, la lettura della relazione tra famiglia e lavoro in ottica conciliativa consente l’emergere di riflessività a differenti livelli: innanzitutto la conciliazione non riguarda solo le madri, ma anche i padri ed è quindi una questione fondamentalmente familiare, essa inoltre riguarda una pluralità di attori in relazione tra loro – famiglie, enti pubblici, imprese e terzo settore – (un esempio di relazione virtuosa tra famiglia e lavoro è data proprio le buone pratiche di welfare aziendale o le buone politiche di conciliazione che si basano su una relazionalità tra le due sfere e coinvolgono differenti attori sociali).

Il conflitto tra ambito familiare e lavorativo si origina infatti da un processo di differenziazione funzionale, che opera attraverso meccanismi specifici: i sistemi si specializzano caratterizzandosi fortemente al proprio interno, mediante l’abbandono di certe funzioni e, nei confronti dell’esterno, tramite la loro netta separazione; i sottosistemi così differenziati (famiglia e lavoro) operano secondo un codice simbolico autoreferenziale/infra-sistemico, ciò determina, nella realtà, una chiusura affettiva della famiglia ed una difficoltà della stessa a rigenerarsi in quanto tale e una chiusura strumentale del lavoro.

La differenziazione relazionale, al contrario, ipotizza ed identifica nuove forme d’interscambio tra le sfere o sotto-sistemi esistenti (famiglia e lavoro) che si specializzano mediante una relazione reciproca. «La relazione famiglia-lavoro diventa un merit good e un bene relazionale che va trattato a sé»60 e l’identità stessa assunta da tale relazione determina, non solo la modalità di interscambio presente tra questi due ambiti, ma anche l’identità di ciascuno.

La prospettiva relazionale determina dunque una ridefinizione della questione della conciliazione puntando l’attenzione sulla relazione tra famiglia e lavoro e non sul singolo ambito.

Inoltre, sul piano della coppia (intra-familiare) la morfogenesi attuale dà luogo a diverse forme di genitorialità, che rappresenta la forma identitaria generativa61 per eccellenza della relazione uomo-donna.

Quale riflessività è insita nelle moderne forme della genitorialità? Prendendo in considerazione le forme della genitorialità contemporanea62 osserviamo la riflessività emergente:

  • Genitorialità differita fa riferimento al procrastinare della scelta generativa soprattutto nelle giovani coppie. In molti casi il differimento della procreazione è strettamente correlato a un matrimonio rimandato nel tempo, al quale segue un ulteriore periodo di dilazione della decisione di avere un figlio. In questo caso, la genitorialità differita rappresenta una forma di temporaneo childfree, mettendo in atto riflessività autonoma autodiretta, volta appunto a posticipare il progetto genitoriale.
  • Genitorialità assistita, ovvero attraverso il ricorso alle biotecnologie: tale scelta implica per la coppia che vi fa ricorso la risposta all’interrogativo sul significato del desiderio di un figlio “proprio” e, in definitiva, sulla generatività dell’evento. La possibilità di decidere se, quanti e quando avere dei figli ha favorito e tende a favorire l’atteggiamento secondo cui un bambino deve nascere solo se desiderato e ogni figlio desiderato deve nascere. Inoltre l’introduzione di queste procedure ha comportato un mutamento nella dimensione antropologica e sociale della genitorialità: mutamento profondo e problematico in considerazione del fatto che l’attuazione di alcune di queste procedure – e precisamente di quelle eterologhe, che richiedono l’intervento di un terzo estraneo alla coppia donatore di gameti – sottende la scissione tra genitorialità biologica e genitorialità sociale. Si tratta infatti di situazioni che tendono creare una accentuata confusività tra i ruoli familiari e le generazioni. In questo contesto prevale nettamente una riflessività strumentale nella relazione uomo-donna, con un intreccio confusivo di interazioni che non hanno più i criteri distintivi del padre e della madre, e del legame generazionale. Siamo di fronte ad una morfogenesi che dà luogo ad ambivalenza e indica un processo di progressiva estraneazione dell’uomo dalla donna e del sé col sé.
  • Omogenitorialità, ovvero la presenza di due genitori dello stesso sesso: questo tema assume connotazioni anche più rilevanti a fronte dell’impatto dovuto alle nuove tecnologie riproduttive. Nei contributi di ricerca, volti soprattutto a sottolineare gli esiti di “normalità” nello sviluppo dei figli, con campioni non rappresentativi e con figli di età troppo piccola per porsi concretamente una domanda sull’identità, vengono spesso utilizzate le dizioni “genitori omosessuali” o “coppie omosessuali con figli” in modo generico, dizioni che in realtà coprono un universo variegato di situazioni: occorre infatti distinguere tra coppie lesbiche e coppie gay, tra genitori omosessuali in coppia o single, tra coppie che hanno un figlio frutto di una relazione eterosessuale precedente e coppie che hanno un figlio per inseminazione, utero in affitto o adozione. Si rischia cioè di operare una semplificazione erronea quando si interpretano i risultati delle ricerche come riferiti genericamente a figli di coppie omosessuali quando i singoli campioni in realtà fanno riferimento a condizioni molto diverse.

L’omogenitorialità chiama in gioco il tema della differenza di genere, della differenza di generazioni e di stirpi, e il tema fondamentalmente delle origini. In particolare la domanda cruciale è: qual è l’eredità con la quale il figlio delle coppie “omo” deve fare i conti? Egli, per situarsi come soggetto con una sua identità, dovrà trattare il congiungimento con la differenza sessuale da cui è venuto, differenza che la coppia adulta omogenitoriale non ha affrontato o ha affrontato scindendo il biologico (seme, utero) dal simbolico. Egli dovrà cioè integrare ciò che gli arriva scisso, dovrà dare parola, se mai lo potrà fare, all’ignoto-oscuro che grava sulla sua origine. Inoltre, e questo è altrettanto decisivo, dovrà orientarsi nella complicazione delle genealogie per trovare il suo posto nella storia delle generazioni che rappresentano il filo rosso che consente riconoscimento. L’essere umano sa chi è non solo se è riconosciuto dagli altri significativi, ma se entra in un ordine che consenta riconoscimento.63

Un ampio spazio di dibattito si apre anche attorno alla complessa questione della maternità surrogata in cui oltre ad eliminare la relazione genitoriale viene anche spezzata e sostituita la relazione tra il figlio e la madre. La maternità surrogata assume almeno due forme: commerciale se prevede un contratto e quindi un pagamento in denaro, altruistica se realizzata per solidarietà, ovvero come atto volontario, che richiede la gratuità, anche economica.64 Di fatto le nuove tecnologie riproduttive in questo contesto sovvertono uno dei fondamentali riferimenti dell’esistenza umana: ovvero la certezza della maternità e l’incertezza della paternità65 creando un disordine simbolico ingovernabile. Il paradosso poi è che il desiderio del figlio nasce da una condizione di isolamento relazionale in cui siamo immersi, per far fronte a tale condizione si attiva, o per lo meno si ricerca ostinatamente, una relazione caratterizzata però da codici mercantili/contrattualistici: in sostanza non ci si può sottrarre dalla relazione, ma nel tentativo di manipolarla a tutti i costi si finisce per snaturarla. Il figlio che posto occupa in tutto questo? Esso costituisce il “terzo” dell’accordo, che non ha però voce in capitolo e resta il protagonista muto della vicenda. Emerge anche qui una forma di riflessività strumentale che snatura la relazione genitoriale stessa.

  • Genitorialità sociale, realizzata attraverso l’adozione (nazionale o interazionale), mette in campo una forma di metariflessività e di prosocialità in quanto è inevitabile la relazione con il terzo-il sociale. L’adozione sociale permette infatti di far luce sulle motivazioni sottese al desiderio di maternità/paternità delle coppie, in quanto il ricorso all’adozione può essere motivato da un lato da sterilità, legata anche alla posticipazione delle nascite, dall’altro può essere mosso da un orientamento prosociale e solidaristico, che nel caso dell’adozione internazionale, si indirizza verso i Paesi più poveri del mondo.
  • Genitorialità condivisa riguarda le situazioni di separazione/divorzio, in cui si prospetta la questione dell’esercizio condiviso della genitorialità che riguarda sia aspetti simbolici (le regole e i principi educativi), sia incisivi aspetti pratici e organizzativi (chi fa cosa, chi paga…). Perché vi sia effettiva condivisione occorre mettere in atto un processo di forte riflessività per costituire il nuovo patto genitoriale, ridefinire i confini coniugali e familiari (I) e per condividere la responsabilità genitoriale ed elaborare la fine del legame e contenere il conflitto (L); prevale qui una riflessività comunicativa focalizzata sulla relazione e la messa in comune, assieme ad una metariflessività rintracciabile nel valore della co-genitorialità.
  • Genitorialità interrotta, ovvero la rinuncia alla dimensione genitoriale attraverso l’aborto, rimanda ad una debolezza di risorse di risorse umane (relazione uomo-donna) ed economiche (riflessività strumentale), attraverso una scelta a non procedere con il progetto genitoriale (indicante una riflessività autonoma).

    Il fenomeno dell’aborto non è certamente di facile interpretazione perché al suo interno si mescolano situazioni personali e familiari che si collocano, per certi versi, agli estremi della scala sociale. Infatti, se da una parte l’interruzione volontaria di gravidanza è utilizzata in situazioni in cui prevale un disagio soprattutto nella sfera affettivo-relazionale, più complessa da decodificare, dall’altra sono ancora consistenti le situazioni in cui le componenti materiali, relative ad una condizione di vita accettabile sono prevalenti. Dal punto di vista delle relazioni familiari è possibile osservare che il ricorso all’aborto identifica una sorta di famiglia “interrotta”, in cui il mandato generazionale perde temporaneamente o definitivamente la sua forza e la relazione di coppia appare estremamente debole o problematica; il rischio si colloca quindi sia sull’asse intergenerazionale, sia su quello orizzontale della relazione di coppia.

  • Non genitorialità: le percentuali di donne che in età fertile non hanno figli sono in costante aumento, tuttavia occorre scomporre tale dato empirico e distinguere tra la decisione temporanea e contingente di non avere figli (ovvero la genitorialità differita) e quella permanente. Infatti gli orientamenti simbolici e di senso che sottendono queste scelte sono molto diversi. Il termine childfree fa riferimento ad un preciso orientamento culturale, identificabile nella scelta deliberata di vivere senza figli (pur potendoli avere). Qui è sottesa una forma di riflessività che tuttavia preclude lo sviluppo pieno della relazione familiare stessa intesa come reciprocità tra i sessi e le generazioni. All’interno di tale complesso fenomeno occorre distinguere tra il childfree dei singles e delle coppie:
    • il childfree dei singles è uno stile di vita decisamente non familiare. Per Kaufmann66 rappresenta lo stile di vita del futuro, che compie fino in fondo la “traiettoria” dell’autonomia moderna votata alla realizzazione di sé e alle relazioni scelte.
    • Il childfree delle coppie è l’evoluzione individualista della morfogenesi familiare. La centralità della relazione tra i partner non ha come obiettivo la generatività e giunge alla negazione della spinta generativa propria del genoma familiare. In questo caso, la relazione che si stabilisce si può chiamare famiglia solo per analogia. Le coppie childfree realizzano fino in fondo la vocazione moderna all’assolvimento (in senso etimologico) dai legami, cioè la caratteristica della società contemporanea all’immunizzazione dai legami.67 Sociologicamente le due vie al childfree appena indicate sembrano presentare entrambe il rischio non remoto, se generalizzate, di condurre ad un inevitabile suicidio della società.

Conclusioni

La società contemporanea ed i processi morfogenetici che hanno interessato alcune fondamentali dimensioni dell’esistenza umana, in particolare il processo di formazione dell’identità (maschile e femminile), la relazione tra famiglia e lavoro, la relazione genitoriale, danno luogo sia a processi di rigenerazione delle relazioni attraverso la riflessività sia a forme relazionali problematiche e fratturate.

La riflessione proposta in questo contributo ha preso in considerazione innanzitutto la complessa e rilevante questione dell’identità femminile e maschile, attraverso il contributo dei Women’s e dei Men’s Studies, mettendo in luce la deriva verso cui tendono le teorie costruzioniste tematizzando il prevalere del dato culturale su quello biologico. In questo contesto, il concetto di gender è divenuto uno strumento per modificare il senso della differenza sessuale e dell’identità stessa (maschile e femminile) ponendo la differenza come superabile in quanto non è considerata un dato strutturale dell’umano. Non soltanto in queste teorie prevale una riflessività tipo strumentale, ma anche e soprattutto viene meno il codice propriamente relazionale dell’identità a favore di uno autoreferenziale e ampiamente possibilista e dove ogni possibilità deve tradursi in dato di realtà.

Considerando l’esito dei processi morfogenetici sui due ambiti fondamentali per lo sviluppo dell’identità maschile e femminile (famiglia e lavoro), si è successivamente preso in considerazione il relazionamento tra sfera familiare e lavoro il cui esito in termini conciliativi, piuttosto che strumentale o conflittuale, è auspicabile in quanto sorgivo di scambi arricchenti e facilitanti per entrambi gli ambiti (la famiglia è risorsa per il lavoro e il lavoro è risorsa per la famiglia). Soltanto all’interno di una “buona” conciliazione tra famiglia e lavoro, il soggetto umano sarà in grado di attivare una riflessività comunicativa relazionale o una metariflessività.

Infine, dobbiamo considerare la nascita di un figlio come l’effetto emergente della relazione tra i genitori, non definibile a priori come sommatoria delle proprietà o delle caratteristiche genitoriali; è di più, è altro da sé che deriva necessariamente da due identità distinte e differenti.

I processi morfogenetici impattano decisamente sulle forme della genitorialità – come abbiamo visto ed ampiamente descritto – dando luogo nel contesto contemporaneo a forme generative (quali ad esempio la genitorialità sociale), ma anche a forme narcisistiche e degenerative (si pensi ad esempio alla genitorialità interrotta o alla decisione di non avere figli pur potendoli avere, e all’omogenitorialità). In questi casi prevale una riflessività autonoma e strumentale, che da una parte trasformano la genitorialità in un diritto individuale da agire o da esigere (piuttosto che una progettualità ed un orizzonte di senso) e dall’altra sgretolano il senso del noi come unità di coppia (we-relation).

L’esito problematico di alcune forme di relazionamento e di riflessività mette in luce, a bene vedere, un intrinseco bisogno di relazione (si pensi ad esempio al ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa o alla maternità surrogata), che rimanda ad una qualità fondamentalmente umana: l’io è naturalmente portato a mettersi in relazione con l’altro da sé. Questa tensione originaria e umana verso la relazione viene però snaturata attraverso una riflessività che vede l’individuo e i suoi desideri come unico criterio di scelta, chiusa su sé stessa e pertanto non generativa.

Come è possibile districarsi in tale contesto? Occorre ripensare la relazione uomo-donna come unità a partire dalle differenze: ciò che viene spesso dimenticato è che la relazione implica sempre un altro da sé, l’identificazione dell’io avviene soltanto nel riconoscimento di una differenza.

La relazione, pertanto, è ciò che unisce differenziando (relazionamento – non neutralizzante – delle differenze): se si abbandona questa prospettiva di conseguenza, viene meno anche l’unità uomo-donna. L’umanità è costituita come dualità originaria, pertanto il punto di partenza è proprio l’unità: identità e differenza si danno all’interno dell’unità della persona. Infatti uomo e donna sono distinti originariamente, ma intrinsecamente relazionati perché solo la loro duplice modalità di essere raffigura pienamente l’umano: questo è il concetto di unità dei due, ovvero “unidualità”. Da ciò ne consegue che la differenza è una categoria stessa della persona, e la differenza implica necessariamente una apertura all’altro, all’altro da sé in ottica di riconoscimento e reciprocità.

Dire reciprocità non significa dire indifferenza, non significa che uomo e donna non sono destinati a fondersi per ricomporre l’unità originaria, ma piuttosto che a partire da una differenza biologica uomo e donna devono porsi in una relazione di reciprocità asimmetrica che non mina l’unità della persona umana, ma anzi la ricostituisce.68

1Isabella Crespi, “Identità sessuale/di genere”, in Lucia Boccacin, Riccardo Prandini, Paolo Terenzi (a cura di), Lessico di Sociologia relazionale (Bologna: Il Mulino, 2016): 129-132.

2Margaret S. Archer, Realist Social Theory: The Morphogenetic Approach (Cambridge: Cambridge University Press, 1995); Pierpaolo Donati, Teoria relazionale della società (Milano: Franco Angeli, 1991).

3Cfr. Pierre Bourdieu, Outline of a Theory of Practice (Cambridge: Cambridge University Press, 1997); Pierre Bourdieu, Loïc J. D. Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology (Cambridge: Polity Press, 1992).

4Ulrich Beck, Anthony Giddens, Lash Scott, Reflexive Modernization: Politics, Tradition and Aesthetics in the Modern Social Order (Cambridge: Polity Press, 1994) (tr. it. Modernizzazione riflessiva. Politica, tradizione ed estetica nell’ordine sociale della modernità, Trieste: Asterios, 1999).

5Anthony Giddens, Modernity and Self-Identity: Self and Society in the Late Modern Age (Cambridge: Polity Press, 1991).

6Margaret S. Archer, “Riflessività (Reflexivity)”, 216.

7Cfr. in questo senso la riflessione di Lisa Adkins, “Reflexivity Freedom or Habit of Gender?”, Theory, Culture & Society 20 (6) (2003): 21-42. L’autrice, esaminando la costruzione dell’identità di genere come percorso riflessivo, sottopone innanzitutto a critica la prospettiva di Bourdieu secondo la quale riflessività critica e trasformazioni (anche rispetto al genere) sono possibili solo in presenza di un inadeguato adattamento tra soggettività e aspetti strutturali; giunge quindi a chiedersi, senza peraltro formulare una risposta esauriente, quanto, rispetto all’identità di genere nella tarda modernità, sia frutto di riflessività e quanto invece sia riconducibile a fattori strutturali, presenti nell’inconscio dell’individuo e “incorporati” nel suo essere gendered, o, in altri termini, sia habitus o azione routinaria.

8Margaret S. Archer, “Il realismo e il problema dell’agency”, Sociologia e Politiche Sociali 7 (3) (2004): 31-49 [ed. or. “Realism and The Problem of Agency”, Journal of critical realism 5 (1) (2002): 11-20; 47].

9Ivi, 32.

10Ivi, 43.

11In estrema sintesi, secondo Archer la riflessività umana è attività interiore coscienziale del soggetto circa la vita buona, sulla base della quale ogni individuo agisce. La teoria sociale di Archer, pur rappresentando un superamento delle precedenti visioni, «lascia ancora molto da esplorare circa il carattere relazionale dei processi […]». Cfr. Pierpaolo Donati, “La conversazione interiore: un nuovo paradigma (personalizzante) della socializzazione,” in Margaret S. Archer (ed. italiana a cura di Pierpaolo Donati), La conversazione interiore Come nasce l’agire sociale (Trento: Erickson, 2006a): 9-42, 37 [ed. or. Margaret S. Archer, Structure, agency and the internal conversation (Cambridge: Cambridge University Press, 2003)].

12Archer, “Riflessività (Reflexivity)”, 220.

13Ivi, 221.

14Pierpaolo Donati, “Quale ‘modernizzazione riflessiva’? Il ruolo della riflessività nel cambiamento sociale”, in Riflessività, modernizzazione e società civile, Sociologia e Politiche Sociali 13 (1) (Milano: Franco Angeli, 2010: 9-44, 35-36; Riccardo Prandini, “Riflessività relazionale”, in Lucia Boccacin, Riccardo Prandini, Paolo Terenzi (a cura di), Lessico di Sociologia relazionale (Bologna: Il Mulino, 2016): 247-252.

15Pierpaolo Donati, “Quale ‘modernizzazione riflessiva’?”, 35.

16Alcune di queste autrici fanno parte della corrente del femminismo definita culturalista o essenzialista: questo filone di pensiero, nato verso la fine degli anni Settanta, rivendica alle femministe il diritto esclusivo di descrivere e valutare le donne. Tra queste possiamo ricordare Daly e De Beauvoir: Mary Daly, Gyn/Ecology The Metaethics of Radical Feminism (Boston: Beacon, 1978); Simone De Beauvoir, Le deuxième sexe (Paris: Gallimard, 1949).

17Tra le esponenti di questo approccio si ricordano Irigary, Cavarero e Riley: Luce Irigary, This Sex Which Is Not One (New York: Cornell University Press, 1985); Adriana Cavarero, “Equality and Sexual Difference: Amnesia in Political Thought”, in Gisela Bock and Susan James (eds.), Beyond Equality and Difference, Citizenship, Feminist Politics and Female Subjectivity (London and New York: Routledge, 1992): 32-47; Denise Riley, “Am I That Name?”. Feminism and the Category of ‘Women’ in History (Basingstoke: MacMillan, 1988).

18Nancy J. Chodorow, The Reproduction of Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender (Berkeley: Berkeley University Press, 1978) (tr. it. La funzione materna: psicoanalisi e sociologia del ruolo materno, Milano: La Tartaruga, 1991); Chodorow, Femininities, Masculinities, Sexualities. Freud and Beyond (Lexington: University Press of Kentucky, 1994) (tr. it. Femminile, maschile, sessuale, Milano: La Tartaruga, 1995).

19Juliet Mitchell, Psychoanalysis and Feminism (London: Allen Lane, 1974).

20Carol Gilligan, In a Different Voice (Cambridge: Harvard University Press, 1982) (tr. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano: Feltrinelli, 1987).

21Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno (a cura di), La costruzione sociale del maschile e del femminile (Bologna: Il Mulino, 1996): 16.

22Joan W. Scott, “Gender: A Useful Category of Historical Analysis”, American Historical Review 91 (5) (1986): 1053-1075.

23Linda J. Nicholson, “Per una interpretazione di genere,” in Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno (a cura di), La costruzione sociale del maschile e del femminile, 42-65.

24Teresa De Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema (Bloomington: Indiana University Press, 1984); De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (Milano: Feltrinelli, 1996).

25Gayle Rubin, “The Traffic in Women, Notes on the Political Economy of Sex”, in Rayna R. Reiter (ed.) Towards an Anthropology of Women (New York Monthly Review Press, 1975): 157-210, 165. In questo saggio la Rubin ha introdotto per la prima volta il concetto di sex/gender system, intendendo così indicare «un insieme di norme, mediante le quali il materiale, bruto istinto biologico del sesso e della procreazione è organizzato e soddisfatto […]». L’autrice afferma poi che «il sesso come noi lo conosciamo, l’identità di genere […] è un prodotto della società».

26Jacques Derrida, De la Grammatologie (Paris: Editions de Minuit, 1967).

27Michel Foucault, The History of Sexuality. An Introduction (Harmondsworth: Penguin, 1978); Michel Foucault, Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Writings 1972-77 (New York: Pantheon Books, 1981).

28Julia Kristeva, “Women can never be defined”, in Elaine Marks (ed.) New French Feminism (New York: Schocken, 1981): 12-27.

29Da cui il termine decostruzionismo, spesso indicato anche come “post-strutturalismo”.

30La gender theory si è oggi evoluta in ideologia di genere e in queer theory (la “prospettiva Q”), che prospetta il diritto di “scegliersi” l’identità e l’orientamento sessuale, a prescindere dalla dualità maschio-femmina, uomo-donna su cui si basa il concetto di sesso. La Q sta per queer, parola anglosassone transitata dall’iniziale accezione offensiva di omosessuale a quella di “individuo strano”, in opposizione a straight, inteso come individuo normale. La lettera Q è anche da alcuni intesa come riferita a “questioning” (che pone in questione e contesta).

31Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (New York-London: Routledge, 1990) (tr. it. Scambi di genere, Milano: Sansoni, 2004); Judith Butler, Undoing Gender (New York-London: Routledge, 2004) (tr. it. La disfatta del genere, Roma: Meltemi, 2006).

32Judith Butler, Scambi di genere, 99.

33Ivi, 10.

34Ivi, 160.

35Ivi, 191.

36Ivi, 26.

37Susy Zanardo, “Gender: sfide, risorse, criticità”, Archivio teologico torinese 1 (2016): 75-90, 82.

38Susan Stanford Friedman, “Beyond White and Other: Relationality and Narratives of Race in Feminist Discourse”, Signs, 21 (1) (1995): 1-49.

39Jane Flax, “The Family in Contemporary Feminist Thought a Critical Review”, The Family in Political Thought (1982): 223-253; Jane Flax, “Postmodernism and Gender Relation in Feminist Theory,” in Nicholson (ed.), Feminism/Postmodernism (London and New York: Routledge, 1990): 38-62.

40Pierpaolo Donati, “La famiglia come relazione di gender: morfogenesi e nuove strategie”, in Pierpaolo Donati (a cura di), Uomo e donna nella famiglia: differenze, ruoli, responsabilità, Quinto Rapporto Cisf sulla famiglia in Italia (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 1997): 25-91.

41Mary Ann Glendon, “Le donne dinanzi a scelte fondamentali: nodi, sfide e prospettive nella cultura contemporanea”, Laici oggi 40 (1997): 29-43, 40.

42È interessante osservare che questa visione (identità relazionale) è in sintonia con il magistero di Giovanni Paolo II che, all’inizio degli anni Ottanta già insisteva sul fatto che l’uguale dignità delle donne giustifica pienamente il loro accesso ai compiti pubblici: Giovanni Paolo II, “Esortazione apostolica Familiaris consortio sui compiti della famiglia cristiana”, 22 novembre 1981, AAS 73 (7) (1981): 81-191.

43Pierpaolo Donati, “La società come relazione. I fenomeni sociali e la loro conoscenza sociologica”, in Pierpaolo Donati (a cura di), Sociologia. Un’introduzione allo studio della società (Padova: CEDAM, 2006b): 1-61, 23.

44Pierpaolo Donati, “La famiglia come relazione di gender”, 41.

45Ibidem; Giovanna Rossi, “Verso un nuovo femminismo della dignità”, in Gilfredo Marengo, Javier Maria Prades Lopez, Gabriel Richi Alberti (a cura di), Sufficit Gratia Tua – Miscellanea in onore del Card. Angelo Scola per il suo 70o compleanno (Venezia: Marcianum Press, 2012): 609-620.

46John Tosh, “What Should Historians do with Masculinity? Reflections on Nineteenth-Century Britain”, History Workshop Journal 38 (1) (1994): 179-202 (tr. it. “Come dovrebbero affrontare la mascolinità gli storici”, in Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno (a cura di), La costruzione sociale del maschile e del femminile, 67-94).

47Michael S. Kimmel (eds.), Changing Men. New directions in Research on Men and Masculinity (London: Sage Publications, 1987); Michael S. Kimmel, Manhood in America. A cultural History (New York: The Free Press, 1996); Michael S. Kimmel, The gendered society (New York – Oxford: Oxford University Press, 2000); Harry Brod, The Making of Masculinities. The New Men’s Studies (Boston: Allen and Unwin, 1987); Harry Brod, Michael Kaufman (eds.), Theorizing Masculinities (London: Sage Publications, 1994); Michael Roper, John Tosh (eds.), Manful Assertions. Masculinities in Britain since 1800 (London: Routledge, 1991); Raewyn. W. Connell, Gender and Power (Cambridge: Policy Press, 1987); Raewyn. W. Connell, Gender (Cambridge: Policy Press, 2002); Raewyn. W. Connell, “Masculinities, Change and Conflict in Global Society: Thinking about the Future of Men’s Studies”, Journal of Men’s Studies 11 (3) (2003): 249-266; Raewyn. W. Connell, Masculinities (Cambridge: Policy Press, 2005); Jeff Hearn, Keith Pringle, European perspectives on men and masculinities, national and transnational approaches (New York: Palgrave Macmillan, 2006).

48Connell, Gender; Connell, “Masculinities, Change and Conflict in Global Society”; Connell, Masculinities; Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, La costruzione sociale del maschile e del femminile; Sandro Bellassai, Maria Malatesta (a cura di), Genere e mascolinità: uno sguardo storico (Roma: Bulzoni, 2000).

49Simonetta Piccone Stella, “Gli studi sulla mascolinità. Scoperte e problemi di un campo di ricerca”, Rassegna Italiana di Sociologia 41 (1) (2000): 81-108; Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, La costruzione sociale del maschile e del femminile; Isabella Crespi, “Alla (ri)scoperta dell’identità maschile: studi e ricerche”, in Isabella Crespi (a cura di), Identità e trasformazioni nella dopo modernità: tra personale e sociale, maschile e femminile (Macerata: EUM Edizioni Università di Macerata, 2008): 103-142.

50Klaus Theweleit, Male fantasies (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1987); Edward O. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi (Bologna: Zanichelli, 1979).

51John Tosh, Manliness and Masculinities in Nineteenth-Century Britain: Essays on Gender, Family and Empire (New York: Pearson Education, 2005); John Tosh, “Current issues in the history of masculinity,” in Angiolina Arru (a cura di) La costruzione dell’identità maschile nell’età moderna e contemporanea (Biblink, 2001): 63-78.

52Wilson, Sociobiologia.

53Connell, Gender and Power; Connell, Masculinities; David John Tacey, Remaking Men. The Revolution in Masculinity (Melbourne: University Press, 1997).

54Simonetta Piccone Stella, Chiara Saraceno, La costruzione sociale del maschile e del femminile, 88.

55Connell, Masculinities.

56Tacey, Remaking Men; Victor J. Seidler, Man Enough: Embodying Masculinity (Thousand Oaks: Sage Publications, 1997); Lynne Segal, Slow Motion: Changing Masculinities, Changing Men (New York: Rutgers University Press, 1990).

57Seidler, Man Enough; Segal, Slow Motion.

58Si pensi ad esempio all’aumento delle libere professioniste, le donne inoltre svolgono in percentuale maggiore degli uomini anche lavori serali e notturni, il part-time ha contribuito notevolmente alla crescita dell’occupazione femminile. Sul versante strettamente professionale inoltre le richieste di flessibilità e mobilità contribuiscono a modificare profondamente i processi di lavoro.

59È aumentato il numero di famiglie e diminuito il numero di componenti a tal punto che ormai quelle formate da 1 o 2 persone rappresentano, nel loro insieme, la maggioranza. È in atto dunque un processo di semplificazione strutturale: sono aumentate le persone sole (hanno raggiunto ormai circa i 7 milioni), le coppie senza figli e le famiglie monogenitore, mentre sono diminuite le coppie con figli.

60Pierpaolo Donati (a cura di), Famiglia e Lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Nono Rapporto CISF sulla famiglia in Italia (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2005): 70.

61La generatività rappresenta un concetto estremamente esemplificativo delle relazioni familiari, in quanto fa riferimento alla semantica generativa come proprium della dimensione familiare e sociale, dando particolare spessore e rilevanza alla relazione, ovvero alla sua capacità di generare qualcosa di nuovo (che non si esaurisce nel figlio, ovvero nella generazione successiva), che eccede le singole individualità, progettando un futuro comune, un’azione comune.

62Giovanna Rossi, Donatella Bramanti (a cura di), La famiglia come intreccio di relazioni. La prospettiva sociologica (Milano: Vita e Pensiero, 2012).

63Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, “Sacro e tragico familiare: il caso delle omogenitorialità”, Quaderni degli Argonauti 27 (2014): 17-32; Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, “Sul paradosso dell’omogenitorialità”, Vita e Pensiero 3 (2013): 101-112.

64Marina Terragni, Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli (Milano: Vanda e-publishing, 2016).

65Franca Pizzini, Lia Lombardi (a cura di), Madre provetta. Costi, benefici e limiti della procreazione artificiale (Milano: Franco Angeli, 1994).

66Jean Claude Kaufmann, La femme seule et le prince charmant (Paris: Poket, 1999) (tr. it. C’era una volta il principe azzurro: le donne che vivono da sole ma non smettono di sognare, Milano: Mondadori, 2000).

67Pierpaolo Donati, “La società come relazione”.

68Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995.