Ror Studies Series | La vita come relazione
Le relazioni (complicate) tra sociologia e teologia
Ivo Colozzi
Università di Bologna
Per preparare questo intervento sono partito da una ricerca di sfondo che voleva rispondere alla domanda: i temi che Donati affronta nel libro su La matrice teologica della società1 e, in parte, nel volume L’ enigma della relazione2, in particolare la relazione tra sociologia e teologia, li affronta solo lui o è in corso un dibattito più ampio per cui si possono trovare altri interventi, autonomi da quelli di Donati o di risposta anche critica a quello che lui sostiene? Usando un motore di ricerca, come oggi si usa fare, ho scoperto un primo dato interessante: introducendo i termini “sociologia e teologia” e “matrice teologica della società” in italiano, gli unici riferimenti che compaiono riguardano Donati. Al massimo, oltre ai suoi libri e interventi, possiamo trovare citazioni o recensioni degli stessi. Quando ho inserito gli stessi termini in inglese, invece, ho scoperto un mondo, nel senso che ho dovuto prendere atto che il tema delle relazioni tra sociologia e teologia ha una lunga storia e continua a suscitare interventi. Naturalmente gli interventi non italiani non si riferiscono direttamente alle tesi di Donati, perché, diversamente da quanto ha fatto su altri aspetti della sua riflessione, i lavori pubblicati su questo tema sono scritti in italiano. D’altra parte anche Donati non si riferisce a questo tipo di letteratura; in alcuni passaggi del primo libro accenna, invece, in maniera molto garbata, ai “limiti” della sociologia della religione, in generale, e a quelli della sociologia della religione italiana, in particolare. Quindi, inquadrare la posizione di Donati sul tema in questione all’interno del dibattito internazionale in lingua inglese è una scelta che ho fatto io, credo legittimamente, per riuscire a valutarne meglio l’originalità, ma anche per collocarla entro un contesto che mi permetterà, spero, di darne una lettura non banale.
È utile (addirittura necessaria) una relazione tra teologia e sociologia?
Per la maggior parte del tempo in cui sono coesistite, teologia e sociologia si sono prevalentemente ignorate anche perché, dal lato della sociologia, tra i padri fondatori della disciplina che hanno maggiormente influenzato il suo modo di osservare la società: Marx considerava la religione, che è l’oggetto su cui riflette la teologia, solo “ideologia”, strumento delle classi dominanti per mantenere lo sfruttamento dei dominati e garantirne l’obbedienza; Weber ne prevedeva la scomparsa a causa del sempre più accentuato e diffuso processo di razionalizzazione (secolarizzazione) della società; Durkheim la considerava, invece, fondamentale e destinata a durare ma solo perché rappresentava simbolicamente la stessa società e la sua forza normativa, per cui la sociologia era la vera teologia mentre questa era destinata a scomparire in quanto priva di oggetto. Sulla base di premesse del genere è evidente che dal lato della teologia non ci fosse un particolare interesse ad aprire una relazione/dialogo con i sociologi. Va considerato, inoltre, il prevalere tra i teologi di quello che Donati definisce “un metodo ermeneutico talmente forte da imprigionare l’osservatore dentro il circolo che esso implica”3.
Secondo Brewer4 questa situazione di non interesse della teologia nei confronti della sociologia ha cominciato a cambiare negli anni ’70 del novecento anzitutto grazie alla scoperta della sociologia da parte dei biblisti, poi con l’avvio di una serie di seminari e convegni tra sociologi e teologi. Egli ricostruisce nel suo articolo, per riferimento alla Gran Bretagna, i temi fondamentali su cui si è avviata una collaborazione, ma ricorda anche che si è trattato fin dall’inizio di una collaborazione problematica, non appoggiata dalle istituzioni religiose e ben presto segnata dall’emergere di posizioni molto diverse. Per dimostrare questo fatto, Brewer ricorda che uno degli ambiti più importanti di questo confronto è stato il Blackfriars Symposium in Theology and Sociology, così chiamato perché gli incontri si tenevano nella Blackfriars Dominican House di Oxford, avviatosi nel gennaio del 1978 e durato ben 10 anni. Di tutto il lavoro svolto in questo ambito rimangono solo gli atti del primo convegno, pubblicati col titolo significativo Sociology and Theology: Alliance and Conflict5, che non hanno avuto seguito.
Ragionando su questi tentativi, Michael Barnes6 ha proposto una classificazione delle posizioni dei teologi che distingue in: posizione rahneriana7 e balthasariana. Col primo termine si riferisce alla posizione favorevole all’incontro tra le due discipline, basata sulla convinzione che la sociologia possa aiutare la teologia a leggere meglio se stessa come disciplina scientifica in senso moderno e a meglio interpretare i processi che caratterizzano la società contemporanea. Nel secondo gruppo rientrano, invece, i teologi dubbiosi sul fatto che la teoria sociologica possa offrire qualcosa di significativo alla teologia, nel senso che possa offrire strumenti concettuali e teorici utili a migliorare la capacità della teologia di esplorare le implicazioni sociali della fede.
Un esempio della prima posizione può essere rappresentato dalla Teologia della liberazione sudamericana di Gutierrez e Boff, che ha usato l’analisi marxista e la teoria della dipendenza per giustificare la scelta preferenziale per i poveri8. Un altro esempio è il teologo inglese Robin Gill, che ha scritto ben tre volumi su quella che lui definisce “teologia sociologica”, cioè una teologia interpretata, alla luce della sociologia della conoscenza, come una realtà socialmente costruita che, in tempi diversi e in circostanze diverse può mascherare le diseguaglianze sociali o sfidarle. Mi pare evidente che la posizione rappresentata da questi autori, anche se teorizza la necessità di una relazione tra le due discipline, sia molto lontana da quella di Donati, per cui non ritengo necessario approfondire in questa sede le tesi dei suoi esponenti.
Vorrei soffermarmi, invece, su alcuni esempi rappresentativi della posizione balthasariana perché, anche se formalmente contrari alla relazione tra le due discipline, quindi apparentemente dialettici rispetto a quanto sostiene Donati, in realtà giustificano la loro tesi usando argomentazioni che a me paiono piuttosto vicine alle sue, almeno su alcuni punti fondamentali. Utilizzerò come esempi della posizione balthasariana il notissimo e discusso libro di J. Milbank su Teologia e scienze sociali9 ed un saggio molto meno noto di Clive e Cara Beed pubblicato sull’Australian eJournal of Theology10.
La posizione di Milbank
Il libro di Milbank si rivolge sia agli scienziati sociali che ai teologi. Ai primi intende mostrare un tentativo di demolizione o decostruzione della teoria sociale moderna e secolarista dalla prospettiva di cui essa costituisce una variante, che è la prospettiva cristiana. Per Milbank, infatti, tutte le più importanti ipotesi di riferimento delle scienze sociali moderne (scienza politica, economia, sociologia): a) sono legate alla modifica o al rifiuto di posizioni elaborate dal cristianesimo ortodosso e b) non sono razionalmente più giustificabili delle tesi che ripudiano e che pretendono di sostituire. Per questo aspetto, quindi, il lavoro di Milbank si presenta come un “esercizio di relativismo scettico”, cioè una critica alla concezione positivistica delle scienze sociali che si avvale delle tesi e delle critiche dei post-modernisti. Ai teologi Milbank intende offrire, invece, un superamento delle suggestioni della teologia moderna finalizzato alla riappropriazione, in termini post-moderni, della possibilità di una teologia come meta-discorso. Milbank identifica il pathos della teologia moderna nella sua falsa umiltà che la porta a rinunciare alla pretesa di rappresentare un meta-discorso. Ma per la teologia questa scelta si rivela una malattia mortale perché nella nuova configurazione non rappresenta più l’articolazione della parola del Dio creatore, ma è destinata a diventare la voce di qualche idolo finito, sia questo la scienza storica, la psicologia umanistica o la filosofia trascendentale. Per lui le possibili relazioni tra teologia e scienze sociali sono solo due, entrambe asimmetriche: o è la teologia che posiziona, qualifica o critica gli altri discorsi, o sono questi ultimi a definire la posizione della teologia perché per lui non può venir meno una logica organizzativa finale. Una teologia posizionata dalla ragione secolare subisce per Milbank due tipiche forme di riduzione: o, cadendo nell’idolatria, collega necessariamente la conoscenza di Dio con qualche particolare ambito immanente della conoscenza – le cause cosmologiche ultime o i bisogni psicologici e soggettivi ultimi –, oppure si limita ad accennare ad una realtà sublime che supera ogni possibile rappresentazione, confermando in negativo l’idea discutibile di un regno secolare autonomo, completamente trasparente alla comprensione razionale.
L’ambito in cui la lotta tra queste due concezioni è più evidente è proprio quello della teoria sociale perché la teologia ha giustamente preso coscienza del fatto di essere un costrutto storico contingente che contemporaneamente emerge da e reagisce a particolari pratiche sociali congiunte con particolari codifiche semiotiche e figurative. Ma se da questa consapevolezza non si può arretrare, ciò non significa, per Milbank, che la maggior parte di ciò che deve essere conosciuto sui processi sociali in generale e sugli aspetti o le forme storico-sociali del cristianesimo in particolare, debba essere appresa dagli scienziati sociali. I teologi politici contemporanei tendono a fissarsi su una particolare teoria sociale, o a mettere insieme il proprio mix teorico eclettico, e poi argomentano su quale sia il posto che spetta al cristianesimo o alla teologia entro una realtà che si è già supposto essere autorevolmente descritta da una tale teoria. Milbank nota, anzi, che i teologi appaiono particolarmente propensi ad affermare gli aspetti scientifici e umanistici della modernità perché, secondo lui, la fede nell’umanesimo è diventata un sostituto per una fede trascendente ormai condivisa solo parzialmente e perché vi è la necessità di scoprire come soddisfare i precetti cristiani della carità e della libertà nella società contemporanea coinvolgendo tutti i cittadini, la maggioranza dei quali non è più cristiana. Le diagnosi e le raccomandazioni di ciò che si presenta come scienza sociale svolgono proprio questo ruolo.
Eppure, l’alleanza della teologia con l’eredità modernista della teoria sociale del XIX secolo, che era allo stesso tempo ’scientifica’ e ’umanistica’, appare curiosa alla luce dei recenti sviluppi della stessa teoria sociale. Innanzitutto, i pensatori post-tmoderni, fortemente influenzati da Nietzsche, hanno tentato di smantellare le pretese, fatte proprie sia dalla sociologia che dalla tradizione marxista-hegeliana, di aver scoperto i fattori che governano le associazioni umane e di poter raccontare storie sulla naturale evoluzione dell’intera storia umana. Mentre la riconduzione da parte di Nietzsche delle formazioni culturali alla “volontà di potenza” si traduce ancora in un sospetto verso la religione, essa tende anche ad asserire che queste formazioni devono inevitabilmente assumere una forma religiosa o mitico-rituale. Almeno nella forma del sospetto, quindi, nelle scienze sociali contemporanee tende a sparire l’idea che l’economia e la società siano la struttura, mentre la religione è sovrastruttura.
In secondo luogo, la teoria sociale ormai non può non domandarsi se il sospetto nietzscheano sia la modalità finale e veramente non metafisica della ragione laica, o se esso pure incarni una ontologia del potere e del conflitto che è semplicemente un altro mito, una sorta di paganesimo reinventato. Passare criticamente oltre Nietzsche per Milbank significa riconoscere la necessità e insieme il carattere “infondato” di una qualche meta-narrazione, di un qualche fattore trascendente privilegiato, anche quando viene mascherato come l’elemento costante di un processo immanente. “In questa nuova fase critica, che è il postmoderno, ma anche il post-nietzscheano, si riconosce che le supposizioni circa la trascendenza sono infondate e reciprocamente incommensurabili, ma necessarie anche per la più insignificante decisione culturale.”11 Per confermare la sua lettura della non evitabilità del teologico e del metafisico, Milbank cita autori con posizioni molto diverse come A. MacIntyre, René Girard e altri. Questi sviluppi hanno fatto emergere un forte contrasto tra teologia politica e teoria sociale postmoderna e post-nietzscheana. Quella teologia, infatti, accetta la secolarizzazione e l’autonomia della ragione secolare, mentre la teoria sociale trova la secolarizzazione sempre più paradossale e implica che la dimensione mitico-religiosa non può mai essere abbandonata12. “La teologia politica è intellettualmente atea; la teoria sociale post-nietzscheana suggerisce l’ineluttabilità pratica dell’adorazione.”13
La conclusione che Milbank trae da questa analisi è che la teologia non ha bisogno di tener conto della lettura sociologica della religione, in particolare del cristianesimo, e di prendere in prestito dalle scienze sociali le diagnosi dei mali sociali e le soluzioni che esse raccomandano.
Come si vede, si tratta di una conclusione apparentemente molto lontana da quanto sostenuto da Donati. Voglio sottolineare, però, che la teoria sociale di cui la teologia non ha bisogno, secondo Milbank, è quel tipo di teoria sociale moderna da cui anche Donati prende le distanze e che anche per lui ha come esito inevitabile il nichilismo.
Che la lontananza tra i due sia solo apparente è, a mio avviso, confermato dal punto che Milbank individua come elemento di continuità tra la ragione antica, quella del mondo pagano, e la ragione moderna o secolare, che per lui in realtà rappresenta un tentativo di creare una forma nuova di paganesimo, abbandonando la tradizione cristiana.
Questo elemento di continuità è il tema della violenza originale.
Sia il pensiero antico che la teoria politica moderna (Hobbes) presuppongono come dato “naturale” una situazione caotica di conflitto che deve essere domata dalla stabilità e auto-identità della ragione. “Il pensiero moderno e la scienza politica (più chiaramente articolata da Nietzsche) assumono che ci sia solo questo caos, che non può essere domato da un principio trascendente opposto, ma può essere controllato in modo immanente sottoponendolo a regole e dando a tali norme un potere irresistibile sotto forma di economie di mercato e di stati sovrani.”14 Mi pare chiaro che qui anche Milbank introduce il tema della relazione, o, meglio, della rottura della relazione tra immanenza e trascendenza come l’elemento chiave per leggere il progetto e la crisi della modernità.
Lo conferma il modo in cui caratterizza la visione cristiana. Per il cristianesimo, dice Milbank, “non esiste nessuna violenza originale. Esso interpreta l’infinito non come caos, ma come una pace armonica che supera (va oltre) il potere di chiusura di qualsiasi ragione totalizzante. La pace non dipende più dalla riduzione all’identico a sè, ma è la socialità di armoniose differenze. … Tale logica cristiana non è decostruibile dalla moderna ragione secolare; piuttosto, è il cristianesimo che rivela come non sia necessario supporre, come fanno i nietzscheani, che la differenza, la non-totalizzazione e l’indeterminatezza di significato implichino necessariamente l’arbitrio e la violenza. Supporre che sia così significa solo sottoscrivere un particolare modo di codificare la realtà. Il Cristianesimo, invece, è la codifica della differenza trascendentale come pace.”15
Mi pare che con parole diverse anche Milbank proponga qui la relazione immanenza-trascendenza come matrice teologica di una società che voglia essere inclusiva e coesa, senza annullare le differenze, anzi valorizzandole.
La differenza rispetto a Donati, quindi, sta nell’accomunare tutta la sociologia entro lo schema della “ragione secolare” non cogliendo le voci fuori dal coro.
La posizione dei Beed
Per Clive e Cara Beed la teologia in quanto discorso su Dio Uno e Trino include anche le relazioni di Dio con le persone, a livello individuale e sociale, e le relazioni delle persone tra loro. Non ci sono discussioni possibili, quindi, sul fatto che la teologia possa legittimamente occuparsi di aspetti della vita umana che sono studiati anche dalle scienze sociali. Il punto è se la teologia, o quella parte di essa che si può definire teologia pubblica o teologia sociale o dottrina sociale cristiana, debba o meno assumere dalle scienze sociali categorie e concetti. Evidentemente per descrivere la realtà sociale la teologia utilizza dati e tecniche usate dalle scienze sociali e sviluppate da discipline come la statistica o la demografia. Nel far ciò, sostiene Barnes, importa automaticamente teorie prodotte dalle scienze sociali, visto che il modo stesso di raccogliere ed elaborare i dati è teoricamente condizionato. Secondo i Beed, invece, non si tratta di necessità, ma di possibilità, perché la teologia potrebbe raccogliere o interpretare i dati alla luce delle proprie categorie e concettualizzazioni. Lo dimostrano alcuni studi, citati dagli autori, che propongono analisi di importanti fenomeni sociali, come il welfare, la povertà, il lavoro, applicando ai temi studiati frameworks concettuali di tipo teologico che non dipendono o dipendono in maniera molto limitata dalle attuali teorie delle scienze sociali, rispetto alle quali rappresentano una alternativa.
Gli studi che i Beed citano sono pochi, e sono comunque ignorati dalla letteratura delle scienze sociali. Un motivo per spiegare questo fatto è che essi sono accomunati da un implicito presupposto teologico consistente nel ritenere che i framework teorici che cercano di interpretare e spiegare aspetti del comportamento (agire) umano al di fuori del sistema normativo stabilito dal Dio trinitario non possono produrre risultati convincenti (almeno per i credenti). Gli autori generalmente considerano fonte primaria della loro struttura analitica una qualche interpretazione della Scrittura, i concetti o principi teologici che ne derivano e/o la legge di natura. Naturalmente non c’è unanimità sul modo di intendere o interpretare la Scrittura o i principi della dottrina sociale, ma ciò che è comune è il fatto che i fenomeni sociali sono descritti in relazione al modo in cui si interpreta l’agire di Dio nei confronti del mondo e dell’uomo. Le scienze sociali, invece, per i Beed, si basano sul presupposto che Dio non esiste o che, comunque, non rientra nell’ambito della scienza stabilire la sua esistenza o meno. “Quale che sia il modo in cui questa ipotesi è espressa, sembra probabile che la scienza sociale già da molto abbia respinto la dicotomia della realtà tra il materiale e lo spirituale o soprannaturale. Pertanto, i significati che attribuisce al comportamento umano, o le cause che propone per spiegare il comportamento, escludono e precludono qualsiasi influenza di Dio, nei termini sia di una azione effettiva di Dio che dei suoi progetti normativi per l’umanità.”16 Ho voluto riportare questa citazione perché da una parte conferma come l’ostacolo ad una relazione con la sociologia consista proprio nell’ateismo metodologico che ha caratterizzato la sociologia moderna, e che Donati ritiene frutto di un fraintendimento del requisito di neutralità rispetto ai valori17, dall’altra introduce come concetto fondamentale di una lettura teologica della società la relazione tra immanenza e trascendenza o tra natura e soprannaturale. La sottolineatura sull’ateismo metodologico che ha caratterizzato la sociologia moderna non significa che i Beed non siano consapevoli del più recente dibattito sui fondamenti epistemologici della scienza. In un paragrafo intitolato significativamente “La base scientifica della scienza sociale e il suo successo” essi presentano sinteticamente le tappe del dibattito epistemologico che ha radicalmente messo in crisi il paradigma positivistico della scienza, senza sostituirlo con una solida alternativa. La conseguenza è stata la crescita di una pluralità di paradigmi concorrenti (le sociologie post-moderne) che non hanno più la pretesa di scoprire le “leggi” di funzionamento della società o di offrire una conoscenza oggettiva e neutrale della stessa, cui si oppongono paradigmi che, per salvaguardare la dimensione scientifica della sociologia, tendono ad utilizzare modelli tipici delle scienze della natura. Secondo loro prevarrà la seconda tendenza, quella della assimilazione alle scienze della natura, perché i sociologi cercheranno di mantenere il prestigio collegato al concetto di “scienza”. Il problema, però, è che la disintegrazione del paradigma positivistico rende incerto quali siano gli strumenti per ottenere questo tipo di conoscenza, riducendoli a regole di tipo procedurale che non sono in grado non solo di risolvere, ma nemmeno di ridurre il conflitto delle interpretazioni. In sintesi, oggi è sempre meno chiaro quali siano le conoscenze “scientifiche” della società che offre la sociologia, per cui le ragioni in base alle quali la teologia dovrebbe guardare alle scienze sociali e imparare da esse è ancor meno giustificabile.
La conclusione del loro ragionamento è che la sociologia e le scienze sociali in generale studiano molte delle cose di cui si occupa e non può non occuparsi la teologia, ma lo fanno da una prospettiva riduzionistica che non può essere utile alla teologia stessa. Viene, quindi, legittimata la situazione di separatezza, se non di ostilità tra le due discipline.
Una domanda cruciale
Presentando sinteticamente le tesi di Milbank e dei Beed ho già evidenziato come entrambi propongano molti argomenti assolutamente convincenti e condivisibili anche da chi, come Donati, ritiene necessaria e opportuna una relazione tra teologia e sociologia. Però c’è una domanda ponendo la quale si svela la non sostenibilità ultima della loro posizione. La domanda è: che ne è dei sociologi che sono anche cristiani? O, in altri termini, è possibile che un cristiano che voglia usare gli strumenti della sociologia debba necessariamente prescindere da ciò che la Archer definirebbe i suoi ultimate concerns, cioè da ciò che più gli sta a cuore e che contribuisce a definire la sua identità18?
Seguendo l’impostazione degli autori citati la risposta è si; è necessario che il sociologo metta tra parentesi, cioè prescinda dai suoi valori ultimi, per essere riconosciuto come scienziato credibile. Possiamo trovare una conferma che questa risposta non rappresenta una mia forzatura interpretativa nello stesso testo dei Beed che nel paragrafo conclusivo affermano: “La maggior parte dei cristiani che lavorano come scienziati sociali professionisti probabilmente tengono le loro convinzioni cristiane apertamente fuori del loro lavoro.”19 Secondo loro fanno così sia perché sono convinti dell’importanza di mantenere o salvaguardare l’autonomia delle scienze sociali, sia per opportunità, visto che sostenendo posizioni esplicitamente cristiane difficilmente si riesce a far pubblicare i propri lavori sulle riviste importanti. Il risultato è la netta separazione tra vita privata (convinzioni private) e attività pubblica. Mantenendo questa distinzione i sociologi cristiani immaginano di fare scienza nel modo weberianamente corretto, cioè neutrale rispetto ai valori personalmente condivisi. I Beed ovviamente giudicano in modo negativo questa posizione, ma contemporaneamente la ritengono insuperabile, come dimostra la stessa sociologia della religione, perlopiù praticata da cristiani che però osservano la religione solo come fenomeno empiricamente osservabile e misurabile.
Il lavoro di Donati rappresenta per me la smentita di queste conclusioni. Egli, infatti, propone nella monografia sulla matrice teologica un esempio di ciò che vorrei definire “sociologia cristiana”, cioè di un modo di fare sociologia che non richiede ad un cristiano di mettere tra parentesi la propria fede e i principi teologici ed etici ad essa collegati, ma li gioca attraverso l’elaborazione “di un metodo, e prima ancora di un’epistemologia sufficientemente generalizzata che sia in grado di distinguere senza separare né confondere”20.
Come sappiamo questa epistemologia e il relativo metodo si sintetizzano nella teoria relazionale della società, sulla quale non posso qui soffermarmi.
Vorrei, invece, rispondere ad una ulteriore domanda, che formulo così: nel proporre una sociologia cristiana, Donati è solo? Credo sia importante rispondere al quesito perché se così fosse, la sua proposta potrebbe essere considerata come l’eccezione che conferma la regola della impossibilità di una relazione autentica tra teologia e scienza sociale.
Storia e attualità della sociologia cristiana
Che quello di Donati non sia né l’unico né il primo tentativo di proporre una sociologia cristiana, nel senso che ho dato a questa espressione, lo dimostra lo stesso Donati che dedica un ampio capitolo del libro sulla matrice teologica alla sociologia del soprannaturale di Luigi Sturzo, evidenziandone i limiti ma, soprattutto, rivendicandone innanzitutto la piena legittimità e, in secondo luogo, la forte attualità. Oltre a Sturzo, vorrei richiamare sinteticamente alcune informazioni che ho ricavato in gran parte dall’interessante saggio dedicato da Brewer alle relazioni tra sociologia e teologia21.
Brewer ricorda che all’inizio della storia della sociologia inglese e americana il protestantesimo liberale e il riformismo sociale cristiano hanno avuto un ruolo molto importante nello sviluppo della disciplina. Ad esempio, nel 1880 J. W. H. Stuckenberg, un teologo protestante americano, scrisse un libro intitolato Christian Sociology. Nel 1890, “all’interno di facoltà teologiche americane furono creati due istituti di Sociologia cristiana e l’Hartford Seminary divenne una summer school sulla sociologia cristiana. La rivista teologica Bibliotheca Sacra, che pretende di essere la più antica rivista di teologia dell’emisfero occidentale, in origine aveva il termine sociologia nel suo sottotitolo ed era co-diretta da Swift Holbrook, direttore dell’Institute of Christian Sociology a Oberlin.”22 Tre dei primi presidenti della American Sociological Society, come allora si chiamava la società scientifica dei sociologi americani, erano stati seminaristi e almeno otto dei maggiori sociologi della prima generazione cominciarono la loro carriera come ministri protestanti, inclusi Sumner e Thomas. Anche Albion Small, uno dei fondatori della Scuola di Chicago, è stato per molti anni diacono in una chiesa battista della città. Questa stagione, però è durata poco perché è prevalsa anche nei sociologi cristiani una mentalità secolarista che portò molti di loro ad allontanarsi personalmente dalla fede, a rifiutare l’idea e lo stesso termine di sociologia cristiana e a trattare la religione come un tema tra i tanti che la sociologia poteva studiare utilizzando il metodo scientifico. La piccola minoranza di sociologi cristiani che non accettò l’ateismo metodologico della sociologia creò nel 1938 una propria associazione scientifica (l’American Catholic Sociological Society) separata dalla American Sociological Society, accusata di discriminare nella propria prestigiosa rivista, l’American Sociological Review, i lavori dei sociologi cristiani. Per questo motivo, nel 1940 fu anche fondata la rivista American Catholic Sociological Review. Secondo Brewer, i sociologi di questo gruppo non furono sostenuti, in particolare dalla chiesa cattolica americana, orientata a considerare in modo globalmente negativo la disciplina per il suo orientamento secolarista. Stretta tra la non piena accettazione da parte della chiesa e la relativa emarginazione da parte della sociologia mainstream, l’Associazione nel 1970 cambiò il proprio nome in associazione per la Sociologia della religione, accettando di fatto il paradigma secolarista dominante23.
Nel momento in cui la maggioranza dei sociologi cattolici faceva questa scelta, fu costituita da protestanti e cattolici carismatici una nuova associazione col nome di Christian Sociological Society. Questa società appare ancora attiva, ha un sito web che si può visitare (http://www.christiansociologist.org/past-newsletters.html), pubblica una Newsletter ed ha un comitato scientifico di cui fanno parte sociologi appartenenti a molte università americane, non di primo piano, e impegnati in settori disciplinari diversi24.
Se gli Usa raccontano una storia di lontananza e incomprensione tra sociologi cristiani e chiese, in particolare la chiesa cattolica, la storia inglese è abbastanza diversa. Fin dalle sue origini, le chiese inglesi hanno guardato con molto favore la sociologia, specialmente per i suoi interessi nei confronti dei problemi sociali, in particolare della povertà, che la facevano apparire, soprattutto agli occhi degli Anglicani, “una sorta di cristianesimo applicato”25, cioè un modo attraverso cui richiamare i credenti ad un maggiore impegno etico nei confronti dei deboli, come richiesto dal Vangelo. Fu molto valorizzata anche la critica della sociologia nei confronti della modernità, in particolare dell’individualismo capitalistico, critica che sembrava rafforzare la visione comunitaria e organica del cattolicesimo medievale. Ancora negli anni ’20 la Sociological society, la cui sede era significativamente dedicata a Le Play, scelse di ospitare una conferenza sul tema teologia e sociologia in cui la relatrice, dopo aver accusato la teologia di eccessivo astrattismo, poteva chiedere una più stretta unione tra teologi e sociologi, resa urgente dalla necessità di dare risposte ai grandi problemi morali dei tempi moderni. Secondo la Branford “le due discipline sono simili eticamente, nel modo in cui concepiscono gli ideali dell’uomo e della società umana”26 e sono simili nel modo in cui strutturano il mondo in potere temporale e spirituale, con la sociologia che si interessa del primo e la teologia che si occupa del secondo.
L’auspicio di una collaborazione tra teologia e sociologia, però, è rimasto inascoltato fino agli anni ’70 del ’900 e nel frattempo anche in Gran Bretagna la sociologia si è sostanzialmente secolarizzata, ricevendo critiche più o meno forti dalle diverse chiese. In quegli anni si registra, invece, come abbiamo visto, una ripresa di interesse soprattutto da parte dei teologi, orientati a valorizzare il contributo della sociologia. Grazie a questa riscoperta si è sviluppata una specifica modalità di critica teologica della società contemporanea che lo storico della chiesa Martin Marty27 ha definito “teologia pubblica”28. Questo tipo di teologia si è spesso anche confrontato con l’approccio secolarista della sociologia mainstream a certi problemi, ad esempio quello molto attuale della omosessualità, proponendone letture alternative.
Anche in Gran Bretagna, comunque, ci sono sociologi, in verità in numero molto limitato, che si dichiarano esplicitamente cristiani e che mostrano nei loro lavori una esplicita apertura verso la teologia. Tra questi si possono ricordare David Martin29, Kieran Flanagan30, ma, soprattutto, Margaret Archer che significativamente nel 2004 ha dedicato, assieme ad altri due colleghi, un libro al tema della trascendenza31. Non mi è possibile in questa sede presentare anche solo in termini sintetici le posizioni di questi autori. Ritengo necessario, però, proporre alcune delle tesi contenute nel volume curato da M. Archer e colleghi perché questa da anni ha avviato una intensa collaborazione con Donati, dalla quale entrambi hanno tratto reciproci vantaggi.
La posizione di M. Archer
Per la Archer e i coautori del libro che, significativamente hanno co-firmato i primi due capitoli, il fattore che media l’incontro tra teologia e sociologia è il realismo critico, una filosofia della scienza elaborata inizialmente da Roy Baskar, in base alla quale la domanda su Dio (sull’esistenza di Dio) non è una pseudo-questione, come ritengono sia la sociologia secolarista (positivista) che quella post-moderna, ma una questione suscettibile di essere dibattuta razionalmente e che ha una risposta ontologicamente obiettiva. Una delle premesse del realismo critico, infatti, è il realismo ontologico, cioè l’affermazione che la realtà esiste indipendentemente dai nostri pensieri e credenze. L’ ontologia, quindi, non equivale all’epistemologia. Se compiamo questa identificazione cadiamo nella “fallacia epistemica”32 che si basa sull’inferenza sbagliata in base alla quale, siccome non c’è una visione epistemologicamente obiettiva del mondo, ontologicamente non c’è nessun mondo. Dobbiamo invece distinguere tra ciò che noi crediamo e ciò che il mondo in realtà è, ed essere sempre consapevoli della possibilità che tra le due cose ci sia differenza. Per evitare la conflazione (il mondo coincide con la mia conoscenza di esso) il realismo critico insiste su una distinzione epistemologica tra la dimensione transitiva (le nostre idee sul mondo) e la dimensione intransitiva (ciò che il mondo è). La seconda premessa del realismo critico è la “razionalità critica” cioè che noi possiamo discutere pubblicamente le nostre idee sul mondo sulla base di argomenti che possono essere peggiori o migliori (le buone ragioni di Boudon33, arrivando, sulla base degli argomenti migliori, ad un giudizio (sempre provvisorio) su come la realtà effettivamente è. Quando una conoscenza appare del tutto consolidata e non più modificabile, si arriva alla aletheia o alla verità aletica, la verità della realtà per come è. Su molti temi una verità di questo tipo resta lontana.
Per gli autori anche la questione dell’esistenza di Dio si può affrontare con la “razionalità critica”. Ciò non significa che si possa arrivare ad una risposta definitiva. Ciò che interessa è valutare le ragioni, sia della credenza che della miscredenza.
La terza premessa del realismo critico è il relativismo epistemico, diverso dal relativismo critico, posizione per la quale tutti i giudizi sono egualmente validi. Relativismo epistemico significa che tutti i nostri giudizi sono socialmente e storicamente situati. Quindi anche quella religiosa è una esperienza che può esserci o non esserci, ma anche esserci ed essere interpretata diversamente, ad esempio come esperienza del trascendente o come illusione. In primo luogo ciascuno crede alla propria esperienza personale. Per quanto sappiamo di poter sbagliare e di esserci anche spesso effettivamente ingannati, continuiamo a dar fiducia all’esperienza. Quindi, la questione della trascendenza sarà affrontata in modo asimmetrico da chi ne ha fatto esperienza e da coloro cui questa esperienza manca. Le nostre idee di Dio differiscono, in parte, perché sono diverse le nostre esperienze. Però anche su questo tema è possibile la conversazione e il confronto. In altri termini, entrambe le posizioni sono epistemologicamente accettabili, anche se ontologicamente una è vera e l’altra falsa. Al momento, però, non ci sono ragioni sufficienti per escluderne una. Ciò significa che sul tema Dio il realismo ontologico nella dimensione intransitiva si accorda col relativismo epistemico o esperienziale nella dimensione transitiva.
L’elaborazione del realismo critico permette di superare non solo e non tanto l’obiezione positivistica, che è stata ormai definitivamente messa in crisi dalle nuove epistemologie, ma anche l’approccio post-posivistico del secondo Wittgestein che lega i giochi linguistici alle forme di vita che danno loro significato. Per tale approccio è chiaro che, nella forma di vita della scienza, un discorso su Dio non ha senso, mentre ne ha all’interno della forma di vita religiosa. Il discorso religioso, infatti, non serve a fare affermazioni sulla realtà oggettiva, esterna, ma a orientare e stimolare la comunità credente verso certe direzioni spirituali. Esso, quindi, ha una funzione performativa, che quello scientifico non ha. Quando i credenti pregano Dio, per Wittgestein non è importante chiedersi o sapere se Lui è realmente presente o meno, ma verificare che gli oranti sono confermati nella loro fede.
Questo approccio ha sfondato sia in antropologia che in sociologia dove la religione è analizzata come espressione della comunità. Dio esiste se per la comunità esiste; non esiste se per la comunità non esiste. Archer e colleghi, però, ritengono che anche molti teologi si siano fatti influenzare dalla prospettiva post-wittgesteiniana, che presenta apparentemente molti vantaggi e punti di interesse. Il primo è che qualunque cosa il linguaggio religioso dica o sembri dire sulla realtà esterna, se in realtà si riferisce sempre solo all’esperienza umana, la religione non deve più combattere contro la scienza battaglie che è destinata a perdere. Il secondo vantaggio riguarda la prospettiva ecumenica perché non è più necessario che le religioni oppongano reciprocamente le loro pretese di verità mutualmente esclusive. In realtà nessuna di esse ha pretese di verità perché ciascuna esprime solo le differenti storie che le loro comunità vivono. Infine, questa prospettiva rende la religione non obiettabile in quanto le sue affermazioni si riferiscono solo alla comunità che deve costruire.
Archer e colleghi definiscono la prospettiva post-wittgesteiniana un cavallo di Troia per la teologia, non perché non abbia elementi di verità ma perché rende la religione inoffensiva, le toglie il sapore. Seguendo radicalmente questa strada, la religione muore. Le comunità religiose vive non pensano di raccontarsi storie, ma di raccontare storie che dicono in qualche modo la verità sul mondo.
Oggi però la sfida ancora più radicale è rappresentata dal post-modernismo, che mette in dubbio la verità di qualunque affermazione, non solo quelle su Dio, essendo tutte le affermazioni culturalmente condizionate o socialmente costruite. Il realismo critico permette di rispondere anche a questa sfida, potendo mostrare che il post-modernismo è l’esempio perfetto di fallacia epistemica, in quanto riduce totalmente l’ontologia all’epistemologia. Come la teoria verificazionista del positivismo, anche il relativismo assoluto del post-modernismo è una contraddizione in termini.
L’adozione di una prospettiva di realismo critico permette alla sociologia di M. Archer e colleghi di guadagnare anche un modo nuovo e diverso di osservare il fenomeno che fonda l’esperienza religiosa cioè la trascendenza.
L’ esperienza del trascendente non è unitaria, ma plurale. Di fronte a questa pluralità si può scegliere la risposta ateistica o quella religiosa. Entrambe sono possibili ed entrambe si devono giustificare. Fino ad ora, le scienze sociali hanno adottato la risposta ateistica come equivalente a neutrale (value free). Così non è. Usando l’approccio post-modernista o post-wittgestainiano (osservare la religione solo come pratica sociale), le scienze sociali dicono di esimersi dal prendere posizione sulla verità delle religioni ma di fatto ne negano la dimensione trascendente, quindi negano anche la religione come esperienza. L’esperienza, infatti, consiste di 3 elementi: il soggetto che fa esperienza, il contenuto della stessa e l’oggetto. Se si nega che esista l’oggetto (il trascendente) di fatto si nega l’esperienza.
Quanto all’oggetto dell’esperienza religiosa, Archer e colleghi lo definiscono così:
“Per cominciare, “trascendenza” è un termine relativo, che si riferisce alla capacità umana di superare (andare oltre) alcuni stati o livelli di coscienza, inclusa la conoscenza”34.
Distinguono, inoltre, tre forme di trascendenza: in relazione alle cose (incluse le idee), in relazione alle persone e in relazione a Dio. La prima è rappresentata dalla creatività. La seconda è immanente alle diverse forme di relazione e ha a che fare con l’amore. La terza è fondata su una tradizione religiosa, ma la supera attraverso l’esperienza personale di Dio come realtà ultima.
Nell’ultima parte del saggio Acher e colleghi arrivano ad esplicitare gli elementi condivisi della loro visione di Dio e della sua relazione col mondo/società.
Anzitutto prendono le distanze dalle visioni di Dio come totalmente trascendente o, al contrario, totalmente immanente35 e legano il misto di bene e male presente nel mondo alla comprensione dell’immanenza di Dio. Se la presenza del male conferma il fatto che siamo creature alienate, fino al punto che possiamo negare la stessa esistenza di Dio, d’ altra parte Dio, che lo ha creato, continua a mantenere in vita questo mondo col suo amore. L’alienazione, quindi, non è totale e non è definitiva, anche se il mondo attuale fa di tutto per allontanarci dalla percezione della trascendenza attraverso il suo approccio strumentale nei confronti di cose e persone. L’ amore di Dio, invece, è incondizionato. Uscire dall’alienazione, quindi, richiede la capacità di amare allo stesso modo gli altri e la natura. Per adottare la relazione di dono al posto di quelle strumentali serve una trasformazione sia a livello individuale che collettivo. Ma se a livello sociologico è facile dimostrare che gli attuali rapporti mercificati sostengono e mantengono il ciclo dell’alienazione. “ciò che è più difficile da dimostrare è la proposizione che la contro-istituzionalizzazione della società sulla base dell’economia civile e di una normatività della condivisione, piuttosto che dello scambio, potrebbe quanto meno eliminare alcuni degli stimoli che attualmente producono l’alienazione”36.
Come si vede, troviamo in M.Archer e nei suoi colleghi una concezione ontologica ed epistemologica, condivisa nei suoi tratti essenziali anche da Donati, che consente di aprire un dialogo fecondo e reciprocamente utile tra sociologia e teologia.
Conclusioni
Sulla base di questa rassegna, certamente incompleta, possiamo dire che la posizione di Donati, che cerca di fare una sociologia che non prescinda da (non rompa la relazione con) la sua fede cristiana non è unica, ma resta sicuramente fortemente minoritaria. Ciò che appare, invece, unico è il tentativo donatiano di utilizzare la visione teologica trinitaria come matrice (codice simbolico) per la costruzione di una teoria generale della società in grado di sfidare gli approcci postmoderni attualmente circolanti dimostrando gli effetti perversi che il riduzionismo che li caratterizza tende sempre più a produrre in termini di disumanizzazione della società e proponendo nuovi modi più umani di affrontare le sfide che la realtà continuamente pone.
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1Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società, (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010).
2Idem, L’enigma della relazione, (Milano-Udine: Mimesis, 2015).
3Idem, La matrice, 11.
4John D. Brewer, “Sociology and theology reconsidered: religious sociology and the sociology of religion in Britain”, History of the human sciences, 20, 2, (2007): 7-28.
5David Martin, John O. Mills and William S.F. Pickering (eds.), Sociology and Theology: Alliance and Conflict. (Leiden: Brill, 2003 [1980]).
6Michael Barnes, “Introduction”, in Theology and the Social Sciences, edited by Michael Barnes. (Maryknoll: Orbis, 2001), xi-xviii.
7Il riferimento è ovviamenete a Karl Rahner, non ad Hugo Rahner.
8Boff, ad esempio, ha sostenuto che per fare la mediazione socio-analitica la teologia aveva bisogno della teoria sociale. Cfr. Clodovis Boff, Theology and Praxis: Epistemological foundations, (Maryknoll: Orbis, 1987), xxi.
9John Milbank, Theology & Social Theory. (Oxford: Blackwell Publ, 2006).
10Clive Beed, Cara Beed, “Theology as a challenge to social science”, in AEJT, 16, (2010): 1-32. Accessed December 14, 2015.
11John Milbank, Theology & Social Theory. (Oxford: Blackwell Publ., 2006), 2.
12Mi pare si possa trovare una conferma molto significativa di questa tesi di Milbank nella posizione espressa da Randall Collins, considerato uno degli esponenti più importanti della sociologia contemporanea. Cfr., ad es., Randall Collins, “La sociologia di Dio”, L’intelligenza sociologica (cap. II). (S. Maria C.V.: Ipermedium Libri, 2008), in particolare il cap. II, intitolato “La sociologia di Dio”.
13Ibid., 3.
14Ibid., 5.
15Ibid., 6.
16Beed, “Theology…”, in AEJT, 16, (2010), 1-32:6.
17Donati, La matrice, 12.
18Margareth Archer, “Il realismo e il problema dell’agency”, Sociologia e politiche sociali, VII, 3, (2004): 31-49.
19Clive Beed, Cara Beed, “Theology as a challenge to social science”, in AEJT, 16, (2010): 1-32.
20Donati, La matrice, 14.
21John D. Brewer, “Sociology and theology reconsidered: religious sociology and the sociology of religion in Britain”, History of the human sciences, 20, 2 (2007): 7-28.
22Ibid., 11.
23La rivista aveva già cambiato nome nel 1963 diventando Sociological Analysis. Il titolo è ulteriormente cambiato nel 1993 diventando Sociology of Religion.
24I nomi che compaiono sul sito sono: Ronald L. Akers, University of Florida, Thomas C. Hood (coordinator), University of Tennessee, Knoxville, Karen C. Mundy, Lee University, Margaret M. Poloma, University of Akron, Paul Serwinek, William Tyndale College, Byron R. Johnson e Sung Soon Jang, Baylor University
25John D. Brewer, “Sociology and theology reconsidered: religious sociology and the sociology of religion in Britain”, History of the human sciences, 20, 2 (2007): 16.
26Sybella Branfordi, “Theology and Sociology”, Sociological Review, 29 (1927): 223-8:225.
27Martin E. Marty, The Public Church. (New York: Crossroads Press, 1981).
28Non so se le due definizioni sono del tutto indipendenti, ma è evidente il rinvio al concetto di “sociologia pubblica” proposto da Buroway per indicare quel tipo di sociologia esplicitamente impegnato rispetto ai valori che entra nel dibattito pubblico per sostenere certi tipi di soluzioni ai problemi sociali. Cfr. Michael Buroway, “Per la sociologia pubblica”, Sociologica, 1, (2007): 1-45.
29David Martin, Reflections on Sociology and Theology. (Oxford: Clarendon Press, 1997); David Martin, John O. Mills and William S.F. Pickering (eds.), Sociology and Theology: Alliance and Conflict. (Leiden: Brill., 2003 [1980]).
30Kieran Flanagan, “Sublime Policing: Sociology and Milbank’s City of God”, New Blackfriars, 73, (1992): 333-41; Kieran Flanagan, The Enchantment of Sociology. (London: Macmillan, 1996); Kiera Flanagan and Peter C. Jupp (eds.), Postmodernity, Sociology and Religion. (London: Macmillan, 1996); Kieran Flanagan, “The Return of Theology: Sociology’s Distant Relative”, in The Blackwell Companion to Sociology of Religion, edited by R.K. Fenn. (Oxford: Blackwell Publ., 2003), 432-444.
31Margareth Archer, Andrew Collier and Douglas Porpora, Transcendence. (London: Routledge, 2004).
32Ibid., 1.
33Raymond Boudon, Il relativismo. (Bologna: Il Mulino, 2009).
34Archer, Collier and Porpora, Transcendence. (London: Routledge, 2004), 27.
35“sottoscriviamo una visione di Dio sia trascendente che immanente”. (Ibid. (2004), 29).
36Ibid. (2004), 38