Ror Studies Series | La vita come relazione
Sul luogo della terzietà reciprocante
Alessandro Clemenzia
Istituto Universitario Sophia
Introduzione
Il presente contributo vuole presentare, in modo sintetico e sistematico, alcune implicazioni teologiche che si possono cogliere a partire dai contributi di Giulio Maspero, per quanto concerne una lettura teologica dell’essere e della relazione, e da quello di Pierpaolo Donati, il quale ha tracciato un pensiero sulla relazionalità all’interno di un discorso primariamente sociologico1.
Sui passi del primo contributo, recupererò il ritmo del pensare, facendo riferimento in particolare all’orizzonte interpretativo alla luce del quale egli presenta la sua prospettiva teologica: l’ontologia trinitaria. Per quanto concerne, invece, il secondo contributo, quello di Pierpaolo Donati, l’attenzione sarà rivolta primariamente su una formulazione ontologica della sua proposta a partire dal ruolo che la relazione ricopre in un rapporto duale. Riprenderemo adesso, dunque, alcuni passaggi decisivi della loro riflessione, non tanto con l’intento di farne una sintesi, quanto piuttosto per argomentare un discorso che funga poi da trampolino di lancio per evidenziare alcune implicazioni più profonde.
L’ontologia trinitaria come “luogo” teo-logico
Per comprendere l’orizzonte all’interno del quale si muove questa riflessione, possiamo recuperare quanto ha messo in luce Giulio Maspero. Già nel titolo della sua relazione emergono l’oggetto materiale, vale a dire l’essere e la relazione, e l’oggetto formale della ricerca, e cioè l’ontologia trinitaria. Per “oggetto formale” si intende l’occhio prospettico con cui si guarda un determinato oggetto, e che in qualche modo rappresenta il punto di partenza di un discorso: dal luogo in cui l’osservatore si pone, infatti, la realtà può assumere peculiarità differenti. Eppure, anche quel luogo prospettico, che funge da orizzonte comprensivo, risente di una non obliabile difficoltà, in quanto la formula che sinteticamente vuole descriverlo e caratterizzarlo ha di per sé un significato non univoco: “ontologia trinitaria”. «Esistono varie e diverse ontologie trinitarie, sia a livello di sostanza sia a livello di denominazione»2. Per procedere nell’argomento, occorre dunque chiarire non tanto le diverse accezioni che caratterizzano la formula sopra menzionata3, quanto piuttosto quale sia il significato che le si vuole attribuire in queste pagine. Per Maspero questa denominazione afferma almeno due aspetti: il cosa sia una determinata realtà; il dove il soggetto si collochi per interpretare la realtà. Per questo, continua l’autore, «la domanda sul cosa non può essere astratta da quella sul da dove, cioè dalla prospettiva e, quindi, dalla relazione mediante la quale si ha accesso all’essere stesso»4. In questa accezione, la comprensione di “ontologia trinitaria” sembra in qualche modo prendere le mosse dalla proposta interpretativa del teologo Piero Coda, il quale afferma:
«Il lemma “ontologia trinitaria” può essere preso in due sensi: uno più largo e uno più stretto. In senso largo, ontologia trinitaria designa ogni interpretazione della realtà che – esplicitamente o anche implicitamente – muova dal luogo entro cui l’evento di Gesù Cristo ci ha attirati. […] In questo senso – e ciò è senz’altro un tema da approfondire – un’ontologia trinitaria può costituire l’orizzonte interpretativo di riferimento, libero e plurale, di ogni interpretazione particolare della realtà messo in opera dai diversi saperi. […] C’è poi un significato più stretto ed epistemologicamente preciso di “ontologia trinitaria”, secondo cui questo lemma nomina quella specifica interpretazione dell’essere in quanto essere che scaturisce dalla presa di coscienza formalmente istituita del luogo in cui Gesù ci ha attirati tenendo conto della sua rilevanza propriamente ontologica»5.
A partire da questa particolare modalità di comprendere tutto ciò che è, soffermandosi in particolare sul luogo in cui il soggetto è chiamato a collocarsi per leggere la realtà, Maspero mostra come tutti gli eventi che hanno a che fare con l’uomo, e dunque con Dio, possono trovare nell’orizzonte formale dischiuso dall’evento pasquale il loro significato più profondo. È come se il Crocefisso risorto dispiegasse nei secoli la logica tipica dell’essere stesso di Dio, e dunque del suo modo di relazionarsi verso le creature.
Quanto affermato, secondo l’interpretazione offerta da Giulio Maspero, vale sia per l’evento della creazione6, sia per quello dell’incarnazione7: entrambi, infatti, trovano il loro principio interpretativo nella piena manifestazione dell’essere-Dio di Dio, che avviene in Cristo, e in particolare nella Pasqua di morte e resurrezione, e aprono al tempo stesso la strada a una nuova epistemologia di tipo relazionale8. Naturalmente questo discorso ha delle straordinarie implicazioni anche sul piano del metodo cognitivo, sia per quanto concerne l’ambito della formazione, sia per quello che riguarda il rapporto tra le diverse discipline accademiche, in particolare per l’interdisciplinarietà9.
L’evento della creazione. Maspero, in realtà, più che far riferimento alla dinamica creatrice di Dio, pone l’accento in particolare sul nome di quell’unico creatore, trascendente e totalmente altro dal mondo, il quale «si definisce come Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, cioè il Dio dei padri: la sua identità è relazione stessa non all’uomo in generale, ma a uomini concreti che nella loro storia personale Lo hanno incontrato». Viene qui affermato un elemento inaudito e decisivo, non solo per una comprensione teologica, e dunque trinitaria, ma anche per una antropologica ed ecclesiologica: l’uomo fa parte del nome di Dio. Il nome non è un semplice appellativo; e non ha neanche una natura relativa funzionale (come se servisse a qualcuno per mettersi in relazione con qualcun altro): il nome dice la natura della realtà, e per questo ha un valore fondamentalmente ontologico. Riconoscere, dunque, che l’uomo fa parte del nome di Dio significa comprendere che la relazione, come modalità esistentiva, è una caratteristica di Dio.
L’evento dell’incarnazione. Si tratta dell’avvenimento centrale della storia dell’uomo e di quella di Dio: è l’intersecarsi dell’una con l’altra, o, meglio, dell’una nell’altra. Si tratta di una realtà che occupa un ruolo centrale anche per la riflessione teologica, in quanto manifesta che la relazione non è soltanto qualcosa di esterno a Dio (il modo cioè in cui Egli entra in rapporto con la sua creatura), ma è anche in Dio stesso. Scrive Maspero: «Si scopre, così, che Dio non solo ha relazioni, ma è relazioni: che ha relazioni proprio perché è relazioni»10. Questa verità, che con l’incarnazione del Verbo divino si presenta nella sua assoluta novità, porta anche ad una nuova comprensione del valore della relazione: essa non è un accidente (o addirittura l’ultimo degli accidenti), ma inerisce alla sostanza divina. Per questo Maspero ribadisce: «La relazione fu, così, riconosciuta come coprincipio ontologico insieme alla sostanza»11.
La relazione, dunque, è il principio stesso di individuazione sia per quanto concerne Dio, sia per quanto riguarda la creazione in riferimento al suo Creatore: entrambi trovano in Cristo il loro apice di contatto, nel suo essere vero Dio e vero uomo; si tratta di una vera e propria mediazione ontologica, non soltanto soteriologica. Cristo è il “luogo” relazionale per eccellenza.
Da qui scaturisce una nuova epistemologia. Maspero parte da un dato di fatto: «Nell’ambito teologico […] la conoscenza non è limitata per difetto delle capacità conoscitive del soggetto, ma per la trascendenza dell’oggetto, che a sua volta è soggetto personale. Per questo l’unico percorso conoscitivo possibile è quello relazionale»12. La teologia, dunque, è se stessa, e può svolgere la sua funzione conoscitiva, nel momento in cui vive di quella modalità relazionale che è insita nell’oggetto studiato (oggetto che in realtà rimane sempre Soggetto della teologia): essa può essere veramente se stessa nella misura in cui rinuncia al «possesso concettuale, per abbandonarsi alla dinamica della relazione con il Mistero»13. E se la teologia vive realmente di questa dinamica per essere se stessa, allora può anche esercitare un ruolo esemplare e, si potrebbe anche dire sacramentale, di ricordare a tutte le altre scienze l’eccedenza della realtà. Tale eccedenza sottolinea anche quale sia l’atteggiamento che ciascuna di esse deve assumere verso l’oggetto della propria riflessione, in relazione alle altre: «Ogni approccio scientifico è chiamato ad una kenosi, cioè ad uno spogliamento, che però libera le possibilità relazionali»14.
Andiamo più a fondo su questa relazione tra le diverse discipline, recuperando quanto si era detto precedentemente, vale a dire che l’evento pasquale funge da logica per interpretare tutta la realtà.
Ma quale è effettivamente il contributo che la teologia può offrire alle altre scienze a tale proposito? Non si tratta di un aiuto esteriore, ma di un presupposto ermeneutico, per cui, come la teologia è se stessa nell’essere totalmente proiettata verso ciò che è altro-da-sé, così ogni disciplina trova in se stessa quella spinta relazionale che la porta fuori di sé, per andare incontro all’alterità. Per questo, spiega Maspero,
«non è la teologia che si erge a “maestrina” per bacchettare i diversi ambiti di ricerca, quasi nel timore che possano dire qualcosa che non “vada bene”. È, invece, da dentro le scienze che si produce il fenomeno: ciascuna, seguendo il proprio metodo e la propria logica, si accorge dell’insufficienza di un approccio relazionalmente chiuso, come quello indotto dalla matrice cartesiana»15.
Da qui le conclusioni di Giulio Maspero. La relazione scioglie anche il nodo del limite, e lo fa divenire «apertura e rinvio ad un oltre, ad un’autentica eccedenza»16.
Il paradigma relazionale della realtà
Dopo aver approfondito il tema dell’ontologia trinitaria come orizzonte di comprensione tanto della vita divina, quanto della realtà umana, nel suo riferimento con Dio, è ora possibile rivolgere lo sguardo alle relazioni antropologiche, partendo da una domanda che il secondo autore, Pierpaolo Donati, si è posto come punto di partenza della sua riflessione: vale a dire come pensare le relazioni interumane in un’ontologica connessione con le relazioni divine e con il rapporto che si ha con Dio (rapporto, quest’ultimo, come si è visto, che è la risposta umana alla modalità di relazione che Dio stesso ha intessuto con l’uomo, e che a sua volta è la manifestazione ad extra della stessa relazionalità trinitaria). «La teologia – scrive Donati – dà una risposta tanto semplice quanto problematica: indica la via dell’amore»17. Ma è necessario ricorrere alla teologia per fondare un discorso sull’ontologia sociale delle relazioni? Al di là della risposta che si può offrire, ciò che è di maggiore interesse per questa riflessione è comprendere come l’autore colga nella stessa sociologia quella tensione relazionale verso un’altra disciplina (in questo caso: la teologia) per fondare ontologicamente un discorso sulla relazione interumana (che, di per sé, è l’oggetto materiale specifico della sua disciplina).
Ci si trova davanti a quello che Donati definisce «L’enigma della relazione»18. Un primo passo compiuto dal nostro sociologo è quello di approfondire che tipo di relazione ci sia fra la virtù personale e quella sociale. Pensare le relazioni sociali, infatti, come prolungamento e manifestazione della coscienza soggettiva, come se la vita del singolo, o un suo sentimento, potesse riflettersi e irradiarsi a livello sociale, generando un fenomeno globale – come la solidarietà o la fraternità umane –, è considerato da Donati una concezione ancora ingenua della realtà. E scrive:
«La sobrietà e la cura del creato, la fraternità e le altre virtù sociali, infatti, sono oggi in crisi proprio perché non è più sufficiente che la persona le voglia intenzionalmente, sia essa una persona singola oppure una “persona morale” nel senso tomista del termine, cioè come associazione di persone»19.
E qui, sinteticamente, viene presentata la sua proposta: «C’è qualcosa che sta “nel mezzo” fra le virtù dei singoli individui a cui si deve prestare una nuova attenzione»20. C’è un “tra” che congiunge l’individuo e la società, ed è proprio a questo terzo relazionale che deve essere rivolta l’attenzione, come realtà che ha una sua consistenza, «e non deriva automaticamente dalle disposizioni degli individui in relazione»21. È un qualcosa che accade tra le persone, essendo, da una parte, il frutto delle personali volontà e azioni, dall’altra, qualcosa che va al di là delle intenzioni e delle operazioni dei singoli. In questo senso, oltre alla retta disposizione dell’individuo, è necessario «che le persone “vedano” il bene specifico di quella relazione, che non è la stessa cosa dei sentimenti e delle virtù individuali, e perseguano quella relazione come “bene in sé”, a cui dedicare una cura particolare»22.
Questo terzo relazionale, dunque, da una parte scaturisce dai due o più (essendo “tra” loro), dall’altra «ha una sua realtà»23. Esso ha un suo statuto ontologico, da cui i singoli individui sono in qualche modo in-formati; scrive ancora Donati: «Infatti, non esiste un individuo umano che non dipenda da altri esseri umani e ovviamente dalle tante relazioni con essi»24. Qui il nostro autore sta affermando qualcosa di incredibilmente importante e innovativo: se è vero che sono le persone a costruire le relazioni tra loro, è altrettanto vero che sono le relazioni a far sì che gli individui siano veramente persone. Il valore fondamentale della relazione per l’essere-persona dell’individuo non riesce tuttavia a censurare la paura tra i soggetti coinvolti: perché una relazione sia tale, è richiesto un vero e proprio atto d’abbandono all’altro, e questo non può obliare da parte di entrambi la paura di perdere se stessi. Eppure, tale atto di affidamento costituisce l’uomo in quanto tale.
Ed è proprio a partire da una riflessione fenomenologica sui rapporti interpersonali, da un punto di vista sociologico, che Donati va alla ricerca di un orizzonte ermeneutico che possa offrire una valenza ontologica alla relazione:
«Si tratta di esplorare un nuovo orizzonte, quello di una cultura delle relazioni interumane che sia capace di generare forme di vita sociale tali da mettere le persone in condizioni di sapere e poter rispondere creativamente agli inevitabili enigmi del vivere insieme»25.
Il valore ontologico della relazione non è, dunque, mera speculazione filosofica, ma è il luogo che offre alle persone, singolarmente o comunitariamente prese, la possibilità di comprendere il significato di quella terzietà che, seppure enigmatica, offre loro la possibilità di essere se stesse, a prescindere dalla consapevolezza e dalle qualità individuali che possono avere. Il terzo, inoltre, unisce le diverse parti, «ma fino ad un certo punto, perché esse sono pur sempre diverse, e quindi le accomuna solo per qualcosa che non è individuale»26. Viene qui evidenziata, da un punto di vista fenomenologico, la peculiarità della relazione: essa unisce ciò che è distinto, senza creare confusione tra le parti in causa; anzi, si potrebbe addirittura affermare che unisce e distingue simultaneamente; anzi: unisce distinguendo. Emergono qui in modo evidente alcune peculiarità del terzo, ciò che lo fa essere altro da ciò che unisce e distingue; si tratta, in altre parole, dell’essere della relazione. Scrive Donati: «Questa espressione (l’essere della relazione) significa due cose: si riferisce sia all’essere che è nella relazione, sia al fatto che stare in quella relazione ci fa esistere in un certo modo, e non in un altro»27.
In altre parole viene qui affermato che per risolvere l’enigma esperienziale della relazione è necessaria un’ontologia della relazione, che non sbocchi in un mero relazionismo che vuole soppiantare la relazione alle sostanze; spiega Donati: «La relazione non annulla le sostanze, ma le forgia nel tempo sociale, cosicché dobbiamo sempre leggere la realtà come costituita da sostanza e relazione come co-principi dell’essere»28. Altro elemento fondamentale che offre il nostro sociologo: la sostanza e la relazione sono comprese come co-principi dell’essere. Al di là delle implicazioni filosofiche e teologiche di questo discorso, è interessante notare quale sia effettivamente il contributo di una tale sociologia relazionale: essa considera la società non come un’idea, o come un prolungamento dei sentimenti individuali (che poi finirebbe col diventare una mera proiezione), ma come un complesso di relazioni sociali, che non sono neanche il prodotto delle azioni dei singoli.
Il valore relazionale nella realtà sociale funge anche da risposta ad una delle sfide più urgenti che scaturiscono dal contesto odierno, quale il dilagare trasversale del pluralismo, in quanto può offrire «una nuova semantica delle differenze/diversità, del loro riconoscimento e della loro gestione pratica»29; si tratta, in altre parole, di un pluralismo relazionale.
Ed è in questa operazione di risemantizzazione della realtà che Donati introduce l’apporto che può offrire la teologia, in quanto, a partire dalla teo-logica trinitaria che propone un’equilibrata e intrinseca relazione fra unità e distinzione, mette in luce come tutta la realtà sia un’unità relazionale. La Trinità, infatti, spiega quale sia la dinamica relazionale interna che anima l’unità; scrive Donati:
«Nel codice semantico del Dio Trinitario, la relazionalità fra le Persone divine è tale per cui il Padre e il Figlio generano una relazione-del-Noi che è la terza Persona, “spirano” lo Spirito d’Amore a loro consostanziale, lo Spirito Santo come we-relation, la quale indica che la relazionalità non si chiude in se stessa, ma si apre e si diffonde per sua propria natura. La donalità dell’essere – il fatto che l’essere-nella/della-relazione nasce dal dono e senza dono non potrebbe esistere – genera la relazionalità come circuito allargato di doni reciproci che non può mai chiudersi tra due particolari, ma è necessariamente aperto alla reciprocità allargata che non può escludere nessuno che voglia prendervi parte. L’essere è (ex-siste, ossia è un “terzo” che sta fuori dei due termini da cui emana) in quanto è generativo, ed è generativo perché è intrinsecamente donativo»30.
E questa dinamica trinitaria si invera nelle relazioni umane interpersonali attraverso la mediazione cristologica:
«Quando Cristo dice “tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (Mt 25,40), identificando se stesso con i fratelli più piccoli, egli non vuol certo dire che gli uomini (i fratelli) siano lo stesso Cristo, ma vuol dire che tu hai fatto un’azione a Cristo perché ti sei relazionato all’altro come Cristo si relaziona a lui, come lui lo ama. […] La reciprocità, intesa come scambio simbolico o donazione reciproca, ha un fondamento cristologico»31.
L’unità, dunque, non è un’unione fusionale che elimina la distinzione tra due o più soggetti, e non è nemmeno un prolungamento esteriore dell’interiorità di un individuo, ma è nella relazione. Conclude Donati: «Bisogna guardare dentro la relazione e dentro la sua peculiare struttura. Essa deve avere qualità, proprietà e poteri causali propri. […] Deve mantenere l’autonomia dei termini e nello stesso tempo far emergere il loro bene relazionale»32.
Conclusioni prospettiche: una terzietà reciprocante
Per poter delineare alcune conclusioni prospettiche che si possono evincere a partire dai due contributi offerti, quello di Giulio Maspero e quello di Pierpaolo Donati, è importante recuperare e approfondire alcuni punti decisivi, che si possono scorgere, anche soltanto in nuce, nella riflessione fin qui emersa. Tale operazione richiede di soffermarsi su alcuni aspetti che, a mio avviso, possono ulteriormente offrire alcune coordinate per stillare un’ontologia relazionale che scaturisca dalla teo-logica trinitaria. Enucleerò in questa sede tre tesi: la prima, riguarda una possibile risemantizzazione del negativo; la seconda, una formulazione del principio della terzietà; la terza, infine, alcune caratteristiche della reciprocità che, oltre ad essere reciprocata, possa essere sempre aperta e feconda, generativa: in una parola, reciprocante.
Come già emerso in modo più o meno esplicito in entrambi i contributi, sia da un punto di vista teologico che sociologico, non siamo alla ricerca di un nuovo oggetto della realtà, ma siamo sulle tracce di un orizzonte di comprensione, tale da fungere da sfondo e occhio prospettico alla stesso atto del vedere e del pensare. Ciò significa che l’attenzione, prima ancora che sull’oggetto della riflessione, deve essere posto sul soggetto o, meglio, sui soggetti che si pongono – singolarmente e insieme – dinnanzi alla realtà da interpretare. Naturalmente, lo sguardo del soggetto riesce a influenzare anche la conoscenza dell’oggetto, ma per arrivare a questo è necessario procedere per gradi. Fermare l’attenzione sul soggetto, o sui soggetti, significa trovare quel luogo in cui il soggetto può collocarsi, per vedere da lì l’oggetto del pensiero. Il “da dove”, in quest’ambito, è di imprescindibile importanza: si potrebbe addirittura affermare che è il presupposto logico della stessa conoscenza.
Sin dall’introduzione – come si è già affermato – Giulio Maspero ha esplicitamente recuperato la proposta di Piero Coda, secondo il quale la prospettiva trinitaria è «dischiusa all’uomo nell’evento pasquale della morte e resurrezione di Cristo» (p. 1). Tale affermazione ha un significato e delle implicazioni teologiche (e non soltanto!) di grande rilievo. Si afferma che la dinamica cristologica che si è consumata nella Pasqua è la manifestazione e la rivelazione, non solo della vita divina, ma anche dell’essere stesso. Proprio per questo, a mio avviso, se si vuole prendere le mosse da quella teo-logica scaturita dall’evento pasquale e che innerva la stessa ontologia trinitaria, non si può fare a meno di approfondire quale nuova forma dell’essere-Dio di Dio ci è dispiegata in Gesù crocifisso e risorto. Questo significa, prima di tutto, che la dinamica pasquale, oltre ad avere un significato soteriologico (il “pro nobis et propter nostram salutem”), ha anche una valenza rivelativa: in altre parole, nel culmine della salvezza offerta, il Verbo incarnato dice simultaneamente all’uomo: chi sia Dio e chi sia l’uomo.
Un primo tema da sviluppare, dunque, è il significato che acquisisce il “negativo” alla luce dell’evento pasquale.
Una risemantizzazione del negativo
Nell’evento pasquale viene offerta una teo-logica ad una comprensione globale della realtà; prima di tutto in quanto fornisce una possibile chiave di lettura per un’equilibrata articolazione del rapporto tra quelle due entità che hanno rivestito, nel corso plurisecolare della riflessione filosofica e di quella teologica, un ruolo centrale: vale a dire l’unità e la distinzione (o, utilizzando altri due termini, l’uno e il molteplice)33. Ed è proprio il rapporto tra questi due lemmi a divenire criterio ermeneutico per una possibile risemantizzazione del “negativo”. Tale operazione, tuttavia, non si muove all’interno di una mera speculazione concettuale, ma scaturisce dal cuore della rivelazione, e trova nella forma d’esistenza di Cristo crocifisso e risorto la sua espressione piena e definitiva. In altre parole: è un’intelligentia fidei che germina dall’experientia cristologica, trasmessa ecclesialmente dalla regula fidei. Cosa si intende qui per “negativo”? Si può parlare della morte di Cristo in termini di “non essere”, senza cadere nella contraddizione logica o in una imprecisione teologica? Nell’evento pasquale, e in modo del tutto particolare nell’abbandono, si può scorgere un significato di non essere come forma dell’amore; in una formula, il “non essere dell’amore”. Scrive Stefano Mazzer a tale proposito:
«Nel non dell’amore ciò che è importante capire subito è dunque la valenza primariamente e assolutamente derimente del genitivo soggettivo: ciò che qualifica ontologicamente il non è il suo essere – esattamente nella forma del negativo e non di un altro positivo: e qui è la questione teoretica più ardua – una dimensione intrinseca dell’amore. Il non – o, se si vuole, il negativo – di cui parliamo non ha dunque una valenza a sé stante, una consistenza a latere rispetto all’evento dell’agape del quale, invece, esprime la dimensione di totalità di un dono che davvero raggiunge le vette dell’evangelico fino alla fine (cf. Gv 13,1). Da qui, e solo da qui, ci sembra possibile ri-definire l’ontologia tutta»34.
Il “non essere”, dunque, è una dimensione dell’amore e ha un’intrinseca struttura relazionale; da questa consapevolezza, secondo Mazzer, è possibile ri-definire tutta l’ontologia. Proprio per questo è necessario approfondire la valenza ontologica di questo non essere. Piero Coda, consapevole dei rischi teoretici a cui questa formula sintetica può portare, sistematizza il discorso a partire da una distinzione terminologica, che in realtà è contenutistica: il non essere assoluto, il non essere relativo e il non essere relazionale35. Il non essere assoluto è inteso come negazione di ciò che è, al contrario del non essere relativo che fa riferimento a ciò che una realtà è, distinguendosi dalle altre (per cui è, non essendo un’altra). Agostino ha avuto il grande merito di recuperare questa modalità d’essere al negativo per esprimere la distinzione fra le tre Persone divine nell’unica natura: Ognuna ha delle caratteristiche proprie così evidenti da farla distinguere nettamente dalle Altre. Il «non essere» indica qui la realtà che Ciascuna possiede come propria: il Padre, infatti, “non è” il Figlio in quanto “è” Padre; il Figlio “non è” Padre in quanto “è” Figlio36. Scrive Agostino: «In realtà, infatti, per il fatto che il Padre non è il Figlio, il Figlio non è il Padre, e lo Spirito Santo, colui che è chiamato anche “dono di Dio”, non è né Padre né Figlio, sono senz’altro tre»37. Il non essere, in questa accezione, esprime l’alterità in Dio, vale a dire il fatto che Egli sia Altro, Altro e Altro. Ma come viene vissuta tale alterità? Che tipo di relazioni genera o presuppone? In altre parole – si domanda Piero Coda introducendo così la terza modalità di intendere il “non essere” –:
«Questo non-essere relativo esprime solo, in modo assoluto, la sussistenza distinta di ciascuno dei Tre, o dice anche qualcosa del loro rapporto? In altri termini: il non-essere relativo non apre conseguentemente all’intuizione, fondata sull’evento della rivelazione, di un non-essere relazionale?»38.
Se il “non essere relativo” esprime l’alterità in Dio, e dunque la peculiarità di ogni Persona divina nei confronti delle Altre, il non essere relazionale mette in luce il modo in cui ciascuna di Esse entra in relazione con le Altre. Tale dinamismo divino, come si è già affermato, è stato rivelato da Cristo nell’evento pasquale: lì si ha la piena epifania dell’agire trinitario39. Questa forma di “non essere” dice una modalità relazionale in cui Padre, Figlio e Spirito Santo sono, nell’essere totalmente riversati l’Uno nell’Altro. Il negativo, in questo orizzonte di comprensione, non è un’alternativa all’essere o addirittura una sua negazione, ma ne è il motore interno, il suo stesso modus essendi: ciascuna Persona è, nell’essere dono di Sé alle Altre. Chiara Lubich, in diversi suoi testi, mette in luce in modo teologicamente lucido e fine quanto la realtà sperimentata da Gesù crocifisso possa dischiudere le porte a una ontologia; ne presentiamo due in questa sede; il primo mette in luce come a partire dalla logica trinitaria, il negativo, il non essere, sia una modalità d’essere: «Tre […] formano la Trinità eppure sono Uno perché l’Amore è e non è nel medesimo tempo, ma anche quando non è, è, perché Amore. Difatti, se mi tolgo qualcosa e dono (mi privo – non è) per amore, ho amore (è)»40. Il secondo testo, invece, mostra in modo ancora più chiaro come questa dinamica dell’amore, che trova nel non essere la sua espressione più vera, abbia nella Trinità, e in particolare nella relazione fra le tre Persone divine, la sua condizione di possibilità:
«Il Padre genera il Figlio per amore: uscendo del tutto, per così dire, da sé, si fa, in certo modo, “non essere” per amore; ma è proprio così che è, Padre. Il Figlio, a sua volta, quale eco del Padre, torna per amore al Padre, si fa anch’egli, in certo modo, “non essere” per amore, e proprio così è, Figlio; lo Spirito Santo, che è il reciproco amore tra Padre e Figlio, il loro vincolo d’unità, si fa, anch’egli, in certo modo, “non essere” per amore, quel non essere, quel “vuoto d’amore”, in cui Padre e Figlio si incontrano e sono uno: ma proprio così è, Spirito Santo. Se consideriamo il Figlio nel Padre, il Figlio lo dobbiamo pensare dunque nulla (nulla d’Amore) per poter pensare Dio-Uno. E se consideriamo il Padre nel Figlio, dobbiamo pensare il Padre nulla (nulla d’Amore) per poter pensare Dio-Uno»41.
Da questo testo si può arguire come l’unità divina scaturisca non soltanto da ciò che i Tre hanno in comune, ma anche dalla relazione che si instaura tra loro, e che trova nel non essere la descrizione ontologica di quel movimento esistenziale di uscita della singola Persona da sé per essere totalmente proiettata verso le Altre. L’unità trinitaria si realizza all’interno di quel non essere di Ciascuna, di quel nulla realizzato per le Altre: in questo modo la dinamica divina è realizzata “trinitariamente” non solo perché avviene fra tre soggetti, ciascuno protagonista delle proprie azioni, ma perché trinitaria è la stessa forma della relazione, per cui Ciascuna è simultaneamente prot-agonista avendo le Altre sempre come co-agoniste della stessa azione42. Scrive Piero Coda, nella stessa teo-logica sottolineata dalla Lubich:
«Di Dio, a partire dalla rivelazione, si può e si deve dunque dire che Egli è ed è Agape; del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, in quanto sussistono come relazione, e cioè nel darsi sino in fondo reciprocamente, si può e deve dire che essi sono (Sé) solo in quanto non sono (in Sé, indipendentemente dagli altri), ma si donano dando tutto Sé, e così si ricevono in ritorno (cf. Gv 10, 17-19)»43.
Il principio della terzietà
Il modo più efficace per illustrare la significatività del terzo nelle relazioni è quello di ricorrere al cosiddetto “metodo personologico”. Il pronome io, lungi dal ridursi al semplice dato autocoscienziale, indica l’identità della persona come esistenza incomunicabile: l’esserci (Da-sein) nella sua irripetibilità e unicità. L’io, tuttavia, ha in se stesso una tensione relazionale, in quanto dire “io” è un’autodichiarazione del proprio essere di fronte a un tu: si tratta, dunque, di un io che entra in dialogo con un altro io, che appare nel suo orizzonte come un tu44, entrambi soggetti di una relazione reciproca45.
L’incontro e la relazione tra l’io e il tu vengono compresi, dal teologo Heribert Mühlen46, attraverso un duplice concetto: la relazione d’opposizione e la reciproca approvazione intenzionale. Per quanto concerne l’oppositio relationis, l’io si trova di fronte a un tu nella propria incomunicabilità: l’uno esce da sé per entrare in relazione con l’altro, e da lì rientra in se stesso. Una tale modalità relazionale è chiaramente binaria, e questo non oblia la dimensione relazionale: l’uno scopre la propria identità attraverso l’altro. Quanto più l’io e il tu si avvicinano, tanto più emerge la distinzione tra loro.
L’io, al tempo stesso, stando di fronte al tu nella propria incomunicabilità e scoprendo se stesso come altro dal tu, entra in relazione con lui attuando così un’accoglienza intenzionale di reciproco riconoscimento; questa intentio unitiva è l’origine dell’unione che avviene nell’incontro tra l’io e il tu, mentre l’unione ne è la conseguenza: si ha a che fare con l’unione io-tu.
Accanto a questa relazione duale, come emerge nella struttura fondamentale dell’incontro io–tu, vi è anche l’unione del noi, in cui l’io e il tu compiono un’azione comune, come fossero un unico soggetto, verso un terzo. Questa dinamica relazionale, dunque, è strutturalmente diversa da quella dell’incontro io–tu. Il terzo, inoltre, non si inserisce all’interno della relazione duale dall’esterno, ma scaturisce dalla relazione stessa, anzi: ne è in qualche modo il concretum, la concrezione. In altre parole: il terzo non si aggiunge ad una relazione già esistente, ma ne è l’ipostatizzazione. E c’è di più. Dal momento, come si è già detto, che è la relazione a costituire la peculiarità ipostatica delle singole persone, il terzo è come se fosse in qualche modo a-priori rispetto all’io e al tu.
Tanto la relazione io–tu quanto l’unione del noi possono essere considerate i due modi originari della relazione.
Applicando queste categorie personologiche alla Trinità, vediamo che l’Io fa riferimento in particolare al Padre, in quanto ciò che lo contraddistingue sono l’origine senza principio, la paternità e la spirazione attiva. Scrive a tale proposito Heribert Mühlen: «La parola “Tu” dà a riconoscere da se stessa che alla persona indicata con il Tu è presupposta una “prima” persona, un “Io”. La parola-personale Io non ha invece alcuna ulteriore parola-personale sopra o davanti a sé»47. Il Padre, in virtù del suo essere senza origine è «la prima persona per eccellenza senza un’origine da un’altra persona!»48.
Che il Padre sia un Io non esclude che sia tale in relazione a un Tu. L’essere senza origine e la paternità, infatti, non sono due realtà temporalmente distinguibili, come se il Padre vivesse dapprima in una sorta di solitudine, e in un secondo momento si aprisse alla relazionalità con il Figlio. Tanto meno si può pensare che il Padre entri in relazione con il Figlio per oltrepassare una solitudine originaria: il Padre è, nell’essere in relazione al Figlio. L’Io, dunque, presuppone un Tu che si relazioni a lui in una reciprocità asimmetrica: reciprocità, in quanto in Dio l’amore è mutuus; asimmetrica, in quanto il modo di amare del Figlio si distingue da quello del Padre (un conto è la paternità, altro è la figliolanza). Il Padre ama il Figlio e il Figlio risponde, da Figlio, all’amore del Padre.
Questa risposta del Figlio all’Io del Padre (relatio filiationis) può essere denominata una «relazione Tu–Tu»49, in quanto è il Tu divino (il Figlio) che entra in rapporto con quell’Io (il Padre) che in questa circostanza funge da Tu.
Il Padre, dunque, per la sua inoriginarietà è sempre Io, per la sua paternità può essere anche il Tu del Figlio; il Figlio, invece, nella sua relatio filiationis è sempre Tu, sia in riferimento all’Io del Padre come «risposta», sia in riferimento all’essere Tu del Padre nell’instaurazione del dialogo.
Ed è proprio dalle viscere di questa relazione Io–Tu che scaturisce il Terzo: lo Spirito Santo. Mentre nell’incontro Io-Tu c’è una relazione scambievole e d’opposizione, dove l’uno è di fronte all’altro, il Terzo (che non è né estraneo né esterno) fa sì che i Due continuino a relazionarsi tra loro, attirando però il loro comune sguardo verso di Sé.
Questa diversa postura indica in realtà quei due differenti modi di amare che, secondo Riccardo di San Vittore, caratterizzano la diversità relazionale in Dio: il primo, è l’amor mutuus, vale a dire lo scambio reciproco tra Padre e Figlio; il secondo, è la condilectio, in cui, sullo sfondo dello scambio d’amore tra Padre e Figlio, Questi si rivolgono verso il Terzo a loro comune.
È lo Spirito Santo, dunque, colui che porta in Dio da una relazione Io–Tu ad una relazione all’insegna del Noi. È il Terzo, dunque, il nexus-in-persona50, a inverare la noità divina51.
La reciprocità reciprocante
Il terzo invera l’unità del noi, nel momento in cui rompe la relazione tra un io e un tu, e la apre dall’interno a coloro che non ne fanno ancora parte. Non solo apre il circolo chiuso, ma genera in coloro che sono raggiunti, esterni al rapporto duale, la stessa capacità di generare a loro volta quella modalità relazionale verso altri ancora. Procediamo con ordine. Quest’apertura, essendo all’insegna dell’assoluta “gratuità”, in quanto non richiede all’interlocutore alcuna necessità di risposta o di accoglienza, si presenta come un vero e proprio “dono” (nome che la tradizione, e in particolare Agostino, ha applicato alla terza Persona divina per esplicitare la sua funzione non solo tra Padre e Figlio, ma anche tra Dio e uomo e gli uomini tra loro). Per cogliere, dunque, il dinamismo del terzo, e in particolare di quale relazione si tratti, è necessario recuperare alcuni elementi decisivi che possono emergere a partire da una fenomenologia del dono. Ed è proprio quest’ultimo che prendiamo come punto di riferimento.
Perché il dono sia tale, è necessario che, tanto l’intenzionalità del donatore, quanto quella del donatario, si relazionino tra loro in una piena libertà d’azione52, in modo tale che l’atto della donazione non entri all’interno di una logica dello scambio o del contraccambio53; scrive il filosofo italiano Silvano Petrosino a tale proposito: «Il dono sembra rappresentare proprio ciò che sfugge ad ogni reciprocità rompendo di conseguenza l’orizzonte stesso dell’economico»54.
Gesù, in diverse circostanze narrate nel Vangelo, ha sottolineato questa logica relazionale: basti pensare, ad esempio, al Suo richiamo di invitare a pranzo coloro che non erano in grado di restituire l’invito (cf. Lc 14,12-14), oppure, in un momento ancora più delicato della sua esistenza, nell’orto degli ulivi, quando, al momento dell’arresto, con quel “Sono io!” egli ha richiamato l’attenzione dei soldati unicamente su di sé, domandando che “i suoi” fossero lasciati liberi (cf. Gv 18, 4-9). Il consegnarsi di Gesù a favore dei suoi non richiede una restituzione diretta della vita nei suoi confronti; e questo significa che la logica del dono chiede di agire a fondo perduto, con una misura senza misura.
Jean-Luc Marion ha scritto pagine straordinariamente dense e interessanti per sottolineare come la logica del dono fuoriesca radicalmente da quella dello scambio e del ritorno, rompendo in questo modo il circuito chiuso del do ut des: «Il dono appare quando comincia a perdersi e si perde nella misura in cui si ostina a ritrovarsi»55. Già Aristotele accennava alla questione dell’asimmetria relazionale, prendendo come suo esempio la relazione tra padre e figlio: tutto ciò che il figlio potrebbe fare nei confronti del genitore per ricambiare l’affetto ricevuto non potrà mai rappresentare una restituzione adeguata al dono della vita che egli ha ricevuto dal padre56. Anche Tommaso d’Aquino, nella sua Summa Theologiae, ha messo in luce la specificità del dono: «Donum proprie est datio irredibilis […], id est quod non datur intentione retributionis»57.
Tale gratuità, si è detto, non è chiusa in se stessa, ma “aperta”; non è un dare per ricevere, ma neanche un dare fine a se stesso. L’apertura, in tal senso, non è segno di una predisposizione interiore del donatore, ma l’energia vitale e feconda contenuta nella donazione stessa che investe anche il donatario di quelle medesime caratteristiche. Il recettore del dono, infatti, nel momento in cui l’accoglie, è chiamato non tanto a rispondere in modo diretto (o simmetrico) a colui dal quale ha ricevuto il dono58 (il quale non è una semplice “cosa”, ma energia essenziale59), ma ad accoglierlo, facendo propria la dinamica ivi contenuta nei confronti di altri: l’accoglienza del dono chiama ad una fecondità che si esprime nella ridondanza del dono stesso. In altre parole, il recettore del dono è chiamato a rispondere al donatore donando a sua volta a terzi60.
Anche questa dinamica di reciprocità aperta è chiaramente espressa da Gesù nel momento in cui domanda ai suoi, in restituzione all’agape ricevuta da Lui, non di restituirGli la vita, ma di donarla l’uno per l’altro: il Figlio di Dio ha dato la vita, domandando a ciascuno di darla per i propri fratelli. La reciprocità, come modalità attuativa della donazione, dunque, non consiste nel dare per ricevere (da parte del donatore) o nell’accogliere per restituire (da parte del donatario); essa non implica nemmeno un’equivalenza o anche soltanto una proporzione tra i doni scambiati: si tratta, invece, di una “reciprocità asimmetrica aperta”. Petrosino, ad esempio, per descrivere questa dinamica ha parlato di “reciprocità non reciproca”61, e ha scritto:
«[Il] donatario ‘restituisce’ al donatore facendosi egli stesso donatore per un altro donatario. È questa l’unica ‘reciprocità non reciproca’,‘rapporto senza rapporto’, ‘relazione senza relazione’ che definisce il legame del dono: riconoscere il dono non vuol dire cedere alla tentazione dello scambio, al desiderio di ricambiare o restituire […], ma significa donare ad un ‘altro’ donatario che non è mai il ‘proprio’ donatore. Il modo di ‘ricambiare’ del donatario è proprio quello di accogliere il dono in modo così totale da essere del tutto libero dalla pretesa e dal delirio di restituire, è quello che sa che non potrà mai restituire, e che di conseguenza sa di essere chiamato a diventare a sua volta donatore; laddove evidentemente, contro ogni equilibrio tra ‘dare’ e ‘ricevere’, si diventa donatore solo quando si dona ad un destinatario che non si identifica mai con il donatore dal quale si è ricevuto il dono»62.
Il già citato Piero Coda, per esprimere sia la gratuità sia l’apertura di questa dinamica, ha utilizzato un’altra espressione rispetto a quella di Petrosino, “reciprocità reciprocante”63: si tratta di una relazione che si attua non solo nella dia-logicità, ma anche nell’apertura a terzi, come fecondità della gratuità originaria e della comunanza primordiale64. Questa “teo-logica”, messa in luce dall’autore, emerge nel momento in cui la Trinità, come oggetto materiale, viene colta all’interno di un orizzonte interpretativo e concettuale altrettanto trinitari, dando vita così ad un nuovo paradigma fondativo dell’esperienza cristiana.
Jean-Luc Marion scrive a proposito della ridondanza del dono: «Ogni membro riceve il dono solo per donarlo, così che questo dono, con lo stesso gesto, restituisce in ridondanza il dono (“emanazione”) e, donando, riporta il dono originario al suo fondamento (“ritorno”)»65. Perché il dono sia tale, deve rimanere “dono”, e cioè conservare il carattere intrinseco della donabilità, anche dopo la donazione avvenuta.
«Il dono – scrive Marion – è ricevuto solo per essere, nuovamente, donato. Il beneficiario, d’altra parte, non continua a far circolare il dono per semplice altruismo, come se gli sembrasse cosa giusta, ben intenzionata, e persino caritatevole, il condividerlo con altri. Il beneficiario deve garantire quella che definiamo la ridondanza del dono, rimettendolo in circolo appena lo ha ricevuto, per una ragione ben diversamente radicale: il dono può essere ricevuto solo se dona se stesso, altrimenti non meriterebbe più questo nome»66.
Accogliere il dono significa non “prendere per sé” il contenuto donato, ma piuttosto assumere l’“atto donatore” presente nel dono stesso. Continua Marion:
«Ricevere il dono di Dio, come dono, richiede che l’uomo stesso accolga immediatamente il dono nella sua essenza – come atto donatore. […] L’uomo dunque riceve il dono come tale solo accogliendo l’atto di donare, cioè ancora donando a sua volta. Ricevere il dono e donarlo si confondono in una sola ed identica operazione, la ridondanza»67.
L’esperienza del donatario deve convertirsi nell’atteggiamento di chi vuole assumere in sé le stesse caratteristiche del dono che riceve: «Un dono è ripetuto, e accolto come un dono, solo se il donatore gratificato diventa integralmente e personalmente – ipostaticamente – dono»68. Il dono, proprio in quanto tale, deve poter liberare il donatario dall’obbligo di una restituzione69.
Senza addentrarsi nelle peculiarità della terza Persona della Trinità, basti qui ricordare che il Pneuma è l’eterna ridondanza dell’amore tra il Padre e il Figlio che, rompendo in qualche modo la reciprocità duale ad intra, la apre nella storia a tutta l’umanità. Ed essendo lo Spirito da sempre il “dono” in persona, il darsi a ciò che è extra Deum fa parte dell’essere stesso della vita trinitaria. Il fatto che lo Spirito sia la ridondanza dell’amore tra Padre e Figlio si può cogliere anche nella dinamica interpersonale umana, in cui il Pneuma rende capace la singola persona “spirituale” di amare con quell’amore che ha ricevuto a sua volta: la singola persona risponde quindi all’amore divino amando a sua volta i terzi.
Senza minimamente avere la pretesa di entrare in un discorso ecclesiologico, basti solo ricordare che questa “gratuità aperta” in-forma anche le relazioni intra-ecclesiali, come con-formazione alla vita divina, e, proprio per il suo carattere ridondante, diviene annunzio per-formativo70 della Chiesa stessa.
Queste, dunque, le tre implicazioni teologiche che si possono delineare a partire dal contributo di Giulio Maspero e di Pierpaolo Donati. I contributi di questi due autori sono un ulteriore stimolo alla riflessione contemporanea a non accontentarsi, nel dialogo, di raggiungere una communio, che è espressione di una miscela concettuale di diverse provenienze culturali e disciplinari. Una tale visione della comunione dovrebbe ormai cedere il passo alla realtà dell’unità, come luogo dei luoghi, in cui i diversi saperi non solo sanno entrare in relazione tra loro, ma scoprono ciascuno, nell’altro, l’inveramento della propria peculiarità. Il dialogo, in questo orizzonte odierno caratterizzato da una globale frammentarietà del sapere, diviene il punto di partenza, e non di arrivo del discorso.
E forse può essere che anche attraverso il recupero di una nuova risemantizzazione del negativo, del principio della terzietà e della dinamica della reciprocità reciprocante, si possa arrivare da una già da decenni auspicata interdisciplinarietà alla novità della transdisciplinarietà; si tratta di passare da una non scontata esigenza di acquisire una maggiore conoscenza su una determinata questione o oggetto di indagine attraverso il ricorso a diversi approcci71, ad uno spazio extradisciplinare, dove ogni sapere può collocarsi, conservando il proprio statuto epistemologico. Scrive Sergio Rondinara:
«La transdisciplinarietà nel suo tentativo di esprimere un nuovo linguaggio sul mondo, non ha alcuna pretesa di formalizzare un nuovo campo disciplinare o di costituire una super-disciplina, poiché si presenta come uno spazio relazionale extradisciplinare dove ogni sapere, aprendosi con il proprio metodo e contenuti agli altri saperi, può collocarsi»72.
La terzietà reciprocante vuole essere espressione, e dunque è lì che va contestualizzata, di un nuovo paradigma relazionale, che trova nell’ontologia trinitaria il suo fondamento epistemico e il suo ritmo teo-logico; in quella ontologia, scriveva Klaus Hemmerle, che «si forma dove una nuova visione dell’essere non solamente nasce di fatto, ma dove tale visione stessa viene vista e riflettuta»73. Ma perché quanto affermato non diventi mera speculazione, è necessario recuperare il luogo dell’intelligere; spiega ancora Hemmerle: «Per poter comprendere tale visione dell’essere bisogna essere. La strada che conduce all’ontologia nuova è una strada dell’essere, cioè del vivere. Vede solo chi vive»74. In questo senso, è di capitale importanza ricordarsi sempre che il punto di partenza dell’ontologia trinitaria è l’esperienza; è da lì che scaturisce una nuova intelligentia fidei, in quanto una nuova comprensione dell’essere si ha nel luogo in cui l’essere si dà a conoscere: la realtà.
Bibliografia
- A. Bassi, Dono e fiducia. Le forme della solidarietà nelle società complesse (Roma: Edizioni lavoro, 2000).
- L. Bruni, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia, società civile (Milano: Bruno Mondadori, 2006).
- A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 1998).
- G. Cislaghi, Per una ecclesiologia pneumatologica (Milano: Glossa, 2004).
- A. Clemenzia, Nella Trinità come Chiesa. In dialogo con Heribert Mühlen (Roma: Città Nuova, 2012).
- Idem, “Il “negativo” nella logica crucis. H. Mühlen in dialogo con G.W.F. Hegel”, in P. Coda, J. Tremblay, A. Clemenzia (edd.) Il Nulla-Tutto dell’amore. La teologia come sapienza del Crocifisso (Roma: Città Nuova, 2013), 159-19.
- Idem, In unum con-venire. L’unità ecclesiale in Agostino d’Ippona (Roma: Città Nuova, 2015).
- P. Coda, Sul luogo della Trinità. Rileggendo il De Trinitate di Agostino (Roma: Città Nuova, 2008).
- Idem, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia (Roma: Città Nuova, 2011).
- Idem, “L’ontologia trinitaria: che cos’è?”, Sophia 4 (2012/2): 159-170.
- S. Currò, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion (Roma: Las, 2005).
- J. Derrida, Perdonare (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004).
- S. Dianich, “Soggettività e chiesa”, in ATI, Teologia e progetto – uomo in Italia (Assisi: Cittadella, 1980), 105-128.
- S. Dianich, S. Noceti, Trattato sulla Chiesa (Brescia: Queriniana, 2002), 185-203.
- D. Falcioni, Cosa significa donare? (Napoli: Guida, 2011).
- G. Ferretti, Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento. Atti del 9o Colloquio su filosofia e religione (Macerata, 16-17 maggio 2002) (Pisa: Ist. Editoriali e Poligrafici, 2004).
- M. Fimiani, “Il dono e il terzo”, in F. Brezzi e M.T. Russo (edd.) Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 2011).
- G. Gasparini, “Elementi per una sociologia del dono”, in Idem (ed.), Il dono. Tra etica e scienze sociali, (Roma: Edizioni lavoro, 1999), 11-47.
- P. Gilbert, S. Petrosino, Il dono (Genova: il Melangolo, 2001).
- J.T. Godbout, Il linguaggio del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 1998).
- Idem, Lo spirito del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 2002).
- K. Hemmerle, “L’ontologia del Paradiso ’49”, in Sophia VI (2014-2): 127-137.
- P. Grasselli, C. Montesi, L’interpretazione dello spirito del dono (Milano: Franco Angeli, 2008).
- L.F. Ladaria, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità (Casale Monferrato: Piemme, 1999).
- R. Lavatori, Lo Spirito Santo dono del Padre e del Figlio. Ricerca sull’identità dello Spirito come dono (Bologna: EDB, 19982).
- C. Lubich, “Spiritualità dell’unità e vita trinitaria. Lezione per la laurea honoris causa in teologia”, Nuova Umanità, 26 (2004):11-20.
- J.-L. Marion, L’idolo e la distanza (Milano: Jaca Book, 1979).
- Idem, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione (Torino: Società Editrice Internazionale, 2001).
- S. Mazzer, “Li amò fino alla fine”. Il Nulla-Tutto dell’amore tra filosofia, mistica e teologia (Roma: Città Nuova, 2014).
- H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person in der Trinität, bei der Inkarnation und im Gnadenbund: Ich – Du – Wir (Münster: Verlag Aschendorff, 1963).
- Idem, “Das unbegrenzte Du. Auf dem Wege zu einer Personologie”, Wahrheit und Verkündigung. Michael Schmaus zum 70 (München: Schöningh, 1967), 1259-1285.
- S. Rondinara, “Dalla interdisciplinarietà alla transdisciplinarietà. Una prospettiva epistemologica”, in Sophia 1 (2008-0): 61-70.
- E. Scabini, O. Greco, “Dono e obbligo nelle relazioni familiari”, in Il dono. Tra etica e scienze sociali (Roma: Edizioni Lavoro, 1999).
- P. Sequeri, Sensibili allo Spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti (Milano: Glossa, 2001).
- L. Žak, “Premessa: verso un’ontologia trinitaria”, in Piero Coda, Lubomír Žak (edd.) Abitando la Trinità. Per un rinnovamento dell’ontologia (Roma: Città Nuova, 1998), 5-25.
- Idem, “Unità di Dio: quaestio princeps dell’ontologia trinitaria”, PATH 11 (2012): 439-464.
- S. Zanardo, Il legame del dono (Milano: Vita e Pensiero, 2007).
1Si tratta dei due primi contributi del volume.
3Per un’eventuale approfondimento delle diverse accezioni filosofiche e teologiche dell’ontologia trinitaria, cf. Lubomír Žak, “Premessa: verso un’ontologia trinitaria”, in Piero Coda, Lubomír Žak (edd.) Abitando la Trinità. Per un rinnovamento dell’ontologia (Roma: Città Nuova, 1998), 5-25; Lubomír Žak, “Unità di Dio: quaestio princeps dell’ontologia trinitaria,” PATH 11 (2012): 439-464.
5Piero Coda, “L’ontologia trinitaria: che cos’è?”, Sophia 4 (2012/2): 159-170, qui 165.
6Come viene messo in luce nella relazione di Giulio Maspero, pp. §–§.
20Ibid.
22Ibid.
23Ibid.
33Per un approfondimento teologico della questione, cf. Alessandro Clemenzia, In unum con-venire. L’unità ecclesiale in Agostino d’Ippona (Roma: Città Nuova, 2015), 29-77.
34Stefano Mazzer, “Li amò fino alla fine”. Il Nulla-Tutto dell’amore tra filosofia, mistica e teologia (Roma: Città Nuova, 2014), 19.
35Cf. Piero Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia (Roma: Città Nuova, 2011), 567-573. Per le implicazioni di questo discorso di Coda sulla forma dell’intelligere, cf. Alessandro Clemenzia, “Il “negativo” nella logica crucis. H. Mühlen in dialogo con G.W.F. Hegel”, in Piero Coda, Julie Tremblay, Alessandro Clemenzia (edd.) Il Nulla-Tutto dell’amore. La teologia come sapienza del Crocifisso (Roma: Città Nuova, 2013), 159-199, soprattutto 189-199. Per un approfondimento teologico-sistematico del “negativo” e del “non essere”, nel suo riferimento trinitario e antropologico, cf. Mazzer, “Li amò sino alla fine”.
36Cf. Piero Coda, Sul luogo della Trinità. Rileggendo il De Trinitate di Agostino (Roma: Città Nuova, 2008), soprattutto 52-61; Clemenzia, In unum con-venire, 136-141.
37«Revera enim quod Pater non sit Filius, et Filius non sit Pater, et Spiritus Sanctus ille qui etiam donum Dei vocatur, nec Pater sit nec Filius, tres utique sunt»: De Trin. V, 9.
38Coda, Dalla Trinità, 568.
39Per una lettura dell’evento pasquale come atto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cf. Coda, Dalla Trinità, 262-286.
40Coda, Dalla Trinità, 506.
41Chiara Lubich, “Spiritualità dell’unità e vita trinitaria. Lezione per la laurea ‘honoris causa’ in teologia”, Nuova Umanità 26 (2004), 151: 11-20, qui 15.
42Il termine “co-agonisti” sta proprio ad indicare la trinitarietà delle azioni divine nell’evento pasquale (cf. Coda, Dalla Trinità, 265-267).
43Ibid., 571.
44«Im Person-Wort “Ich” tritt nicht nur das jeweilige Da-sein im Jetzt-hier in Erscheinung sondern auch das konstitutive Du-sein»: Heribert Mühlen, “Das unbegrenzte Du. Auf dem Wege zu einer Personologie”, Wahrheit und Verkündigung. Michael Schmaus zum 70 (München: Schöningh, 1967), 1259-1285, qui 1274.
45Il dialogo è una forma di comunicazione fondamentale per il personalismo, e dà vita a un rapporto in cui si attua una particolare dinamica per cui la persona, uscendo da sé, si ritrova nell’altro, e accogliendolo ne è arricchita.
46Cf. Alessandro Clemenzia, Nella Trinità come Chiesa. In dialogo con Heribert Mühlen (Roma: Città Nuova, 2012), 71-130.
47«Das Wort “Du” gibt von sich selbst her zu erkennen, daß der mit “Du” bezeichneten Person eine “erste” Person, ein “Ich”, vorausgesetzt ist. Das Person-Wort “Ich” aber hat kein weiteres Person-Wort mehr über oder vor sich»: Heribert Mühlen, Der Heilige Geist als Person in der Trinität, bei der Inkarnation und im Gnadenbund: Ich – Du – Wir (Münster: Verlag Aschendorff, 1963), 128.
48«… die schlechthin erste Person ohne einen Ursprung aus einer anderen Person!»: ibid.
49«Quindi si potrebbe dire che la relatio filiationis sia una relazione Tu-Tu» («Man könnte deshalb sagen, die relatio filiationis sei eine Du-Du-Relation»: ibid.).
50«Lo Spirito Santo è l’unità del Padre e del Figlio in persona, egli è […] la pericoresi intratrinitaria in persona» («Der Hl. Geist ist die Einheit von Vater und Sohn in Person, er ist gewissermaßen die innergöttliche Perichorese in Person»: ibid., 166).
51Afferma Mühlen: «L’interscambiabilità dell’Io-Tu non è ancora come tale la comunanza del Noi. Il Noi viene espresso solo nel compimento comunitario dell’atto-Noi» («Die Wechselseitigkeit des “Ich-Du” ist als solche noch nicht die Gemeinsamkeit des “Wir”. Erst in dem gemeinsamen Vollzug des Wir-Aktes kommt das “Wir” zum Ausdruck»: ibid., 161).
52«Il problema è di ricevere il dono senza assumere il giogo della dipendenza, restando liberi»: Giovanni Gasparini, “Elementi per una sociologia del dono”, in Idem (ed.), Il dono. Tra etica e scienze sociali, (Roma: Edizioni lavoro, 1999), 11-47, qui 45.
53Per un approfondimento bibliografico su questo tema: cf. Paul Gilbert, “Donare”, in Paul Gilbert, Silvano Petrosino, Il dono (Genova: il Melangolo, 2001), 9-48; Silvano Petrosino, “Il Figlio ovvero Del Padre. Sul dono ricevuto”, in Paul Gilbert, Silvano Petrosino, Il dono, 49-86; Pierangelo Sequeri, Sensibili allo Spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti (Milano: Glossa, 2001), 79-121; Susy Zanardo, Il legame del dono (Milano: Vita e Pensiero, 2007); Jacques T. Godbout, Lo spirito del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 2002); Luigino Bruni, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia, società civile (Milano: Bruno Mondadori, 2006); Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 1998), soprattutto il secondo capitolo della prima parte, intitolato “Dono, interesse e disinteresse”, 75-112; Jean-Luc Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione (Torino: Società Editrice Internazionale, 2001); Pierluigi Grasselli, Cristina Montesi, L’interpretazione dello spirito del dono (Milano: Franco Angeli, 2008); Andrea Bassi, Dono e fiducia. Le forme della solidarietà nelle società complesse (Roma: Edizioni lavoro, 2000); Salvatore Currò, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion (Roma: Las, 2005); Daniela Falcioni, Cosa significa donare? (Napoli: Guida, 2011); Giovanni Ferretti, Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento. Atti del 9o Colloquio su filosofia e religione (Macerata, 16-17 maggio 2002) (Pisa: Ist. Editoriali e Poligrafici, 2004); Jacques Derrida, Perdonare (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004). Sulle implicazioni teologiche di questa fenomenologia del dono, cf. Clemenzia, Nella Trinità come Chiesa, 302-305; Luis F. Ladaria, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità (Casale Monferrato: Piemme, 1999), 374-379; Renzo Lavatori, Lo Spirito Santo dono del Padre e del Figlio. Ricerca sull’identità dello Spirito come dono (Bologna: EDB, 19982); Gabriele Cislaghi, Per una ecclesiologia pneumatologica, (Milano: Glossa, 2004), 250-254.
54Petrosino, “Il Figlio ovvero Del Padre”, 52. Il testo evangelico che può presentarsi come fondamento interpretativo di questa logica del dono può essere: «Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”» (Lc 14,12-14).
55Marion, Dato che, 102. L’interpretazione di Marion circa il dono e la donabilità si distingue radicalmente da quella di Derrida; per un approfondimento sulle peculiarità di ciascun autore, cf. Currò, Il dono e l’altro.
56Cf. Aristotele, Etica Nicomachea VIII, 13, 1163a 18-22, ed. Claudio Mazzarelli (Milano: Bompiani, 20012), 332-333.
57STh I, q. 38, a. 2, c.
58«Il dono dà sempre origine ad una sfida, ad uno squilibrio, poiché nel suo sistema non c’è simultaneità ma asimmetria. Il quid gratuito e fiduciario rompe costantemente la possibilità di “pareggiare” i conti»: Eugenia Scabini, Ondina Greco, “Dono e obbligo nelle relazioni familiari”, in Il dono. Tra etica e scienze sociali (Roma: Edizioni Lavoro, 1999), 85-105, qui 93.
59Cf. Gilbert, “Donare”, 39.
60«Nel due del legame funzionale, che ha inutilmente contrastato il due del legame pattuitario, il dono immette l’elemento terzo. […] Il dono non può omettere la trivalenza. Nel dono è il tre che produce il due e non viceversa, come invece accade per la dialettica, dove il tre è prodotto a partire dal due»: Mariapaola Fimiani, “Il dono e il terzo”, in F. Brezzi e M.T. Russo (edd.) Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 2011), 48-65, 59.61.
61Petrosino, “Il Figlio ovvero Del Padre”, 52.
62Ibid., p. 77.
63Coda, Dalla Trinità, 566-567.
64Condivido a tale proposito quanto afferma Mariapaola Fimiani: «L’elemento terzo, chiamato a rompere il mimetismo dell’io-tu e del sé-mondo, va allora ridiscusso assumendo l’intera composizione del paradigma del dono e riproponendo, per il problema del legare, la forza del “regno delle cose”. Una riflessione sulla cosa donata, come condizione concettuale del donatore e del donatario, può, così, provare anche a rispondere a quel bisogno di movimento nel pensiero […] che è un passare all’atto, un agire, o un disinnescare il dispositivo assimilante della spettralità generalizzata come nuova forma di orizzonte obbligante» (Fimiami, “Il dono e il terzo”, 58).
65Jean-Luc Marion, L’idolo e la distanza (Milano: Jaca Book, 1979), 167.
66Ibid., p. 168. Scrive Paul Gilbert: «Il beneficiario del dono non può rendersene padrone; deve al contrario esercitare la ridondanza del dono, donare il dono, farlo passare, continuare a metterlo in circolazione» (Gilbert, “Donare”, 37).
67Marion, L’idolo e la distanza, 168.
68Ibid., p. 169.
69«Il linguaggio del dono […] lungi dall’essere ipocrita, serve a liberare l’altro in permanenza dall’obbligo di reciprocità che deriva dal dono. Questo linguaggio, che sembra ipocrita, fa in modo che la restituzione, se mai ci sarà, sarà a sua volta un dono. Il che vuol dire che anch’essa sarà libera. È un linguaggio completamente all’opposto della negoziazione che intende pervenire a un contratto, a una intesa che obbliga ciascuna delle parti a un impegno reciproco»: Jacques T. Godbout, Il linguaggio del dono (Torino: Bollati Boringhieri, 1998), 25.
70Per un approfondimento sul valore performativo dell’atto linguistico della comunicazione della fede: cf. Severino Dianich, “Soggettività e chiesa”, in ATI, Teologia e progetto – uomo in Italia (Assisi: Cittadella, 1980), 105-128; Severino Dianich, Serena Noceti, Trattato sulla Chiesa (Brescia: Queriniana, 2002), 185-203.
71Scrive Sergio Rondinara a tale proposito: «Oggigiorno, infatti, discipline ritenute un tempo tra loro indifferenti vengono sollecitate ad una nuova e più intensa interazione affinché la ricerca della verità su quello che ritenevano essere unicamente il proprio oggetto d’indagine necessita ora del contributo conoscitivo degli altri saperi» (Sergio Rondinara, “Dalla interdisciplinarietà alla transdisciplinarietà. Una prospettiva epistemologica”, in Sophia 1 [2008-0]: 61-70, qui 63).
72Ibid., 65.
73Klaus Hemmerle, “L’ontologia del Paradiso ’49”, in Sophia VI (2014): 127-137, qui 129.
74Ibid