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Ror Studies Series | La vita come relazione

Il terzo invisibile, tra disposizione e riflessività relazionale

Ilaria Vigorelli

Pontificia Università della Santa Croce

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Introduzione

Vorrei porre l’accento su due aspetti che mi paiono particolarmente utili per un’epistemologia della relazione che non trascuri il pensiero della differenza.

Li apprendo dal tardo antico, quando alla metafisica greca si andò accostando la matrice trinitaria che a poco a poco suscitò le nuove concezioni ontologiche e antropologiche ben prospettate da Giulio Maspero in questo stesso volume. Si tratta di due acquisizioni ontologiche originali: (1) la disposizione relazionale della realtà esistente e (2) l’originaria disposizione al bene dell’esistente relazionale.

Evinco entrambe le acquisizioni da una concezione dell’essere seguita al dibattito storico del IV secolo. Fu allora che si sviluppò la questione su quale realtà fosse denotata dai termini relativi rivelati dal Cristo: «Padre», «Figlio» e «Spirito». Il problema di quale statuto ontologico riconoscere al Figlio, scatenato dal dibattito ariano, e l’apporto che il pensiero ortodosso diede alla tradizione metafisica e mosaica della natura divina con l’elaborazione di un’ontologia capace di ricomprendere la generazione, figliazione e spirazione in divinis, permisero che si sviluppasse il tema della differenza e della relazione nell’essere di Dio, e ciò confluì definitivamente nella teologia trinitaria di Gregorio di Nissa divenuta poi dottrina riconosciuta dal Concilio di Costantinopoli. Da questo contesto di pensiero vorrei far emergere le considerazioni sulle posizioni epistemiche che propongo di seguito1.

Le realtà esistono in quanto sono disposte relazionalmente

La disposizione relazionale delle realtà esistenti è un guadagno ontologico che storicamente è stato fornito dalla teologia trinitaria2. Con disposizione relazionale intendo la condizione di ogni esistente libero nell’ambito della natura creata, relazionalità interiore, originaria e configurativa dell’identità, che viene resa nota dalla rivelazione della disposizione del Logos nella natura divina.

Un’analisi storico-dogmatica dello sviluppo della conoscenza di Dio che consideri i modi in cui la teologia naturale del pensiero pagano abbia integrato ciò che di Dio era stato rivelato da Gesù Cristo nell’ambito della tradizione teologica mosaica, permette infatti di notare in che modo nel IV secolo si guadagnò un’ontologia della disposizione immanente alla natura divina (schésis)3.

Ciò permise di superare le caratteristiche della precedente esperienza del differente. Quest’ultima infatti era stata interpretata nell’ambito della riflessione metafisica formulata intorno alla distinzione tra sostanza e accidenti, che riconduceva il differente alle coppie oppositive uno/molti, visibile/invisibile, materiale/immateriale, corruttibile/incorruttibile, ovvero a sequenze numeriche dettate dai rapporti del più e del meno, della proporzione ecc.4.

Introdurre il relativo come relazione di origine all’interno dell’essere che è Dio – e dunque inserire anche un altro tipo di concezione dell’essere a fondamento di tutto ciò che esiste, ovvero non secondo il principio di causalità bensì come relazione voluta e libera, quale è quella instaurata da Dio con l’atto della creazione – provocò un cambiamento epistemologico dalla portata immensa, come solo una novità fattica quale l’Incarnazione può provocare.

È tale guadagno epistemologico che sviluppa, a livello sociale, la priorità etica dell’amore (o della relazione di dono) sulla misura dei rapporti numerici e proporzionali (o giustezza dei rapporti)5.

Quando il mistero della generazione eterna del Figlio dal Padre, e della spirazione anch’essa eterna e concomitante dello Spirito dal Padre e dal Figlio, fu inteso come irrinunciabile con-sistenza di esistenza e disposizione, tale guadagno rivelato circa la realtà eterna potè essere visto anche nel mondo e dunque nell’antropologia. Da allora, infatti, si potè vedere che pure nella storia ogni differente ha in sé sia la matrice dell’alterità che lo rende tale (cioè differente, unico), sia la comunione che lo lega all’altro (cioè procedente, generato).

Nella teologia trinitaria, il Padre è (ed è noto) come diverso dal Figlio che genera, e ad esso è unito per la spirazione d’amore che da tale generazione procede (Paternità amante); il Figlio è (ed è noto) come diverso dal Padre per la filiazione, e ad esso è unito dalla spirazione d’amore che da tale filiazione procede (Filiazione amante); lo Spirito che dalla loro distinzione procede (Amore) è altro dalla paternità e dalla filiazione perché li unisce reciprocamente nel donarsi vicendevole in quanto distinti. L’essere è dunque, ed è noto, come Uno, ma in quanto comunione emergente e dif-ferente dei tre, non come un quarto esistente bensì come l’eccedente medesima vita divina che donata, ricevuta e ridonata compenetra e distingue all’infinito i tre.

Quanto di intimità deve esserci tra due perché siano un’unica essenza? È la domanda per eccellenza posta alla teologia trinitaria, ma al contempo è domanda che mostra di non saper vedere proprio l’enigma della relazione di cui stiamo parlando, una domanda che non riesce a sostare nella riflessività relazionale delle dis-posizioni intradivine.

Quando nel mondo (cioè nella realtà finita e nella storia umana) parliamo di disposizione relazionale, intendiamo la consapevolezza che l’altro che mi si presenta di fronte, e che fa resistenza6, è istituito come altro da tre condizioni epistemiche: da me e da lui, l’uno e l’altro (1 e 2), che reciprocamente ci poniamo in relazione (cioè ci dis-poniamo), e (3) dalla relazione che unendoci ci differenzia e ci reciproca7.

Nella vicenda umana, l’altro originante è sempre trino: si nasce dall’incontro di due sessi differenti ma uniti: i due sessi, come le due volontà (2), non generano senza la reciproca messa in relazione (3)8. Ma ancor più originariamente, possiamo dire che in ogni costituirsi in alterità c’è una trinità di posizioni, ossia una dis-posizione che è relazionale, ovvero che istituisce le tre condizioni epistemiche dell’io, del tu e della relazione.

Ora, se la disposizione relazionale nella natura infinita ed eterna non introduce separazione alcuna alla divina unità, nella natura temporale e materiale finita (diastematica), invece, è soggetta a scindibilità, morte e genealogia, oltre che alle innumerevoli variazioni introdotte dalla libertà che si esprime nel tempo. Cosicché non solo i due dis-posti possono venir meno, ma anche il terzo invisibile ed emergente (cioè la relazione stessa tra i due) è continuamente soggetto al mutamento. Questo indica che nel considerare un fenomeno si può adottare anche la prospettiva dalla condizione epistemica della relazione che lo origina. Restando nell’ambito dell’esempio generativo, se anche lungo la mia storia si volesse cambiare la mia disposizione di figlio, fratello ecc., o i genitori mutassero la loro dis-posizione reciproca, la relazione che mi ha originato resta fissata dalla mia esistenza, come, analogamente, tutte le relazioni che costituiscono la mia storia fanno la mia identità in quanto sono esistite9.

La matrice trinitaria, quindi, non riduce l’enigma della relazione nella storia, ma oltre a porgerne la radicale bontà ne fa vedere al contempo la corruttibilità; permette inoltre di “dare cittadinanza”, nell’ambito dell’esistente, al terzo naturalmente invisibile, cioè a ciò che è visto soltanto quando i dis-posti sono considerati e si considerano reciprocamente in quanto dis-posti. Il terzo invisibile è infatti presente in modo concomitante ad ogni dis-posizione. Donati vi accede mediante uno strumento conoscitivo che ha chiamato riflessività relazionale e su questo strumento vorrei sviluppare le considerazioni del mio secondo appunto.

Fin qui abbiamo mostrato che la diposizione è dunque nell’esistente, e che il piano della conoscenza, e dunque delle condizioni epistemiche, si sviluppa in modo correlato all’esser-posto, ovvero dis-posto.

L’originaria disposizione al bene nella riflessività relazionale

Riguardo all’ontologia trinitaria, è importante sottolineare un ulteriore elemento: nella natura eterna e originaria di Dio, la dis-posizione è sempre di bene. Il Padre genera il Figlio donandogli tutta la sua natura di bene (il Figlio è perfetta Immagine del Padre, Logos, espressione del bene che il Padre stesso è) e il Figlio è dis-posto rispetto al Padre in quanto origine e fonte del bene che lo costituisce come Figlio; lo Spirito è lo stesso bene nel quale il Padre e il Figlio sono reciprocamente uniti.

Tale originaria disposizione di bene, al bene, e nel bene – propria dell’essere divino – si pone allora quale struttura epistemologica per giudicare la riflessività relazionale agita nella storia. Qui mi pare importante spostare l’attenzione dal piano dell’essere al piano della conoscenza, perché la riflessività relazionale proposta da Donati è un luogo dialogico di conoscenza e perciò di istituzione e riconoscimento di realtà mediante l’atto riflessivo.

È possibile perciò porci in posizione critica rispetto alle nostre concrete espressioni di riflessività relazionale (we-relation) e chiederci se e quando esse si costituiscano come beni relazionali, ovvero se la riflessività relazionale sia un bene già per se stessa in quanto riflessività (come metodo e come discorso), oppure se essa sia un bene soltanto in riferimento ad altro, cioè se la riflessività relazionale è di per sé funzionale ad un guadagno che la trascende. In altre parole, la teologia trinitaria ci stimola a chiederci se la riflessività relazionale sia in sé stessa bene o se sia un bene solo quando genera dei beni relazionali al là di sé.

A me pare che nella riflessività relazionale si presenta un’eccedenza rispetto a ciò che è possibile nominare e dunque “scambiare” tra i soggetti locutori, e vorrei mostrare che questa eccedenza sul discorso agito (sulla riflessività) è eccedenza d’essere, e dunque sempre un bene relazionale. Intendo sostenere che fintanto che si riflette sulla relazione si sta affermando con la pragmatica della comunicazione: “tu sei un bene per me”.

Se da ogni alterità, in quanto dis-posta, si dispiega almeno una trinità di posizioni epistemiche, si potrebbe dire che la riflessività relazionale è ciò che permette di vedere la terza posizione, quella invisibile, nell’atto in cui la dis-posizione si costituisce. In questo senso essa è immediatamente generativa sul piano noetico.

Come si può però sostenere che lo sia anche sul piano dell’essere?

Per rispondere propongo di prendere in considerazione l’ordine della prassi; infatti la riflessività relazionale produce immediatamente degli effetti pratici nel convocare l’attenzione sulla relazione dei dis-posti:

  1. in quanto atto conoscitivo, essa produce un ri-orientamento reciproco dei dis-posti sulla posizione che li identifica accomunandoli e distinguendoli;
  2. in quanto atto dia-logico, la riflessività relazionale manifesta l’eccedenza del reale sul conosciuto e sul dicibile, portando tale manifestazione dentro l’ordine della pragmatica della comunicazione;
  3. in quanto produce degli effetti comportamentali, essa stessa è soggetta al giudizio sul bene agito/da agire.

Che cosa, dunque, fa sì che la riflessività relazionale generi beni relazionali o sia un bene relazionale in quanto riflessività? La teologia trinitaria permette di sottoporre a verifica quello che Donati ha proposto come definitorio di bene relazionale, cioè la generazione del Noi:

Siamo un Noi se e nella misura in cui generiamo assieme un bene che nasce dalle differenze, deve essere compatibile con le differenze, ma deve anche convergere verso un bene condiviso nella libertà di ciascuno10.

Potrebbe sembrare che differenza e bene condiviso per Donati superino la relazione, inaugurandola e compiendola.

Ma se è pur vero che la dis-posizione e, dunque, l’alterità e la relazione sono originarie quanto l’esistere, mi sembra che il bene relazionale ci sia e che coincida, benché nella sua forma minima, nella riflessività relazionale in quanto agita, cioè in quanto dia-logos, anche quando gli atti di conoscenza e volontà possano non giungere a costituire un Noi (nel senso di non convergere verso un bene condiviso).

Intendo dire che essere in dialogo costituisce di per sé un essere-bene in relazione all’altro. In Dio l’essere in relazione non è diverso dall’essere bene, capisco perciò che mantenere la relazione all’altro, cioè riconoscere la propria e altrui dis-posizione relazionale e narrarla, sia già di per sé ragione di bene.

Anche nella cultura più tendente al solipsismo, infatti, se c’è riflessività relazionale c’è riconoscimento di bene.

Aggiungo ora un secondo passaggio: con la riflessività relazionale si introduce una grammatica nell’esser-disposti vicendevole. Il mantenimento delle dis-posizioni reciproche mediante il logos della riflessività relazionale è il bene che fa permanere la condizione di possibilità della costituzione del Noi; anche se la differenza non permette di convergere immediatamente su un bene condiviso che vada oltre la relazione stessa, la riflessività relazionale genera un discorso, una narrazione, un racconto che, seppur micro (cioè limitato alla relazione stessa), è logos, dotato di logos, e questo è un altro motivo per cui si costituisce come bene relazionale.

Una micronarrazione che esprime una relazione ha la caratteristica intrinseca di eccederla, perché nel mondo finito nessuna dis-posizione esaurisce tutte le dis-posizioni reali del soggetto. Ciò comporta che il logos umano non possa rimanere circoscritto ad un unico luogo di riflessività. In tal caso perderebbe la propria costituzione relazionale rispetto agli altri logoi emergenti dalle altre relazioni, divenendo immediatamente inintellegibile. In questo senso si intende che l’eccedenza dell’essere sulla parola è resa manifesta dalla grammatica delle narrazioni che interagiscono nei soggetti locutori, rendendoli parte di un popolo.

La grammatica della narrazione istituisce dunque la riflessività relazionale come logos che partecipa di un mondo di differenti-in-relazione. La riflessività relazionale narra dis-posizioni che a loro volta sono dis-poste e dis-ponenti, e che dunque emergono come snodi e luoghi moltiplicanti di molteplici narrazioni. Il bene relazionale emergente da una narrazione riflessiva può giungere ad interagire con gli altri beni relazionali e a mettersi in relazione con essi fintanto che è mantenuto come logos intellegibile, ovvero come riflessività relazionale e perciò dia-logica non logocentrica, come invece si dà nelle numerose mediazioni tecnologiche (tecnocratiche)11.

Ed ecco il punto di critica: nelle mediazioni dettate dal paradigma tecnocratico, la relazione viene meno come vita e la parola tecnologica (immagine, algoritmo, artificio) sovrasta l’esistente, che ad essa viene assoggettato con la conseguente perdita di libertà (e di rispetto di unicità), divenendo innesco di successioni causali necessarie che riconducono allo schema metafisico della causa e dell’effetto perdendo la natura relazionale che specifica la vita umana. Il legame sociale in questo caso perde la possibilità di adottare la prospettiva della relazione, avendola trasformata in un suo surrogato soggetto a determinismo.

Il fatto che si riconosca un bene relazionale nella riflessività relazionale qua talis, comporta che il mantenimento della dis-posizione dei differenti in quanto differenti, e in quanto reciprocamente dis-posti, sia reso possibile da una grammatica ad essi trascendente, che non dà accesso ad una metanarrazione in cui le posizioni epistemiche particolari vengano ricondotte ad un’unica, bensì che emerge come dinamismo comunionale e vivente, che tiene insieme i differenti senza uniformarli ma permettendo loro di articolarsi in un discorso dotato di senso.

Conclusioni

Se la storia del dogma messa in luce da Maspero, ci ha permesso di vedere come la luce della rivelazione abbia condotto i credenti a riformulare in termini relazionali la differenza metafisica, uscendo dalle coppie categoriali oppositive e aprendo la metafisica stessa alla libertà della disposizione reciproca tra Dio e mondo e tra soggetti riflessivi, abbiamo visto come la differenza così pensata permetta di cogliere il valore della riflessività relazionale e della posizione epistemica capace di riconoscere i beni relazionali dialogici.

Se, con la critica di Lyotard, la tarda modernità ha imparato a scansare le macronarrazioni come logos unico o metalinguaggio che riconduce ad una tutte le micronarrazioni possibili12, la riflessività relazionale è stata proposta come il bene relazionale che verifica la tenuta della grammatica nelle e dalle micronarrazioni, giacché permette ogni volta ai diversi dis-posti di interagire con le altre narrazioni.

Del Dio di Gesù Cristo sappiamo che è Vita infinita, il quale eternamente dà Vita, è Vita da Vita, ed è Vita comunionale. Il Logos intratrinitario dunque non è chiuso su se stesso ma è dia-logico e comunicatore di vita; sappiamo che rispetto al mondo suscita l’epectasi dell’anima e la ricapitolazione di tutte le cose nel dinamismo d’amore intradivino13. Se dunque la riflessività relazionale trinitaria è infinita scaturigine di amore, non solo di conoscenza, riferirsi alla matrice teologica trinitaria può fornire una mappa nell’identificare le innumerevoli risorse che la differenza e il dialogo offrono alla relazione, e viceversa.

Bibliografia
Jean Daniélou, La Trinità e il mistero dell’esistenza, (Brescia: Queriniana, 1989) (tit. or. La Trinité et le mystère de l’existence, Paris 1968).
Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015).
Luce Irigaray, Etique de la différence sexuelle, (Paris: Les Éditions de Minuit, 1985) (tr. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Etica della differenza sessuale, Milano, Feltrinelli 1987).
Eadem, La via dell’amore, (Torino: Bollati Boringhieri, 2008) (tit. or. La voie de l’amour, 2002).
Eadem, All’inizio, lei era, (Torino: Bollati Boringhieri, 2013) (tit. or. Au commencement, elle était, 2012).
J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, (Milano: Feltrinelli, 1981) (tit. or. La condition postmoderne, Paris 1979).
Giulio Maspero, Essere e relazione, (Roma: Città Nuova, 2013).
E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, (Torino: Bollati Boringhieri, 2001).
Ilaria Vigorelli, Schésis nel Contra Eunomium di Gregorio di Nissa: dalla semantica filosofica alla teologia trinitaria, pro manuscripto, (Roma: Università della Santa Croce, 2012).
Eadem, “Fede come discorso”, in A. Granados–P. O’Callaghan (a cura di), Parola e testimonianza nella comunicazione della fede, (Roma: EDUSC, 2013), 43-54.

1Auspico, con queste linee, di onorare il desiderio che ho trovato racchiuso nelle pagine di Luce Irigaray, quando nel commentare l’Antigone chiedeva il ri-pensamento, nell’ambito della società occidentale, della derelizione del femminile e del maschile (Luce Irigaray, Etique de la différence sexuelle, [Paris: Les Éditions de Minuit, 1985] [tr. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Etica della differenza sessuale, Milano, Feltrinelli 1987], 99). Mentre il pensiero della differenza si è storicamente sviluppato per lo più secondo la linea di una epistemologia oppositiva o dialettica, vorrei qui proporre una linea di sviluppo che segua un’impostazione epistemologica trinitaria e riflessiva, come cercherò di dire (Roma: Universitò della S. Croce, 2012).

2Cfr. I. Vigorelli, Schésis nel Contra Eunomium di Gregorio di Nissa: dalla semantica filosofica alla teologia trinitaria, Roma 2012, 46 ss.

3Si veda G. Maspero, Essere e relazione, Roma: Città Nuova, 2013.

4Andrebbe sviluppato il tema dell’isomorfismo in questa linea.

5Parlo di giustezza, non di giustizia dei rapporti perché, come si sa, la nozione di giustizia è correlativa a quella di misericordia e quest’ultima è un guadagno della epistemologia della disposizione, o della relazione di dono. Mi distanzio su questo punto dalla sintesi sull’agape cristiana che offre E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, (Torino: Bollati Boringhieri 2001), 183-186, pur considerando di grande interesse la sua riflessione sulla passione del dono (ibid., 176-226). Solo se vediamo la connessione con la nuova concezione dell’essere, infatti, possiamo capire la portata storica della semantica dell’amore cristiano, che altrimenti rimane ridotto ad un imperativo morale impossibile, come ha ben mostrato J. Derrida.

6Si potrebbero citare qui le riflessioni su apofatismo, eccedenza, trascendenza della realtà rispetto al reale conosciuto. Il caso per me più interessante è quello della decostruzione derridiana. Me ne sono occupata in I. Vigorelli, Fede come discorso, in A. Granados–P. O’Callaghan (a cura di), Parola e testimonianza nella comunicazione della fede, (Roma: Edusc, 2013), 47-51.

7In questo penso che l’analisi della differenza che emerge dalla ontologia trinitaria del IV secolo è ancor più radicale del pensiero della differenza offerto dalla Irigaray (cfr L. Irigaray, La via dell’amore, [Torino: Bollati Boringhieri, 2008] [tit. or. La voie de l’amour, 2002], 63). Mentre per la filosofa francese la condizione di possibilità per il darsi della relazione è che vi sia un “gesto preliminare di riconoscimento reciproco”, in base al quale “ciascuno(a) ha la capacità di trattenersi in sé ed essere cosciente di ciò che gli è proprio”, qui stiamo sostenendo che lo stesso darsi “come proprio” è riferito all’altro “come relativo”, in cui la differenza è posta insieme alla comunione per la correlatività che fa dei due “i differenti”.

8Sto sostenendo che nella coppia genitoriale vi è il tre prima della comparsa del figlio, il quale, quando esiste, apporta una quarta posizione epistemica alla stessa realtà relazionale della coppia divenuta generativa. Il figlio, dunque, moltiplica le relazioni e le posizioni epistemiche in quanto è dis-posto diversamente rispetto a suo padre e a sua madre, ai fratelli, ai nonni, agli zii, ecc… Il terzo relazionale nella coppia è reso maggiormente visibile in caso di sterilità, ossia quando la relazione non diviene luogo generativo ma permane come unione. La domanda su che cosa sia invece il terzo relazionale della unione resa sterile, o della generazione esternalizzata artificialmente, date tutte le moltiplicazioni relazionali messe in campo dalla artificialità delle produzioni non carnali di figli, pone in luce quanto possa essere interessante riconoscere alla relazione il suo esser luogo epistemico qua talis.

9Sull’identità cfr. P. Donati, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015), 113. Sarebbe auspicabile poter articolare la formula identitaria ivi proposta [A= r (A, non-A, ecc.)] con il desiderio espresso dalla Irigaray.

10Donati, L’enigma della relazione, 111.

11In questo senso trovo illuminante quanto ha voluto sottolineare recentemente Luce Irigaray nella sua critica alla eccessiva tecnologizzazione della riflessività e nel marcare la necessità della dinamica del desiderio affinché i differenti possano elaborare il proprio “tra-noi” culturale: «Se siamo in grado di riconoscere che il nostro compito è considerare il tra-noi come un aspetto che tocca il cuore della nostra umanità, scopriremo che, per riuscire in questo, l’arte, la filosofia e la religione sono di fatto inseparabili» (L. Irigaray, All’inizio, lei era, [Torino, Bollati Boringhieri, 2013] [tit. or. Au commencement, elle était, 2012], 29).

12J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, (Milano: Feltrinelli, 1981) (tit. or. La condition postmoderne, Paris 1979), 74.

13J. Daniélou, La Trinità e il mistero dell’esistenza, (Brescia: Queriniana, 1989) (tit. or. La Trinité et le mystère de l’existence, Paris 1968), 49 e 63