Ror Studies Series | La vita come relazione
Univers(al)ità: ontologia trinitaria e ricerca interdisciplinare
Giulio Maspero
Pontificia Università della Santa Croce
Introduzione: di cosa parliamo
Definire l’ontologia trinitaria non è impresa facile. Come al crescere della luce si moltiplicano dettagli, riflessi e colori, così quanto più un approccio al reale è prossimo al vero, tanto meno è possibile classificarlo e definirlo in modo univoco. Esistono, così, varie e diverse “ontologie trinitarie”, sia a livello di sostanza sia a livello di denominazione, almeno a partire dal prezioso libro “Tesi di Ontologia trinitaria” di Klaus Hemmerle, composto sotto forma di lettera teologica rivolta a Hans Urs von Balthasar1.
Una bella descrizione di Piero Coda, tratta da un articolo intitolato proprio “L’Ontologia Trinitaria: Che Cos’è?”, può introdurci in questa avventura: “La tendenza che spesso prevale, nell’approccio alla realtà in cui ci troviamo gettati, immersi e coinvolti (come s’impegna a chiarire e illustrare la filosofia) è di domandarci che cosa questa o quella realtà, in definitiva, che cosa la realtà nel suo insieme, radicalmente è. E questa è una gran cosa! perché la tentazione – continua, ma oggi addirittura onnipervasiva e incombente – è di ridurre questa domanda a un’altra: a che cosa serve e come funziona, questa o quella realtà? Ma, a ben vedere, prima e all’origine della domanda che cosa “è”, ce n’è un’altra, che le sta sotto, per lo più nascosta e inespressa, ma che in verità è invece la decisiva. Questa domanda tocca il dove, anzi, il da dove io guardo, interpreto e vivo la realtà. Molto, se non tutto, dipende dal luogo dove io sono e mi colloco, insieme con gli altri, per guardare alla realtà e per viverla. Il luogo determina infatti la prospettiva, il come, cioè, io guardo a una realtà e, di conseguenza, il come questa realtà si può mostrare e si può donare a me.”2
L’ontologia trinitaria, nella proposta di Piero Coda, è essenzialmente uno sguardo sul reale che si muove dalla prospettiva trinitaria dischiusa all’uomo nell’evento pasquale della morte e risurrezione di Cristo. In questo senso essa ha avuto inizio nei cuori e nelle menti dei discepoli e, prima ancora, in Maria, la quale ha inaugurato, come alba che splende della luce del giorno che annuncia, uno sguardo sul reale reso possibile dalla presenza del Figlio di Dio e, quindi, dalla luce trinitaria nella storia.
La descrizione proposta da Piero Coda appare, nella mia personale prospettiva, particolarmente pregnante perché l’aggettivo trinitaria caratterizza la considerazione dell’essere in quanto essere, cioè l’ontologia, mediante una relazione concreta. La domanda sul cosa non può essere astratta da quella sul da dove, cioè dalla prospettiva e, quindi, dalla relazione mediante la quale si ha accesso all’essere stesso. Così lo sguardo di Maria sul reale è uno sguardo abitato da una relazione e trasforma il mondo proprio grazie a questa relazione. Tutti conosciamo attraverso relazioni, non solo nel senso del rapporto conoscitivo, ma nel senso più profondo che l’organo stesso della conoscenza sono le relazioni che ci portiamo dentro. E Maria conosce il reale nella relazione che è il Figlio stesso, perfetto Dio e perfetto uomo, che lei si porta dentro spiritualmente e fisicamente. In Lui, lei conosce il reale attraverso le relazioni con le tre Persone divine. Per questo origine sorgiva dell’ontologia trinitaria può essere considerata la conoscenza del reale di Maria, il suo sguardo sul mondo e il suo cuore nel quale medita gli eventi, cioè mette insieme (sumballein), unisce3, rinvenendo e sostenendo le relazioni nella storia.
Ogni ricerca di ontologia trinitaria ha questo orizzonte aurorale, nel quale il Logos precede, in quanto immanente al Creatore stesso, e dove proprio l’apertura a tale precedenza permette di riconoscere pienamente il logos nella creazione e nella propria vita.
L’eredità filosofico-religiosa: quale logos?
Per l’uomo religioso pagano la storia è parte del cosmo, perché essa è ricondotta a ripetitività e necessità. In tale contesto il sacro viene riconosciuto a partire dalle manifestazioni naturali della potenza del creatore, così come per il filosofo il fondamento dell’essere viene cercato a partire da ta physika, cioè dalla natura e dal cosmo stesso. Le stelle e le montagne, il cielo e il mare vengono riconosciute come divinità per il semplice fatto che la loro esistenza sembra eterna rispetto alla caducità della vita dell’uomo. La riflessione metafisica permise una grande purificazione dell’immagine del divino, inaugurando quella che Platone chiamava la “seconda navigazione”. Se i presocratici, in una prima navigazione, avevano individuato il principio primo del cosmo in un elemento naturale, confondendo la causa prima e le cause seconde, ora la riflessione propriamente metafisica iniziava un nuovo percorso, penetrando il velo fenomenico, per riconoscere nelle idee o nell’atto le cause ultime del reale. In ogni caso, la ricerca riconosceva nella dimensione statica, nella necessità e nella finitezza la perfezione. Per questo la conoscenza per eccellenza era quella epistemica, fondata su una catena di cause deterministiche che permetteva di risalire dal mondo al primo principio4.
Il punto essenziale che rendeva possibile tale modo di pensare era un presupposto che io chiamo ontologico, per distinguerlo dalla ricerca metafisica appena descritta, di cui è inconscio fondamento5. Tale presupposto è la convinzione che il primo principio e il mondo fossero uniti da una scala continua di gradi dell’essere, connessi da ragioni necessarie eterne e finite. In questo modo il pensiero del filosofo saggio poteva risalire dal mondo alla divinità. Fondamento di tale possibilità era, appunto, la connessione necessaria tra un livello e l’altro, cioè quel nesso causale che il mondo greco chiamava, appunto, logos. Dalla mia prospettiva questo logos, però, non è il logos in sé, ma solo un particolare aspetto di una realtà più grande. Tale caso specifico può essere definito logos ut ratio. Ciò significa che esso esprime solo le connessioni necessarie, come gli ingranaggi che meccanicamente uniscono e trasmettono l’energia cinetica, ad esempio nel cambio di una bicicletta. La concezione greca non era, ovviamente, materiale, ma intellettuale. Eppure lo sguardo sull’essere dei grandi metafisici era sempre segnato da questa forma specifica di relazione, che è solo un caso particolare del logos, in quanto non è libera6.
Ciò non vuole togliere nulla a Platone e Aristotele, i quali ci hanno lasciato profonde intuizioni dell’oltre che il loro pensiero non riusciva ad esplorare. Basti pensare alla possibilità di una terza navigazione a partire da un logos divino di cui si parla nel Fedone7. Ancora più significativo, per il presente contesto, è il finale del Liside, dialogo che ha per oggetto l’amicizia e che conduce ad un enigma attraverso un ragionamento circolare del tipo A implica B, che implica C, che a sua volta implica A, fino alla conclusione di Socrate, il quale evidenzia il paradosso insito nel fatto che lui e i suoi interlocutori non sanno definire l’amicizia stessa, eppure sono amici8. Così il vertice dell’arte greca rivela la coscienza del limite del proprio sguardo, abitato dal logos ut ratio, poiché dichiara che quando si parla dell’uomo sorgono enigmi insolubili, nodi che il pensiero non riesce a sciogliere, per l’apparente contraddizione tra universale e particolare.
La tragedia nasce proprio da tale tensione: Antigone è sacrificata sull’ara della tensione tra la legge, che tiene unita la polis e che i più vicini al sovrano sono i primi a dover seguire, e la relazione con il fratello, cioè con il genos, la relazione famigliare e particolare. A volte la lettura contemporanea di tali nodi è anacronistica, perché proietta il nostro sguardo su una narrazione dove in questione non c’è l’amore fraterno, o la dimensione propriamente sentimentale, ma quella di una irriconciliabilità di due logoi ut ratio, che non riescono a stare uniti9. È lo stesso che accade con la morte di Socrate, condannato dalle leggi della polis pur essendo giusto, anzi proprio perché insegnava ai giovani la ricerca del vero, cioè insegnava loro a risalire verso le Idee mediante il logos ut ratio. Ma la finitudine di tale logos porta proprio a scontri ed enigmi mortali, di cui Edipo e le altre figure tragiche cadono vittime. Lo scontro non è personale, ma di principio, cioè tra diverse prospettive necessarie. Infatti sia Antigone sia Socrate non hanno paura della morte, perché non sono persone ma personaggi, ipostatizzazioni di idee. Eppure proprio qui si rinviene anche la loro grandezza, perché la loro umanità è a servizio della dichiarazione di un limite, di un fallimento, che la pietà greca omaggia con il vertice dell’arte, con la bellezza che dà fama imperitura.
Diverso è ciò che si rinviene nella Bibbia. René Girard ha laicamente preso sul serio la critica illuminista e la sfida rappresentata dalla genealogia proposta da Nietzsche: assumendo che anche la Sacra Scrittura fosse costituita da una serie di narrazioni senza nulla di speciale rispetto alla mitologia pagana, lo studioso francese, recentemente scomparso, ha accostato i testi e li ha osservati lasciando che le relazioni tra di essi parlassero, anzi gridassero. Così ogni osservatore può prendere coscienza della singolarità del contenuto che per i credenti è rivelato, ma che le relazioni stesse rendono significativo per tutti: solo nell’Antico e nel Nuovo Testamento si assume la prospettiva della vittima innocente e non si dà ragione a chi scarica la colpa sui capri espiatori10. Solo con la luce che promana dalla Rivelazione si coglie l’innocenza di Edipo. E questo perché Dio stesso ha inviato suo Figlio che non è del mondo, ma viene radicalmente e assolutamente da oltre il mondo, per esporsi liberamente, nella Sua Umanità, al meccanismo del capro espiatorio e vincere, nella sua Divinità, tale meccanismo necessario, mostrando la forza di un logos più grande.
Una narrazione come quella del giudizio salomonico, riportata 1 Re 3, 16-28, fa emergere proprio l’identità tra verità e relazione, in questo caso intesa in senso autenticamente personale: quando le due prostitute si recano dal sovrano perché il figlio di una delle due è morto ed entrambe reclamano l’unico sopravvissuto, le parole di Salomone fanno leva sulla forza di un altro logos rispetto a quello necessario, poiché la decisione di dividere in due il bimbo, con una spada la cui forma richiama appunto la Croce del Cristo, fa emergere la realtà della relazione tra la madre e il figlio: analogamente a quanto accade sul Calvario, lei sacrifica se stessa, perché lui viva, e proprio tale sacrificio volontario e libero rivela la relazione come fonte della vita11. Il testo sacro mostra uno sguardo più grande rispetto a quello greco, perché conosce il logos ut relatio, e quindi può contemplare il mondo e la storia a partire dalla relazione con Dio Creatore e amante della sua creatura fino all’estremo di entrare nel mondo e nella storia stessi, facendosi Egli stesso creatura, per la loro salvezza.
Primo nucleo teologico: la creazione
Così la Scrittura pone all’uomo una domanda che, per un pensiero relazionalmente chiuso, diventa un enigma insolubile: come è possibile che dalle narrazioni in essa contenute emerga tale sguardo, emerga cioè una prospettiva che affranca la storia dalla dimensione meramente cosmica? Come è possibile che si passi da una concezione della storia come parte del cosmo ad una prospettiva che rilegge il cosmo come parte della storia? Quale punto di osservazione ha permesso tale presa di coscienza del valore dell’uomo e della negatività della violenza?
Nulla riesce a dar ragione del fatto che un clan di tribù di pastori nomadi che non possedeva divinità proprie, in quanto non aveva una terra e una casa, diventi a poco a poco un grande popolo con una dottrina teologica monoteista pura, ben oltre quanto Platone, Aristotele e poi la grande tradizione metafisica riescano ad elaborare. Ciò è incomprensibile a meno che non sia reale la ragione che questo stesso popolo adduce come fondamento della propria identità ed elemento portante della propria storia: la relazione con un Dio unico creatore di ogni cosa e totalmente trascendente, cioè radicalmente altro rispetto al mondo, ma nello stesso tempo origine del mondo e personalmente presente in esso12. Il Dio di Israele, infatti, si definisce come Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, cioè il Dio dei padri: la sua identità è la relazione stessa non all’uomo in generale, ma a uomini concreti che nella loro storia personale Lo hanno incontrato, fino al punto che Abramo, Isacco e Giacobbe diventano in un certo senso “attributi” di Dio, perché la loro relazione con Lui Lo caratterizza13.
Tale dimensione relazionale può sussistere ed essere autentica, perché si è superata in modo radicale ogni connessione necessaria: nella prospettiva di Israele si dà una netta cesura tra Dio e il mondo, che è stato tratto dal nulla e viene mantenuto nell’essere dal Creatore stesso. La storia ha avuto un inizio ed è essenzialmente un cammino, un esodo, verso una pienezza indicata sempre in modo relazionale e sociale, mediante immagini come la casa e la città santa. Tale cesura obbliga a prendere coscienza del ruolo della volontà, in quanto Dio e la creazione non sono necessariamente uniti, ma quest’ultima ha origine dall’amore del Creatore stesso. Lo spazio ontologico che si apre tra i due è proprio quello del logos ut relatio. La ragione ultima del mondo non va ricercata nella necessità, ma nella libertà e, quindi, nella relazione con Dio. L’oltre assoluto del Creatore viene riconosciuto come origine del mondo.
La conoscenza autentica del reale, allora, non può più esaurirsi nella ricerca della catena di cause necessarie, ma deve aprirsi alla libertà, quindi all’amore. La prospettiva per cogliere il senso ultimo del creato può essere solo una relazione, in modo tale che solo il dialogo con il Creatore permette l’accesso alla verità. Il mondo stesso acquista, così, una dimensione eccedente rispetto alle capacità conoscitive dell’uomo, il quale può attingere il vero solo in dialogo, solo in una forma di pensiero aperta al reale e all’incommensurabilità del reale stesso. Filone, ad esempio, scrive: “Fu proprio quando Abramo ebbe conosciuto più a fondo se stesso che disperò di sé, e questo in vista di raggiungere l’esatta conoscenza dell’Ente che veramente è. Il che rientra nell’ordine naturale delle cose: chi perviene a una profonda conoscenza di se stesso dispera radicalmente di sé, perché ha avuto l’intuizione preventiva della propria nullità rispetto a tutto il creato; e chi dispera di sé comincia a comprendere Colui che è.”14
L’antica alleanza aveva lo scopo di preparare il pensiero dell’uomo a tale percezione della propria nullità e dell’eccedenza, quindi a quell’apertura radicale che risplende in Maria. Lei, infatti, nel momento dell’Annunciazione accoglie nel suo pensiero come ragione e senso della richiesta, cioè come logos, l’affermazione che nulla è impossibile a Dio15. Poi, canta il Magnificat, ringraziando il Suo Signore per aver guardato l’umiltà della Sua serva, della Sua Ancella16.
Da tale prospettiva, la fede non è più via di conoscenza inferiore rispetto al pensiero che scientificamente risale la catena di cause necessarie, ma è riconosciuta come via di conoscenza superiore, in quanto pensiero aperto alla relazione. Essa si interroga sul che cosa a partire da un luogo che, grazie alla relazione offre un punto di osservazione esterno alla finitezza del creato stesso, abbracciandolo in sé. Agostino definisce, per questo, l’atto di fede come “pensare a partire da un sì”, cioè cum assensione cogitare17. Qui il pensiero aprendosi non nega se stesso e le proprie aspirazioni, ma piuttosto le realizza, perché ciò a cui ha accesso è veramente quella conoscenza piena a cui tende, che altrimenti sarebbe impossibile raggiungere con il solo logos ut ratio. Il limite, infatti, non è qui dovuto all’insufficienza delle sue capacità, ma alla trascendenza dell’oggetto conosciuto.
Tale trascendenza implica un’eccedenza assoluta, in modo tale che solo la relazione può dare accesso a una vera conoscenza. Si è, così, condotti alla scoperta del mistero in senso ontologico, che è radicalmente superiore al mistero in senso meramente gnoseologico conosciuto dai greci. Infatti, per loro l’ente era di per sé conoscibile in quanto intellegibile. È vero che essere e verità sono universali, e come tali si identificano tra di loro, ma a livello creaturale essere e conoscibilità vanno distinti. L’ultimo termine indica, infatti, la possibilità di venire conosciuti. Ma nel momento in cui la ragione ultima del creato è la volontà del Creatore, si scopre allora che l’essere è propriamente intellegibile solo da parte Sua, mentre l’uomo può superare l’infinita distanza ontologica tra sé e la ragione autentica del proprio mondo solo attraverso la relazione personale con il Creatore stesso.
Con un esempio semplice si potrebbe dire che per il filosofo greco l’essere è mistero, ma nel senso in cui lo sono le soluzioni alle parole crociate o l’identità dell’assassino di un giallo. Lui sa a priori che la risposta c’è, perché Dio e il mondo sono da sempre uniti dalla catena di cause necessarie. Ma tale risposta è una realtà intellegibile, del tipo di una formula, una nozione, un numero, come avviene per un’equazione. Qui è in azione solo il logos ut ratio. Invece il mondo ha come ragione ultima il logos ut relatio, in modo tale che il mistero che lo caratterizza è autentico, ontologico, come avviene nel momento in cui si conosce una persona. La risposta alla domanda su quando questa compie gli anni rientra nel mistero gnoseologico, mentre chiedersi chi la persona sia è ben altro e non può venire scritto, inviato per mail, o trasmesso in modo meramente nozionale.
Si è giunti così alla presa di coscienza dell’esistenza del Mistero ontologico in senso proprio, che non può essere s-velato, ma solo ri-velato, dove il cambiamento del prefisso indica che oltre il primo velo si rinvengono altri veli e così senza limite. Con un’immagine si potrebbe dire che il mistero meramente gnoseologico è bidimensionale, mentre quello ontologico è tridimensionale, cioè ha una profondità come il cielo e come il mare.
Secondo nucleo teologico: il Figlio
In questo primo passo si è seguito il percorso di pensiero che ha portato a riconoscere la differenza radicale tra Dio e il mondo e quindi a rileggere il rapporto con l’uomo in termini relazionali, secondo quando la stessa creazione ad immagine e somiglianza suggerisce18. Fino a questo punto la relazione è stata riconosciuta come logos di tutto ciò che esiste, in particolare dell’uomo. In questo senso essa è tra Dio e il mondo, sgorga dal Creatore stesso ed è in ogni realtà creata, e più di tutti nell’uomo, in quanto ne costituisce l’essere stesso.
Con l’incarnazione e il sì di Maria si accede ad una dimensione ulteriore della relazionalità, perché ora la relazione viene riconosciuta in Dio stesso. Il Mistero ontologico si rivela, dischiudendosi senza cessare di essere Mistero, attraverso l’invio nel mondo del Figlio e dello Spirito Santo da parte del Padre. Si scopre, così, che Dio non solo ha relazioni, ma è relazioni: che ha relazioni proprio perché è relazioni. Esse non sono solo modi di rapportarsi alla creatura per i limiti di questa, ma sono espressione della infinita perfezione dell’immanenza del Creatore.
Il popolo ebraico, che a costo di tante difficoltà aveva accettato la trascendenza divina e la differenza radicale tra Dio e il mondo, ora si trova di fronte un uomo, un uomo vero che nasce da donna, cresce, lavora, ha fame e sete, predica e muore, ma che nello stesso tempo dice di essere il Figlio di Dio, dandone prova con la risurrezione. Il logos ut relatio non è più solo il senso del mondo che si deve rinvenire nella relazione con il Creatore, ma è il Logos eterno che è nel seno del Padre. Il prologo di Giovanni diventerà il terreno di discussione teologica più accesa tra il III e il IV secolo, quando il pensiero dell’evento cristiano si dovrà confrontare con la ristrettezza delle categorie metafisiche ricevute con l’eredità greca.
L’operazione fu ovviamente relazionale, nel senso che non si poteva sostituire l’ontologia greca con una nuova ontologia radicalmente diversa: coerentemente con la relazionalità del messaggio rivelato, la metafisica classica fu estesa, preservando il rapporto con essa. Si lavorò sullo sguardo, sulla prospettiva costituita dall’ontologia inconscia che sottostava alla tradizione platonico-aristotelica.
Il Logos divino è rivelato come Figlio unigenito che abita l’eternità del seno del Padre19. Egli non può essere creatura, né un grado ontologico intermedio tra il mondo e Dio stesso. Ma allora ciò significa che esiste Qualcuno il cui essere coincide con la relazione di Filiazione e che questo Qualcuno è nell’arché, nel primo principio, cioè è Dio stesso. Da qui si è obbligati a dedurre che Dio non solo è come un padre, cioè che è Padre in quanto crea, ma che Dio è Padre in sé, da sempre e per sempre, indipendentemente dalla creazione20.
Padre, Figlio e Spirito vennero così riconosciuti nella loro identità sostanziale e contemporaneamente nella loro distinzione personale, quindi nella loro unità assoluta e nella loro trinità assoluta. L’enigma metafisico posto dalla rivelazione fu formidabile, in quanto il testo scritturistico indicava come ragione della distinzione la relazione di origine delle tre Persone divine. Così fu riconosciuto che questo Dio personale totalmente trascendente, che parla, ha volontà e ama, nello stesso tempo è caratterizzato da un’immanenza, cioè da una dimensione interna al suo essere, conoscibile solo attraverso la rivelazione di sé. E tale dimensione è eterna, in quanto si identifica sempre anche numericamente con l’unica essenza divina, ma nello stesso tempo è costituita da tre relazioni anch’esse eterne, che contemporaneamente distinguono e uniscono le Persone, la cui identità è per questo, appunto, relazionale.
La metafisica classica conosceva solo la sostanza come principio di individuazione: in questo approccio Padre e Figlio potevano essere detti diversi, e non mere maschere indossate in sequenza da un unico dio, solo se corrispondevano a due sostanze diverse. Ma la rivelazione evangelica mostra come veramente il Padre e il Figlio sono una cosa sola, cioè un’unica sostanza. Allora il pensiero cristiano fu condotto al riconoscimento di una forma di relazione che non fosse mero accidente, come avveniva secondo la categorizzazione di Aristotele. Nel suo pensiero, l’identità di un ente non poteva essere modificata da una relazione, in quanto essa era solo un accidente, anzi il minimo degli accidenti, così ontologicamente rarefatto da non aver bisogno di una sostanza alla quale inerire, come gli altri accidenti, ma addirittura di due21.
Ora invece, la prospettiva offerta dalla rivelazione evangelica mostrava una realtà in cui la distinzione era puramente relazionale e interna alla sostanza divina. In questo senso tali relazioni di origine tra le Persone divine, dovendo essere necessariamente eterne, non potevano essere meramente accidentali. La relazione fu, così, riconosciuta come coprincipio ontologico insieme alla sostanza22.
Ma ciò permise una concezione radicalmente nuova del rapporto tra Dio e il mondo. Per Aristotele la sostanza distingue perché la forma intellegibile universale si unisce alla materia potenziale che individua. In questo modo il concreto è tale perché segnato dal limite, mentre solo l’universale è perfetto: la persona, la storia, l’esistenza e tutto ciò che è singolare non può essere divino. Invece se la differenza è relazionale, cambia tutto, perché la relazione stessa diventa principio di individuazione sia in Dio che nel creato. Io posso appartenere ad una categoria ma essere nello stesso tempo unico per le relazioni. Il mio paese e la mia storia non sono l’universale, non sono perfetti, ma ciò non toglie che siano unici e che siano connessi alla perfezione. Le madri che vedono nei figli delle persone meravigliose non li idealizzano, solo li vedono attraverso l’unicità delle relazioni. Li vedono da dentro. Lo stesso accade con quello che di mia madre, ad esempio, possono vedere le persone con le quali mi incrocio mentre sono sull’autobus con lei e quello che posso vedere io attraverso la relazione che mi unisce a lei da dentro a dentro.
La radice ontologica di tutto ciò è il fatto che Dio e il mondo non appartengono ad una stessa categoria, perché il Primo Principio è assolutamente trascendente ed eccedente rispetto al creato23. Nulla lega in modo necessario i due livelli ontologici. Questa costatazione che sembra allontanare Dio e il mondo, in verità, li avvicina, perché permette di riconoscere il loro rapporto come una relazione libera dove non c’è spazio alcuno per la dialettica. Il punto è cruciale, perché nella visione metafisica classica Dio e il mondo potevano essere distinti solo attraverso un deficit di essere del secondo rispetto al primo. Ad esempio, il Motore Immobile aristotelico non ha virtù e non ha facoltà perché è puro atto, mentre tutti questi elementi sono connessi alla dimensione potenziale intrinsecamente unita, in tale concezione, all’individualità. Virtù e facoltà dicono, così, perfezione, ma una perfezione equivoca rispetto al divino. Il mondo classico deve, dunque, sottolineare la differenza tra Dio e il mondo, perché ha come unico principio di individuazione la sostanza24. Invece, nella prospettiva cristiana la distinzione ontologica può essere fondata sulla relazione, in modo tale che nell’atto stesso in cui si evidenzia la differenza, si dice anche l’unità. Così la fede permetterà di pensare ciò che unisce Dio e l’uomo. Di più, alla luce di questo si scopre che l’oggetto fondamentale della teologia è una relazione, perché l’assenza di categorie comuni sotto le quali cadano Dio e il mondo25 porta a riconoscere come oggetto proprio dell’atto teologico la relazione tra di essi.
Per questo, la teologia trinitaria e la cristologia hanno dovuto affrontare il problema dell’incapacità di accogliere la novità dell’evento cristiano che caratterizzava le categorie aristoteliche per rielaborarle, riconoscendo la possibilità che la relazione stessa non fosse un semplice accidente. Così lo spazio del Mistero ontologico nel senso più proprio è quello delle relazioni eterne che costituiscono l’immanenza divina e che si identificano con l’Ipsum Esse Subsistens, cioè con la sorgente ultima di ogni cosa. Nell’origine Relazioni e Mistero sono uniti. Ciò può spiegare teologicamente l’enigma che le relazioni create presentano all’uomo.
La dimensione cristologica è essenziale nell’ontologia trinitaria perché l’assoluta differenza di piano ontologico di Dio e del mondo implica che l’accesso al Mistero sia possibile solo attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio26. Il Cristo rappresenta l’unica via per conoscere chi è veramente Dio in sé, come chiarisce l’ultimo versetto del prologo giovanneo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.”27 La storia e i misteri della vita di Gesù di Nazareth, i quali costituiscono ciò che in termini tecnici si chiama economia, rappresentano l’unico modo per accostarsi all’intimità divina, che in termini tecnici si definisce immanenza. La prima indica l’agire salvifico di Dio, mentre la seconda il Suo essere. Allora l’unico cammino possibile per giungere a conoscere l’immanenza, cioè il Mistero costituito dalle Relazioni eterne delle tre Persone divine, è l’economia.
Ma l’economia a sua volta è essenzialmente relazionale perché, nello stesso momento in cui si prende coscienza della dimensione autenticamente trinitaria del Primo Principio, si è anche costretti a riconoscere le due nature del Cristo, il quale è perfetto Dio e perfetto uomo, unite senza confusione e distinte senza separazione. Tale “grammatica” teologica si esprimerà nei quattro avverbi presenti nella formulazione della fede a Calcedonia28 e nel successivo chiarimento che solo il pensiero può distinguere le proprietà di ciascuna natura nell’unità assoluta dell’ipostasi del Cristo. Si comprese che in Lui ciò che si diceva di Dio si poteva predicare dell’uomo e viceversa, fino all’estremo di poter dire che uno della Trinità era morto sulla Croce (unus de Trinitate passus est)29.
Da tale prospettiva il Figlio di Dio incarnato è in sé relazione, perché la Sua Persona divina, che si identifica con la relazione eterna di Filiazione, assumendo la natura umana nella storia, unisce il Cielo e la terra, il tempo e l’eternità, essendo Egli stesso la relazione tra Dio e il mondo. Infatti, Gesù non è a metà strada tra il Creatore e la creatura, ma in quanto Figlio rimane perfettamente nell’immanenza divina del livello ontologico eterno che è la Trinità, assumendo però anche una natura autenticamente umana che appartiene pienamente alla creazione. Per questo Egli è tutto in Cielo e tutto in terra, rivelando nel suo essere la forma della Croce stessa: infatti, il Figlio è relazione divina, che si potrebbe rappresentare come un asse orizzontale in alto, ma l’incarnazione lo porta ad esprimere e rivelare la Sua Persona facendosi carne e unendo, così, in verticale Dio e il mondo in una relazione libera e indissolubile. Si noti che tale discesa non implica che si abbandoni l’altezza divina. Infatti, Gesù è relazione che unisce il Cielo e la terra proprio perché è il Figlio nell’immanenza divina, cioè perché è relazione eterna in sé.
Ciò impedisce teologicamente di pensare ad un’ontologia divina che sia relazionale in opposizione all’ontologia creata, nella quale la relazione stessa potrebbe in modo equivoco assumere un significato non immediatamente legato alla perfezione. Per questo il pensiero teologico non può fermarsi all’affermazione che la relazione in Dio è sussistente, senza spingersi a indagare come tale relazionalità del Creatore si rifletta nella creatura. La dimensione cristologica dell’ontologia trinitaria obbliga a cercare la relazione nel mondo come suo logos. Infatti, essa è opera della Trinità e può essere compresa pienamente solo alla luce di Cristo, poiché tutto è stato fatto mediante quel Logos che è il Figlio unigenito30, per Lui e in vista di Lui31. In questo modo Gesù di Nazareth è quel “luogo” dal quale si può contemplare la creazione riconoscendone la realtà più profonda, che è quella relazionale. Ancora una volta, si vedono le relazioni solo attraverso le relazioni, per cui in Cristo, nel suo essere relazionale appunto, si può scorgere il valore delle relazioni nel mondo e nella storia come traccia e segno dell’infinita relazionalità divina.
Da questa prospettiva la realtà creata stessa assume una dimensione di mistero ontologico in quanto tutta parla di Dio uno e trino. Il suo senso ultimo non solo è oltre il cosmo, nella trascendenza del Creatore, ma il suo senso ultimo è dentro la Trinità stessa, nella relazione eterna che unisce il Padre e il Figlio nel loro amore. Per questo la caratteristica più profonda anche dell’essere creato è la generatività e la relazionalità fontale, cioè quella capacità caratteristica dell’uomo di avere – ed essere – relazioni che danno origine ad altre relazioni. Ciò significa che i due principi teologici enunciati permettono di prendere coscienza dell’eccedenza del reale rispetto alle capacità conoscitive dell’uomo, provocando anche la filosofia e tutte le altre scienze, che non si muovono in un contesto di fede ma sono interessate al proprio fondamento, a prendere molto sul serio la relazione.
Epistemologia relazionale: enigma e mistero
Il percorso teologico proposto spiega la radicale differenza tra l’epistemologia greca e quella propriamente teologica. Nella seconda, la condizione stessa di possibilità di conoscenza da parte dell’uomo non è intrinseca all’ente conosciuto, come nella prospettiva metafisica sia platonica sia aristotelica, né è intrinseca al soggetto conoscente, come la modernità vorrebbe, ma essa sta nella relazione. Infatti il reale è sempre eccedente rispetto alla possibilità di concettualizzazione da parte dell’uomo. Riconoscere la sua dimensione di mistero ontologico e la sua struttura intima relazionale è l’unica forma di autentica conoscenza. Ciò spiega una definizione sorprendente del vero teologo proposta da Gregorio di Nazianzo, che la tradizione significativamente indica come “il teologo” per antonomasia: “Secondo noi il teologo migliore non è colui che ha capito il tutto, infatti il limite non contiene il tutto, ma è colui che ha saputo immaginare più di altri e più unire (sunagagêi) in sé l’immagine mentale della verità o una sua ombra o come la vorremo chiamare.”32
Il teologo è caratterizzato da un’azione analoga a quella del sumballein di Maria, dove il movimento ora è indicato dal “condurre insieme”, mediante il verbo agô usato al posto di ballô, ma senza un autentico spostamento semantico. Quindi il suo pensiero è radicalmente aperto ed è fondato su un logos intrinsecamente relazionale, che sa riconoscere le connessioni e che non cerca solo di racchiudere in concetti. Questi, secondo l’amico del Nazianzeno e suo omonimo Gregorio di Nissa, addirittura rischiano di diventare idoli33. E la storia insegna che gli idoli chiedono sempre vittime sacrificali.
Proprio nel circolo teologico dei Padri Cappadoci costituito, insieme a Basilio, dai due Padri della Chiesa appena citati, si è giunti ad una formulazione dell’epistemologia teologica che rimane nella storia come elemento architettonico strutturante di tutto il pensiero cristiano. La domanda da loro coraggiosamente affrontata è: in che senso la teologia è una scienza?
Il ricorso alla fede, infatti, sembrava relegare tale forma di conoscenza ad un ruolo subordinato. Il logos greco era aperto alla possibilità di affidarsi nella ricerca del vero all’opinione dei più o ad una parola divina, ma ciò solo quando non si riusciva a risalire la catena causale34. Così la religiosità pagana era aperta alla possibilità di non aver riconosciuto tutte le divinità, perché tutto il cosmo era percepito come ierofanico. Ciò è per Paolo punto di partenza valido nel suo dialogo con gli ateniesi nell’Aeropago35. Il logos greco, infatti, è limitato, ma aperto.
Nell’ambito teologico, invece, la conoscenza non è limitata per difetto delle capacità conoscitive del soggetto, ma per la trascendenza dell’oggetto, che a sua volta è soggetto personale. Per questo l’unico percorso conoscitivo possibile è quello relazionale. Conoscere il Dio uno e trino richiede il passaggio attraverso il rapporto reale con Cristo e la sua storia, che include quella della sua Chiesa con i sacramenti. Il logos teologico, dunque, è ancora aperto, ma relazionalmente slanciato verso l’infinito. La scienza è, quindi, sempre ricerca delle cause, queste, però, ora non sono più solo determinate dal logos ut ratio, ma fondate nel logos ut relatio. L’epistêmê greca, quindi, non viene sconfessata, né la ricerca scientifica è separata dallo studio dell’essere in quanto essere, ma la razionalità greca viene allargata grazie ad uno sguardo capace di riconoscere non solo le connessioni necessarie, ma anche le relazioni libere. E tale sguardo non è rivolto solo al cielo, ma anche alla terra, nel senso che esso permette di leggere più in profondità la creazione stessa, evidenziandone la dimensione relazionale non solo verticale, di cui si occupa la teologia, ma anche orizzontale, che dovrebbe riguardare tutte le scienze. In questo modo, un’epistêmê fondata su un logos più ampio come il logos ut relatio permette di non limitare la ricerca al solo ambito naturale segnato dalla necessità, ma di studiare anche quello della libertà, e quindi della persona, riconoscendo quest’ultimo come fondamento del primo.
Per fare un esempio, in una epistemologia cartesiana è praticamente impossibile riconoscere la psicanalisi come scienza. Essa nacque nell’ambito della medicina, in quanto ricerca delle cause che determinano delle patologie che hanno un effetto anche pesante a livello somatico, ma che non trovano in tale livello la loro origine. La separazione tra res cogitans e res extensa impedirebbe di trattare in termini epistemici uno studio di fenomeni patologici che sono costituiti proprio dal cortocircuito di tale presupposta separazione. La scoperta dell’Edipo da parte di Freud mostra proprio come la relazionalità e i rapporti originari con il padre e la madre giocano un ruolo fondamentale nelle patologie psichiche. Per questo alcuni psicanalisti, nella ricerca di una fondazione epistemologica della loro scienza, si sono rivolti alla teologia, in concreto a quella di Gregorio Palamas, scrittore ecclesiastico bizantino del XIV secolo. Ma ciò che hanno rinvenuto nelle opere di questo autore medievale ha la sua origine nel IV secolo proprio nell’opera dei Padri Cappadoci appena citati36. L’esempio può essere particolarmente attuale, perché mostra il confronto non più con il logos ut ratio greco, ma con la ratio moderna. Questa, nascendo da una secolarizzazione del logos ut relatio, lo sclerotizza e dialetticamente non solo ricade nel dominio della necessità, come accadeva in ambito pagano, ma perde anche l’apertura del logos greco. La ratio moderna è dunque un logos finito e chiuso su se stesso.
In tale contesto la teologia può svolgere un servizio prezioso a tutte le scienze, non nel senso scolastico di una disciplina regina che conosce a priori la verità e la conserva in formule dogmatiche, grazie alle quali da un cattedra elevata, che assomiglia piuttosto ad un piedistallo, giudica i brandelli di verità che le povere scienze ancillari faticosamente rinvengono. Invece, il servizio che la teologia può svolgere è quello di ricordare l’eccedenza del reale, riaprendo alla possibilità di leggere le relazioni. In questo senso la teologia è ancilla Mysterii, perché può essere se stessa solo nel momento in cui riconosce la propria inettitudine e rinuncia al possesso concettuale, per abbandonarsi alla dinamica della relazione con il Mistero, cui sempre la riconducono i due principi teologici esposti.
Nel secolo IV la forma epistemologica assunta da tale riflessione prese il nome di apofatismo. Questo è l’affermazione che Dio si può conoscere solo conoscendo la Sua inconoscibilità. Ciò non vuol dire che di Dio non si possa parlare e che non si possa pensare su di Lui, ma piuttosto che lo si può fare solo a partire dalla relazione con Lui e dall’accettazione della sua eccedenza. È molto interessante constatare come ciò viene esteso anche in orizzontale alla conoscenza del creato, per il quale vale un analogo “apofatismo” fondato sulla sua eccedenza rispetto alle nostre capacità di coglierlo concettualmente. Anche nello studio della natura e dell’uomo, allora, la via della relazione è l’unico modo di progredire veramente nella ricerca scientifica37.
Per cogliere quanto il logos teologico sia vincolato a tale posizione possono bastare le seguenti parole di Joseph Ratzinger: “Se c’è una cosa che la faticosa storia delle lotte umane e cristiane attorno a Dio dimostra sino all’evidenza, è che ogni tentativo di afferrare Iddio col nostro povero comprendonio conduce infallibilmente all’assurdo. Possiamo parlare di lui nel debito modo, unicamente rinunciando in partenza alla pretesa di comprenderlo e lasciandolo invece sussistere nella sua incomprensibilità. La dottrina concernente la Trinità non potrà quindi mai vantare il diritto di essere una comprensione acquisita di Dio. Sarà invece sempre un asserto-limite, un gesto indicatore che addita l’ineffabile: mai una definizione che comprime una cosa nei casellari della conoscenza umana; e mai nemmeno un concetto, che porterebbe la cosa nel raggio captativo dello spirito umano.”38
La teologia è, così, scienza relazionale per eccellenza, in quanto il suo oggetto è conoscibile solo nella relazione, perché è ontologicamente trascendente e infinito. Ma il mondo stesso porta l’impronta del suo Creatore uno e trino, per cui la sua struttura più profonda è relazionale. Basta rileggere il testo precedente e provare a sostituire la parola “dottrina concernente la Trinità” con “scienza” e il termine “Dio” con “reale” per ottenere una descrizione efficace di ogni impresa conoscitiva che sia veramente portata dalla passione per il fenomeno.
La ragione moderna non è più in grado di proteggere tale passione, in quanto si è chiusa su se stessa e ha assunto come presupposti degli assiomi che le impediscono di scorgere la relazione e che negano l’eccedenza del reale rispetto all’atto conoscitivo. Non c’è più spazio per il mistero proprio perché non c’è spazio per la relazione. La ratio si presenta così come un logos castrato, che non può più conoscere né generare. Non bisogna dimenticare, infatti, che non è un caso se l’atto conoscitivo è tradizionalmente descritto in termini generativi, come dimostra la connessione semantica di concetto con il verbo concepire. Così la scienza dovrebbe essere sempre generativa e, quindi, sempre relazionale. Lo conferma anche la definizione coniata da Platone di Eros, che nel suo linguaggio è il vero filosofo, come “desiderio di generare e partorire nel bello”39.
Ma la ratio moderna ha perso tale capacità di generare perché si è ristretta e chiusa su se stessa. La pretesa di autonomia, insita nei presupposti del progetto moderno, hanno condotto all’impotenza relazionale. I diversi logoi sono ora così rattrappiti da non poter più comunicare tra loro perché hanno “scientificamente” escluso ogni terreno comune e ogni possibilità di relazione. Si parla sempre di interdisciplinarietà perché non si riesce più a parlare tra le diverse scienze. I diversi linguaggi e il mito del metodo hanno condotto ad una situazione di assoluta incomunicabilità, che pare quasi uno scherzo sarcastico quando è accostata al senso autentico della parola università.
È come se ogni logos fosse ora chiamato a fare un passo indietro e ad alzare la testa per guardare in volto gli altri. La teologia in questo gioco dovrebbe aprire le danze, proprio perché il suo atto costitutivo è fondato sull’asse che va dal Mistero divino all’eccedenza e, quindi, alla relazionalità. Ma proprio tale asse suggerisce che il dialogo è possibile se i diversi logoi iniziano a guardare insieme la stessa realtà che, in questo modo, può fare da ponte tra di loro. Finché non si prende sul serio il fatto che le teorie, i linguaggi e i concetti non sono la realtà, cioè che l’oggetto conosciuto non è interno al logos ma relazionalmente distinto da esso, non c’è speranza di vera interdisciplinarietà.
In questo senso ogni approccio scientifico è chiamato ad una kenosi, cioè ad uno spogliamento, che però libera le possibilità relazionali. Tale passo indietro non è una perdita proprio perché la relazione ha un’autentica densità ontologica. Se devo lasciarmi trascinare in un esodo dalla terra sicura del mio linguaggio e delle mie categorie di pensiero, posso però scoprire che il terreno perso è guadagnato dalla relazione che così emerge. La terra tra i logoi diventa, allora, terra promessa, perché luogo sacro delle relazioni, casa dove si genera e si viene generati.
Se la teologia non ha sempre saputo mettersi al servizio di tale esodo è stato perché non è stata fedele al logos ut relatio che la matrice trinitaria porta alla sua epistemologia. In questo senso, quando ciò è avvenuto, la teologia non è stata se stessa, ma si è lasciata sfigurare dal logos ut ratio, che è aperto ma non riconosce l’eccedenza, o peggio dalla ratio moderna, che nella sua chiusura genera violenza, perché i differenti logoi non hanno una realtà comune che li relativizzi. In questo caso rimane solo la dialettica per decidere chi ha ragione e, quindi, la legge del più forte. Perché ciò si dia la teologia non deve mai rinunciare a quella triplice precedenza di cui parla Joseph Ratzinger: “ovvero la precedenza della Parola di Dio sul pensiero, la precedenza della fede sulla teologia e la precedenza dell’esperienza di vita sulla teoria teologica.”40
I diversi logoi devono uscire dalla loro tana per dispiegarsi, riguadagnando in sé uno spazio capace di accogliere le relazioni, affinché la passione per la realtà studiata li rigeneri e ridoni loro quella possibilità di stupirsi che caratterizza i bambini.
Il conflitto si può dare realmente solo tra princìpi, tra logoi ut ratio limitati e, ancor più, tra rationes moderne, ma di per sé esso non è il senso più autentico e profondo del reale, perché l’essere è in sé relazione. L’uomo contemporaneo ha un assoluto bisogno di fare esperienza della relazione come effetto emergente e di verificare che l’apertura all’eccedenza lo libera e lo porta ad una conoscenza più vera e più conforme al suo desiderio di infinito.
Dalla prospettiva dell’ontologia trinitaria sviluppata dai Padri l’eccedenza è fondata proprio sulla densità ontologica della relazione che, in quanto coprincipio dell’essere, emerge da una dimensione altra rispetto a coloro che unisce, ma da una dimensione assolutamente reale come loro. Fondamento ultimo di tale eccedenza relazionale è, secondo il pensiero fecondato dalla Rivelazione, il Mistero dell’immanenza trinitaria e della struttura ontologica del Cristo, con il significato che questo riversa nella creazione.
L’eccedenza del reale rispetto al conoscere si presenta, però, laicamente anche a chi non crede come spazio e luogo della relazione. L’avverbio indica che dalla prospettiva proposta la fede non è mai condizione del dialogo, perché il comune amore per la realtà mette in relazione e, triangolando, permette di districare gli equivoci semantici e sintattici che i diversi linguaggi tecnici e le differenti prospettive possono indurre.
La lettura proposta suggerisce, per contrasto, che la ratio moderna, contrariamente alle sue intenzioni, è clericale proprio perché critica la tradizione a partire da una “fede” dialettica che pone la non-fede come condizione del dialogo e la negazione della relazionalità come condizione epistemologica fondamentale. La prova del suo fallimento è la violenza che essa con il suo riduzionismo genera, per il moltiplicarsi delle differenze, cioè proprio di ciò che essa nega, e la conseguente assenza di strumenti di linguaggio e di pensiero che permettano di trattare la differenza stessa.
Da tale prospettiva l’enigma evidenziato dalla ricerca fenomenologica e dall’analisi scientifica di Pierpaolo Donati si può riconoscere come riferimento al Mistero che è tale proprio per le relazioni. Ciò incoraggia a rivolgere lo sguardo contemporaneamente dal dove teologico, da quello filosofico e da quello sociologico a un esempio concreto che, per quanto detto, pare quasi incarnare la crisi relazionale moderna e postmoderna: la formazione e l’insegnamento universitario.
Una realtà comune: formare oggi
L’esperienza universitaria che condividiamo mi sembra ci offra l’occasione per meditare su quale forma di insegnamento impartiamo alle generazioni che la Provvidenza ci ha affidato. Prima di affrontare la dimensione propriamente accademica può essere utile collocare la formazione in generale, e quella specificamente cristiana in particolare, sullo sfondo della società postmoderna.
Se questa è morfogenetica e moltiplica costantemente le differenze, come è possibile sperare di fornire ai giovani un bagaglio culturale che aiuti a vivere nel caso in cui tale bagaglio sia costituito solo da concetti, modelli e informazioni? In un contesto così dinamico, non funzionano più né gli archetipi che rinviano ad una dimensione ideale, tipici della tradizione41, né le proposte funzionalistiche che insegnano il fare, caratteristiche della modernità. Tanto meno può essere efficace un approccio dialettico. Ogni offerta statica è condannata all’inefficacia, perché il cambiamento continuo del contesto mette sempre in fuorigioco il testo. Le condizioni al contorno si modificano costantemente e il senso della proposta si perde. Il nemico contro il quale si erano investite tante energie si dissolve e non si sa più dove ci si trova.
Da questa prospettiva la teologia ha qualcosa di molto pratico da dire: i Padri della Chiesa si trovarono in una situazione simile, in quanto nel dialogo con i loro contemporanei impararono a non op-porre principio contro principio, ma a pro-porre il messaggio evangelico mostrandone le relazioni con il desiderio di salvezza e pienezza insito nel cuore di ogni uomo. Gli elementi della religiosità pagana vennero vagliati per cogliere il buono in essi contenuto, la dimensione profondamente umana di cui erano portatori, scartando e purificando quanto era incompatibile non con Dio, ma con l’uomo, con l’autenticamente umano. Dal punto di vista relazionale la disposizione dei Padri era di profonda apertura, da una parte, e di assoluta fede nel fatto che il senso della creatura, della sua realtà più autentica, è la relazione con il Creatore, dall’altra. In questo modo i primi pensatori cristiani non suscitarono la reazione dialettica dei loro contemporanei, ma a poco a poco, nonostante la persecuzione politica, conquistarono le menti e i cuori a Dio. Operarono quello che oggi in termini di scienza della comunicazione si chiamerebbe un reframing: gli elementi positivi delle posizioni pagane vennero assunti e inseriti in un contesto più grande che, per la sua forza relazionale, faceva brillare ancor di più quegli elementi positivi, mostrandone tutta la bellezza e la portata. Lo spostamento del testo in un contesto più ampio, che si riveli come vero proprio per la forza e intensità della dimensione relazionale che tale spostamento fa emergere, sembra una proposta possibile anche oggi.
La ragione moderna, per la perdita di un riferimento comune ad una eccedenza del vero e del reale, si è ristretta sempre più. I diversi logoi non permettono più la comunicazione perché hanno perso ogni capacità relazionale. Come si è detto, i loro territori sono così angusti da non sovrapporsi più. L’io postmoderno si trova, così, schiavo di una ragione autistica che lo relega in regioni sempre più ristrette. La violenza emerge in modo inevitabile, perché il dialogo è impossibile e l’unico modo di decidere gli enigmi vitali è lo scontro. La legge del più forte si impone come tra tifoserie allo stadio. Gli interlocutori non hanno una realtà comune alla quale guardare, per cui non possono rivolgersi insieme verso un’unica direzione, ma solo scontrarsi dialetticamente per vedere chi vince.
Per uscire da tale situazione, che destina inevitabilmente all’annientamento coloro che vi si lasciano trascinare, serve una formazione che permetta al cristiano di non reagire in modo diretto alla negazione della sua religione e dei valori che essa porta, ma che, alla scuola dei Padri, gli permetta di evidenziare il bene in ogni posizione e spostare il discorso ad una nuova cornice a partire da questo. Per esempio, se Halloween è una festa pagana, che ha dimensioni anche inquietanti per la desensibilizzazione indotta nei confronti dei fenomeni della morte e del dolore, con anche qualche infiltrazione satanica, una opposizione diretta alla dimensione carnevalesca che attrae i bambini, i quali dopo solo qualche anno non si interesseranno più ad essa, non provoca l’effetto voluto. La vita non si difende opponendo un principio all’altro e a colpi di modelli. Invece questa stessa occasione può servire per parlare della santità come felicità in quanto essa è la vigilia della festa di tutti i santi (all hallows’ eve). Riprendere la dimensione positiva del paganesimo, magistralmente evidenziata da Daniélou42, permette di ripetere quel processo che spinse i cristiani a collocare la festa di tutti i santi proprio in prossimità di una precedente festa pagana.
Solo che tale processo ora deve essere ripetuto continuamente. Non si può realizzare una volta per tutte. Questa è l’illusione che ha esposto, in particolare dal Medioevo, la cultura cristiana alla critica moderna. Il pensatore credente – il comunicatore in particolare – deve costantemente risituare il testo contemporaneo in un contesto che faccia emergere il valore relazionale. Nella società morfogenica che continua a creare differenze tale processo deve essere continuamente ripetuto, con inventiva e coraggio. La formazione, allora, deve essere tesa a sviluppare la ragione relazionale, cioè quella capacità di riconoscere il logos ut relatio che sottosta all’umano. Ma ciò richiede, a livello educativo, una formazione all’apertura radicale all’altro, per la quale la condivisione di valori comuni non sia precondizione del dialogo. Questo permette la comunicazione anche nella differenza massima, perché è proprio della relazione che si può sempre rinvenire e riconoscere perfino tra gli elementi più diversi. In tal modo la disposizione costante a cercare la relazione, accompagnata dalla “fede” nel darsi di tale fenomeno emergente, può essere fondamento del dialogo.
Il relativismo, infatti, elimina la possibilità del dialogo stesso e crea violenza, perché non si ha altro modo se non la dialettica per confrontarsi con le differenze. Invece, l’esperienza ripetuta del darsi della relazione, del suo fiorire nel deserto, dell’emergere di qualcosa di reale e vero tra gli interlocutori anche più lontani, favorisce l’insorgere di tale disposizione stabile, che è analoga alla fede teologale propriamente detta. In quest’ultima l’emergere della relazione si dà in verticale, nell’apertura alla trascendenza ontologica del Dio uno e trino, che cerca l’uomo, stabilisce un’alleanza con lui e gli è fedele fino all’estremo della Croce. Ma posto che la Trinità stessa è la sorgente del creato, tale relazione verticale aiuta a riconoscere l’emergere della relazione in orizzontale nell’apertura all’altro da sé, inteso sia come eccedenza del reale rispetto all’io, sia come differenza personale rispetto al soggetto. Alla trascendenza divina corrisponde, così, la trascendenza dell’altro.
Tale apertura radicale all’altro, insieme a una curiosità e una passione profonda per il reale, è all’origine della nascita dell’università, che non per caso si sviluppa in un terreno cristiano. La matrice cristologico-trinitaria ha permesso di spingere la ricerca non in un solo settore, ma di cercare sinfonicamente di riconoscere tutte le relazioni esistenti tra le diverse discipline, facendo concorrere i diversi risultati in un unico quadro che desse gloria a Dio, analogamente a quanto avveniva con la cattedrale medioevale e le Summae teologiche. Tale dimensione dossologica era essenziale, perché proteggeva la ragione dal mero funzionalismo. Il pericolo del riduzionismo rimaneva in agguato, soprattutto mentre ci si muoveva dalla stilizzazione del primo medioevo alla barocchizzazione che ha caratterizzato le epoche successive. Ma la possibilità di rivolgere tutte le branche del sapere in “un unico verso” era fondata cristologicamente nella relazione tra la creazione, il Cristo e il Padre. Il Figlio incarnato era riconosciuto come senso ultimo del cosmo, anche nei suoi aspetti materiali, in modo tale che la relazione tra le prime due Persone divine e la generazione eterna venivano poste a fondamento della possibilità di una “università”. L’unico verso che il ricercatore poteva rinvenire nel reale era dato da quell’essere rivolto al Padre che Cristo aveva in sé rivelato. La luce della fede permette di leggere l’impresa universitaria nella sua dimensione eminentemente filiale e, quindi, relazionale.
Questa osservazione permette di connettere l’operazione che aveva caratterizzato l’opera culturale dei Padri e il progetto medioevale di università con la situazione attuale del mondo accademico. In primo luogo bisogna osservare che la richiesta sempre crescente di dimensione interdisciplinare della ricerca è, in un certo senso, dichiarazione della crisi di identità in cui l’università oggi versa. Infatti, per quanto detto, tale interdisciplinarietà dovrebbe essere intrinseca alla concezione di università stessa.
Ma lo sviluppo della società postmoderna ha minato la stessa possibilità di una vera e propria impresa accademica. Senza la matrice cristologico-trinitaria originaria le differenze tra discipline non possono essere ricondotte a relazioni che ontologicamente rinviano alla struttura più profonda del reale. Quando si inizia a scavare da punti diversi di una sfera verso il suo centro, più si procede in profondità più ci si avvicina non solo al centro, ma anche tra sé, fino all’estremo di giungere allo stesso punto e incontrarsi indipendentemente da dove ci si è mossi. Ciò implica che la serietà della ricerca conduce inevitabilmente al rapporto, e quindi al confronto, con altre discipline e altri approcci. Ma se non si sa come trattare la differenza e per questo si vuole evitare l’incontro, allora il rischio è che volontariamente ci si limiti a rimanere in superficie, per continuare ad occupare un proprio spazio, un proprio territorio fieramente marcato, come fanno cani e gatti, senza voler condividere nulla con nessuno.
La domanda che allora l’attuale situazione dell’università ci pone è: da un punto di vista sociologico, cosa si legge? E tale lettura che relazione può avere con l’istanza veritativa che anima ogni ricerca filosofica? E questo cosa suggerisce da un punto di vista della matrice teologica sottostante?
Sarebbe molto interessante, ed evidentemente anche un po’ provocatorio, il Gedankenexperiment consistente in un confronto tra la concezione di società che si può dedurre dall’esperienza nelle odierne facoltà universitarie, la concezione che si rinviene in un contesto mafioso e quella che emerge dalla fede politeista, con le guerre tra gli dèi cui l’Iliade e l’Odissea continuamente si riferiscono. Così come sarebbe interessante sottoporre queste tre forme sociali alla critica che Platone ha formulato nell’Eutifrone43 e in generale alla purificazione dei miti che la nascita della metafisica ha comportato. Ancor prima della matrice teologica, infatti, la matrice filosofica classica ha il pregio di permettere lo sviluppo di un’accademia, come l’origine stessa del nome indica. Il logos greco, come si è visto, è aperto, seppur limitato.
Aristotele chiaramente non poteva che avere una definizione logica di relazione, ma per lui tale definizione era anche ontologica, perché l’essere era intrinsecamente intellegibile al nous dell’uomo. Eppure la sua ricerca rispetta la complessità della relazione stessa, tanto che il pensiero metafisico successivo si dovrà occupare a lungo di un limite della definizione aristotelica di relazione, cioè la sua ricorsività. Lo Stagirita aveva posto l’elemento definito in entrambi gli estremi della definizione stessa. E ciò non per una svista, ma come traccia della complessità del problema. E ancora, i commenti antichi sulle Categorie si arrovellano su una questione cruciale per il pensiero, cioè il fatto che la scienza stessa, l’epistêmê, sembrasse essere proprio una relazione44.
Tali esempi suggeriscono un profondo rispetto per il pensiero filosofico classico, sorto al di fuori di una serie di relazioni nelle quali il pensiero contemporaneo è immerso. Infatti Aristotele non ha incontrato Cristo. Invece coloro che oggi sviluppano un pensiero ateo o anticristiano non possono prescindere dalle relazioni nelle quali si muovono. Dopo la rivelazione della forza del desiderio dell’uomo e la liberazione delle energie del logos ut relatio, è impossibile tornare a uno stato di reale incoscienza. Una volta che l’effetto emergente si è prodotto, la realtà è definitivamente cambiata e non si può più tornare indietro. Tutti, infatti, come si è visto, conoscono attraverso relazioni, e queste relazioni non dipendono solo dal soggetto, ma sono ad esso precedenti.
Perciò la pretesa moderna che la definizione dell’epistemologia debba precedere l’analisi fenomelogica non regge. Invece si parte sempre dal fenomeno, cioè dalla relazione, e l’epistemologia si sviluppa come riflessività sulla relazione stessa. Quindi, oggi Aristotele e Tommaso, alla luce dell’enorme massa di conoscenza scientifica resa disponibile da secoli di ricerca, non sarebbero di certo né aristotelici né tomisti.
La crisi della pretesa priorità epistemologica, infatti, sorge dall’interno delle singole scienze stesse, come la teoria della complessità rivela45. Non è la teologia che si erge a “maestrina” per bacchettare i diversi ambiti di ricerca, quasi nel timore che possano dire qualcosa che non “vada bene”. È, invece, da dentro le scienze che si produce il fenomeno: ciascuna, seguendo il proprio metodo e la propria logica, si accorge dell’insufficienza di un approccio relazionalmente chiuso, come quello indotto dalla matrice cartesiana.
Tornando al parallelismo provocatorio appena proposto tra la società degli dèi pagani, la mafia e l’università, esso mi è stato suggerito da una formula sintetica che mi è stata riferita in una mia visita negli Stati Uniti: mi si diceva a mo’ di battuta che lì le grandi università nascono come academy, a poco a poco diventano business e rischiano di finire in racket46.
Chiaramente si trattava di una boutade, ma nello stesso tempo tale giudizio, di sicuro frutto di una generalizzazione, può suggerire una domanda che guidi la ricerca: quanto umane sono le nostre università? Quanto umane e quanto umanizzanti? Inevitabilmente tale domanda corre parallela a quella sulla società in cui viviamo, con la disumanizzazione da cui è afflitta proprio a causa della perdita di relazionalità.
Ma tale parallelo ci permette di notare che la società è frutto dell’università che l’ha preceduta. L’esempio più lampante sono le società prodotte dalle ideologie nazista e comunista rispetto all’impresa universitaria di Hegel, con il legame a una certa matrice teologica protestante che l’animava. Così è oggi a tutti evidente l’attualità di un pensiero come quello di Clive Staple Lewis o di Gilbert Keith Chesterton, che però è dovuta proprio al fatto che tale pensiero è stato sviluppato in un contesto accademico che anticipava le patologie sociali che oggi viviamo. In questo senso tali autori, con il loro cristianesimo radicale, possono svolgere una funzione estremamente interessante nell’indicare un cammino per tornare a un’autentica vita universitaria.
L’esempio proposto di oggetto comune sul quale far convergere lo sguardo sociologico, filosofico e teologico, vuole anche evidenziare l’estrema praticità della riflessione universitaria, per la forza dirompente delle idee e la generatività che la caratterizza. La questione verte, dunque, su tale relazione generativa e su quanto essa genera: dai frutti li riconoscerete47, cioè dalla relazione che è al principio di ogni cosa e che è al principio dell’Università e di ogni forma di conoscenza.
Quanto si cerca di far emergere dall’osservazione della realtà comune in considerazione può rinvenirsi nella stessa origine dei nomi che la indicano nelle diverse epoche, o almeno che identificano diverse imprese intellettuali che, però, dal nostro punto osservativo appaiono come relazionalmente connesse. Infatti, l’Akadêmia era il podere a circa sei stadi da Atene dove Platone insegnava. Essa prende il nome da Akadêmos, eroe ateniese lì sepolto in un boschetto di olivi48. Qui il grande filosofo aveva fondato al suo ritorno dall’Italia attorno al 387-388 a.C. la sua scuola. La scelta sembra significativa alla luce di alcuni dati offerti dal mito sulla figura dell’eroe: questi avrebbe salvato Atene dall’ira dei Dioscuri, Castore e Polluce, infuriati per il rapimento della sorella Elena, allora dodicenne e che più tardi per la sua bellezza sarà causa della guerra di Troia, rapita da Teseo re della città. Akadêmos avrebbe rivelato il luogo dove la fanciulla era tenuta nascosta, risparmiando così alla città lo scontro con i terribili avversari. L’etimologia del nome significherebbe, secondo alcune ricostruzioni, “colui che è distante dal volgo”. I tratti del mito sembrano ben adattarsi all’intenzione dell’impresa filosofica platonica che cerca di salvare la polis indicando una strada che preservi dalla violenza attraverso un logos aperto che rinvia oltre la doxa, cioè oltre l’opinione comune.
Dell’Universitas si sono già viste le origini teologiche che permettono di rileggere tutto il reale dalla prospettiva di un unico verso che ora non solo è oltre l’opinione dei più, ma è radicalmente oltre il cosmo. Il logos in Cristo si apre, infatti, non solo all’essere finito, ma a quella stessa sorgente infinita di ogni cosa che è il Padre. Lui è il termine relazionale del “verso” unico al quale tutto è rivolto.
Ben di-verso, cioè volto altrove, è quanto accade con l’Encyclopédie illuminista che secondo la sua etimologia torna a rinchiudere in un circolo (en-cyclo) la formazione (paedeia). Rispetto al progetto di ricerca integrale dell’antichità, si ha ora un passaggio semantico dalla formazione all’informazione, che prova a fissare il sapere, eliminando la possibilità stessa di un oltre ontologico e, quindi, nega qualsiasi eccedenza che non sia meramente formale, come nel deismo dell’Architetto tanto caro ai “liberi muratori”.
Viene invertito il processo di dispiegamento del logos greco, reso possibile dalla matrice teologica cristiana, che libera il desiderio dell’uomo e gli permette di leggere tutta la profondità umana dell’universo. Si giunge così a una realtà universitaria profondamente contraddittoria e disumana, perché nega i presupposti che le hanno dato origine, sostituendoli con condizioni profondamente antirelazionali. Il deus-ex-machina epistemologico, come una spada di Damocle, taglia ogni possibilità di autentico dialogo tra le diverse scienze che, come si è visto, per i Greci stessi avevano un’essenza relazionale.
Conclusioni
Alla luce del percorso proposto, la situazione attuale appare in tutta la sua tragicità, una tragicità che a differenza di quella greca non rinvia ad un’apertura, perché la modernità sbarra proprio la strada della relazione. Ma questo genera una società patoplastica, cioè una società che genera malattia psichica. Infatti, il double-bind che strangola l’uomo moderno è causato proprio dalla ratio che, nel tentativo di fondarsi da sola, si è chiusa alla relazionalità. In questo modo il desiderio infinito che preme nel cuore dell’uomo non trova più una via per potersi realizzare, perché proprio quella ratio che gli ingiunge di essere felice chiude l’accesso all’eccedenza cui il desiderio punta.
Questo può spiegare perché oggi i giovani sono realmente esposti al pericolo di una forma di autismo esistenziale. Il processo descritto, infatti, li spinge a guardare sempre fuori di sé a immagini e modelli perfetti, che svolgono ora la funzione di Super-Io e di legge estrinseca, ben più severi di qualsiasi morale pagana o cristiana. Il double-bind impedisce che si sviluppi una conoscenza e una pratica della propria interiorità, che non è riconosciuta nella sua dimensione di mistero. La sostanza dell’uomo, in quanto personale, infatti, è caratterizzata da uno spazio ontologico dove abitano le relazioni, le quali sono logos dei sentimenti, i quali a loro volta si esprimono nelle emozioni. Queste ultime non sono irrazionali, ma hanno sempre una ragione, che è però logos ut relatio e non logos ut ratio: l’emozione è il risuonare al livello di congiunzione tra il soma e la psiche del movimento che i sentimenti, a loro volta, trasmettono a partire dalla frontiera tra la psiche e lo spirito, nel quale si rinviene l’origine del movimento stesso come relazioni interiorizzate49. Ad esempio, quando un determinato luogo o una persona concreta mi suscitano emozioni negative, non si tratta di una reazione irrazionale, perché è in azione una causalità relazionale, che si propaga attraverso le dimensioni anche storiche dell’uomo a partire da una relazione determinata che segna e conforma l’esistenza. Ciò può essere un processo conscio o inconscio, ma è sempre presente, perché non si può non stare nella relazione, al più si può non esserne consci50.
Così, io ho compreso ad un certo punto che quando sono triste mi metto a suonare al pianoforte le canzoni napoletane che mia madre cantava accompagnata da mio padre, perché istintivamente modulo l’emozione negativa rientrando, attraverso la musica, nello spazio dentro di me, verso le relazioni fondanti e l’amore dei miei genitori che sono in me come relazione interiorizzata. Tali relazioni hanno la forza di modulare sentimenti e, quindi, emozioni, che relativizzano la negatività sperimentata. Ma tutto questo è legato ad eventi concreti, alla storia reale della persona e all’ontologia della relazione.
Quindi, vediamo sempre attraverso le relazioni, ma se non abbiamo riflessività relazionale siamo in balia dei paradigmi che dall’esterno ci vengono proposti, o imposti, quindi in balia di una dimensione ideale di fronte alla quale siamo sempre inadeguati, insufficienti e pericolosamente a rischio di scarto, come ama sottolineare Papa Francesco. Senza l’apertura relazionale all’infinito, il desiderio illimitato dell’uomo si scontra con la realtà finita di questa persona, questa esperienza, questa esistenza.
Da tale prospettiva il limite è letto come lacerante ultima parola, che condanna senza appello. Invece la relazionalità scioglie il nodo tragico perché la relazione come effetto emergente riversa essere nel limite, il quale ora può venire riletto come apertura e rinvio ad un oltre, ad un’autentica eccedenza (naturale o soprannaturale). Il riferimento al bisogno di misericordia e perdono sul quale insiste il Magistero attuale si colloca su questo sfondo. Il logos ut ratio e quello ut relatio non sono, infatti, dialetticamente opposti, ma correlativi, come dimostra proprio l’esempio della musica. Qui il logos di proporzione necessaria degli intervalli e dei rapporti diventa linguaggio che, attraverso il finito, riesce ad esprimere l’infinito del logos ut relatio, che abita il cuore dell’uomo.
L’enigma rinvenuto dall’analisi sociologica può, così, essere considerato riflesso gnoseologico che mostra la crisi del pensiero attuale e, quindi, rivela l’insufficienza filosofico-teologica della matrice sottostante. Il recupero di una dimensione di autentico mistero ontologico, invece, punta verso la profondità ontologica della relazione che può risolvere la crisi stessa e rigenerare l’uomo postmoderno.
Il lavoro filosofico e teologico pare, dunque, quello di far emergere il mistero dall’enigma, purificando il dato fenomenologico fino a lasciare a nudo ciò che non è riconducibile ad altro e, quindi, che, proprio perché a nudo, non può essere compreso semplicemente, capito, in quanto la sua nudità rinvia alla profondità ontologica della relazione. Un pensiero che conosce solo la sostanza, infatti, rischia di rimanere in superficie, perché non conosce l’immanenza personale dove vive la relazione e, quindi, quel livello dove radica il valore della storia dell’uomo concreto.
Rifacendosi all’enigma di Ulisse citato da Donati51, la teologia lo può rileggere come sfida fondamentale all’esistenza di ogni padre, il quale compie se stesso solo nella misura in cui passa dalla logica delle sostanze a quella delle relazioni: un buon padre deve amare il mondo, esserne attratto, per poter introdurre i figli in esso, ma proprio per questo deve saper stare nel limite che sempre è presente nel mondo. Esempio immediato è il limite rappresentato dall’esistenza concreta della moglie, che non essendo Dio non può soddisfare pienamente il desiderio infinito del marito (e viceversa). Ma se il padre, come Ulisse, sa tornare a casa e stare nel conflitto, rinunciando alla ricerca di possesso delle sostanze, che di per sé è comunque frustrante perché destinato a rimanere sempre al di sotto di quanto il desiderio infinito chiede, allora egli nello stesso tempo diventerà testimone dell’oltre del mondo che stimola la dimensione ideale. Nel fare ciò egli diventa in un certo senso relazione, in quanto capace di introdurre nel mondo stesso, che nel suo essere vero attrae pur essendo segnato da limiti. Il padre autentico, dunque, insegna il profitto relazionale e aiuta a sviluppare la corrispondente riflessività.
Ma per fare questo egli ha bisogno di essere a sua volta ancorato ad una dimensione generativa ulteriore, perché nel suo viaggio può morire, come è avvenuto, ad esempio, a vari Padri della Chiesa i quali, per trasmettere quella matrice teologica capace di fondare la relazionalità sociale, hanno dato la vita. E forse questo è anche il severo ammonimento che dal mondo della Grecia classica ancora ci rivolge il sacrifico di Edipo: se non si preservano la distinzioni relazionali fondamentali, se il padre crolla e non distingue più con il suo logos, allora si ha la crisi dove il padre stesso è la prima vittima solo in ordine di tempo, in quanto poi, come lucidamente ha descritto Nietzsche, seguono tutti gli altri, fino all’annichilimento della società intera nella follia del superuomo. Ciò sembra il destino dell’Europa postmoderna, se dopo aver dimenticato le sue radici cristiane nega anche quelle greche. L’Edipo ci mostra il destino di chi non vede le relazioni, destino che per il cristianesimo sappiamo non essere dovuto al fato, né a una colpa morale, ma al collasso ontologico del tessuto relazionale che costituisce la società stessa come spazio in cui si possa sviluppare la vita.
In questo senso la crisi è segno di speranza, come il sintomo è ciò a cui il medico si afferra per curare la malattia. L’enigma della relazione, infatti, ferisce la ragione moderna obbligandola ad aprirsi in un logos capace di accogliere il fenomeno e il reale. E la teologia può aiutare in tale processo, perché evangelicamente legge l’enigma evidenziato da Donati come paradosso che è traccia gnoseologica di quell’ontologia relazionale in cui consiste il Mistero. L’enigma è mistero che si rivela, che rivela la profondità ontologica della relazione. L’enigma è il segno della relazione che emerge dalla profondità del mistero dell’essere. Per questo un pensiero capace di relazione non si ferma alla mera doxa, secondo la lettura greca, ma raggiunge una vera epistêmê risalendo la catena di cause libere, costituita dalle relazioni che abitano la dimensione ontologica sottostante al fenomeno. Per questo il pensiero relazionale è intrinsecamente paradossale.
E ciò si accorda anche con quanto dice il vangelo. In esso, infatti, il guadagno, che costituisce la “buona notizia”, è proprio nella dimensione paradossale perché si tratta di Parola di Dio, Parola che viene da un oltre radicale. Ciò significa che tale Parola corrisponde al nostro desiderio più intimo, ma anche nello stesso tempo indica una via che noi mai perseguiremmo. Per questo essa è paradossale, cioè va contro l’opinione comune. Esempio perfetto di ciò sono le beatitudini, ma praticamente tutte le parabole e le affermazioni evangeliche sono caratterizzate da tale dimensione. Si pensi al pastore che abbandona novantanove pecore per andare a cercare quella perduta, al seme che vive solo morendo, oppure all’affermazione “la mia dottrina non è mia”52, magistralmente commentata da Agostino e ripresa da Ratzinger53.
Il punto è che il paradosso punta verso il Mistero che è la relazione, per cui il paradosso non nega la ragione, ma la costringe ad aprirsi, a passare dal logos necessario a quello relazionale. Un apologo esemplifica bene tale salto: un padre dice al figlio di aprire una pesante porta e questi prova senza successo fino ad arrendersi esausto, dicendo al genitore di avercela messa tutta, per sentirgli, però, rispondere sorprendentemente che non è vero che ha impiegato tutte le proprie forze, perché non ha chiesto aiuto al padre stesso, cioè non ha considerato tra la proprie forze quella del padre, che il figlio possiede non in sé, ma nella relazione.
Ciò mostra come proprio la relazione è il senso del paradosso. Nelle beatitudini54 è chiaro: chi piange è beato non perché piange, ma perché c’è Dio che lo consola; così i puri di cuore sono coloro che sono “tutti cuore”, cioè che non hanno in sé ambiti dove la relazione non entra: costoro non sono beati perché sono puri legalmente, cioè per una condizione a priori ed estrinseca, ma perché sono aperti alla relazione nella quale vedranno Dio. E ciò nel testo evangelico è evidente in massimo grado in quella beatitudine che, almeno nel testo di Matteo, occupa la posizione centrale ed è formalmente simmetrica, cioè il beati i misericordiosi i quali riceveranno misericordia proprio perché si aprono agli altri, e quindi a Dio, nel dare misericordia. Come nel Padre nostro, l’elemento fondamentale è la filiazione, che è anche il centro relazionale del Prologo di Giovanni, dove si dice che coloro che accolgono Gesù di Nazareth, quell’uomo concreto, nella relazione con Lui hanno accesso alla relazione con il Padre, diventando figli nel Figlio55. Questo è il senso di ogni cosa, perché il Logos che è il Figlio si è fatto carne e non è stato accolto, cioè ha sfidato la doxa non per sciovinismo, ma perché viene dall’Oltre assoluto: dall’Alto. Per questo solo chi rinasce dall’alto può vivere, solo chi si apre a quella relazione paterno-filiale che illumina il mondo dallo sguardo “misterioso” di Maria.
Bibliografia
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1Cfr. Klaus Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria (Roma: Città Nuova, 1986).
2Piero Coda, “L’Ontologia Trinitaria: Che Cos’è?”, Sophia 2 (2012): 159-170, qui 161.
3Cfr. Lc 2, 19.
4Cfr. Jean Daniélou, Dio e noi (Alba, CN: Edizioni paoline, 1967), 62.
5Faccio qui ricorso al termine ontologico in senso generale e non nell’accezione ad esso attribuita da Heidegger. Come geologico o cosmologico sono attributi che si riferiscono a un discorso (scientifico) relativo alla terra o al cosmo, così mi sembra che una generalizzazione del discorso sull’essere che non si limiti a cercare il fondamento di quanto appartiene alla sfera dei physika, ma indaghi anche la dimensione della libertà e, quindi, quella propriamente umana rivelata nel suo valore imprescindibile dall’evento cristiano, possa denominarsi ontologia. D’altra parte anche l’espressione teologia ha conosciuto accezioni molto diverse a partire dalla mitologia religiosa, passando attraverso la purificazione razionale di Platone ed Aristotele (si vedano Repubblica, 378.e.7-379.b.1 e Metafisica, 1026.a.18-21), fino ad assumere il significato attuale.
6Cfr. Giulio Maspero, “Logos ut ratio e Logos ut relatio: apofatismo e Trinità nel sec. IV” in Flavia Carderi e Mauro Mantovani e Graziano Perillo (a cura di), Momenti del Logos, (Roma: Edizioni Nuova Cultura, 2012), 197-219.
7Cfr. Platone, Fedone, 85.d.
8Cfr. Idem, Liside, 223.b.
9Lo stesso si può dire dell’Alcesti, dove in questione più che l’amore coniugale c’è il dovere dell’ospitalità.
10Si veda, in particolare, il bel testo Teoria mimetica e teologia, in René Girard, La pietra dello scandalo (Milano: Adelphi, 2004), 63-80; rilevanti anche Idem, Wissenschaft und christlicher Glaube (Tübingen: Mohr Siebeck, 2007) e Raymund Schwager, Brauchen wir einen Sündenbock? Gewalt und Erlösung in den biblischen Schriften (München: Kösel-Verlag, 1989).
11Girard ne parla in La pietra dello scandalo (Milano: Adelphi, 2004), 77-78.
12Cfr. Giulio Maspero, Uno perché trino (Siena: Cantagalli, 2011): 13-18
13Cfr. Joseph Raztinger, “Battesimo, fede e appartenenza alla Chiesa”, in La vita di Dio per gli uomini, (Milano: Jaca Book, 2006): 51-67, qui 55.
14Filone, De Somniis, I, 60: Wendland, III, p. 218.
15Cfr. Lc 1,37.
16Cfr. Lc 1,48.
17Agostino, De praedestinatione sanctorum 2,5.
18Cfr. Gen 1,26.
19Cfr. Gv 1,18.
20Cfr. Giulio Maspero e Paul O’Callaghan, Creatore perché Padre. Introduzione all’ontologia del dono (Siena: Cantagalli, 2012): 8.
21Cfr. Alessandro Conti, “La teoria della relazione nei commentatori neoplatonici delle Categorie di Aristotele”, Rivista Critica di Storia della Filosofia 38 (1983): 275-276.
22Cfr. Giulio Maspero, Essere e relazione: l’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa (Roma: Città Nuova, 2013), 10.
23Si veda la bella analisi sulla conoscenza di Dio in Rémi Brague, Il Dio dei cristiani. L’unico Dio? (Milano: Raffaello Cortina, 2009), 25-41.
24Cfr. Giulio Maspero, “Divinizzazione dell’uomo e ontologia relazionale in Gregorio di Nissa”, PATH 15 (2015): 277-295.
25Cfr. Commissione Teologica Internazionale (a cura di), Dio trinità, unità degli uomini (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2014), n. 79.
26Cfr. Giulio Maspero, “L’ontologia trinitaria nei Padri Cappadoci: prospettiva cristologica”, in Claudio Moreschini (a cura di), Trinità in relazione: Percorsi di ontologia trinitaria dai Padri della Chiesa all’Idealismo tedesco (Panzano in Chianti, FI: Edizioni Feeria, 2015), 69-91.
27Gv 1,18.
28Concilio di Calcedonia (anno 451), DH 302.
29Concilio II di Costantinopoli (anno 553), DH 432.
30Cfr. Gv 1,3.
31Cfr. Col 1,15-20.
32Gregorio di Nazianzo, Oratio 30 (De filio), 17, 11-14: SCh 250, 262.
33Cfr. Gregorio di Nissa, In Canticum, GNO VI, 358, 12-359,4.
34Cfr. Platone, Fedone, 85.c.
35Cfr. At 17, 22-31.
36Cfr. Giulio Maspero, “Remarks on the Relevance of Gregory of Nyssa’s Trinitarian Doctrine for the Epistemological Perspective of 20th Century Psychoanalysis”, European Journal of Science and Theology 6 (2010): 17-31.
37Cfr. Idem, “Relazione e Silenzio: Apofatismo ed ontologia trinitaria in Gregorio di Nissa”, Augustinianum 53/1 (2013): 105-116.
38Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo (Brescia: Queriniana, 1971), 129.
39Cfr. Platone, Simposio, 206.e.
40Kurt Koch, “Artisti della santità. I santi e la teologia nel pensiero di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI”, in Javier López Díaz (a cura di), San Josemaría e il pensiero teologico: atti del convegno teologico, Roma, 14-16 novembre 2013 (Roma: EDUSC, 2014), 112.
41Ciò vale anche per l’educazione fondata sull’habitus, come giustamente osserva Donati: Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione (Sesto San Giovanni, MI: Mimesis, 2015), 105.
42Cfr. Daniélou, Dio e noi, 11-51.
43Riguardo alla definizione di cosa è santo, Platone fa notare al suo interlocutore che l’identificazione del santo stesso con ciò che è caro agli dèi non regge, perché questi continuamente sono in lotta tra loro: cfr. Platone, Eutifrone, 6.e-8.a.
44Cfr. Maspero, Essere e relazione, 101-105.
45Cfr. Idem, “La fisica contemporanea e la teologia trinitaria possono avere qualcosa in comune? Un suggerimento dall’ontologia relazionale”, Rivista di Neoscolastica, in corso di pubblicazione.
46Ritengo che tale evoluzione possa essere considerata proprio un esempio del processo illustrato da Donati di perdita di relazionalità nella conversione tra beni che il denaro può indurre (cfr. Donati, L’enigma della relazione, 41-42).
47Cfr. Mt 7,16.
48Cfr. Carla M. Antonaccio, An Archaeology of Ancestors: Tomb Cult and Hero Cult in Early Greece (Lanhan (ML): Rowman & Littlefield, 1995), 187-189.
49Tale realtà è stata analizzata da Giovanni Liotti nel contesto fenomenologico della psicologia cognitivo-comportamentale: Giovanni Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza (Roma: Carocci, 2005).
50Michael Tomasello ha evidenziato nelle sue ricerche come i primati superiori possono sviluppare dei processi proto-logici come l’uomo, ma ciò che distingue quest’ultimo da essi è la capacità di pensare in relazione: cfr. Michael Tomasello, A Natural History of Human Thinking (Cambridge: Harvard University Press, 2014).
51Cfr. Donati, L’enigma della relazione, 37-37.
52Gv 7,16.
53Cfr. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 145-146.
54Cfr. Mt 5,3-12
55Cfr. Gv 1,12