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Ror Studies Series | La vita come relazione

L’enigma della relazione e la matrice teologica della società

Pierpaolo Donati

Università di Bologna

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Il problema dell’enigma e della sua matrice

Nell’Udienza generale del 15 aprile 2015 Papa Francesco si è domandato «se la crisi di fiducia collettiva in Dio, che ci fa tanto male, ci fa ammalare di rassegnazione all’incredulità e al cinismo, non sia connessa alla crisi dell’alleanza tra uomo e donna». Il Papa suggerisce una risposta positiva, certo. Ma come spieghiamo che la crisi dell’alleanza uomo-donna è correlata alla crisi della fiducia collettiva in Dio? Il salto è grande e, senza una spiegazione adeguata, minimamente razionale e fondata sui fatti, quella frase è bella, ma rimane un enigma.

La frase ci pone di fronte a qualcosa di nascosto, oscuro, che non riusciamo a decifrare: come possiamo (e dobbiamo) pensare le relazioni umane (in questo caso fra uomo e donna) in modo tale che richiamino le relazioni che abbiamo con Dio e viceversa? Dove sta Dio quando parliamo di relazioni umane, e viceversa? Ossia: che rapporto c’è fra la relazione con Dio e le relazioni umane-sociali?

La teologia dà una risposta tanto semplice quanto problematica: indica la via dell’amore. L’amore per Dio è correlato a quello umano (per esempio fra uomo e donna) e viceversa. Si tratta di una affermazione importante, che però, per essere illuminante, deve essere compresa, e di fatto solleva più problemi di quanti non ne risolva se la si affronta da un punto di vista esterno alla fede religiosa. Infatti, ciò di cui si parla, cioè l’amore, rimane completamente da definire1.

Per rispondere alle domande appena enunciate è necessario affrontare una questione cruciale, terribilmente difficile, che è la seguente: se, per sostenere determinate relazioni umane e sociali (per così dire, relazioni ‘orizzontali’), sia necessaria o meno una matrice teologica (cioè ricorrere a relazioni ‘verticali’, ossia trascendenti). Se no, perché. Se sì, quali caratteristiche essa debba avere. Il problema più generale è: se l’ontologia sociale delle relazioni di cui si parla (come ad esempio l’amore, in quanto relazione interpersonale e non in quanto sentimento o passione interiore) richieda una metafisica radicata nella teologia intesa non già in sé stessa e per sé stessa, ma come matrice culturale2.

In questo contributo, vorrei dire come la sociologia relazionale cerca di rispondere a questi interrogativi di fondo dai quali dipende la possibilità di correlare fra loro le relazioni umane (sociali) e le relazioni divine (soprannaturali). Tale possibilità dipende, a sua volta, dal fatto di saper vedere e gestire l’enigma della relazione, l’enigma che giace nella relazionalità come tale3.

Detto in breve, il problema è il seguente: se sia necessaria – se no perché, e se sì quale sia – una matrice simbolica che ci consenta di affrontare l’enigma della relazione in modo tale che sia possibile vedere come e perché le relazioni umane e le relazioni divine siano ontologicamente connesse fra loro (non per similitudine o metafora).

L’enigma della relazione

Inizierò a trattare l’argomento commentando alcune citazioni. La prima è di Papa Francesco quando scrive: «Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia [la stessa apertura di San Francesco d’Assisi, ndr], se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea»4. Com’è possibile che da un ‘sentire intimo’ derivi in modo spontaneo una effettiva cura della natura e dell’ambiente?

Nell’enciclica Caritas in Veritate (pr. 7), Benedetto XVI scrive: «Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel ‘noi-tutti’, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale (Gaudium et Spes, 26). Non è un bene ricercato per sé stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene». Ma che cos’è questo bene sociale che va oltre il bene individuale?

Un altro autore, San Josémaria Escrivá, scrive: «Dio vi vuole molto umani. La testa deve arrivare al cielo, ma i piedi devono poggiare saldamente per terra»5. È un invito a vivere su/con/attraverso la relazione fra l’umano e il divino. Poi aggiunge: “Non mi convince la distinzione tra virtù personali e virtù sociali” perché «le virtù sono fondamentalmente personali, della persona» (ibidem). E tuttavia aggiunge che la solidarietà e l’amore sono virtù che non si perseguono da soli, perché «in qualche modo ci aiutiamo o ci danneggiamo a vicenda». Dunque, invita a riflettere sul senso del “sociale”. In un altro scritto afferma: «La libertà cristiana nasce dall’intimo, dal cuore, dalla fede; non è però una cosa meramente individuale. Essa ha delle manifestazioni esterne, una delle quali – fra le più caratteristiche nella vita dei primi cristiani – è la fraternità»6. Ci si domanda allora: che relazione c’è fra la virtù personale e quella sociale?

Prese alla lettera, queste citazioni indicano che determinate intenzioni e sentimenti intimi delle persone generano determinate relazioni (di cura, benevolenza, fraternità, ecc.). In breve, se le persone si sentono unite, esse realizzano la solidarietà umana e, per quanto riguarda i cristiani, la comunione dei santi. Questa prospettiva ha certamente molti aspetti di verità, ma richiede di essere illuminata e integrata da nuove considerazioni, che non sono per nulla scontate. Infatti richiedono una matrice culturale che il pensiero personalista non ha sviluppato e che la cultura oggi prevalente osteggia apertamente.

Nelle citazioni che ho riportato (ma tante altre se ne potrebbero fare in merito alla cosiddetta prospettiva ‘personalista’) troviamo una visione delle cose che, ad una considerazione di primo ordine7, sembra indicare che la vita interiore delle persone, la loro unione intima con Dio e con il creato, si riflettono spontaneamente e necessariamente nel sociale. Questa causalità è invece del tutto problematica, e lo diventa sempre di più per via delle mediazioni che una società complessa come quella iper-modernizzata – tecnologica e globalizzata – pone fra la vita interiore e la realtà esterna.

La coscienza della persona, la sua volontà e intenzionalità, i suoi stati d’animo possono generare o non generare relazioni sociali, possono riflettersi in tanti modi nelle relazioni, e con esiti molto diversi (vari tipi di beni e mali relazionali). L’idea secondo cui, se le persone cercano il bene e nutrono buoni sentimenti (sono rispettose della natura, solidali e fraterne), allora anche la società sarà ‘buona’ (a good society), è un’idea ingenua che può portare a grandi delusioni, frustrazioni, fallimenti. Il punto è che le virtù necessarie per produrre un certo bene non sono solamente quelle delle persone come tali, ma anche quelle delle loro relazioni. Gli atteggiamenti interiori degli individui sono necessari, ma non sufficienti a generare un ‘terzo’ (la relazione) che rifletta gli atteggiamenti, disposizioni, aspirazioni delle persone. Occorre vedere e agire le virtù delle loro relazioni.

Il difetto del realismo ingenuo è quello di intendere la relazione sociale con gli altri e con il mondo come una “manifestazione” che – sic et simpliciter – consegue alle qualità inerenti alla persona umana e alla sua intimità. Questa visione non ignora certamente le virtù prosociali, come la misericordia e la magnanimità, che sono “la forza che ci fa uscire da noi stessi, permettendoci di intraprendere opere grandi, a beneficio di tutti”8. Tuttavia intraprendere un’opera sulla base di impulsi interiori non significa che ne consegua un certo risultato. Si pone la domanda: se è vero che le virtù personali spronano ad una certa azione, chi o che cosa assicura che si realizzi l’obiettivo intenzionato? In altre parole: le relazioni umane-sociali sono semplicemente espressione dei vissuti, della coscienza, della conversazione interiore delle persone? O ancora delle virtù sociali inerenti alla natura umana9? Occorre fare degli approfondimenti e delle precisazioni. A mio avviso, nel rispondere a queste domande (che sono gli enigmi a cui ci pone di fronte l’oracolo che è la realtà) si devono affrontare delle sfide nella cui soluzione giace il cammino che può portare ad un possibile neo-umanesimo aperto alla trascendenza.

L’idea che le relazioni conseguano necessariamente alla coscienza soggettiva corrisponde a quella che io chiamo una concezione ingenua, “in-mediatamente” umana del sociale (cioè non mediata da ciò che “sta fra” gli esseri umani), secondo la quale le relazioni sociali e i loro effetti sono una sorta di “prolungamento” o risultato dei sentimenti (buoni o cattivi), delle virtù (o dei vizi), dell’intimità (o della estraneazione) delle persone.

Dal punto di vista sociologico, questa derivazione (induzione) è problematica, se intesa sic et simpliciter. La sobrietà e la cura del creato, la fraternità e le altre virtù sociali, infatti, sono oggi in crisi proprio perché non è più sufficiente che la persona le voglia intenzionalmente, sia essa una persona singola oppure una “persona morale” nel senso tomista del termine10, cioè come associazione di persone.

C’è qualcosa che sta “nel mezzo” fra le virtù dei singoli individui a cui si deve prestare una nuova attenzione. Le virtù sociali, infatti, si riferiscono a relazioni sociali11. Non scaturiscono in modo immediato e spontaneo dall’intimità delle persone, perché, tra la vita interiore delle persone e la realtà sociale, emergono, e vanno sempre più moltiplicandosi, delle mediazioni (fatte di relazioni) che rendono l’immediatezza e la spontaneità degli esiti sociali del tutto incerte e improbabili. Del resto, a ben vedere, di questo parla la dottrina sociale della Chiesa, la quale riguarda la bontà (o meno) delle relazioni sociali, al di là delle intenzioni soggettive dei singoli12.

La visione umanistica che fa dipendere la realtà sociale dalla retta coscienza e dalla buona volontà delle persone poteva forse avere un riscontro effettivo in certe società del passato, e in astratto potrebbe ancora avere una qualche validità in certi piccoli gruppi sociali in cui fra l’interiorità della persona e le sue relazioni esterne c’è un rapporto di causalità molto stretta. Come accade in una famiglia qualora ci siano relazioni vitali fra i suoi membri, e sempre a condizione che le relazioni famigliari riescano a controllare in modo efficace i loro confini con l’ambiente esterno, generalmente complesso e turbolento. In linea generale, comunque, in una società aperta il rapporto causale fra la soggettività individuale e la forma delle relazioni sociali che essa può generare diventa sempre più lasco e imprevedibile. Il caso della famiglia che vive in un ambiente caotico come quello delle ICT è emblematico delle difficoltà che le persone hanno di mantenere saldi i confini e l’identità delle loro relazioni famigliari13.

Nel nuovo ambiente globalizzato, affinché si possa generare una certa relazione sociale dotata di certe qualità e proprietà causali (per esempio una relazione di vera e propria famiglia), non è solamente necessaria una certa disposizione e agency degli individui, ma diventa altrettanto necessaria un’altra condizione: ossia, che le persone “vedano” il bene specifico di quella relazione, che non è la stessa cosa dei sentimenti e delle virtù individuali, e perseguano quella relazione come “bene in sé”, a cui dedicare una cura particolare. In mancanza di questa condizione, l’agire individuale, anche il più virtuoso e meglio intenzionato, può generare – seppure non intenzionalmente – un male relazionale anziché un bene relazionale. La vita quotidiana è piena di casi in cui persone in sé stesse buone e “vicine” fra di loro generano relazioni conflittuali e negative. Non di rado, due genitori “quasi perfetti” debbono constatare di avere dei figli che non solo non hanno le virtù dei genitori, ma manifestano comportamenti patologici e/o devianti, per esempio si drogano, commettono atti violenti o di bullismo, e così via. Che cosa non ha funzionato? Ciò che non ha “funzionato” (uso questo termine solo per semplicità di comprensione) è stata la relazione fra i genitori, i quali, pur essendo individualmente brave persone, non hanno visto né curato le loro relazioni come un bene in sé che ha influenze decisive sulle persone intorno, che essi ne siano coscienti oppure no.

Il fatto è che la relazione ha una sua realtà, che è emergente, e non deriva automaticamente dalle disposizioni degli individui in relazione. Questo, e non altro, dice la sociologia relazionale. Da questo punto di vista, la relazione appare come un enigma.

Come possiamo affrontare l’enigma?

L’enigma può essere semplicemente espresso con questa domanda: perché dobbiamo vivere con gli altri? Perché per realizzare ciò che amiamo e desideriamo dobbiamo passare attraverso gli altri che incontriamo sulla nostra strada? Perché l’essere umano non può vivere la sua vita per sé stesso e in sé stesso, senza dover rapportarsi agli altri?

Quando abbiamo un impatto duro con il mondo, è allora che avvertiamo in modo sensibile lo spazio che c’è “in mezzo” tra noi e la realtà che ci circonda. Se andiamo a sbattere contro una situazione difficile, ci rendiamo conto che, prima di quell’impatto, c’era una distanza che ci teneva lontani da quella situazione, e non ci faceva pensare alle sue conseguenze. Capita quando veniamo a sapere di un figlio che assume droga, quando veniamo a sapere che un amico si è suicidato, quando capita un incidente grave ad una persona amata, quando incontriamo qualcuno che vive sulla strada perché è in povertà assoluta, quando un evento catastrofico sconvolge la nostra vita ordinaria. Solo allora ci rendiamo conto, perché percepiamo in modo immediato, “sentiamo” in modo drammatico, che esiste una cosa come “la relazione” con questa realtà alla quale non abbiamo prestato abbastanza attenzione.

Se capita che una persona, magari un amico, ci faccia un torto (ossia, il nostro Io sbatte contro un muro), ci rendiamo conto che – al di là del comportamento dell’Altro – c’è in gioco qualcos’altro: è “ciò che sta fra di noi”. Questo qualcosa dipende certamente da come ci comportiamo noi stessi e da come si comportano gli altri, ma chiede di essere considerato a parte, in sé e per sé, perché esiste e va oltre le nostre intenzioni. È una realtà che chiede attenzione in sé stessa e per sé stessa. Infatti, quando ci chiediamo “che cosa debbo fare?”, in realtà stiamo dicendo a noi stessi “devo continuare a stare in questa relazione o debbo uscirne?”, “cosa debbo fare di questa relazione?”, “se debbo cambiarla, cosa debbo fare?”, “come trattare questo spazio-tempo fra me e l’altro?”. Reagiamo agli individui e alle situazioni come entità singole, ma il gioco è sulle relazioni, anche se ciò avviene il più delle volte in modo inconsapevole.

La modernità occidentale ha esaltato il Soggetto (l’Io) a scapito delle sue relazioni. Ha pensato di poter forgiare le relazioni sociali a suo piacimento. Anche quando ha pensato e pensa in termini sistemici, “il sistema” è inteso come strumento di liberazione dell’individuo, del Soggetto individuale o collettivo. Si è rifiutata di rispondere a quello che io chiamo l’enigma della relazione14, che consiste nel dover comprendere se e come si possa trovare una convergenza fra posizioni opposte o comunque se e come comporre i differenti, specie quando le differenze sembrano incompatibili e insormontabili. Quando la modernità ha cercato di dare una risposta, ha creato nuovi problemi, vuoi perché la risposta è stata quella del conflitto, della divisione, dello scontro, o di contratti stipulati e poi traditi, vuoi perché ha perseguito giochi strategici che sono finiti male.

Da Schelling e Hegel in poi, molti sono stati i tentativi di pensare le differenze all’interno del Logos. Tralasciando innumerevoli autori del Novecento (in particolare Foucault e Deleuze), è sufficiente citare J. Derrida (che vede la différence come ambiguità)15 e J. Lyotard (che propone di trattare les différends qui nous opposent attraverso un relazionismo radicale)16. Il punto è che, in tutta la filosofia e la cultura che parte dall’idealismo dei secoli XVIII e XIX e arriva ai nostri giorni, è del tutto mancata una riflessione sulla matrice relazionale della società, o meglio questa matrice è stata trattata in maniera distorta e fuorviante.

Alla fine, la modernità ha rimosso la realtà – cioè lo spazio-tempo proprio – delle relazioni sociali, per creare un numero indefinito di relazioni, tutte virtuali, tutte possibili altrimenti, così da poter giocare con esse. Strategie fatali, come dice Jean Baudrillard? Dinamica funzionalista, come dice Luhmann? La spiegazione di Luhmann, non a caso, si rifà al mito greco, cioè ad un pensiero pre-cristiano. La soluzione dell’enigma della relazione viene rappresentata da Perseo, il quale è riuscito a sopravvivere perché ha adottato una precisa strategia relazionale, consistente nell’evitare lo sguardo mortale delle Gorgoni mediante un continuo cambiamento della propria posizione, in modo da non incrociare mai lo sguardo della Gorgone. Luhmann la chiama “eurialistica”17. Non a caso la cultura oggi prevalente raccomanda proprio questo modo di vita come soluzione dell’enigma della relazione: si tratta di quel modo di relazionarsi agli altri che consiste nel ritenere che non si possa e non si debba avere alcuna certezza di fronte ai problemi. Si sostiene che non si possa e non si debba parlare di “verità”, perché le risposte ai problemi sono tutte provvisorie, indeterminate, incerte, relative ad un momento e ad un punto di vista particolare. La soluzione dei problemi, allora, viene trovata nell’evitare i problemi, nella capacità di scansarli, in attesa che i problemi (gli enigmi) si dissolvano da soli. Di conseguenza, i nostri modi di vita vanno incontro ad una crisi sempre più radicale, fatta di vuoti esistenziali e solitudini, perché non siamo capaci di affrontare e rispondere all’enigma delle relazioni.

E allora ci chiediamo: com’è possibile affrontare l’enigma delle relazioni? La risposta che propongo è: attraverso una matrice culturale, che ha un fondamento ontologico e teologico in re, la quale permetta di uscire dalle ambiguità e dal relazionismo senza via di uscita che ci vengono proposti dalle matrici culturali oggi prevalenti.

Se da una parte constatiamo che la modernità continua il suo cammino di erosione delle relazioni umane, dall’altra vediamo sempre riemergere il bisogno di nuove forme di sociabilità, in cui si possa vivere con fiducia, collaborazione, reciprocità fra le persone. Qualcuno dirà che si tratta di fantasie, di sogni, di utopie prive di speranza e di senso. Ma le cose non stanno esattamente così. In una prospettiva di realismo critico e relazionale, si tratta invece di esigenze che sorgono dai mondi vitali della gente, o almeno di coloro che non si lasciano affascinare dal mondo del cosiddetto post-umano, trans-umano, del cyborg, in concreto del mondo delle tecnologie – in particolare le ICT – che sostituiscono le concrete relazioni inter-umane con relazioni digitali e virtuali nelle quali si perdono le qualità dell’umano. Non si tratta di ri/lanciare una qualche utopia astratta (altra cosa è l’utopia concreta), ma di leggere i segni di nuove dinamiche storiche che riportano la relazione sociale concreta al centro dell’epoca in cui stiamo entrando.

La relazione diventa la soluzione anziché il problema. Possiamo apprendere qualcosa dal relazionismo dei post-moderni che, in un certo senso, ci porta a vedere il senso vero della matrice teologica che realizza l’umano anziché alienarlo in un evoluzionismo privo di finalismo. Se è vero che le relazioni sociali ci pongono degli enigmi e che gli enigmi contengono paradossi, alcuni risolvibili e altri irrisolvibili, allora dobbiamo apprendere a gestire i paradossi. I paradossi irrisolvibili possono essere affrontati non soltanto accettando il relativismo assoluto per il quale basta cambiare continuamente e all’infinito il punto di vista per riuscire ad evitare i problemi, ma anche in altri modi. Per esempio adottando strategie “contro-paradossali”18. Quando siamo presi in un double bind, la risposta contro-paradossale consiste innanzitutto nell’assumere un atteggiamento di compassione verso il doppio legame che ci opprime, e poi nel separare i due legami che si contraddicono fra di loro ridefinendoli come relazioni ad un altro termine e quindi modificando completamente la loro relazione iniziale.

Per esempio, è facile constatare che la cultura odierna ci impone come imperativo morale “devi essere libero”, “devi essere te stesso liberandoti da ogni vincolo”, “non devi dipendere altro che da te stesso”. Questa prescrizione costituisce un double bind perché ci ingiunge un modo di agire che è preso in una trappola da cui non si può uscire: infatti, se ci comportiamo liberamente (con totale spontaneità), in realtà stiamo obbedendo al precetto, e se, viceversa, adempiamo il precetto (ci comportiamo per dovere), non siamo liberi. Si tratta allora innanzitutto di sorridere di questa ingiunzione, e poi di ridefinire la libertà come scelta da chi dipendere anziché negare ogni dipendenza come invece comanda il codice semantico della tarda modernità secondo cui l’identità di Ego sta nel negare tutto ciò che è diverso da Ego [A = non (non-A)] (mi riferisco qui al codice binario di Luhmann, e non a Hegel). Infatti, non esiste un individuo umano che non dipenda da altri esseri umani e ovviamente dalle tante relazioni con essi. Una pura dipendenza dal proprio Io si chiama narcisismo, che porta all’auto-consumazione. Di conseguenza, l’obbligo morale viene ridefinito come autenticità delle scelte di dipendenza che facciamo, e come accettazione delle relative conseguenze. Il nostro agire è libero in quanto consiste nelle scelte di relazioni significative con il mondo.

Per spiegare questo punto, confrontiamo due modi di esprimersi che, formalmente si equivalgono, ma in realtà rimandano a due codici semantici assai diversi. La prima frase è “stare su facebook non significa non essere liberi” e la seconda è “stare su facebook significa essere liberi”. Formalmente sono due affermazioni che si equivalgono, perché due negazioni fanno una affermazione. Dal punto di vista sostanziale, invece, si tratta di due mondi simbolici completamente diversi. Se dico “stare su facebook significa essere liberi”, faccio una affermazione del tipo “A (stare su facebook) = (significa) A (essere liberi)”. Vi è una indicazione positiva senza riserve. Se dico “stare su facebook non significa non essere liberi”, faccio una affermazione del tipo “A (stare su facebook) = non (non significa) non-A (non essere liberi)”, laddove la doppia negazione implica l’affermare che stare su facebook “possa” significare anche l’essere liberi, ma non necessariamente e comunque lasciando indeterminata la libertà di cui si parla. La seconda equazione rimanda ad un mondo di varie possibilità, fra cui anche quella di essere liberi, ma solo come una delle tante possibilità (che, come direbbe Luhmann, è improbabile). La via relazionale suggerisce allora un’altra espressione: “stare su facebook significa una certa relazione alla libertà” [A = relazione fra A e non-A]. In questo caso, la frase invita ad esaminare quale tipo di relazione (sue qualità e poteri causali) abbia con la libertà colui che sta su facebook. Invita il soggetto ad un agire riflessivo (riflessività relazionale)19 che le altre due espressioni non richiedono, perché sono semplicemente affermazioni assertive di presenza oppure di mancanza di assenza di libertà. Di più, implica che si dia alla libertà un’accezione relazionale e positiva, ossia la libertà come “relazione a”, anziché come assenza di vincoli.

Si tratta di esplorare un nuovo orizzonte, quello di una cultura delle relazioni interumane che sia capace di generare forme di vita sociale tali da mettere le persone in condizioni di sapere e potere rispondere creativamente agli inevitabili enigmi del vivere insieme.

Per affrontare l’enigma dobbiamo rispondere ad alcuni indovinelli.

Che cosa è quella realtà per cui una persona è qualcuno (e non “qualcosa”)20 per un’altra persona, ma non in quanto individuo? Per esempio, nel linguaggio di ogni giorno noi diciamo: questa persona è mia madre oppure mio padre, mio fratello oppure sorella, mio amico, mio collega di lavoro, mio vicino di casa, un socio della mia associazione, una persona che incontro al bar o ai giardini, e così via, riferendoci ad un significato che non riguarda le qualità individuali di quella persona. Che cosa è quella realtà per cui una certa persona è significativa per me, ma non per le sue qualità individuali?

È, appunto, l’enigma contenuto in ciascuna relazione, anche quella con i genitori o con i figli, con i colleghi di lavoro, con le persone che frequentiamo o conosciamo da vicino, le quali sono significative per me non solo per le qualità delle singole persone, ma anche – e in maniera distinta – per il genere di relazione che hanno per me. Sono le qualità e le proprietà causali delle relazioni con quelle persone che le rendono significative per me, a prescindere da come sento e giudico le loro qualità personali. L’enigma allude a qualcosa di difficile comprensione, ad una realtà che non vediamo a occhio nudo, ma esiste. Siamo figli di due genitori al di là di come sono le qualità personali dei nostri genitori. Lavoriamo con Tizio e abitiamo vicino a Caio, i quali sono significativi per noi, al di là del fatto che ci siano più o meno simpatici, per le relazioni di lavoro e di vicinato. Ma chi le vede queste relazioni? Tanto più che queste relazioni non appartengono né a me, né a questi altri.

Che cosa è quella realtà che appartiene a due o più persone, e solo a loro, ma non appartiene a nessuna di esse considerate separatamente? Di quale realtà stiamo parlando?

L’enigma a cui si riferiscono queste domande fa riferimento ad una socialità sui generis che è unica e irripetibile per gli esseri umani rispetto a tutti gli altri esseri viventi21. Non può essere assimilata a quella degli animali e delle piante come alcuni ritengono22. Questa realtà si dà a prescindere dalla maggiore o minore consapevolezza che le persone ne possono avere, e su cui in ogni caso esse esercitano una certa riflessività, che però può anche essere fratturata o impedita23.

Una persona è qualcosa per un’altra persona a prescindere dalle sue qualità individuali per il fatto che c’è un legame oggettivo che le accomuna. Esiste una realtà che appartiene a due persone, e solo a loro, senza essere proprietà di nessuna di esse. È la relazione che sta “fra” di esse. Le unisce, ma fino ad un certo punto, perché esse sono pur sempre diverse, e quindi le accomuna solo per qualcosa che non è individuale, e che però viene all’esistenza solo con l’agire dell’individuo. La relazione, infatti, unisce e tiene distinte le persone nello stesso tempo. Anzi, proprio in quanto relazione, rispetta e promuove le loro differenze. Questa realtà dipende dagli individui, perché sono essi che la accettano o meno, e la agiscono o meno. Ma non può essere compresa come un atto o un fatto degli individui. L’enigma della relazione sociale umana sta appunto in questo: essa è fatta “dalle” persone, ma non è fatta “di” persone.

Il bambino che nasce è un individuo, ma la sua esistenza viene da una relazione fra chi l’ha generato. Questa relazione generativa non può essere compresa come un fatto o un atto di due o più individui (o più individui nel caso dell’uso di tecniche artificiali), perché è la loro relazione che ha generato il figlio, non la somma dei singoli atti individuali che sono stati necessari come cause del concepimento. L’enigma sta proprio in questa differenza (lo “scarto”) fra il contributo dei singoli e l’effetto emergente. I singoli credono di generare il fatto emergente, ma non è così. È lì dove si annida l’enigma. I lavoratori di un’azienda credono di fare l’azienda, i membri di una famiglia credono che sono essi a fare la loro famiglia, i soci di una associazione credono di essere loro a fare l’associazione, i membri di una social street pensano che quest’ultima sia un loro prodotto, ma non è così. In questo “terzo” che sta fra gli individui e i fatti che essi generano si trova l’enigma della relazione.

La realtà delle relazioni con gli altri ci interroga e ci rende inquieti perché sappiamo che la relazione va per conto proprio, non obbedisce alle intenzioni individuali. Noi ci interroghiamo sul perché accadono certe cose nel contesto sociale in cui viviamo, e le imputiamo spesso agli individui, e altre volte alle strutture. Ma le strutture non agiscono da sole, mentre gli individui si rendono conto che i fenomeni sociali vanno ben oltre le loro intenzioni. Ciò che accade si presenta come un rebus. Prendiamo ad esempio i movimenti sociali come i movimenti anti-global o le cosiddette “primavere arabe”. I movimenti di questo tipo sono prodotti da masse di individui che sembrano essere concordi nelle intenzioni e negli obiettivi, ma in tutti i casi storici ciò che è emerso non ha mai corrisposto a queste intenzioni e obiettivi, se non nella loro dimensione conflittuale e in ultima analisi distruttiva.

Il fatto è che la relazione sociale attua il suo effetto su Ego e Alter come effetto di rete. L’interdipendenza non è una mera transazione, ma un effetto emergente che ‘opera’ sulla rete e sui suoi membri. Dunque esercita i poteri causali di una struttura (il terzo) che ha una sua realtà con qualità proprie. Esiste quindi una dipendenza di Ego e Alter dalla relazione (struttura emergente) che richiede da parte di Ego e Alter l’accettazione di questa mediazione attraverso un atto di donazione in termini di riconoscimento, fiducia e affidamento dell’uno verso l’altro che passa attraverso il bene della relazione. Per questa ragione, la relazione si trasforma mentre si attua (può aumentare o diminuire il bene o il male relazionale che contiene), e attuando sé stessa trasforma l’identità dei soggetti che stanno in relazione per un loro maggior bene o un maggior male. Se siamo in presenza di una rete di N membri, e quanto più il numero N è grande, questi atti di donazione di riconoscimento e fiducia diventano problematici, come le ricerche empiriche sulle associazioni volontarie dimostrano24.

Come rispondere all’enigma?

Mettersi “in relazione”, mettersi in una relazione determinata con altre persone, è sempre un problema. Spesso vediamo che c’è il rifiuto di relazionarsi agli altri. Questo è il cruccio della sociologia relazionale, è il suo “buco nero”, perché quando la relazione viene rifiutata, l’enigma appare in tutta la sua forza negativa di annichilimento, e non si sa davvero che cosa fare. La relazione diventa un punto (spazio-tempo) in cui tutto si annulla. Per quanto ci si sforzi di fare qualcosa per attivarla, non ne esce nulla. Pensiamo alla relazione con una persona autistica, oppure con il tossicodipendente cronico o con lo schizofrenico grave, e più in generale con chi ha una riflessività impedita o fratturata. Non c’è modo di instaurare con questa persona una relazione significativa che riesca ad attivare una forma vitale di relazionamento al mondo. Ma spesso il rifiuto della relazione lo constatiamo nei comportamenti della vita ordinaria, quando siamo tutti centrati su noi stessi e non vediamo l’Altro, oppure lo vediamo e lo scansiamo, o ci rifiutiamo di entrare in relazione con lui semplicemente perché, per qualche motivo, non ci interessa.

Pensare coscientemente e attivamente come mettersi in relazione è il problema dei problemi della vita umana. Lo è perché l’atteggiamento istintivo, primario, è vedere le cose nella propria mente e considerarle e valutarle dal punto di vista della propria mente, cioè del sistema di osservazione che ha l’Io/Self. La ragione per cui è difficile mettersi in una relazione determinata, riflettere sulla relazione e sulle sue ragioni come ragioni differenti da quelle dell”Io, ossia assumere il punto di vista della relazione, sta nel fatto che la relazione è enigmatica, e noi ci fidiamo solo di noi stessi. L’Io non accetta facilmente di abbandonarsi alla relazione, perché ha paura di perdersi, e segue una specie di istinto di conservazione. Anche l’oikéiosis (il vivere “conformemente a natura” secondo un principio di auto-conservazione, teorizzato da epicurei e stoici) non porta a nulla.

Attenzione: in realtà, l’Io percepisce la relazione in modo immediato, la “sente” senza mediazioni. Se vedo Davide ed Elena che passeggiano affettuosamente assieme, non penso forse che sono una coppia? Se vedo un uomo, una donna e un bambino andare a spasso assieme, non penso forse che quelle tre persone sono una famiglia? Quando sorge uno screzio con un figlio, un amico, un compagno di vita, non diciamo forse a noi stessi: che ne sarà della mia relazione con quel mio figlio, con quell’amico, con il/la compagno/a della mia vita se continuiamo a litigare? Ma il più delle volte l’Io percepisce la relazione in modo irriflessivo, senza una adeguata riflessività.

Mettersi riflessivamente in relazione è problematico perché questa azione solleva degli enigmi. Sono gli enigmi contenuti in quella relazione, nei quali si gioca il problema esistenziale del soggetto che deve agire. Il fatto è che, proprio perché scegliere di vivere secondo una determinata relazione è spesso duro, difficile, costa rinunce, doloroso. Per questo gli uomini girovagano nel mondo lasciandosi spesso trascinare dalle relazioni anziché guidarle con fermezza verso il loro compimento.

La risposta che diamo (o non diamo) all’enigma della relazione è la chiave della felicità o infelicità umana. La mia tesi sostiene che la soluzione dell’enigma va trovata nella relazione stessa, nell’entrare dentro la relazionalità umana, nello scoprire “l’essere della relazione”. Questa espressione (l’essere della relazione) significa due cose: si riferisce sia all’essere che è nella relazione, sia al fatto che stare in quella relazione ci fa esistere in un certo modo, e non in un altro25. Può avvenire, anzi spesso accade, che la relazione sia usata in modo strumentale, ma in ogni caso in essa chi le agisce vi trova dei valori. Belli o brutti, buoni o cattivi, questo dipende dalle scelte individuali e dalle circostanze. In ogni caso, la relazione porta con sé quegli enigmi fondamentali che rendono problematica, e non di rado drammatica o addirittura tragica, la nostra vita. Nello stesso tempo, però, se vissuta riflessivamente, la relazione offre delle risposte. A volte sono chiare, come capita nell’attrazione del carisma, a volte invece sono nebulose e incerte, come certe profezie, ma che comunque tracciano un cammino nel quale vediamo delle promesse.

Nella relazione sociale, in quanto essa è e può essere solo umana, si trova infatti il segreto della nostra origine e del nostro destino. Lo è per tutti gli esseri viventi, ma in maniera del tutto peculiare per la persona umana. La risposta agli enigmi (da dove veniamo e dove andiamo, quali siano le ragioni per cui viviamo, in definitiva il senso del nostro destino) è scritta nelle nostre relazioni, che però non riusciamo a vedere, perché sono invisibili e immateriali. Per vederle – anche in sociologia – occorre assumere un punto di vista adeguato, che è ontologico e implica una osservazione che trascende ciò che è visibile e materiale26. Il che non vieta che si possa cercare di fare una ponderazione (se non proprio ‘misurare’) queste realtà27.

L’ontologia della relazione

Occorre una nuova ontologia della relazione se dobbiamo trovare la strada da percorrere per dare un senso all’enigma che la cultura occidentale porta con sé fin dalle sue origini greche. Ma la strada è segnata da molti ostacoli.

Il primo ostacolo è la tentazione di dire che ogni cosa esiste solo come relazione, che non esiste alcuna “sostanza”, nulla che abbia una consistenza in sé e per sé, nulla che non si risolva nella sola relazione28. Questa posizione è quella dei relazionisti per i quali le relazioni sociali non sono nient’altro che transazioni che avvengono nelle diverse situazioni sociali. Essi pensano le relazioni in maniera del tutto pragmatica e relativistica. Trattano le relazioni come un continuo e indeterminato rimando all’infinito (un eschaton). Una frase di Richard Rorty lo chiarisce molto bene, quando egli afferma: «Everything that can serve as a term of relation can be dissolved into another set of relations, and so on forever. There are, so to speak, relations all the way down, all the way up, and all the way out in every direction; you never reach something which is not just one more nexus of relations»29.

Le cose stanno proprio così? Penso di no. La relazione non annulla le sostanze, ma le forgia nel tempo sociale, cosicché dobbiamo sempre leggere la realtà come costituita da sostanza e relazione come co-principi dell’essere30.

Per l’approccio relazionale, i termini della relazione non possono essere dissolti in altri insiemi di relazioni a motivo della realtà della loro relazione, che è una struttura con proprietà emergenti e poteri causali propri. Ciò è stato illustrato nel chiarire chi sia il “soggetto relazionale” e come si formi e agisca31.

Rimane sempre aperta la questione di quale ontologia sociale abbiamo bisogno per poter fare questa lettura della realtà, e se tale ontologia abbia o meno bisogno di una matrice trascendente. Troviamo qui due posizioni opposte.

Da un lato c’è chi ritiene che la relazionalità si costituisca e sia leggibile senza alcun bisogno né di una ontologia realista, né di una matrice teologica trascendente. In questa linea si colloca, Niklas Luhmann, il quale non parla della relazione come scambio e interdipendenza, ma come chiusura operazionale e contemporaneamente come apertura cognitiva di ogni sistema. Ciò che lo accomuna ai relazionisti è l’uso di una formula olistica di totale immanenza dei processi sociali, secondo cui l’emergenza relazionale esclude il riferimento ad una realtà trascendente32. Luhmann afferma: «Il sistema (sociale) si forma, etsi non daretur Deus». Per lui, il sistema – che è relazione emergente, che si autocostituisce ovvero è autopoietico33 – prende forma anche se Dio non fosse dato34. Seguendo questa teoria, dobbiamo ritenere che, per esempio, la famiglia – come struttura relazionale specifica – si forma da sé senza che sia necessaria una spiegazione che faccia riferimento ad un qualche principio trascendente.

Di diverso avviso è Tommaso d’Aquino, per il quale la relazione – come entità ontologica (in quanto è) – ha la sua ragion d’essere nella realtà trascendente. Com’è noto, secondo Tommaso, non solo Dio è relazione in sé, ma vive di relazionalità, interna ed esterna. Egli afferma: «In Deo abstracta relatione nihil manet» [«In Dio, se facciamo astrazione dalle relazione, non rimane nulla»: Sent. I, 26, 2). Di qui la conseguenza. Poiché la creazione è opera di Dio, la creazione è tutta relazionale. E lo è in maniera continua nel tempo, non limitata ad una origine iniziale. Il che significa che nulla viene all’esistenza se non attraverso/per/con la relazione che ha in sé un principio di trascendenza. Da questo punto di vista, la realtà propria (ontologia sociale realista) della relazione va riferita all’essere stesso del “Dio che crea”, e dunque, per comprenderla correttamente, essa va riferita ad una matrice trascendente. Per esempio, la realtà della famiglia come relazione sociale sui generis – a prescindere dalle diverse forme storiche contingenti che la famiglia può assumere – è pienamente comprensibile nel suo “essere” solo alla luce della creazione divina.

In queste due prospettive, tomista e luhmanniana, apparentemente opposte, c’è l’enigma della relazione che è arrivato sino a noi nel corso della storia. L’indovinello da sciogliere è questo: la relazione sociale nel mondo si autogenera (come dice Luhmann) oppure dipende da una formula di trascendenza (come dice Tommaso d’Aquino)?

La risposta non è semplice. In certo modo, si sarebbe tentati di affermare che entrambe le cose sono vere, ma ovviamente non sullo stesso piano. Se ci poniamo di fronte al confronto fra queste due posizioni (chi sostiene che la relazione sociale si forma anche se Dio non esistesse e chi sostiene invece che, se Dio non è dato, la relazione – ontologicamente parlando – non viene all’esistenza), e ci chiediamo: chi ha ragione?, potremmo rispondere che hanno ragione entrambi, però da punti di vista totalmente diversi.

I primi (i “luhmanniani”) hanno ragione nel senso che è pur vero che le relazioni si formano “naturalmente” (per operazioni inerenti le stesse relazioni contingenti), e tuttavia, da un punto di vista critico, non è per nulla assicurato che si tratti di relazioni positive e umanizzanti, anzi è assai probabile che accada il contrario. Per Luhmann, infatti, la relazione è bensì un fenomeno emergente, ma del tutto contingente e privo di distinzioni radicate in valori morali inerenti alla relazioni stesse. Gli altri (coloro che si rifanno ad una matrice teologica) hanno ragione nell’osservare che una dinamica emergenziale radicata nel trascendente porta a generare dei beni relazionali che l’altra via puramente immanente non riesce a generare. Lo si può dimostrare anche sul piano empirico, benché ovviamente ogni determinismo sia sempre escluso, dato che l’agire umano può facilmente portare a generare dei mali anziché dei beni relazionali. Ciò è evidente, ad esempio, nelle forme di vita famigliare.

Propongo di adottare questa prospettiva di conciliazione fra le due prospettive come una tesi sociologica da verificare. In breve, la tesi da dimostrare diventa che la relazione sociale abbia una sua dinamica autonoma sul piano delle cause “seconde” in senso sociologico (intese come le cause empiriche contingenti che si dispiegano nello spazio-tempo, ossia nel contesto storico situato, da parte di agenti/attori e strutture sociali), ma non abbia una dinamica assoluta sul piano delle cause “prime” in senso sociologico (intese come cause che ineriscono alle potenzialità ontologiche di un ente nel suo venire all’emergenza come realtà sui generis)35. Per questo motivo dobbiamo mettere alla prova l’idea che la relazione vitale, quella che genera beni e non mali relazionali, che è umana e sociale insieme (essendo l’umano e il sociale a loro volta in relazione), non possa avere la sua identità (cioè essere relazione sui generis) se non a certe condizioni, che sono quelle del suo poter essere (nel senso di ex-sistere) “stando fuori” dei termini che collega, con qualità e poteri causali propri.

Secondo la teoria sociologica dei sistemi (Luhmann), queste condizioni dipendono da come la relazione si costituisce in rapporto a ciò che la circonda, cioè il suo ambiente, per ridurre un eccesso di contingenze che possono mettere in crisi il sistema. La relazione è pertanto ridotta a comunicazione e solo a comunicazione, il che dissolve ogni sostanza, inclusa la struttura sui generis (la “natura sostanziale”) delle concrete relazioni sociali. Dal punto di vista del paradigma relazionale, è invece importante considerare il livello ontologico (l’ontologia sociale) delle condizioni che fanno esistere la relazione. Queste condizioni dipendono dalla natura dell’essere che è nella relazione36. Lì si trova l’enigma della relazione umanizzante, che Luhmann ritiene impossibile da sciogliere, perché per lui non ha senso parlare di umanizzazione del sistema sociale, e l’enigma è fonte solamente di paradossi quotidiani.

Al contrario della teoria sistemica luhmanniana, la sociologia relazionale risponde che, per vedere la soluzione dell’enigma, occorre una ontologia sociale adeguata, che sorregga una epistemologia sociologica rispettosa della realtà. La sociologia relazionale propone una ontologia e una epistemologia ispirate al realismo critico, analitico e relazionale secondo il quale la relazione ha una struttura in sé la quale si forma, proprio in quanto realtà relazionale, dalla relazione con altro da sé. La relazione dipende dagli elementi che vi apportano i soggetti coinvolti, e tuttavia non è una semplice aggregazione o transazione fra questi elementi, perché gli elementi vengono combinati in una struttura da una relazionalità che li eccede.

Facciamo un esempio. Le proprietà e i poteri causali dell’acqua (H2O) giacciono nella struttura relazionale della molecola dell’acqua (e non sono la somma delle proprietà e poteri di idrogeno e ossigeno). Per analogia, le proprietà e i poteri causali propri del soggetto relazionale (per esempio una coppia o una famiglia) giacciono nella struttura relazionale che connette gli agenti. Ovviamente, a differenza del mondo fisico, in quello sociale la struttura relazionale che connette gli agenti dipende dal loro agire (è agency-dependent) e opera attraverso feedback relazionali anziché feedback meccanici (positivi o negativi). È la relazionalità della struttura che chiamiamo “We-relation”.

Tale relazionalità non è solo quella di referenze simboliche, ma include dei legami strutturali, e per questo motivo la relazione è una realtà concreta e non puramente comunicativa. La teoria sistemica può funzionare al livello della comunicazione, ma è del tutto insufficiente quando viene messa a confronto con la realtà fattuale nella sua interezza.

La soluzione dell’enigma della relazione sta nel fatto che la costituzione di una relazione secondo un certa struttura è necessaria per far sì che ogni termine della relazione possa ottenere da essa (non dall’altro termine) ciò che non potrebbe ottenere in nessun altro modo. La relazione non è solo il tramite (mezzo) per ottenere qualcosa attraverso lo scambio, e non è solo una dipendenza reciproca resa necessaria dalle circostanze. È per questo motivo che le relazioni non sono mai equivalenti fra loro37. Il loro essere “possibili sempre altrimenti” non è disponibile quando la relazione è un fenomeno emergente unico, non standardizzabile, non riproducibile. Non esistono equivalenti funzionali per le relazioni quando hanno una realtà (relazionalità) sui generis.

Il caso della famiglia è emblematico. Non possiamo negare che la convivenza fra persone omosessuali o di varia identità sessuale possa generare delle relazioni di reciproca gratificazione e di mutuo aiuto, ma, appunto, si tratta di altre relazioni, non di quelle propriamente famigliari.

Il contributo della sociologia relazionale

La realtà più nascosta della vita umana può maturare come tale solo se passa attraverso forme sociali adeguate, cioè relazionalmente valide per esprimere e far fiorire l’humus dell’umano, cioè la relazionalità della vita buona. Le forme sociali sono adeguate quando rispettano e sviluppano la natura propria di ogni relazione vissuta in maniera riflessiva.

Quando parlo di natura della relazione intendo il suo principio interno di operazione. È questo principio operativo che giustifica l’asserzione secondo cui «all’inizio [di ogni realtà] c’è la relazione». Questa affermazione coincide con il principio ontologico che sta alla base della sociologia relazionale38. È in questo principio, su di esso, con o senza di esso, che si gioca il destino della ragione occidentale, e quindi della stessa “società occidentale”.

La sociologia relazionale consiste nell’osservare che la società, ovvero qualsiasi fenomeno o formazione sociale (la famiglia, una impresa o società commerciale, una associazione, lo Stato nazionale), inclusa la società globale, non è né una idea (o una rappresentazione o una realtà mentale) né una cosa materiale (biologica, fisica, tecnica, economica o di altro genere), ma è un complesso di relazioni sociali. Non è né un “sistema”, più o meno preordinato o sovrastante i singoli fatti o fenomeni, né un prodotto di azioni individuali aggregate o sommate fra loro, ma è un altro ordine di realtà: la società è relazione, e ogni formazione sociale – pensiamo anche ad internet – è fatta di relazioni sociali. Ogni società o forma sociale si distingue per il modo sui generis di combinare gli elementi che compongono quella che possiamo chiamare la sua “molecola sociale” costitutiva, laddove tali elementi interagiscono secondo certe dinamiche relazionali facendo emergere una struttura la quale può semplicemente riprodursi (morfostasi) oppure modificarsi in modo significativo nel tempo (morfogenesi).

Ogni forma sociale, nel suo essere ontologicamente inteso, è dunque caratterizzata da una peculiare struttura relazionale, cioè dal fatto di configurare le relazioni in un modo proprio, sui generis. Se Ego e Alter, e in generale N partecipanti, vogliono creare e stare in una certa relazione, che non sia una semplice interazione o scambio del momento, devono convergere sugli scopi della relazione, ma lo fanno con mezzi, regole e anche valori attribuiti alla relazione che sono differenti. E che sono tanto più differenti quanto più consideriamo il fatto che, per ciascuno di questi elementi e per ciascun agente, ci sono “ambienti” diversi con cui ciascuno di essi si relaziona in forza della propria autonomia. Questa è la struttura di una relazione che si realizza come fenomeno emergente39. Non insisterò mai abbastanza nel ribadire il fatto che il bene comune (diversamente dai beni pubblici materiali, come le strade, le piazze, i monumenti, i giardini, i musei, ecc.) non è una “cosa”, bensì è un bene relazionale, cioè consiste di relazioni, perché deve unire i diversi mantenendo le differenze.

Alla base di questa lettura del sociale, sta il fatto (non l’idea o la mera figuration o fiction) che la relazione sociale deve essere concepita non come una realtà accidentale, secondaria o derivata da altre entità (individui o sistemi), bensì come realtà di genere proprio. Tale realtà è dotata di una autonomia che consiste nel modo peculiare in cui vengono combinati gli elementi affettivi, cognitivi e simbolici. Affermare che «la società, anzi tutta la realtà umana, è relazione» può sembrare quasi ovvio, ma non lo è affatto ove l’affermazione sia intesa come presupposizione ontologica ed epistemologica generale e quindi si abbia coscienza delle enormi implicazioni che da essa derivano.

Ciò non significa in alcun modo aderire ad un punto di vista di relativismo culturale, anzi si tratta esattamente del contrario: la sociologia relazionale si fonda su una ontologia sociale realista e induttiva (non una metafisica astratta e deduttiva), che vede nelle relazioni il costitutivo di ogni realtà sociale seconda la loro propria natura. La sociologia relazionale non ha nulla a che fare con il relazionismo filosofico o sociologico.

Il destino della razionalità occidentale

È in questa prospettiva che, a mio modesto avviso, possiamo e dobbiamo leggere il destino della razionalità occidentale e della forma di società che conseguirà a tale destino. Letta nell’ottica relazionale, la crisi della ragione occidentale sta qui: nel deficit di relazionalità in cui essa si dibatte e rischia di soccombere. Se l’Occidente non troverà una risposta plausibile all’enigma della relazione, la sua razionalità si corromperà sempre di più e alla fine si auto-sconfiggerà. Viceversa, rispondendo alla sfida dell’enigma, potrà trovare il suo rinnovamento e il suo rilancio.

La sfida cruciale di cui parlo viene oggi lanciata nei confronti della ragione occidentale40, e al tipo di società che tale ragione sostiene, dal cosiddetto “multiculturalismo”. Non si tratta del fatto che la società diventi “multiculturale” nel senso di una realtà composta da varie etnie e culture, che è una ricchezza per tutti, ma dal multiculturalismo inteso come ideologia e come nuova dottrina politica41. Gli incontri fra persone appartenenti a culture differenti possono aprire tante nuove e interessanti possibilità di arricchimenti reciproci. Il problema sta in quel tipo di ideologia multiculturalista che propone una razionalità secondo la quale, andando ben oltre il giusto riconoscimento dell’uguaglianza morale e giuridica di tutte le persone umane, le differenze culturali dovrebbero essere riconosciute e trattate come tutte uguali per il semplice fatto che non sarebbe possibile esprimere alcuna valutazione su di esse, tantomeno di carattere comparativo. Lo slogan “tutti differenti, tutti uguali” (proprio del “politicamente corretto”) non significa – come dovrebbe essere – l’uguale dignità di ogni essere umano, ma la pretesa che ogni differenza di comportamento, credenza, opinione, e così via, non solo abbia un uguale diritto all’esistenza, ma possa e debba godere dei medesimi diritti a prescindere da ciò che propugna e comporta. Il che significa rendere indifferenti (senza qualità specifica) i valori e le norme sociali, cioè rendere neutre le scelte di valore, salvo poi porre dei limiti quando questa neutralizzazione ha degli effetti negativi o non più tollerabili.

La pluralizzazione socioculturale inerente ai processi di globalizzazione si presenta come morfogenesi senza vincoli che modifica tutte le identità e tutti gli ambiti di vita delle persone. “Il plurale” viene generato come un insieme di differenze/diversità che rispondono a tipi di semantiche che ormai sfuggono alla comprensione della ragione occidentale moderna. La mia argomentazione è che la ragione occidentale non riesce più a governare questo processo di pluralizzazione senza limiti per il fatto che non vede o non sa rispondere agli enigmi insiti nelle relazioni fra valori e norme sociali differenti e contrastanti fra loro.

La società plurale tende a presentarsi come “caotica”, e nel migliore dei casi come “meticcia”. Per affrontare il pluralismo anomico che emerge in questa società – che io chiamo dopo-moderna ovvero trans-moderna perché è segnata da una netta discontinuità con la modernità – serve una nuova semantica delle differenze/diversità, del loro riconoscimento e della loro gestione pratica, il cui punto dolente sta nel riconoscimento e trattamento dell’enigma delle relazioni fra le differenze quando sembrano o sono di fatto inconciliabili.

La tesi che io sostengo è che questa semantica sia/debba essere di tipo “relazionale”, in un’accezione tutta da specificare. Il caso del multiculturalismo, inteso come ideologia è emblematico di una visione a-relazionale del mondo quando giustifica un qualsiasi comportamento sulla base del fatto che si tratta semplicemente di una diversità culturale, come tale non giudicabile. Il fatto è che la ragione occidentale, una volta abbandonata la radice greca e declinata in senso multiculturale, viene a trovarsi in un punto cieco, perché dietro l’apparente riconoscimento e rispetto delle “pluralità”, risulta incapace di far dialogare e far convivere le diverse culture, frammenta la società, produce relativismo culturale ed etico, svuota la democrazia.

In sintesi, la ragione occidentale si viene a trovare di fronte ad un bivio: è costretta ad implodere oppure a farsi relazionale. Queste alternative rappresentano i due tipi di “società plurali” che abbiamo davanti a noi: il “pluralismo vuoto” e il “pluralismo relazionale”. La differenza sta appunto nel fatto che il pluralismo vuoto è cieco di fronte all’enigma della relazione, mentre il pluralismo relazionale riconosce l’enigma e cerca di offrire una risposta plausibile.

Si tratta di esplorare il senso e le possibilità concrete di questa seconda via, quella di una “società relazionale” come espressione di una “ragione relazionale” che nasce da una nuova matrice ontologica, per la quale la sostanza e la relazione sono co-principi originari dell’essere. La qual cosa è possibile solo ricorrendo ad una matrice teologica42. La matrice ontologica è resa disponibile da una matrice teologica, ma non dipende strettamente da essa43. Questa prospettiva fa da supporto ad un originale paradigma antropologico, detto appunto relazionale. È in questo paradigma relazionale che io propongo di trovare la soluzione all’enigma della relazione.

* * *

Io sostengo che solo una specifica matrice teologica può dare senso ad una ontologia che metta al centro della realtà la relazione. Nel dire questo, propongo di considerare la matrice teologica dal punto di vista sociologico come un “codice simbolico” che dà forma ad una cultura storicamente concreta.

Anche per le scienze sociali, e non solo teologiche o filosofiche, solo una ontologia relazionale consente di sciogliere l’enigma della relazione, in quanto mette in rilievo il fatto che l’unità del reale è relazionale, ossia consiste nella specifica relazionalità che contiene. L’enigma della relazione giace nella capacità che la relazione ha di tenere uniti i differenti senza annullare, ma anzi rispettando e valorizzando le loro differenze. Riconoscere l’enigma vuol dire vedere questa potere causale della relazione. Risolvere l’enigma vuol dire poter configurare le qualità della relazione in modo tale che essa faccia fronte all’enigma che contiene e riesca a trattarlo. Il che ovviamente non sempre può avvenire. In ogni caso, richiede un’adeguata riflessività personale e relazionale.

Ciò che si dice sul piano della teologia cristiana (“Dio uno e trino”), ha un correlato sul piano della ontologia sociale44.

Occorre ovviamente usare questa prospettiva con sapienza, perché altrimenti si corre il rischio di tradurre la formula “uno perché trino” in una soluzione dialettica à la Hegel, come alcuni autori hanno fatto45, in quanto l’Uno di cui si parla sembra essere il prodotto del Trino (anche se non necessariamente secondo un processo del tipo tesi-antitesi-sintesi), il che non corrisponde al vero, perché Dio è “uno e trino” insieme46, grazie al “segreto” custodito nell’enigma della relazione. Infatti, a mio parere, si può e si deve dire non solo che Dio è “Uno perché trino”, ma anche che Dio è “trino perché uno”, cioè può articolarsi in una pluralità senza perdere la sua identità (il suo ipse coincide con l’idem), per via delle qualità e proprietà causali della sua propria sostanza che è la relazionalità. In Dio non c’è passaggio dall’idem all’ipse, come invece accade nella persona umana47, in quanto la relazionalità divina è idem e ipse allo stesso tempo (la distinzione idem/ipse è necessaria sul piano fattuale per l’essere umano, e utile dal suo punto di vista, non per Dio). Il che rende esplicita la reversibilità della natura divina fra l’essere una e l’essere relazionale. In ciò si evidenzia il paradosso a cui l’enigma della relazione allude, quando pone l’identità (l’Uno) nell’essere relazionale in sé e per distinzione con altro da sé. Siamo di fronte ad un paradosso illuminante, anziché essere accecante com’è invece lo sguardo delle Gorgoni.

Il paradosso di una matrice teologica che genera i paradossi della ragione nella vita sociale mentre allo stesso tempo li illumina può diventare comprensibile se lo leggiamo alla luce dello spirito contenuto nel Nuovo Testamento, in cui troviamo enunciati dei paradossi temporali («il tempo è compiuto, ma tutto deve ancora compiersi», Mc 1, 14), dei paradossi, per cosi dire, spaziali («tu sei in me e io in te», Gv 17, 21) e dei paradossi, per così dire, esistenziali («quando sono debole, è allora che sono forte», 2 Cor 12, 9-10). Lo spirito contenuto in queste affermazioni illumina la natura relazionale propria di Dio, nel quale la relazione non viene né dal basso né dall’alto, né da alcuna “parte”, perché esiste in sé, anzi è l’essere stesso di Dio, il quale è relazione pura. Tuttavia questo spirito può anche essere un’ispirazione per un’indagine sociologica della realtà secolare.

A questo punto potremmo essere tentati di risolvere l’enigma della relazione dicendo che l’enigma si risolve nella reversibilità dei termini della relazione, nel senso che “Io sono” in quanto Dio viene in me, il tempo si compie in quanto ciò che era già previsto semplicemente si realizza, che la mia debolezza non è più tale perché è Dio che opera in me. Dove va allora la differenza nell’unità della relazione che pure l’enigma contiene?

La relazione è uno spazio-tempo di unità e differenza che è dinamico in quanto i termini della relazione stanno assieme nella continua interazione reciproca e in quanto un legame non si forma se non c’è la differenza fra i termini. Ricordiamoci della “opposizione polare” di cui parla Romano Guardini, secondo il quale il mondo si regge su delle polarità (Io/Tu, polo positivo/polo negativo, pieno/vuoto, maschio/femmina, ecc.) che non si elidono, ma sono generative di una relazionalità feconda48.

Perciò occorre qui fare attenzione ad una certa mistica dell’Altro che può essere fuorviante, in particolare quella di Emmanuel Lévinas. L’idea che io sono l’Altro, ovvero che io sono nella misura in cui mi identifico totalmente con l’Altro e l’accolgo l’Altro in me stesso, cioè il rinvio ad una esperienza fondamentale generata dal volto d’Altri che costituisce la soggettività, ovvero la visione del primato assoluto dell’altro come unico spazio possibile alla costruzione dell’umanità, non è per nulla relazionale49. Tant’è che, secondo Lévinas, l’incontro tra me e l’altro non è una relazione sociale.

Alquanto diversa è la prospettiva di P. Ricœur, che rinviene l’elemento costitutivo della identità soggettiva nella contrapposizione fra l’immediatezza dell’Io e la mediatezza del Sé. Qui si apre un certo spazio per la relazione. L’accesso alla nostra identità più autentica non avviene attraverso un atto di introspezione intuitiva, ma attraverso una più lunga deviazione che implica il linguaggio, la capacità di agire, la narrazione, l’emergenza della responsabilità morale. Secondo Ricoeur, il sé, pronome accusativo e riflessivo, accede alla propria identità solo attraverso l’esperienza dell’alterità che lo attraversa50. Ma, appunto, qui si parla dell’identità del Sé (Self ) sociale, mentre l’identità personale inizia a formarsi a partire dalla interazione dell’Io del nuovo nato con il mondo naturale e pratico, anche quello delle cose. Il bambino interagisce con la madre e con il suo ambiente fisico già nel ventre materno e nei primi mesi di vita secondo una riflessività immediata e spontanea, mentre l’esperienza dell’alterità che lo attraversa e lo costituisce si realizza gradualmente nel tempo. L’esperienza dell’Altro è necessaria al soggetto per maturare la sua identità, ma quest’ultima si forma sperimentando relazioni complesse e reciprocamente interattive con la propria costituzione naturale (bio-psichica), il mondo pratico e quello sociale degli ‘altri’. Ovviamente, l’identità sociale (cosa sono Io per gli altri) influenza costantemente l’identità personale (chi sono Io per me). Preciso questo perché, a mio avviso, occorre evitare i possibili equivoci di una certa mistica dell’Altro che parla dell’Altro come costitutivo di me stesso. Ciò che mi costituisce è la relazione con l’Altro, non l’Altro come tale. Occorre comprendere che tra me e l’altro c’è una relazione la quale, nel suo farsi, genera una relazione del Noi (We-relation) in cui troviamo una unità fra me e l’Altro che non è una fusione, ma è una unità della/nella differenza, una unità che non annulla, anzi rispetta e promuove, la nostra differenza51.

Alcuni si chiedono se la we-relation non caratterizzi tutte le relazioni interumane, per esempio anche quelle fra medico e paziente, o fra venditore e acquirente. Al riguardo, in molte opere ho precisato che la we-relation presuppone un agire comune sulla comune relazione: deve esserci un Noi che agisce come relazione (ad esempio, quando si dice ‘io e lei andiamo in vacanza assieme’, ‘la sera noi mangiamo assieme’, ecc.). La relazione medico-paziente, per esempio, non ha questa caratteristica, anche quando il medico dice al paziente ‘facciamo questa cura’. In realtà, la cura la deve fare il paziente, non la fa il medico. Il medico dice questa frase per accomunare a sé la decisione al paziente, che però non la decide affatto, dato che la decisione viene dal medico; può essere negoziata fra i due, certo, ma rimane il fatto che la cura non la fanno assieme. Non c’è un Noi che agisce come tale, e il fatto che ‘noi prendiamo questa decisione assieme’ (il cosiddetto consenso informato) è il risultato di una transazione, non una autentica relazione. Si potrà dire che il medico si fa ‘amico’ del paziente, ma allora la relazione funzionale (di prestazione, diagnosi e terapia) viene ad essere collocata dentro una relazione di amicizia, ed è quest’ultima che fa la we-relation. In linea generale, in tutte le relazioni funzionali gli agenti possono agire in modo sovra-funzionale, nel senso di esercitare anche altre funzioni, ma, quando ciò accade, essi danno vita a relazioni differenti da quelle propriamente funzionali (esempio: il barista da cui vado tutti i giorni a prendere il caffè mi diventa amico, ma allora la we-relation non riguarda l’acquisto del caffè, bensì altre azioni comuni, per esempio tifare per la stessa squadra di calcio). Si può anche dire che la relazione puramente funzionale – siccome non è agìta da una macchina, bensì da persone umane – porta ‘naturalmente’ con sé l’esigenza di trascendersi in un’altra relazione, ma che ciò si realizzi dipende sempre dagli agenti della relazione, non è un fatto automatico, e richiede situazioni e contesti particolari.

A qualcuno potrebbe venire il dubbio che la mia prospettiva affermi due cose contrarie: che la relazione c’è già e nel contempo deve farsi. Come si fa ad affermare che ‘all’inizio c’è la relazione’ se la relazione deve ancora realizzarsi? Questa affermazione non ha forse il sapore platonico di supporre che esista una realtà ideale sussistente che deve solo essere attuata? Non è così. Ciò che io sto sostenendo è il fatto che le persone vengono all’esistenza e vivono in un contesto (che c’è sempre) dal quale sono messe in relazione. In quel contesto storico-sociale debbono agire relazionalmente. Esse si trovano pertanto necessariamente in un processo morfostatico/morfogenetico nel quale e attraverso il quale possono generare diversi tipi di relazioni (fatti emergenti) che conferiscono loro diverse identità. Queste identità emergenti possono essere conformi o meno (e in vari modi) alle potenzialità delle persone, e di qui la maggiore o minore felicità delle persone, secondo la maggiore o minore virtuosità delle loro relazioni e delle identità che ne conseguono.

Per esempio, l’identità di genitore di un figlio viene da una relazione generativa che, in potenza, la persona può avere, mentre non può derivare da una relazione che non ha questa potenza. La potenzialità è della persona-in-quella-relazione (generativa), e quindi è una potenzialità che non sta solo nell’individuo o solo nella relazione generativa a prescindere dagli individui coinvolti, ma in entrambi. Ad esempio, questa potenzialità non c’è nella fecondazione artificiale, in cui il bambino viene generato da individui che non ne hanno la potenza e attraverso una relazione che non è quella fra i due genitori. Mentre nel caso dell’adozione l’identità di genitore (adottivo) può essere ottenuta a queste due condizioni: primo, che i genitori abbiano la potenza di essere generativi sul piano educativo e spirituale (potenza di filiazione spirituale), oltreché materiale, e, secondo, che la relazione consista effettivamente nel dare (donare) una famiglia al bambino, e non sia invece una relazione voluta per soddisfare il narcisismo degli adulti o per strumentalizzare il bambino in funzione di qualche interesse.

Nel codice semantico del Dio Trinitario cristiano, la relazionalità fra le Persone divine è tale per cui il Padre e il Figlio generano una relazione-del-Noi che è la terza Persona, “spirano” lo Spirito d’Amore a loro consostanziale, lo Spirito Santo come we-relation, la quale indica che la relazionalità non si chiude in sé stessa, ma si apre e si diffonde per sua propria natura. La donalità dell’essere – il fatto che l’essere-nella/della-relazione nasce dal dono e senza dono non potrebbe esistere – genera la relazionalità come circuito allargato di doni reciproci che non può mai chiudersi tra due particolari, ma è necessariamente aperto alla reciprocità allargata che non può escludere nessuno che voglia prendervi parte. L’essere “è” (ex-siste, ossia è un “terzo” che sta fuori dei due termini da cui emana) in quanto è “generativo”, ed è generativo perché è intrinsecamente donativo.

Quando Cristo dice «tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40), identificando sé stesso con i fratelli più piccoli, egli non vuol certo dire che gli uomini (i fratelli) siano lo stesso Cristo, ma vuol dire che tu hai fatto un’azione a Cristo perché ti sei relazionato all’Altro come Cristo si relaziona a lui, come lui lo ama. Non c’è sostituzione fra le persone di Cristo e dei fratelli, ma la loro identificazione con quella mediazione (reciprocità della fraternità) che è Cristo. La reciprocità, intesa come scambio simbolico o donazione reciproca, ha un fondamento cristologico.

La vita sociale che si espande attraverso quella che io chiamo la “ragione relazionale” nasce di qui52. Essa ha nella relazionalità del Logos quella radice ontologica che oggi siamo chiamati a scoprire ex novo nel mondo.

Beninteso, la vita relazionale in Dio è incommensurabile rispetto alla vita relazionale dell’esistenza umana. La prima non è soggetta a tutte le limitazioni a cui è soggetta la seconda. Certo, vale l’analogia entis53, per cui quanto più vediamo la somiglianza tra due enti (che non è similitudine! e neppure “meno di una metafora” come sostiene U. Eco), tanto più ci troviamo di fronte all’abisso che li distingue. E tuttavia si tratta, a mio parere, di un abisso che non mette in antitesi il divino e l’umano (cioè escludendoli a vicenda, come avviene nel codice binario di Luhmann), bensì permette una comunicazione (communicatio) reciproca, il che – di nuovo – è comprensibile solo se si vede l’enigma della loro relazione, che esiste anche se sono termini incommensurabili.

Applicato al tema dell’educazione, il presente discorso è utile ad affrontare la cosiddetta “emergenza educativa”, che non è una condizione temporanea o di transizione, ma è ormai una caratteristica intrinseca e di lunga durata della nostra società. Il motivo sta nel carattere intrinsecamente problematico del modello educativo della modernizzazione occidentale, che si appunta sull’individuo e lo tratta con il codice libertà/uguaglianza (lib/lab) ignorando il carattere relazionale della società e della crescita umana. Se si accetta questa diagnosi, occorre aderire all’idea che l’educazione delle nuove generazioni richiede un modello di socializzazione radicalmente nuovo rispetto alle epoche passate. Non è più sufficiente una educazione basata sulla trasmissione di un patrimonio culturale (fatto di valori tradizionali) che viene acquisito e praticato attraverso gli “abiti” (l’habitus) dalle nuove generazioni. L’educazione necessita di confrontarsi con le relazioni umane e sociali, affrontando i nuovi enigmi che esse comportano. Deve diventare una modalità di promuovere una nuova riflessività, da declinare in modo personale e sociale, attraverso la ragione relazionale. L’educazione non può più essere concepita come interiorizzazione di una cultura data in un contesto sociale, ma deve diventare una elaborazione riflessiva della cultura (e del sociale) in un mondo aperto e globalizzato. Ciò comporta che il sistema scolastico-formativo venga riconfigurato secondo una visione che, da apparato di controllo sociale, lo concepisca come un servizio relazionale e riflessivo54 dotato di un’anima pedagogica che negli ultimi decenni è andata perduta.

Per capire il senso di questa pedagogia possiamo partire da uno slogan pubblicitario di fundraising che si trova sempre più diffusamente sui mass media quotidiani: “Sii egoista, fai del bene agli altri!”. Lo slogan enuncia un paradosso: la tua felicità sta nel rendere felici gli altri. In questa, come in tante altre ingiunzioni, viene proposta una relazione sociale che contiene un enigma: come può essere che facendo il bene degli altri io faccia del bene a me stesso? Se io mi spoglio dei miei beni, come posso stare meglio? Certamente questa relazione è paradossale se la vediamo dal punto di vista della società odierna che si basa sulla competizione globale, dove ci si aspetta che ognuno cerchi di massimizzare i propri interessi senza riguardo alle conseguenze che ricadono sugli altri. Chi enuncia l’enigma (da quale oracolo?) richiama una realtà sociologica che tutte le società sopravvissute nella storia hanno dovuto prima o poi riconoscere: e cioè che la società si regge su un circuito allargato di doni55, senza il quale la coesione sociale crolla e la società va incontro al deperimento e alla decadenza.

Ingiungere una relazione con sé stessi che consiste in una (apparente) contraddizione in adjecto (se vuoi bene a te stesso, rinuncia a te stesso) porta a riconoscere che la relazione con sé stessi (conversazione interiore) deriva dal trattare gli altri in un certo modo, cioè dipende dalla conversazione esteriore (relazione sociale con gli altri): la felicità che io sperimento in me stesso dipende dalla felicità che sperimento negli altri come risultato della premura che ho messo nel relazionarmi a loro secondo l’etica del dono, cioè nell’aver prodotto un bene relazionale56.

Comprendere gli enigmi delle relazioni, come quello appena detto secondo cui “quando dai, ricevi”, “quando rinunci a te stesso, trovi te stesso”, significa saper vedere una struttura relazionale latente che è nascosta allo sguardo diretto. Questa è la sfida, che consiste nel confrontarci con la realtà latente delle relazioni.

Con un avvertimento. Vedere le relazioni e gli enigmi che portano con sé non è un esercizio facile e soprattutto non è sempre piacevole. Chi vede la relazione è allo stesso tempo benedetto e maledetto: è benedetto in quanto riesce ad avere uno sguardo più profondo su ciò che connette le cose del mondo e le vicende umane, ma rischia molto, perché, se non riesce a sciogliere l’enigma, si verrà a trovare di fronte a paradossi che lo renderanno più infelice. In ogni caso, è di lì dove dovrà passare. Come ho scritto anni fa, «la relazione, non la dualità o l’ambivalenza o altro, è “il gioco dei/sui giochi”»57. La relazione è un enigma, genera enigmi, ma così come li produce, offre anche la via per la loro risoluzione. In ogni caso, la relazione sociale non è un puro gioco. Di essa non si può dire quello che Wittgenstein diceva del gioco linguistico (nel saggio Della certezza): “qualcosa di imprevedibile… voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì, come la nostra vita…”. Che le relazioni sociali seguano regole vaghe, sfuocate o ambigue fa parte dell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, così come la loro tendenza a polarizzarsi. Per esempio in codici binari, del tipo interno/esterno, simmetrico/asimmetrico, uguale/disuguale, buono/cattivo, immanente/trascendente, ecc. che è il modo più banale di semplificare la realtà. Ma le relazioni sociali non possono essere, di norma, sempre e comunque strutturalmente incerte, ambigue o dicotomiche: il loro compito è di portare al di là delle ambiguità e delle dicotomie, cioè degli enigmi che pure esse stesse generano continuamente.

Per concludere: nell’enigma della relazione giace il senso della vita

In questo contributo, ho sinteticamente illustrato il punto di vista della sociologia relazionale su come affrontare il problema ontologico della relazione qua talis. Ho proposto degli sviluppi teorici, con risvolti pratici, a partire dall’idea che la relazione vada affrontata come un enigma dietro il quale si cela il ruolo che la relazionalità gioca nella vita umana e nelle connessioni fra vita umana e vita soprannaturale.

Se si tratti di un passo in avanti o meno, lo diranno i miei commentatori. Ma vorrei essere chiaro circa le novità che ho cercato di introdurre rispetto alle difficoltà, se non proprio all’impasse, in cui, a mio avviso, si trovano le riflessioni sulla categoria teologica, filosofica e sociologica della relazione.

La conferma di queste difficoltà viene dal fatto che, di fronte all’enigma della relazione si sono fermati due giganti del pensiero teologico contemporaneo. Lo ha fatto Karol Wojtyla alla fine del suo Persona e atto quando conclude la sua opera affermando che «l’esperienza dell’uomo che “agisce insieme con gli altri” deve essere introdotta nella concezione della persona e dell’atto», e tuttavia aggiunge che «questa concezione aspetta ancora ulteriori elaborazioni»58. Prosegue poi indicando il percorso di studio che egli suggerisce in questi termini:

C’è da chiedersi se in tal caso essa [concezione] sarà ancora la concezione della persona e dell’atto oppure quella della comunità o della relazione in cui in un’altra dimensione la persona e l’atto si svelano e si confermano. Tuttavia può sorgere la domanda se l’esperienza dell’agire «insieme con gli altri» non sia fondamentale e se, pertanto, la concezione della comunità e della relazione non debba già essere premessa nell’elaborazione della concezione della persona. Penso che l’interpretazione della comunità e della relazione interpersonale non possa essere premessa correttamente se non poggia già in qualche modo sulla concezione della persona e dell’atto, cioè su quella in cui dall’esperienza «l’uomo agisce» sia stata ricavata adeguatamente l’immagine della trascendenza della persona nell’atto. In caso contrario, nell’interpretazione della comunità e della relazione interpersonale possono essere facilmente trascurati alcuni aspetti di ciò che è costitutivo della persona e che sostanzialmente condiziona e insieme definisce la comunità e la relazione, proprio in quanto comunità e relazione tra persone. Quindi, sul piano metodologico e sostanziale, sembra giusta la soluzione che, dando priorità alla concezione della persona e dell’atto, cercherà sulla base di questa concezione un’interpretazione adeguata della comunità e della relazione interumana in tutta la sua ricchezze e differenziazione (ivi, pp. 335-36, corsivo mio)

In sostanza, così io interpreto queste pagine, alla persona viene data una priorità ontologica e metodologica sulla relazione per giustificare la capacità di trascendenza dell’agire umano. Ma con ciò non si risolve l’enigma di cui ho lungamente discusso. Mi pare evidente che qui Wojtyla lasci del tutto aperto il problema di come individuare la rilevanza e la collocazione dello statuto ontologico della relazione rispetto a quello della persona e dell’atto, pur con il desiderio di far posto alla relazione. Rimane irrisolto il problema di come concepire l’essere della persona (ens contingens) e dell’atto nella/con/per la relazione. La sociologia relazionale chiarisce che la persona non si trascende nell’atto (in cui è e rimane sé stessa), ma si trascende nella relazione.

Joseph Ratzinger, in vari scritti, mi sembra essersi spinto un po’ più oltre. Egli afferma che «l’uomo è relazione e ha la propria vita e sé stesso solo nel modo della relazione. Da solo, io non sono affatto me stesso, ma lo sono soltanto nel tu e mediante il tu. Essere veramente uomo significa stare nella relazione dell’amore, del da e del per. Invece il peccato significa turbare o distruggere la relazione. Il peccato è negazione della relazione…»59. E tuttavia, pur dando tanto spazio alla relazione, anche nell’enciclica Caritas in Veritate, arriva a concludere che «un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione»60, lasciando così ancora del tutto aperto il discorso, specie sul piano delle connessioni fra la metafisica e le scienze umane e sociali.

Sia Wojtyla sia Ratzinger hanno indicato delle strade di approfondimento che contribuiscono oggi alla apertura di una stagione di nuove riflessioni61. Tuttavia – a mio parere – ci troviamo ancora sulla soglia dell’enigma. Lo si vede quando si deve affrontare il tema di come conciliare l’impegno per il progresso umano e l’impegno per la sequela di Cristo, che, tradotto in termini ecclesiali, significa come relazionare la Chiesa ad un mondo sempre più secolarizzato, e, all’interno della Chiesa, fra gerarchia e laicato.

Per restare nel campo teologico-filosofico, l’enigma della relazione sta nel comprendere come si possa mantenere allo stesso tempo la distanza fra i due termini, il mondo soprannaturale e il mondo terreno (perché dire relazione vuol dire distanza), e nello stesso tempo mantenere la loro unità. Sembrano due operazioni contraddittorie. Come possono essere armonizzate?

Certamente l’unione non può essere una fusione, altrimenti vanno perdute le identità (sostanze) proprie di ciascun termine. Neppure può essere una separazione, altrimenti va perduta l’unità. E non può essere nemmeno una combinazione qualunque, che alterna ora un modo di essere ora l’altro, come chi interpreta l’“ora et labora” nel senso che c’è un tempo per pregare e un tempo per lavorare quali momenti che si alternano senza connettersi (relazionarsi) realmente. Cosa che vediamo capitare il più delle volte nella vita quotidiana, quando Marta (il lavoro) e Maria (la contemplazione) risultano essere due condotte di vita che non si possono vivere in modo unitario. Infatti, se si deve pregare bisogna distaccarsi dal mondo, dalla autonomia delle realtà terrene, e viceversa, se ci si deve preoccupare del mondo, occorre lasciare la preghiera. Se si dà preminenza a Dio occorre lasciare le cose terrene, se si dà preminenza al mondo Dio diventa una ruota di scorta. Come si risolve il problema?

Il fatto è che l’unità non è né una “cosa”, né un’entità a sé stante, ma è una relazione fra due termini. L’unità è nella relazione. Pregare (ora) e lavorare (labora) sono due cose distinte e come tali non sono fondibili. E tuttavia non sono realtà antitetiche, in virtù del fatto che l’una è relazionata all’altra. È la we-ness della relazione, come fenomeno emergente, che consente di vedere l’unità dei distinti nella relazione. Per cui possiamo vedere che pregare e lavorare possono trovare una unità di vita non già nel senso che pregare sia la stessa cosa che lavorare e viceversa, ma nel senso che le due attività si ritrovano (distinte) nella unitarietà della relazione vitale. L’una cosa non coincide con l’altra, ma esse stanno in una certa relazione. In che senso può succedere questo? Come si può dare che un termine non solamente esista in relazione all’altro, ma sia sé stesso solo se include relazionalmente l’altro, pur essendo sé stesso e non l’altro?

Bisogna guardare dentro la relazione e dentro la sua peculiare struttura. Essa deve avere qualità, proprietà e poteri causali propri. Quali?

Deve mantenere l’autonomia dei termini e nello stesso tempo far emergere il loro bene relazionale. L’amicizia è l’esempio per eccellenza.

In linea generale, questa peculiare relazione è la We-relation applicata ai due termini che chiamiamo lavoro (o attività umane in generale della vita ordinaria) e sguardo soprannaturale (preghiera, ossia contemplazione, sguardo rivolto a Dio). In breve, la specificità dello spirito laicale cristiano (chi vive nel mondo per santificare il mondo senza farsi possedere dal mondo) consiste in questo: rivolgersi alle persone umane (tutte, di qualunque status, etnia, sesso, ecc.) dicendo loro che solamente in quanto “soggetti relazionali” esse possono realizzarsi pienamente, e poi mostrando loro come e perché possono diventare soggetti relazionali nell’unità di vita, che non è una vita monolitica o abitudinaria, ma una vita spesa nel relazionarsi senza alienazioni a sé stessi, agli altri, al mondo, attraverso una peculiare riflessività. Su cui vorrei dire le ultime parole di questo contributo.

Quando noi non sappiamo che cosa fare con gli altri e con le situazioni della vita, ossia quale relazione avere con il mondo contingente che ci circonda, allora ci sentiamo confusi, deboli, fragili, tristi, in crisi. Ogni situazione esistenziale in cui veniamo a trovarci, ogni incontro con qualcosa e soprattutto con qualcuno che ci mette in difficoltà, sono relazioni che ci interrogano. Di solito noi non pensiamo queste situazioni in termini di relazioni, perché vediamo solo individui, cose e problemi, cose che non vanno. Dobbiamo affrontare qualcosa (una situazione) o qualcuno (persone intorno) e ci chiediamo che cosa fare. Ma in realtà, dietro la sfida delle cose e delle persone, c’è una sfida che non vediamo, ed è la sfida più importante. È la sfida della relazione in gioco.

Accettare la relazione in cui ci troviamo così com’è, oppure cambiarla, o forse romperla? Non sappiamo bene che cosa fare. La risposta sta nel cambiare prospettiva e chiedersi: non è forse la Relazione stessa, quella che è in gioco, che geme e che, nella sua sofferenza, ci indica una strada per uscire da noi stessi e dai nostri enigmi? Questa strada la conosce chi sa leggere nel cuore dell’uomo, perché il cuore – diversamente dalla mente – ha bisogno di relazioni, cerca relazioni, è insoddisfatto se non trova la relazione che lo appaga. La relazione parla al cuore dell’uomo, e le dice il senso della vita che la mente cognitiva non riesce spesso a vedere. Essa parla segretamente e senza strepito di parole, ma non c’è nulla di più chiaro di quei gemiti “inespressi”. La relazione sociale umana, infatti, prima che sui concetti (che sono un mezzo strumentale), cerca dei simboli (la rappresentazione dell’Altro come buono e amico oppure cattivo e ostile) in cui credere, in cui riporre la propria fiducia, oppure no. La Relazione dice a noi che cosa essa desidera perché il suo desiderio è il nostro bene, quando essa è vitale e generativa. Certo, questo non sempre accade, perché il gemito della relazione può indicare che essa porta con sé dei mali, i mali relazionali, nel qual caso va evitata. In ogni caso, è lì, ascoltando i gemiti della relazione che si scioglie l’enigma: nella visione di san Paolo, quando è sicuro il legame di filiazione divina, è lì dove si comprende che cosa dobbiamo fare con gli altri e con il mondo per non rimanere prigionieri degli enigmi della vita umana.

Bisogna educare il cuore dell’uomo a saper leggere la relazione che ci lega al contesto della nostra esistenza e in cui giace la vita, cioè la Relazione vitale. Per avere la conoscenza di cosa fare e dove andare occorre corrispondere al desiderio, alla tensione di vita, che è in quella Relazione, occorre saper trattare la Relazione vitale. L’enigma da sciogliere sta in questa relazione, non nella cosa da fare o nelle persone a cui ci riferiamo. L’esistenza umana non ha senso se è vista in sé stessa e per sé stessa, né nelle cose, né nelle persone che ci circondano in quanto tali, ma trova il suo senso nella Relazione vitale, quella che dà il senso alla vita perché lo possiede in sé stessa. La vita è nell’enigma della relazione. L’enigma della relazione racchiude il senso della vita.

La mia risposta ai quesiti posti all’inizio di questo contributo è dunque la seguente. Per quanto riguarda il parallelismo fra la crisi della fiducia collettiva in Dio e la crisi dell’alleanza uomo-donna, esso trova una spiegazione nel fatto che in entrambe queste relazioni viene meno la sostanza della relazionalità, cioè le qualità e proprietà causali della reciprocità fra i due termini della relazione. Il venir meno del senso della relazione è il “fattore interveniente” che spiega entrambe le crisi. Se viene meno la relazione umana, viene meno anche quella soprannaturale, e viceversa. Per una comprensione più profonda di questa corrispondenza, è necessario ricondurre la sorgente del senso della relazione alla sua matrice teologica, ancorché la relazione si generi (o non si generi) per cause autonome.

Per quanto riguarda il problema della differenza fra virtù personali e virtù sociali, possiamo dire che sono due realtà ben distinte perché diverse sono le modalità con cui la relazionalità viene considerata nell’un caso e nell’altro: nelle virtù personali la persona riflette su sé stessa in relazione al contesto sociale per deliberare sul proprio agire; nel caso delle virtù sociali la persona deve riflettere sui beni (o mali) relazionali in gioco per adeguare ad essi la propria deliberazione interiore.

In sintesi, la correlazione fra relazioni umane-sociali e relazioni divine ha una propria esistenza e una propria validità, ma per coglierla è necessario che i soggetti agenti si orientino alla relazione come tale, e non è sufficiente considerare l’interiorità degli agenti e i loro singoli atti. Le intenzioni e l’atto sono fondamentali, ovviamente, per caratterizzare l’umano, così come il divino. Ma la trascendenza dell’umano, così come del divino, non è nell’atto, bensì è nella relazione. Chi agisce non si trascende nell’atto, per il semplice fatto che nell’atto è presente lo stesso soggetto agente, bensì si trascende nella relazione, in cui – se si tratta di una relazione vitale – è essenziale che chi agisce tenga conto del bene dell’Altro, e non (solo) come Altro, bensì (anche) come compartecipe del bene relazionale creato e condiviso con Lui.

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1Cfr. U. Borghello, Liberare l’Amore. La comune idolatria, l’angoscia in agguato, la salvezza cristiana (Milano: Ares, 1997).

2Il tema dell’ontologia sociale è oggi ampiamente dibattuto nelle scienze informazionali: cfr., L. Floridi, “A defence of informational structural realism”, Synthese 161 (2008): 219-253.

3Cfr. P. Donati, L’enigma della relazione (Milano-Udine: Mimesis, 2015).

4Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato Si’ (Roma: LEV, 2016), pr.11, corsivo mio.

5J. Escrivá, Amici di Dio (Milano: Ares, 1978), 99-100 (questa omelia, intitolata Le virtù umane, è del 6 settembre 1941).

6J. Escrivá, “L’Avventura della libertà”, Studi Cattolici 104 (XI.1969): 782-784.

7Una osservazione di primo ordine è quella che afferma o descrive una causalità lineare senza aver attivato una adeguata riflessività su tale osservazione. Per esempio osservo che due coniugi si separano legalmente perché vogliono andare in vacanza in posti diversi e dunque imputo la causa alla inconciliabilità delle loro preferenze, senza interrogarmi sulle cause più profonde, che hanno a che fare con l’incapacità di vedere e prendersi cura della loro relazione come bene che eccede un singolo desiderio come quello di fare una vacanza in un posto anziché in un altro.

8Escrivá, Amici di Dio, 102.

9Come Antonio Malo chiarisce nel suo contributo (Soggettività, riflessività e paradigma relazionale), la concezione classica (aristotelica) afferma che la virtù non dipende dalla coscienza (ciò corrisponde piuttosto all’idea moderna: cartesiana o anche kantiana), bensì dall’agire bene, cioè in conformità con la propria natura; quindi, in ultima analisi, la virtù dipende dalla natura, e, poiché la natura dell’uomo è sociale, la vita virtuosa è anche una vita al servizio del bene comune. Si tratta di una visione ‘ingenua’ e insufficiente, perché, per spiegare il bene comune e il bene relazionale, non basta la natura sociale della persona. Come A, Malo sostiene, per parlare del bene relazionale, si deve ipotizzare un nuovo concetto metafisico, quello dell’energeia (o atto) relazionale, che trascende l’atto di essere della persona e il suo agire.

10Sul senso della ‘persona morale’ in S. Tommaso d’Aquino si veda R. Hittinger, “The Coherence of the Four Basic Principles of Catholic Social Doctrine: An Interpretation”, in M.S. Archer, P. Donati (eds.), Pursuing the Common Good: How Solidarity and Subsidiarity Can Work Together, (Rome: Vatican Press, 2008), 75-123.

11P. Donati, “Le virtù sociali della famiglia”, Acta Philosophica 19 (2010): 267-296.

12Per questa ragione, espressioni come ‘capitalismo compassionevole’ sono degli ossimori, perché suppongono che il mercato capitalistico – che si regge sul motivo del profitto – possa essere legittimato dalla compassione dell’individuo capitalista.

13J. Carvalho, R. Francisco, A.P. Relvas, “Family functioning and information and communication technologies: How do they relate? A literature review”, Computers in Human Behavior 45 (2015): 99-108.

14Cfr. Donati, L’enigma della relazione, 125-180.

15Derrida si appunta sulla ambiguità positiva e negativa della differenza, che è un processo di differenziazione e insieme di differimento nel tempo: « [. . .] il faut peut-être que la philosophie assume cette équivocité, la pense et se pense en elle, qu’elle accueille la duplicité et la différence dans la spéculation, dans la pureté même du sens philosophique. Nul plus profondément que Hegel ne l’a, nous semble-t-il, tenté. » (J. Derrida, L’écriture et la différence [Paris: Seuil, 1967], 166).

16J. Lyotard, Le Différend (Paris: Minuit, 1984). Com’è noto, Lyotard sostiene che, nella condizione postmoderna, le meta-narrazioni non permettono più di legittimare le “pretese di verità”, e suggerisce che, a seguito del crollo delle meta-narrazioni moderne, gli uomini sviluppino un nuovo ‘gioco linguistico’ (Wittgenstein), un gioco che non rivendichi la verità assoluta, ma che invece glorifichi un mondo di relazioni perpetuamente mutevoli sia tra le persone, sia tra le persone e il mondo.

17Com’è noto, nel mito greco le Gorgoni uccidono coloro i quali le fissano negli occhi. Tuttavia non sono tutte uguali. Infatti, Medusa è mortale, mentre Steno ed Euriale sono immortali. Luhmann (“Sthenography”, Stanford Literature Review 7 [1990]: 133-137) interpreta questo mito nel modo seguente. Le Gorgoni rappresentano i paradossi (noi potremmo anche dire gli enigmi). Ci sono paradossi che possono essere risolti (è il caso di Perseo che uccide la Medusa), e altri che sono assolutamente irrisolvibili. Confrontarsi direttamente con questi ultimi vuol dire morire. Chi vuole risolvere un paradosso (enigma) irrisolvibile guardandolo in faccia ne rimane ucciso. Affrontando Euriale, però, Perseo sfugge alla morte perché adotta la strategia di cambiare sempre il suo punto di vista, in modo da evitare di incrociare lo sguardo della Gorgone. Luhmann ritiene che la società postmoderna, densa di paradossi perché sempre più complessa, possa sopravvivere solo adottando questa prospettiva – chiamata eurialistica -, in base alla quale i problemi insolubili della società (i suoi paradossi, come i suoi enigmi) debbono essere trattati in modo da evitare di affrontarli direttamente, il che significa cambiare continuamente il punto di vista rendendo tutto ‘relativo’ (cioè adottando un relativismo radicale, ovvero un relazionismo radicale che viene esplicitamente proposto da tante parti: cfr. per esempio C. Powell, F. Dépelteau (eds.), Relational Sociology. Ontological and Theoretical Issues (New York: Palgrave Macmillan, 2013), anziché assumere un punto di vista propriamente relazionale, il che comporta un’analisi della struttura sui generis di ogni relazione che non è fungibile con altre relazioni (cfr. P. Donati, Relational Sociology. A New Paradigm for the Social Sciences [London and New York: Routledge, 2011]).

18Ne ho fornito un esempio in P. Donati, “Famiglia e società del benessere: paradossi e contro-paradossi, mito e anti-mito”, in Idem (a cura di), Famiglia e società del benessere (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1999), 29-83.

19Cfr. P. Donati, Sociologia della riflessività (Bologna: il Mulino, 2011).

20Anche gli esseri viventi non umani possono avere relazioni sociali. Per esempio, due cani che si incontrano spesso per strada e si riconoscono, magari giocano insieme, hanno una certa relazione. Ma non è umana, perché è solo delle persone umane essere ‘qualcuno’ per altri (cfr. R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” [Roma-Bari: Laterza, 2005]).

21Ciò comporta un’analisi della struttura sui generis di ogni relazione che non è fungibile con altre relazioni Circa la non-equivalenza delle relazioni sociali: cfr. P. Donati, Sociologia della relazione (Bologna: Il Mulino, 2013).

22C’è chi oggi propone una sociologia relazionale unica per esseri umani e non-umani ignorando le differenze, e, in omaggio, al ‘politicamente corretto’, abolisce il senso delle differenze (ad es. si veda C. McFarlane, “Relational Sociology, Theoretical Inhumanism, and the Problem of the Nonhuman”, in C. Powell, F. Dépelteau [eds.], Relational Sociology, 45-66).

23M.S. Archer La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale (Trento: Edizioni Erickson, 2006).

24P. Donati, I. Colozzi (a cura di), Il privato sociale che emerge: realtà e dilemmi (Bologna: il Mulino, 2004).

25Su questo punto A. Malo scrive (comunicazione personale, 30.10.2015): “questa distinzione fra la relazione in sé (l’ontologia relazionale, ciò che ho chiamato l’energeia della relazione) e la relazione riguardo alle persone che stanno in essa (l’esistenza relazionale) vada sviluppata. Ciò permette di evitare la confusione fra persona umana e relazione e, contemporaneamente, di affermare che la persona è sempre in relazione”.

26Dal punto di vista sociologico, questa trascendenza corrisponde al fatto che ogni cultura rimanda al suo ‘ambiente’, che è quello delle ‘realtà ultime’ – intese come quei valori ultimi che ispirano l’agire umano. Rispetto a queste realtà, per loro natura ‘religiose’ in senso lato, ogni cultura deve continuamente ri-operare le sue distinzioni-guida (la re-entry di ciò che costituisce il fondamento di ogni valore o impegno al valore nell’agire) sul confine fra ciò che l’osservatore può vedere e ciò che è latente, nascosto (sta ‘sotto’), in quanto giustifica (o, se si preferisce, dà senso) al comportamento culturale. In termini tecnici, la trascendenza è l’operazione con cui si rientra la latenza dentro ciò che si è appena distinto e osservato come esito della precedente operazione di distinzione (la Latenza della Latenza della Latenza potenzialmente all’infinito, perché nel dare un senso alle cose i rimandi ad una realtà ulteriore e più profonda non hanno un termine predeterminato: cfr. la ridefinizione di AGIL in P. Donati, Teoria relazionale della società [Milano: Franco Angeli, 1991], 257-260).

27P. Donati, R. Solci, “Misurare l’immateriale: il caso dei beni relazionali”, Sociologia e Ricerca Sociale 108 (2015): 13-32; J. Ashcroft et al., The Relational Lens. Understanding, measuring and managing stakeholder relationships (Cambridge: Cambridge University Press, 2016).

28Sotto questo profilo è di estremo interesse l’affermazione, veramente ardita, di Antonio Rosmini secondo cui “la persona è una relazione sussistente”, riferita non solo alle persone divine ma anche alle persone umane (sezione IV del libro III della Teosofia). L’affermazione di Rosmini va correttamente intesa. Nella mia prospettiva relazionale, tale affermazione è valida in quanto si può e si deve distinguere fra la relazione sussistente in Dio, che è relazione generante, e la relazione sussistente nella persona umana, che è relazione generata. Vale l’analogia entis, tenuto conto che in Dio non c’è corporeità, mentre la persona umana è un soggetto corporeo. La prospettiva di Rosmini è esaltante perché vede le ragioni della relazione (la ragione relazionale) nella persona umana come in quelle divine, mediante il ricorso alla riflessività delle/nelle relazioni (riflessività relazionale).

29R. Rorty, Philosophy and Social Hope (London: Penguin Books, 1999), 54.

30G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa (Roma: Città Nuova, 2013).

31Sul soggetto relazionale Cfr. P. Donati, “Il soggetto relazionale: definizione ed esempi”, in Idem, Sociologia relazionale. Come cambia la società (Brescia: La Scuola, 2013), 213-240; P. Donati, M. Archer, The Relational Subject (Cambridge: Cambridge University Press, 2015).

32G. Teubner, “Self-subversive Justice: Contingency or Transcendence Formula of Law”, The Modern Law Review 72 (2009): 1-23.

33“La relazione (…) deve essere intesa come un sistema emergente”: cfr. N. Luhmann, Il sistema sociale (Bologna: il Mulino, 1990), 210.

34Ibidem, 207, 210. La traduzione esatta di ‘Etsi non daretur’ non è ‘come se Dio non esistesse’, ma ‘anche se Dio non esistesse’.

35Mi rendo conto di modificare qui la definizione di cause prime e seconde che sono date nella filosofia classica. Lo faccio perché mi occupo di concetti sociologici. Per esempio, che una famiglia sia strutturata in un certo modo dipende sia dalle cause empiriche del contesto in cui vive, che sono le cause seconde aperte alle contingenze (ad esempio: la famiglia poliandrica delle pianure mongoliche è stata chiaramente dovuta nel passato alle esigenze della transumanza), sia dalle cause che possono generare una famiglia e non un’altra cosa, che sono – sociologicamente – la cause prime (nel senso che non può emergere una famiglia se le relazioni non hanno una certa struttura, che ho chiamato il genoma sociale della famiglia, il quale deve essere presente – lo è anche nella famiglia poliginica o poliandrica – se deve essere una famiglia e non un’altra forma sociale; ovviamente, come ho spiegato altrove, il genoma sociale ammette una certa variabilità, che però ha dei limiti, per esempio consente varie relazioni uomo-donna, ma non ammette relazioni uomo-uomo o donna-donna altrimenti si ha una mutazione del genoma da una specie ad un’altra: P. Donati, Famiglia. Il genoma che fa vivere la società [Soveria Mannelli: Rubbettino, 2013]).

36Come ci ricorda G. Tanzella-Nitti (“L’ontologia di Tommaso d’Aquino e le scienze naturali”, Acta Philosophica 13 [2004]: 137-155), da un lato Tommaso (Summa theologiae, I, q. 45, a. 3) afferma che, in senso stretto, Dio non ha creato il mondo, bensì lo crea. La creazione non è un moto, né un mutamento, né un passaggio dalla potenza all’atto, in quanto è chiaro che il nulla non è l’essere in potenza e che l’atto stesso della creazione è un atto trascendente, la cui causa è fuori del tempo e il cui effetto è costituito nel tempo, insieme al tempo. La creazione, in quanto relazione, non “si aggiunge” ad un soggetto (la creatura), ma piuttosto, in certo modo, lo “costituisce”: tale relazione è essa stessa una determinata realtà, la realtà appunto dell’ente ut creatura. Dall’altro, del De Potentia Dei, Tommaso afferma: «La capacità naturale che è conferita alle cose naturali all’atto della loro creazione è in esse come una forma che ha l’essere fisso e stabile della natura: ma ciò che viene fatto da Dio nella cosa naturale, perché essa agisca effettivamente, è solo come un’intenzione, che ha un essere in un certo senso incompleto, come l’essere dei colori nell’aria e la capacità dell’arte nello strumento dell’artigiano […]. Alla cosa naturale poté essere conferita la capacità sua propria come forma permanente in essa, ma non la forza con cui compiere azioni finalizzate quale strumento di una causa prima, a meno di concederle di essere il principio universale dell’essere. Inoltre, alla capacità naturale non poté essere data la possibilità di mettere in movimento sé stessa, né di conservare sé stessa nell’essere. Per cui, come allo strumento dell’artigiano non poté evidentemente essere concesso di agire senza il movimento dell’arte, così alla cosa naturale non poté essere concesso di agire senza l’attività divina».

37Le argomentazioni che giustificano questa affermazione si trovano in P. Donati, Sociologia della relazione, 113-118.

38Donati, Teoria relazionale della società, 80. L’affermazione è di carattere sociologico, e non dipende da una apparentemente analoga affermazione di carattere biblico-teologico che è alla base del pensiero di Martin Buber.

39Per maggiori dettagli si veda P. Donati, Sociologia relazionale. Come cambia la società (Brescia: La Scuola, 2013), 294-320.

40La nozione di ‘ragione occidentale’ è evidentemente problematica, tante ne sono le molteplici sfaccettature. Per semplicità, mi riferisco qui alla ragione concepita in base alle sue radici greco-cristiane, e in senso più ampio al processo di razionalizzazione di cui parla Max Weber.

41Ho esposto e commentato tale ideologia in P. Donati, Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune (Roma-Bari: Laterza, 2008), 91-122.

42P. Coda, M. Donà, Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte trinitario (Roma: Città Nuova, 2013).

43P. Donati, La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010).

44Il grande interrogativo se sia possibile avere una ontologia sociale relazionale senza il riferimento ad una matrice teologica rimane, comunque, un fondamentale problema di ricerca scientifica.

45Cfr. J. Splett, La dottrina della trinità in Hegel (Brescia: Queriniana, 1993). Una corretta e suggestiva visione relazionale è stata invece sviluppata da P. Coda, Il negativo e la trinità. Ipotesi su Hegel (Roma: Città Nuova, 1987); Idem, “Per un’antropologia trinitaria”, in Aa.Vv, Cattolici in Italia tra fede e cultura. Materiali per il progetto culturale (Milano: Vita e Pensiero, 1997), 193-202; Idem, Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica (Roma: Città Nuova, 2003).

46Si veda G. Maspero, Uno perché trino (Siena: Cantagalli, 2011).

47La differenza fra relazionalità umana e divina sta in questo. La persona umana è idem nella sua natura individuale che opera identicamente a sé stessa, quindi nel suo patrimonio genetico e nelle sedimentazioni che sono diventate per lei una seconda natura (con i biologi e le neuroscienze potremmo dire che idem è l’identità del soggetto che si è formato dalla nascita fino ad un certo momento, è ciò che si è formato come architettura neuronica, come l’insieme di processi fondati sull’organizzazione cellulare di cui è fatto il suo sistema nervoso centrale; è l’ontogenesi) e diventa ipse attraverso la relazionalità storico-temporale mediante cui opera l’autocoscienza (ipse è l’essere sé stesso come centro dell’autocoscienza che considera e riflette sulla propria storia e il proprio futuro, cioè discerne, delibera e si impegna in una scelta o progetto). In Dio l’identità è assoluta, nel senso che la relazionalità è una cosa sola (è idem) con la sua ipseità. Al contrario, nell’essere umano l’identità è in fieri, e possiamo concepire l’ipse come il dialogo che l’Io (idem) attua nel tempo fra il Sé come Me (ciò che ho fatto o sono stato ‘prima’) e il Sé come Tu (ciò che posso o debbo fare o essere ‘dopo’), in cicli temporali successivi che corrispondono ai vari contesti sociali attraverso cui passa la sua esistenza.

48R. Guardini, Der Gegensatz, Versuch zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten [1925] (Mainz: Matthias-Grünewald Verlag, 1998).

49Si vede in ciò l’influenza della matrice teologica ebraica, che conferisce all’etica (in definitiva alla Legge) il primato sulla ontologia, la qual cosa porta ad una visione che sottovaluta il fondamento ontologico della relazione. Afferma Lévinas: “io non vorrei definire nulla attraverso Dio, giacché io conosco l’umano. È Dio che posso definire attraverso le relazioni umane, non l’inverso”. In Lévinas, l’etica è la spia di un Dio presente e irraggiungibile, vicino e differente. “L’etica, al di là della visione e della certezza, delinea la struttura dell’esteriorità come tale. La morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima” (E. Lévinas, Totalità e infinito [Milano: Jaca Book, 1983], 313).

50Secondo Ricœur (Sé come un altro [Milano: Jaca Book, 2011]), il soggetto può cogliere sé stesso solo comprendendosi come altro attraverso gli atti che egli pone nel mondo, e che sono la manifestazione indiretta della sua identità, superando così il primato dell’autoreferenzialità. Il sé si comprende nella dialettica di atto ed interpretazione, con un movimento inevitabilmente ermeneutico. Ciò a cui Ricœur punta è una fenomenologia ermeneutica dell’homo capax, come egli lo definisce, che apra ad una comprensione del suo originale modo di essere, e quindi ad una ontologia della soggettività. Rispetto a questa visione, io credo che si debba osservare che la dinamica di cui parla Ricoeur si afferma solo gradualmente nel soggetto umano, perché all’inizio della sua vita il bambino è autoreferenziale e solo attraverso l’esercizio della riflessività relazionale egli matura la sua identità eterorerefenziale.

51Per maggiori dettagli si veda P. Donati, “Which Engagement? The Couple’s Life as a Matter of Relational Reflexivity”, Anthropotes 30 (2014): 217-250.

52Donati, Oltre il multiculturalismo, 91-122.

53Il concetto di analogia entis, secondo Erich Przywara, indica il rapporto doppio di trascendenza/immanenza tra Dio e le sue creature. Secondo tale autore, c’è una obiettiva difficoltà dell’uomo di comprendere questa “Trascendente immanenza” divina. A suo avviso, essa è accessibile solo attraverso l’intervento della grazia. La prospettiva relazionale non nega questo, ma legge la grazia come una relazione che può essere illuminata dalla ragione.

54P. Donati, “La sfida educativa: analisi e proposte”, Orientamenti Pedagogici 57 (2010): 581-608.

55Altrimenti detto ‘scambio simbolico allargato’, di cui parlano tanti autori, tra cui M. Mauss, C. Lévi-Strauss, A. Caillé, J. Baudrillard, J. Godbout.

56P. Donati, R. Solci, I beni relazionali. Che cosa sono e cosa producono (Torino: Bollati Boringhieri, 2011).

57P. Donati, Teoria relazionale della società, 85.

58K. Wojtyla, Persona e atto (Roma: Libreria Editrice Vaticana, 1982), 335.

59J. Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato (Torino: Lindau, 2006), 98-99.

60J. Ratzinger-Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 53.

61Si veda M. Sodi, L. Clavell (a cura di), “Relazione”? Una categoria che interpella (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2012) e le proposte di G. Maspero, “Dogma e santità: il rapporto tra creazione e Trinità alla luce di un’esperienza concreta della filiazione divina”, in J. López Díaz (a cura di), San Josemaría e il pensiero teologico: atti del convegno teologico (Roma: EDUSC, 2014), 171-216