Ror Studies Series | La vita come relazione
Soggettività, riflessività e paradigma relazionale
Antonio Malo
Pontificia Università della Santa Croce
Uno dei termini più usati oggi dai mass-media, dalle opere letterarie e scientifiche è quello di “crisi”. Essa sembra imperversare in tutti gli ambienti della vita personale, familiare e sociale: dall’etica fino alla politica, dall’economia alla cultura e alla religione. In realtà, il significato di questo termine non è necessariamente negativo in quanto la crisi può anche volgere verso un miglioramento delle condizioni in atto, nonostante in essa permanga sempre il pericolo di un aggravarsi della situazione.
Uno degli argomenti del dibattito attuale ruota attorno alla causa o alle cause della crisi perché si ritiene che, una volta conosciuta l’origine, sia possibile trovarvi rimedio. Infatti, come accade in ogni malattia, la crisi che stiamo attraversando è stata originata da una serie di cause di cui non siamo ancora pienamente consapevoli. La postmodernità reputa il soggetto moderno come causa del male, specialmente il suo tentativo di presentarsi con un’identità fissa, indipendente da ogni situazione, tempo e cultura. Anche se la diagnosi della postmodernità mette in rilievo una causa importante della crisi attuale, che si potrebbe definire razionalismo e volontarismo moderno, io ritengo che essa non sia l’unica causa e che il modo in cui la postmodernità pretende di correggere il soggettivismo cada nello stesso errore denunciato: pensare che il soggetto moderno sia l’unica interpretazione possibile della soggettività.
Perciò, anche se le cause o, meglio, le concause della crisi sono molteplici, forse il loro nocciolo dipende dal modo sbagliato di capire la soggettività e la relazione che ognuno di noi ha con la realtà attraverso la propria coscienza. Essa, infatti, è ciò che ci permette di entrare nel triangolo del reale, di cui i tre lati sono: la persona, il mondo e gli altri. In definitiva, la soluzione del problema consiste nel considerare il soggetto non come una monade ma piuttosto come un essere che è essenzialmente relazionale.
Coscienza e soggetto
Sia la modernità che la posmodernità partono dal soggetto, l’una per affermarlo come primo principio, l’altra per negare la sua esistenza, mentre, invece, sarebbe più opportuno iniziare dal suddetto triangolo del reale, il quale è la condizione di possibilità dello stato di veglia della coscienza. Infatti, grazie ad esso, possiamo condividere con altre persone lo stesso mondo. Allo stesso tempo, gli altri possono confermare o correggere le mie esperienze, le mie conoscenze e le mie affermazioni o negazioni perché anche loro sono consci della stessa realtà, sebbene da una prospettiva differente, ovvero quella propria della loro soggettività1.
Nel sogno, invece, non esiste un mondo condivisibile poiché la coscienza, avendo perso la sua relazione con il mondo reale e con gli altri, si riferisce unicamente al proprio io, in modo frammentato e confuso. Nel sogno non c’è, dunque, coscienza immediata del reale ma solo della propria soggettività con i suoi desideri e le sue paure.
La coscienza vigile, e non la soggettività, è ciò che ci permette di entrare in contatto con la realtà; certamente la coscienza è sempre di qualcuno. Questo qualcuno non può essere colto con indipendenza dalla coscienza e dalle sue relazioni. «Essere consci di se stesso, di conseguenza, non consiste nel cogliere un puro sé che esiste separatamente dal flusso di coscienza ma piuttosto implica già essere consci di un’esperienza di datità in un modo primariamente personale; ossia è la possibilità di avere un accesso in prima persona alla propria esperienza vitale. Dunque, il sé “che si riferisce a” non è qualcosa che sta al di là o che si oppone alla corrente di esperienze, bensì un tratto o una funzione della sua datità. In breve, il sé non è concepito né come una precondizione trascendentale ineffabile né come un mero costrutto che si sviluppa attraverso il tempo; esso è colto come una parte integrale della nostra vita conscia attraverso una realtà esperita immediatamente»2.
La coscienza vigile (o di realtà) non è, però, semplice. Infatti, anche se essa si riferisce sempre al triangolo della realtà, può farlo in modi differenti: come coscienza concomitante, come coscienza riflessiva originaria e come coscienza riflessiva propriamente detta. Nella coscienza concomitante, il sé è immerso nell’esperienza e, tuttavia, si percepisce solo nella forma dell’intenzione del vivere o del conoscere sensibile. Invece, nella coscienza riflessiva originaria – propria di ogni fenomeno affettivo – il sé appare in modo chiaro e non semplicemente connotato; così, nel sentire fame, dolore, paura e tristezza si produce una riflessione immediata: mi sento affamato, indolenzito, addolorato, impaurito o triste3. La riflessione è così originaria che, inizialmente, non siamo capaci di separarci dai nostri affetti. Per interpretare i segni con cui manifestiamo i nostri sentimenti, è necessaria la ragione altrui, specialmente quella dei nostri genitori. Grazie a loro è possibile rendersi conto di ciò che accade, esprimere ciò di cui abbiamo bisogno e assimilare i differenti modi di agire in base alle circostanze. L’altro ci fa cogliere, grazie alla sua interpretazione simbolica o linguistica, il senso della fame, del pericolo o di qualsiasi altro affetto nato nella relazione spontanea con la realtà4. Poiché condivide lo stesso mondo, l’altro è garanzia del nostro essere svegli e della nostra capacità di aver coscienza del mondo, degli altri e di noi stessi. Così impariamo a dare un nome ai nostri affetti, a renderci conto del significato e del ruolo che essi hanno nella nostra vita. Tutti questi aspetti non sono presenti nell’affettività animale.
Terzo ed ultimo momento della coscienza, è la coscienza propriamente riflessa. Essa permette di focalizzare e analizzare ciò che è colto sinteticamente nella coscienza spontanea e nella coscienza originaria riflessa: il sé che vive, patendo o agendo, e l’alterità (mondo, persone). La riflessione, in un certo senso, si trova già nella coscienza spontanea, come la struttura e il senso della stessa esperienza umana5. Anche in questo caso, è fecondo il paragone fra la coscienza vigile e il sogno. Nel sogno, la coscienza non è intenzionale né riflessiva ma solo riflettente. Essa è simile ad uno specchio in quanto esprime ciò che abbiamo, in qualche modo, vissuto durante la veglia, pur non essendo stati pienamente consapevoli. È importante, però, sottolineare che, nel soggetto che dorme, non c’è l’intenzione di riflettere.
Delle tre dimensioni della coscienza, la modernità si impadronisce solo della riflessione, ovvero sia dell’autocoscienza slegata dalla coscienza spontanea. È, però, inadeguato parlare di modernità come di una realtà monolitica. In realtà, la modernità si divide in diverse correnti, le quali non adottano lo stesso modello di coscienza. È lecito, però, affermare che la modernità trionfante riduce questi tre tipi di coscienza (coscienza immediata, riflessa originaria e riflessa propriamente detta) alla coscienza riflessa, ragion per cui non distingue più fra il vivere, la percezione di essere in vita e la coscienza di sé come soggetto vivente. Di conseguenza, si confonde il vivere con la coscienza del vivere e quest’ultima con il sé che si autoconosce come Io puntuale slegato da qualsiasi condizione empirica (storica, biografica, culturale, relazionale), cioè come autocoscienza piena e perfetta. Secondo il paradigma moderno di coscienza, non è possibile conoscere qualcosa senza conoscersi, allo stesso tempo, come soggetto che si autoconosce; il soggetto appare così come principio di realtà, isolato e autonomo. In Cartesio, ad esempio, la coscienza del proprio voler dubitare o pensare si identifica con l’autocoscienza del proprio esistere al di sopra di ogni dubbio, secondo il noto principio cogito, ergo sum6. Ne consegue che l’alterità (il mondo e gli altri) non è più un principio con cui si è in relazione immediata ma oggetto riguardo al soggetto che si conosce in modo totale e assoluto; ecco perché il cogito, nel senso più profondo, almeno in Cartesio, è azione. Da ciò, ha origine la deriva moderna secondo cui l’alterità è considerata, in modo costruttivista o idealista, come produzione del soggetto o dello spirito. Così, per la modernità diventa problematica sia l’alterità non umana sia quella umana, in modo particolare sotto il profilo delle relazioni fra le persone. Tale ostacolo sarà, in seguito, definito da Husserl il problema dell’intersoggettività7.
Il triangolo del reale è sostituito così dal soggetto, il quale non è altro che una “sostanzializzazione” della coscienza riflessa dell’agente o autocoscienza. Infatti, poiché non equivale a conoscere che si è consci di qualcosa, la riflessione non sorge dalla relazione con la realtà. Riguardo alle relazioni con il mondo e con gli altri, la modernità sostituisce la coscienza originaria con un eccesso di riflessione o iper-riflessione, la quale è alla base dell’attitudine critica. Infatti, se la società pre-moderna si fonda sulla coscienza spontanea delle relazioni (familiari, sociali, politiche), considerate reali quanto il mondo, gli altri e la propria persona, la modernità vede con sospetto questo tipo di coscienza poiché in essa il soggetto moderno non riesce a riconoscersi: né la storia, né la tradizione alla quale appartiene, né la religione possono conferire al soggetto un’identità; solo la ragione, intesa come autoconsapevolezza di sé come istanza critica, può fondarla. La modernità libera così il soggetto dalle relazioni stabilite, giudicate come vincoli di un passato che pretende imporsi all’Io eliminando il distacco necessario per esaminarle razionalmente, per saggiare, così, il loro fondamento. Perciò, non è che la modernità non accetti che ci siano relazioni ma esse devono sempre sottostare ai criteri razionali. Le relazioni, dunque, non sono più considerate in se stesse perché esse sono o espressione della ragione o espressione di istituzioni vecchie e piene di pregiudizi, tramandate attraverso la storia8. In questo modo, è visibile un paradosso nel nucleo stesso della modernità: da una parte, essa immunizza il tessuto sociale dalle relazioni, da un’altra ne crea in continuazione, senza, però, che ci siano legami duraturi perché essi devono essere sempre soggetti ad una verifica. Infatti, siccome – secondo la modernità – la libertà di ogni soggetto è assoluta ossia separata da qualsiasi condizionamento di fatto, non può legarsi senza autodistruggersi. In questo modo, la relazione non può più essere un bene comune.
Questo tipo di libertà negativa è ciò che Isaiah Berlin chiama libertà da: libertà da qualcosa, da costrizione, da vincoli9. Essa, lungo il percorso della modernità alla postmodernità, conduce all’individualismo più esasperato. L’individuo si estranea da tutto e da tutti, neutralizzando le relazioni sociali e costruendo una società eticamente neutra. Non è un caso che il modello delle relazioni sia l’economia poiché il denaro è sia neutro che indifferente al valore. La relazione sociale si basa così sull’indifferenza. Le relazioni dei soggetti non creano né legami duraturi né responsabilità. Se, però, si abbandona il valore della relazione con l’altro, si perde anche l’identità personale e, quindi, anche la possibilità di perfezionarsi. In tal modo, si produce ciò che Bauman chiama etica adiaforica10: un’etica che non distingue più fra bene e male perché essi rappresentano solo una questione tecnica da risolvere in modi differenti (utilitarismo, pragmatismo, edonismo). Se la relazione fra le persone raggiunge o meno lo scopo è ugualmente un problema esclusivamente tecnico. Si dà così una massimizzazione delle relazioni strumentali e una minimizzazione dei fini e dei valori, i quali finiscono per scomparire. Il soggetto commercia con tutto quanto possiede, anche con le relazioni: può cambiarle, trasformarle, senza che apparentemente egli cambi (perché è importante soltanto che il tempo e le energie impiegate soddisfino i suoi desideri). Si abbandonano così i concetti di lealtà e di fedeltà a gruppi e persone.
In conclusione, la soggettività moderna, costituita dal soggetto che agisce a partire da sé, ha tre caratteristiche:
- La soggettività precede e fonda le sue relazioni con l’alterità (mondo e altri)
- La soggettività possiede le sue relazioni come proprietà disponibile (può separarsi da esse, perché non la costituiscono)
- La soggettività consiste nello scegliere chi si vuole essere mediante l’agire o il sentire (identità come arbitrio), non nella scoperta di chi si è, cioè dell’identità come compito.
Tutto ciò implica la sostituzione della coscienza spontanea con quella riflessa, il cui modello è l’evidenza che il soggetto ha di sé come autocoscienza.
La riflessione come conversazione interiore
Alcuni sociologi11 ritengono che, nella riflessività moderna, vi sia un aspetto di verità dal quale non si può completamente prescindere. Il problema, secondo Archer, non è la riflessività in quanto tale, bensì il modo di concepirla. Infatti, per questa sociologa, la riflessività moderna non considera le relazioni che costituiscono il soggetto e, in particolar modo, esclude la conversazione interiore con se stesso attraverso cui, ognuno di noi, esprime le sue preoccupazioni e i suoi interessi come essere sociale.
Secondo la sociologa inglese, sono proprio le relazioni fra l’Io e gli altri a dare luogo ai quattro ambiti della conversazione interiore: in primo luogo, il Sé (Self ) o livello interno della conversazione (individuale privato); in secondo luogo, il Me o soggetto agente primario in cui si rispecchia la visione che i parenti e gli amici hanno dell’Io (l’Io come figlio, fratello, sposo/sposa, amico/amica); in terzo luogo, il Noi che appartiene all’essere-per allargato (famiglia, vicini, membri di un’associazione, partito politico, religione); in quarto luogo, il Tu o attore con un ruolo sociale concreto (operaio, avvocato, medico, professore, ecc.)12.
Archer, inoltre, reputa che questi livelli si intrecciano fra loro per costruire l’identità delle persone. Ogni individuo inizia dal Me, come definizione che l’Io trova di se stesso nel sociale e che lo condiziona in base alle esperienze del passato. Dal Me, attraverso il Sé, l’Io che conversa con se stesso, genera un Tu ‘elaborato’ (elaborated you) che rappresenta il nuovo modo di essere dell’Io come progetto futuro. In questo modo, la comunicazione con gli altri è raccolta internamente, accettata, rifiutata, corretta e trasformata e, attraverso questa conversazione interiore, l’identità dell’Io si sviluppa nelle relazioni con gli altri13.
Nonostante il modello della Archer chiarisca bene l’origine e lo sviluppo dell’Io, io ritengo che nella costruzione dell’identità, si debbano distinguere due fasi simili a quelle che troviamo nel gioco umano. Una prima fase, play o gioco spontaneo, consiste nell’imitazione naturale degli altri, soprattutto attraverso il desiderio dell’altro (analogamente alla spiegazione della psicoanalisi e di Girard14); in questa tappa non si possiede ancora un Io formato, ma una soggettività che si costruisce secondo l’identificazione con i modelli o la separazione da essi, in particolar modo riguardo ai propri genitori. La seconda fase, game o gioco organizzato, è invece riflessiva. Essa corrisponde alla conversazione interiore: i modelli imitati sono quelli che hanno più valore a seconda del proprio progetto personale e cioè quelli che si vogliono mimare. In questo modo, oltre a strutturare l’Io per mezzo della personalizzazione, la seconda fase dell’identità permette il passaggio al Tu attraverso l’apprendistato di regole e pratiche che lo trasformano in un agente capace di avere ruoli familiari e sociali concreti15. La conversazione interiore può essere avviata da diversi elementi come, ad esempio, dalle azioni delle persone che consideriamo più care oppure dal successo (o dall’insuccesso) delle nostre relazioni. Nella conversazione interiore, l’Io si colora di tonalità affettive di desideri, propositi, decisioni, ecc. La capacità di integrare la propria interiorità in base al significato e all’importanza degli eventi, delle persone e delle situazioni permette l’elaborazione di un Io in grado di dialogare, cioè di essere Tu per un altro Io. Ne deriva che io non sono solo soggetto di esperienze o Sé, ma anche soggetto dello sviluppo di determinate strutture della personalità che sono relazionali.
Infine, tanto nella strutturazione del Sé come nell’elaborazione del Tu, occupa un ruolo decisivo la narrazione per il fatto che essa ha una funzione unificatrice dei diversi ruoli e funzioni. Infatti, tramite i racconti impariamo non solo a migliorare la nostra conversazione interiore, ma anche ad esprimere meglio, a noi e agli altri, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere16. «Nella misura in cui la sua identità riposa su una struttura temporale conforme al modello di identità dinamica emersa dalla composizione poetica di un testo narrativo, (…) l’identità narrativa, costitutiva dell’ipseità, è in grado di includere il cambiamento, la mutevolezza nella coesione di una vita»17. L’identità narrativa e non solo il Sé è, dunque, quella che permette di raccontare e raccontarsi.
La distinzione fra sé o soggettività iniziale (l’idem) e l’identità narrativa o personalità (l’ipse)18, intesa in senso antropologico e non psicologico, costituisce il tema centrale della riflessività: cosa sono? Cosa voglio essere? Questo tipo di riflessività è legato all’azione, più concretamente, alla coscienza di se stesso come soggetto agente, il quale, per agire, deve procedere attraverso tre fasi della conversazione interiore: discernimento, deliberazione e dedizione19.
La conversazione interiore rende personale e costante l’interpretazione, la valutazione e la rettifica svolte dai nostri genitori, fin dal momento della nascita20. Esempi di questo tipo di riflessività dialogica sono già presenti sia in Sant’Agostino che in Cartesio. La riflessività in Sant’Agostino è esplicita mentre in Cartesio è implicita. Nel primo consiste in un dialogo dell’autore con la sua stessa ragione21. Nel secondo, il voler dubitare e , soprattutto, il dubbio universale rappresentano il dialogo di Cartesio con lo scetticismo della sua epoca che egli accetta con lo scopo di superarlo.
Dunque, la soggettività che si comunica agli altri e interagisce con loro si costituisce a partire dalla conversazione interiore, la quale, a sua volta, richiede la riflessione e il linguaggio. La soggettività, inoltre, è in relazione con l’alterità, con l’altro da sé e – citando il titolo del famoso saggio di Ricoeur – con sé come un altro. Il punto di partenza della conversazione interiore coincide con la nascita dell’Io come ipse, la quale dipende dalla separazione fra la prospettiva della prima persona, il mondo e gli altri. Si tratta però di una separazione relativa, giacché – di fronte alla tesi cartesiana – l’Io non è l’essere della persona, bensì l’insieme di relazioni d’identificazione e di separazione della persona nei confronti di se stessa e degli altri22.
La riflessività non appartiene, perciò, a un soggetto separato e autonomo (cogito, Io o Spirito), bensì ad un soggetto in relazione. Attraverso la coscienza concomitante e riflessiva originaria, il soggetto è, sin dall’inizio in rapporto con l’alterità, specialmente con gli altri, ma anche con se stesso. Nella riflessione propriamente detta, invece, l’Io sperimenta una divisione interna in quanto percepisce se stesso come se fosse un altro, sapendo però di essere il medesimo23.
Ritengo che, per costruire un nuovo modello di soggettività, sia necessario intraprendere una riflessione che contempli questi tre tipi di coscienza, senza cercare di ridurli ad uno solo: coscienza spontanea, originaria riflessa e propriamente riflessa. Infatti, questa distinzione permette di recuperare il soggetto come relazione poiché ciò che caratterizza la coscienza in ogni sua dimensione è il suo collegamento spontaneo con il triangolo della realtà. Attraverso questa relazione il soggetto, oltre ad essere consapevole delle sue esperienze e del suo significato esistenziale, è anche cosciente della sua realtà come persona, come essere in relazione.
Perciò il nuovo modello di riflessività non solo non si contrappone alla coscienza concomitante e originaria riflessa, ma le realizza; tale riflessività può intendersi come una conversazione con se stesso in cerca del senso dei propri desideri, motivi, decisioni, azioni e progetti24. A differenza degli altri tipi di coscienza, nella riflessione si dà una distanza che permette di entrare in una relazione critica con la nostra interiorità e con gli altri.
Soggetto agente in relazione: la coscienza dell’azione
Specialmente nell’azione il soggetto riflette di più su se stesso: sia sulle preoccupazioni e sugli interessi, ma anche sul significato, sulla responsabilità e sulle conseguenze del suo agire. Per questo motivo, la coscienza dell’azione è il luogo privilegiato della conversazione interiore del soggetto e della sua integrazione come personalità.
Infatti, la coscienza dell’azione è già dall’inizio coscienza riflessa poiché in essa c’è la riflessività sia della volontà (sono direttamente conscio di me stesso come agente, in quanto non è possibile agire senza volerlo) sia della conoscenza di sé in quanto soggetto che riflette sull’oggetto del suo volere, sui motivi e sulle conseguenze. Dunque, la riflessività su se stesso o ipse è legata, in modo particolare alla coscienza dell’azione.
D’altronde, perché ci sia una vera e propria azione, la coscienza riflessa è una condizione necessaria poiché, senza il distanziamento dal giudizio spontaneo dell’affettività, il soggetto invece non è solamente motivato ad agire ma è anche obbligato dalla causalità naturale, analogamente al comportamento dell’animale poiché esso non agisce ma è agito dalla sua natura. È necessario, perciò, non confondere , i motivi d’agire con le cause o le disposizioni necessarie, come invece accade in Bordieu. Infatti, secondo questo autore, non sarebbe il soggetto ad agire ma l’abito, il quale, per il fatto di essere dotato di potere adattativo, farebbe scattare l’azione adeguata. In questo modo egli nega l’esistenza di qualsiasi finalismo soggettivo. Bordieu, infatti, afferma che «il finalismo individualistico concepisce l’azione come determinata dallo scopo conscio che mira a obiettivi esplicitamente posti, è davvero un’illusione ben fondata: il senso del gioco, che implica un adeguamento anticipato dell’abito alle necessità e probabilità inscritte nel campo, si presenta sotto l’apparenza di un vittorioso “rivolgersi verso” il futuro»25.
Bourdieu non si accorge che l’abito non può essere la causa dell’agire poiché l’agire non ha propriamente cause quanto, piuttosto, motivazioni o ragioni che hanno origine nella riflessività del soggetto, nella conversazione interiore sulle motivazioni delle proprie preferenze, preoccupazioni e volizioni. Dunque, l’agire umano non può essere compreso in base ad un semplice modello funzionalista di taglio evoluzionistico, in virtù del quale esso si adatterebbe al contesto sociale, come l’istinto dell’animale all’ambiente.
Il modello funzionalista non serve a spiegare l’azione, giacché essa dipende, totalmente, dalla persona. Infatti, lungi dall’essere una funzione adattativa, l’azione è una manifestazione paradigmatica del carattere personale della soggettività umana, la quale è contemporaneamente – come sostiene Donati – immanente e trascendente rispetto alle posizioni e ai ruoli sociali, in virtù della sua riflessività personale26 e anche – aggiungerei io – della sua speciale intenzionalità27. Infatti, per agire, la persona ha bisogno di identificarsi con il fine dell’azione che viene così proiettato, esaminato, deciso, scelto e, finalmente, realizzato. Se nell’identificazione si dà l’immanenza della persona, nella realizzazione dell’azione si dà invece la trascendenza della persona, giacché questa pone l’azione nell’essere e se stessa nell’azione senza perciò perdere la sua capacità di continuar ad agire.
D’altronde, il soggetto s’identifica, attraverso l’azione, con gli altri o si distanzia da loro, dal contesto sociale, plasmando, grazie alle sue preoccupazioni o a i suoi interessi, la sua identità come soggetto agente e narrativo28. L’identità dell’Io implica, dunque, il riferimento necessario agli altri considerati non come cause, bensì come motivi e ragioni sia del suo agire sia anche del suo comprendersi come soggetto agente29.
Dunque, oltre alla riflessione su se stesso, la conversazione interiore dipende anche dall’azione30 perché durante il suo svolgimento il soggetto – secondo Archer – cerca di stabilire un adeguamento fra contesto sociale (social context) e preoccupazioni personali (concern)31. A seconda della modalità di attuazione, l’autrice distingue quattro modelli fondamentali: autonomo-riflessivo, meta-riflessivo, frammentato-riflessivo e comunicativo-riflessivo. In quasi tutti i modelli è inizialmente riscontrabile una palese opposizione fra i valori culturali del soggetto e il contesto sociale in cui esso vive. Il modo in cui il soggetto reagisce è però differente: il soggetto autonomo-riflessivo risponde alle nuove preoccupazioni con fiducia in se stesso (self-reliance), quello meta-riflessivo criticando il contesto sociale, considerandolo incongruo, mentre quello frammentato-riflessivo reagisce sviluppando diverse patologie psichiche. Solo nel caso del soggetto comunicativo-riflessivo non si dà opposizione al contesto, bensì comunicazione, poiché egli ha un’originaria fiducia negli altri (membri della famiglia e amici).
Archer indica cinque note che, a suo parere, caratterizzano una buona relazione fra contesto e preoccupazioni dei soggetti:
- Accettazione (o rifiuto) dei partners del dialogo a partire dai contesti natii
- Sviluppo delle preoccupazioni iniziali grazie ad un (parziale) dialogo con esse
- Elaborazione di di questo dialogo attraverso i social networks alla luce delle preoccupazioni
- Ridefinizione e rinforzo delle preoccupazioni attraverso continui scambi con questo network contestuale
- Consolidamento di un particolare modus vivendi in continuità con il contesto originale del soggetto32.
Insomma, la relazione fra soggetto di conversazione interiore, azione e il contesto sociale, appena esaminata, mostra come l’idea del soggetto riflessivo moderno, considerato come monade autonoma e autosufficiente, debba essere sostituita da un nuovo modello di riflessività, avente questi tre tratti che si oppongono radicalmente a quelli propri della riflessività moderna:
- Dipende dalle relazioni con gli altri (in particolare da quella riguardante il contesto sociale).
- È costituita dalle relazioni con se stessi e con gli altri e si sviluppa attraverso la conversazione interiore, l’azione e la narrazione.
- La sua perfezione consiste nel vivere bene secondo queste relazioni, in modo da compiere azioni che, nascendo dalla persona, siano adeguate al contesto sociale e ai progetti personali.
Il soggetto situato
Pur condividendo il modello di riflessività della Archer, ritengo che la visione della soggettività come conversazione interiore, azione e narrazione ammetta ancora un ulteriore approfondimento attraverso ciò che chiamerò il soggetto situato. Esso – come il soggetto della conversazione interiore – differisce dalla soggettività monadica moderna, non solo perché agisce responsabilmente secondo la relazione con se stesso e con il contesto sociale, ma soprattutto perché è situato originariamente, prima ancora di poter riflettere, in quanto ha un’origine, un corpo, alcune relazioni basilari, una cultura, diverse tradizioni e varie credenze.
La soggettività, in questo modo, dipende da ciò che la filosofia classica chiama accidenti (lo spazio, la storia e le relazioni) che sono relativi alla persona (o sostanza individuale di natura nazionale). Alcuni, però, potrebbero scorgere in questa tesi una caduta nel relativismo in quanto gli accidenti, modificandosi, farebbero perdere stabilità al soggetto, rendendolo, così, qualcosa di liquido33.
In questa obiezione, in realtà, vi sono due fraintendimenti: il primo è la sostituzione della soggettività con la persona. Infatti, come si è visto, la soggettività non è la persona ma il punto di vista che essa ha e che si manifesta attraverso la coscienza, la quale è sempre aperta al triangolo del reale. Il secondo (non ancora affrontato) riguarda ciò che io chiamo situazione della soggettività. Essa è formata dagli accidenti della metafisica classica che sono costitutivi della sua essenza che sarebbe una razionalità priva di punti di vista. L’essenza della persona come animale razionale è, a mio parere, una definizione che richiede di essere ben compresa per non confondere la definizione logica con quella metafisica. Inoltre, è necessario reinterpretare la razionalità come relazionalità. Non potendo, però, analizzare quest’ultimo argomento in questa sede, mi limiterò ad esaminare l’obiezione secondo cui l’essenza della soggettività sarebbe costituita solo dalla razionalità motivo per cui la situazione in cui essa verrebbe a trovarsi non avrebbe un valore essenziale.
Partendo dal presupposto che il corpo (attraverso la coscienza concomitante e, soprattutto, affettiva), la biografia, la relazione con gli altri e con se stessi, attraverso il contesto sociale e la conversazione interiore hanno un ruolo centrale nell’origine della soggettività, è possibile dire che questi elementi costituiscono la soggettività in modo essenziale? La mia risposta è affermativa poiché credo che l’essenza della soggettività umana sia molto particolare: i suoi accidenti sono parte di essa e permettono il suo sviluppo, cioè il passaggio dall’idem all’ipse. La soggettività è in grado di integrarli attraverso la riflessione, la conversazione interiore, l’azione e la narrazione. Questi accidenti, dunque, possono essere considerati in due modi sia come fatti reali che sono dati e, in questo senso, simili agli accidenti degli animali, sia come possibilità essenziali, in quanto possono essere accettati o rifiutati, sviluppati e modificati parzialmente. Ad esempio, nel mio caso, i dati di partenza (essere figlio, essere uno spagnolo del XX secolo) sono stati integrati dalla mia soggettività in relazione perciò si sono sviluppati in ulteriori dati: essere sacerdote ed essere insegnante presso un’Università Pontificia romana da più di 25 anni. Ciò dimostra che la soggettività si avvale della sua situazione per svilupparsi e, nel farlo, integra o disintegra la situazione di partenza. Perciò l’identità iniziale, corporeo-sessuata, situata in una serie di reti familiari e sociali o idem (la stessa persona), diventa identità etica e relazionale o ipse (personalità). L’ipse è sempre in cerca del senso della propria vita e del proprio destino. La soggettività non è, dunque, monologica né statica ma cresce o diminuisce a seconda di ciò che vuole fare e, soprattutto, di ciò che vuole essere. Per questo motivo, non è sufficiente che ci sia un adeguamento fra preoccupazioni e contesto sociale affinché si possa parlare di una buona riflessività perché è anche necessario che la soggettività riesca ad integrare la sua situazione in modo autentico, ossia secondo ciò che essa deve essere.
Quando all’interno della soggettività si distingue radicalmente fra essenza e accidenti (soggettività e situazione), sorge il problema degli altri, specialmente delle altre soggettività, perché, se le altre soggettività sono qualcosa di accidentale riguardo al proprio Io, esse diventano semplici punti di vista esterni, incomunicabili. In realtà, le soggettività sono in relazione attraverso il triangolo del reale, il quale, in quanto situazione di ogni soggettività, è parte essenziale di essa. Comunque, il concetto di esperienza che permette di cogliere la soggettività situata non è semplice: nella propria soggettività bisogna includere il corpo, i gesti, le emozioni e il comportamento con le sue intenzioni, le sue norme e i suoi valori, i quali sono interpretati dall’altro; diventa, così, necessario includere anche l’altro34. È, altresì, necessaria una visione genealogica e dinamica della soggettività invece di una soggettivistica od oggettivistica.
Tutto ciò palesa l’esistenza di una relazione originaria asimmetrica fra me e l’altro nell’origine della soggettività: l’altro si trova in me, come ciò che rende possibile la mia coscienza della realtà (attraverso la sua interpretazione e la sua valutazione), la mia conversazione interiore e la mia azione; e io mi trovo nell’altro, come ciò che rende possibile la sua coscienza del mondo e di me, la sua riflessione e la sua azione. Certamente, come dimostra la psicoterapia, l’inclusione dell’altro in sé e di sé nell’altro non sempre si realizza correttamente, neppure nell’ambiente familiare.
Perciò, la soggettività non è solo quella in prima persona ma anche in seconda e terza persona: Io, Tu, Egli, Noi sono i pronomi personali che ogni soggettività, in quanto tale, è obbligata a declinare35. La relazione con gli altri all’interno della propria soggettività corregge la visione isolata del soggetto moderno, introducendo in essa l’idea di mutua appartenenza: gli altri fanno parte di me, come io faccio parte degli altri36. Bisogna pensare all’appartenenza, non come possesso dell’altro secondo il modello economico, ma come categoria ontologica, costitutiva della nostra soggettività. Inoltre, quest’appartenenza, non s’impone a noi, bensì richiede la nostra libera accettazione. Ne deriva l’importanza della conversazione interiore, in cui si riflette sulla cura e sulle preoccupazioni, cioè sui mezzi, sugli scopi e sui motivi dell’agire con l’altro e per l’altro.
Insomma, anche se è necessaria per entrare in una relazione volontaria e responsabile con l’altro, l’azione del soggetto non spiega né la presenza dell’altro nella soggettività né la riflessività volontaria dell’Io con l’altro nell’azione, sia perché la relazione è all’origine della soggettività sia perché l’azione dell’Io con l’altro richiede una determinata intenzionalità che non appartiene solo ai soggetti (Io/altro), ma alla loro stessa relazione. Quindi, le azioni dei soggetti in relazione non possono capirsi solo a partire dalla conversazione interiore o riflessività soggettiva. È necessario, dunque, un nuovo paradigma.
La riflessività relazionale e il dono
Ispirandomi al pensiero di Donati, ritengo che questo paradigma si trovi in un nuovo tipo di riflessività, che egli chiama riflessività sociale37 e che io chiamerò relazionale. Tale riflessività considera, soprattutto, la relazione nella sua origine, nei suoi tipi e nei beni che ne derivano. Infatti, a differenza di quanto accade nella riflessività soggettiva, in quella sociale o relazionale «non si agisce solo verso/su la persona di Alter ma anche verso/su la relazione con Alter. Se Ego e/o Alter modificano le componenti interne (soggettive) della loro azione, essi modificano anche la relazione esterna. Così che la relazione Ego-Alter è una realtà che, benché agita da entrambi, va oltre i loro singoli apporti e i loro singoli scopi»38. I soggetti, attraverso la riflessività relazionale, si prendono cura non solo di sé e dell’altro, ma anche della loro relazione.
Perciò, il loro agire è modificato sia dalla relazione in cui essi si trovano sia dalle preoccupazioni personali e dal contesto sociale. Anzi, è la relazione a dare un senso nuovo o a mettere in crisi l’insieme delle loro premure, delle loro preoccupazioni e dei loro interessi. Di conseguenza, anche la loro riflessività è alimentata o inibita dalle qualità del contesto relazionale in cui i soggetti agiscono: ognuno degli agenti tiene conto dell’altro, delle sue intenzioni, delle sue azioni e, soprattutto, della stessa relazione che si è stabilita con lui. In questo modo, la riflessività relazionale realizza la relazione originaria con l’altro, la quale è alla base della soggettività.
La riflessività dei soggetti fondata sulla relazione è ciò che dà luogo agli effetti emergenti: cambiamenti sociali e beni relazionali, che oltrepassano le azioni intenzionali dei soggetti. Donati, infatti, afferma che «la riflessività sociale gioca come attività mediatrice fra la soggettività umana e i sistemi sociali. Si tratta di una mediazione che possiede una sua natura e una sua realtà […] Essa viene attivata dalla interiorità (conversazione interiore) delle persone, ma si alimenta di una costante relazionalità fra i soggetti. Questa relazionalità è ciò che produce il cambiamento sociale. Consiste di quella realtà che sta fra i soggetti, cioè la realtà dei beni relazionali o dei mali relazionali»39.
I beni relazionali dipendono, dunque, dalla riflessività sociale, la quale richiede almeno il coinvolgimento interiore di due soggetti nelle loro relazioni. Ciò evidenzia, sia una possibile trasformazione delle dimensioni emozionali, cognitive e volitive dei soggetti, impossibile se considerati isolatamente, sia l’emergere di una nuova realtà: la relazione. Forse la novità, la gratuità e la sorpresa, propri della riflessività sociale, ancor più che il soggetto riflessivo della Archer, manifestano la maggiore differenza nei confronti della soggettività moderna. Infatti, la riflessività moderna non produce né novità né gratuità né sorpresa poiché si basa sullo scambio dei beni con un prezzo conosciuto. Essa, come il denaro, ha un prezzo ed è neutra dal punto di vista dei valori giacché pecunia non olet! (come si diceva a Roma al tempo dell’imperatore Vespasiano, il quale impose una tassa sull’uso delle latrine pubbliche, i cosiddetti vespasiani). Infatti, i diversi sistemi moderni (tecnologici, educativi, politici, culturali) costruiti sulla neutralità del denaro hanno come orizzonte la produzione di beni materiali. La riflessività relazionale fra i soggetti genera, invece, beni relazionali che non sono neutri; essi non si riducono a un prezzo, ma hanno valore e dignità. Ne deriva che i limiti e le norme propri della riflessività relazionale non sono più esterni, bensì interni, in quanto dipendono dal tipo di relazione e dai beni relazionali generati.
Io considero le caratteristiche del bene relazionale (gratuità, sorpresa e novità) e il valore in se stesso come quelle del dono di sé (quando è accettato da un altro). Infatti, affinché il dono di sé metta in atto tutte le sue virtualità, necessita di qualcuno che l’accolga e che, a sua volta, si doni. Nell’accoglierlo si origina una relazione che ha tutte le caratteristiche della riflessività relazionale poiché, nell’essere trasformati nella loro soggettività, donatore e ricevente originano una nuova realtà generativa di beni. Nella donazione, da una parte, sussiste un tipo di relazione particolare poiché essa si trova nei soggetti sia come ciò che li costituisce nella loro identità sia come ciò che li fa crescere (ad esempio, la donazione di sé del marito genera l’identità della moglie e viceversa, per cui, a partire da questo momento, la perfezione del marito si trova nella sua relazione come sposo e viceversa). Dall’altra parte, la relazione stessa permette che ogni soggetto si trovi nell’altro senza scomparire, anzi è richiesto il consolidamento di ognuno per il perfezionamento della relazione attraverso i beni relazionali (ad esempio, la fedeltà coniugale cresce mediante la fedeltà degli sposi). Ciò è possibile perché la relazione oltrepassa i soggetti che la costituiscono in quanto l’intenzionalità di ognuno richiede non solo l’intenzionalità dell’altro, ma anche quella che corrisponde al tipo di relazione; in questo senso, il dono dell’altro si trova oltre qualsiasi intenzionalità del soggetto. C’è dunque un’eccedenza nella riflessività relazionale, come anche nel dono, riguardo ai soggetti coinvolti.
L’eccedenza del dono può essere compresa attraverso i concetti d’immanenza e di trascendenza, considerati non più come opposti, ma nel loro legame intimo: nel donarsi, il donante si trova in colui che lo riceve e, nel riceverlo, il ricevente si trascende verso il donante; in questo modo, l’Io sta nell’altro e l’altro nell’Io. Forse questo è il modo di superare non solo la logica dialettica della relazione fra soggetti, la quale porta con sé la lotta per il riconoscimento, ma anche quella aristotelica di opposizione fra atto immanente e atto transitivo a partire dal tipo di fine raggiunto: quello che si possiede nello stesso atto (ad es. il vedere, il conoscere) o quello che si trova fuori dell’atto (ad es. il costruire).
Nel dono, infatti, l’immanenza e la trascendenza appaiono come le due facce di una stessa realtà. Per riferirci alla relazione da un punto di vista ontologico, ritengo che si possa usare il termine energia , usato da Aristotele per riferirsi alla forma e all’anima degli esseri viventi come principio di organizzazione del loro corpo e delle loro operazioni specifiche. Considerando che nel dono di sé accolto, i soggetti trascendono non solo la propria specie, ma anche le loro stesse azioni e la loro intenzionalità, si può considerare un nuovo tipo di forma o atto vitale. Esso, però, non è azione ma relazione, perché è costituita non di persone ma dalle persone. Il marchio della trascendenza di quest’energeia è l’apertura al terzo o, se si preferisce, il suo carattere generativo. Anche se è trascendente, l’energeia relazionale contiene in sé le persone che la fanno esistere e le loro azioni, senza essere, tuttavia, persona o azione (questo è l’enigma della relazione). In questo modo, nell’energeia relazionale si osserva la massima trascendenza, data nell’alterità del figlio, la quale, però, è legata alla massima immanenza, ovvero sia alla paternità e alla maternità come elementi costitutivi della relazione genitoriale e delle due nuove identità personali.
L’immanenza e la trascendenza della relazione sono da interpretare non solo come un’uscita da sé perché esse sono anche un ritorno a sé (analogamente alla spiegazione aristotelica dell’amicizia). Non si tratta di considerare l’altro (l’amico) dal punto di vista della conoscenza e dell’amore di se stessi, ma piuttosto di scoprire il carattere di dono della relazione poiché essa contiene l’altro in me (immanenza) e me stesso nell’altro (trascendenza). Ciò non significa perdita della distinzione fra sé e l’altro, giacché essa dipende da una distanza infinita fra le persone, la quale, metafisicamente, deriva dalla relazione creaturale e filiale di ogni persona con Dio. Perciò, nonostante l’Io e l’altro si differenziano come soggetti di questa relazione, Dio non li separa, ma li lega e li unisce ancora di più. In questo senso la relazione di filiazione, in modo più esemplare rispetto a quella dell’amicizia, è il paradigma di questa immanenza/trascendenza della relazione, cioè di dono compiuto. Il figlio si riconosce come tale nell’altro che gli è più intimo, ossia il padre e la madre, i quali si trovano in lui come origine della sua vita. La somiglianza fra genitori e figlio indica una relazione necessaria a tutti e tre per diventare ciò che essi sono, mentre la differenza designa l’eccedenza del dono. Perciò nella generazione-filiazione-fraternità umana sono presenti contemporaneamente sia l’interesse (la relazione è necessaria per le proprie identità) sia il dono (la relazione è gratuita) o, in altri termini, il bisogno e l’eccedenza.
La modernità ha tentato di opporre radicalmente l’amore altruistico (o puro amore) all’interesse. Tali categorie dialettiche sono, però, astrazioni mancanti di realtà. Mentre l’amore altruistico non conosce affetti né legami singolari ma solo una compassione universale, l’interesse conosce solo la logica economica e non il dono. La realtà è differente poiché il dono, lungi dal cadere nella separazione altruistico/economico, la trascende in quanto origine di un interesse per l’altro squisitamente umana, ossia il voler essere in comunione con lui.
Nella postmodernità appare un’apertura a questa nuova trascendenza per cui il dono inizia ad acquistare un peso molto forte nelle relazioni interpersonali: nelle forme organizzate del volontariato, nella riorganizzazione dello Stato, nelle fondazioni, ecc. In tutti questi casi si crea un bene relazionale, una relazione che mette in comunione i soggetti. Infatti, il dono dà luogo ad una nuova comune appartenenza che costituisce i soggetti identitariamente, trascendendoli. Questo accade perché l’altro interessa per se stesso, come un bene, e perciò si tenta di offrirgli le condizioni per accettare il nostro dono poiché, solo in questo modo, può originarsi la comunione.
Perciò la relazione immanenza/trascendenza è la relazione che guida il codice simbolico con l’alterità; essa partecipa della soggettività come dono, fondamento di ogni relazione. «Infatti, la relazione non viene all’esistenza come atto creativo (volontà, intenzione, affermazione) di dipendenza, ma viene all’esistenza come offerta di un dono (il quale, certo, implica asimmetria e dipendenza, ma è innanzitutto un dono). È il dono che crea la relazione perché è il dono, non l’atto di potenza che è operatore di sociabilità e socievolezza; la relazione si instaura e continua nella misura in cui il dono è accettato e diventa un reciproco eccedersi dei soggetti»40.
Quindi, si può definire il dono come un’asimmetria fra soggetti tendente alla reciprocità41. Ciò impedisce che il dono sia equivocato con il beneficio e che il donatore sia frainteso con il benefattore (come accade nel regalo senza reciprocità o con lo scambio mercantile proprio del do ut des). La reciprocità deve essere intesa non già come un “dare per avere”, né come un “dare per dovere”, ma come un dare perché si è ricevuto. La reciprocità viene attivata dal dono, e il dono porta con sé il desiderio che l’altro possa dare, cioè diventi donante, poiché è la perfezione più grande nel ambito della persona.
Molto probabilmente, la base della novità e della generatività del dono consiste nella riflessività relazionale che realizza la capacità di entrambi soggetti di donare (il ricevere è un’altra forma di donare). Questa capacità ha come fondamento una corretta autostima. Infatti, solo se uno si considera degno, può sentirsi con capacità di dare e di ricevere.
L’autostima, però, proviene già da una riflessività originaria. Infatti, l’autostima deriva dall’interiorizzazione della stima di cui sono stato oggetto da parte delle persone a cui sono specialmente legato affettivamente. Essa si riflette sulla stima che ho nei confronti dell’altro poiché essa mi induce a stimare l’altro come stimo me stesso. In questo caso, la riflessività relazionale e la riflessività originaria si convertono poiché credo di essere degno della stima dell’altro e dei suoi doni in quanto mi stimo perché, a mia volta, sono stato stimato. Qualcosa di simile potrebbe dirsi della fiducia: ho fiducia nell’altro (in lui come donante e capace di ricevere dei doni) perché mi ritengo degno d’ispirarla; ciò può accadere solo perché altri hanno avuto fiducia in me42.
Perciò, secondo me, la riflessività relazionale non dovrebbe staccarsi dalla relazione spontanea con la realtà e, più concretamente, con il triangolo di cui ho parlato all’inizio di questo saggio, né con la riflessività originaria. La relazione spontanea con l’altro, però, deve essere purificata dai pregiudizi affettivi e cognitivi, in modo che i beni relazionali emergano senza ostacoli43. In fondo, si richiede una riflessività critica: questa definizione non si deve intendere nel senso di sospetto, di dubbio o di sfiducia riguardo all’alterità perché, in realtà, è una riflessività che tenta di imparare da ciò che, nella relazione spontanea con l’altro, resta implicito o soltanto a livello germinale, per portarlo a compimento.
Conclusione
Il problema della modernità non dipende, dunque, dalla sua scoperta della soggettività, ma piuttosto dal suo modo d’interpretarla come individuo autonomo e autosufficiente. Da ciò si deduce che nella postmodernità la soggettività non dovrebbe essere né assolutizzata né cancellata, bensì capita nella sua essenza e nei suoi limiti.
L’essenza della soggettività consiste nell’essere una prospettiva sulla realtà, ossia un punto di vista in prima persona di ciò che essa non è (l’alterità), specialmente dell’altro. Da questa prospettiva la coscienza in tutte le sue forme (concomitante, riflessiva originaria e riflessiva propriamente detta) ha un ruolo decisivo, in quanto permette la relazione con il mondo, con le altre persone, sia in modo spontaneo sia in modo riflesso, e con se stessi. L’alterità si trova, quindi, nell’origine della soggettività ed è, perciò, ciò che le permette di svilupparsi, attraverso i diversi tipi di coscienza e le diverse tappe, fino a raggiungere la personalità matura.
Dunque, la riflessività che, attraverso la conversazione interiore, pone in relazione le preoccupazioni del soggetto con il contesto sociale trasformandolo, è solo una dimensione della soggettività. Il nuovo modello di soggettività postmoderna è, infatti, più ampio. Considerando che le diverse scienze umane e sperimentali permettono di scoprire che la soggettività nasce e cresce a partire dalle relazioni, è possibile riflettere su una riflessività relazionale capace di esaminare il modo in cui le relazioni si stabiliscono, crescono e perfezionano le persone. In questo modo, la soggettività si apre al bene relazionale e, attraverso di esso, all’eccedenza del dono. Anche se il fondamento del dono è trascendente (l’asimmetria o gratuità originaria), esso tende alla immanenza di una reciprocità basata sull’autostima e sulla fiducia. Perciò, si può concludere sinteticamente che senza trascendenza non c’è dono, senza dono non c’è reciprocità e senza reciprocità non c’è né autostima né fiducia nelle relazioni né immanenza (poiché non sussiste la presenza dell’Io nell’altro e dell’altro in me).
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1Una visione simile della coscienza può trovarsi nel testo di Donati: «Come ogni realtà anche la coscienza ha una sostanza relazionale. È una realtà in-relazione. Ma ciò non significa che la relazione ‘crei’ la coscienza, ma solo che le dà una forma storica, la configura in rapporto al contesto culturale e lungo il suo corso di vita» (Pierpaolo Donati, L’Enigma della relazione [Milano-Udine: Mimesis edizioni, 2015], 39).
2Dan Zahavi, Subjectivity and Selfhood. Investigating the First-Person Perspective (Cambridge, MA: MIT Press, 2006), 106.
3Per il concetto di coscienza originaria riflessiva, sono debitore dell’importante saggio di Antonio Millán Puelles, La estructura de la subjetividad (Madrid: Rialp, 1967), 272. Anche se egli non la applica all’affettività, io ritengo che questo sia il suo ambito più proprio.
4A tal proposito, rinvio il lettore al mio saggio Antropologia dell’affettività (Roma: Armando, 1999), 217-220.
5Ciò spiega perché – contro Jean-Paul Sartre che afferma: «la riflessione esige, per essere evidenza apodittica, che il riflessivo sia riflesso», (L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo [Milano: Il Saggiatore, 2002], 194) – per l’evidenza della riflessione non sia necessario cogliere l’identità fra coscienza riflessa e ciò che si riflette, altrimenti si produrrebbe un processo all’infinito, poiché ciò che si riflette dipenderebbe sempre da una riflessione previa. L’identità della coscienza, però, non dipende dall’atto di riflessione che, in quanto atto intenzionale del soggetto, è sempre posteriore alla coscienza originaria, bensì dal fatto che in questa identità è contenuta la possibilità di una riflessione come ciò che realizza la coscienza.
6«Mi accorsi però subito dopo che, mentre in tal modo volevo pensare che tutto fosse falso, occorreva necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualche cosa» (Descartes, Discours, Capitolo I, 32). Per un’analisi dell’influsso del dubbio cartesiano su alcuni autori postmoderni mi permetto di rinviare il lettore al mio saggio Cartesio e la postmodernità (Roma: Armando, 2011).
7Secondo Husserl, l’intersoggettività è un problema perché il fondamento della fenomenologia, ossia l’esperienza originaria, può essere solo quello che appartiene all’io che con l’epoche mette tra parentesi il mondo e gli altri e solo dopo può risalire al fenomeno degli altri e a quello del mondo: «questo problema si presenta dunque, a tutta prima, come un problema speciale, quello dell’esserci-per-me degli altri ed è quindi il tema della teoria trascendentale della esperienza dell’estraneo, ossia della cosiddetta empatia. Ma subito si vede che l’importanza di una tale teoria è molto maggiore di quel che sembra a prima vista, in quanto essa parimenti fonda una teoria trascendentale del mondo oggettivo e anzi in modo completo, specialmente riguardo alla natura oggettiva» (Edmund Husserl, Cartesianische meditationen, § 115).
8La ragione – e non più la natura umana – stabilisce il collegamento fra i tre valori supremi dell’uomo moderno: libertà o razionalità, uguaglianza (manifestazioni della ragione in ambito giuridico e politico), e fraternità (condivisione della ragione in ambito sociale). Si tratta della «ragione astratta della tecnostruttura che intende, dall’esterno, di colmare le mancanze dell’individuo, di correggere i difetti sociali, in una parola di perfezionare quanto c’è ancora di incompiuto nella natura umana. Non è un caso che la Rivoluzione francese celebri la “Dea Ragione”» (Michel Maffesoli, “De la postmédiévalité à la postmodernité”, in Postmodernité et Sciences humaines. Une notion pour comprendre notre temps, ed. Yves Boisvert, [Montréal-Québec: Liber, 1998] 14).
9Vid. Isaiah Berlin, Four Essays on Liberty (Oxford: Oxford University Press, 1969). In un’ottica relazionale, la “libertà da” è l’altra faccia della medesima medaglia della “libertà per”, similmente a quanto accade con il diritto riguardo al dovere che si ha.
10Vid. Zygmunt Bauman, Post-modern Ethics (Oxford: Blackwell, 1993).
11Vent’anni fa fu pubblicato un volume su questo argomento, scritto da tre importanti sociologi: Ulrich Beck, Anthony Giddens, Scott Lash, Reflexive Modernization (Cambridge: Polity Press, 1994).
12Cfr. Margaret Archer, Structure, Agency and the Internal Conversation (Cambridge: Cambridge University Press, 2003), specialmente il terzo capitolo.
13Secondo Donati, «la conversazione interiore implica un continuo parlare dell’Io a sé stesso su come l’Io stesso (il nostro Sé, self ) pensa e agisce in relazione al contesto sociale e viceversa. Il nostro Io si confronta con delle identità sociali che gli sono attribuite dagli altri e quelle che lui sceglie e si dà una forma in relazione a quelle (definisce il proprio Sé)» (Pierpaolo Donati, L’Enigma della relazione, 107).
14Cfr. René Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde (Paris: Bernard Grasset, 1978), 375.
15Adotto il paragone del gioco di Georg Herbert Mead. Si noti, tuttavia, che Mead non distingue fra Sé e Tu poiché secondo lui il Sé non è altro che l’agente sociale (vid. Georg Herbert Mead, The Philosophy of the Present (LaSalle, ILL: Open Court, 1932).
16Cfr. Paul Ricoeur, Sé come un altro (Milano: Jaca Book, 2005), 14.
17Paul Ricoeur, Tempo e racconto. Il tempo raccontato, vol. 3 (Milano: Jaca Book, 1988), 376.
18Ricoeur adotta i due termini idem e ipse per riferirsi a due concetti d’identità. «Che cosa intendo con identità “idem”? È l’identità di qualcosa che resta mentre le apparenze o, come si dice, gli “accidenti”, cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall’antichità, la sostanza. La sostanza è il substrato, il suppositum, il supporto, identico nel senso che è immutabile, che non cambia, che è sottratto al tempo. Questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di un’identità strutturale. Per esempio il nostro codice genetico resta lo stesso, dalla nascita alla morte, come una specie di firma biologica. Abbiamo qui un esempio di “identità idem”: identità di struttura, di funzione, di risultato. L’identità “ipse” invece non implica l’immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, ecc. Faccio subito l’esempio più notevole dell’identità “ipse”; l’identità di me stesso quando mantengo una promessa. La promessa è sotto questo riguardo l’esempio più notevole, perché non abbiamo a che fare, nel caso del soggetto che promette, con una identità sostanziale; al contrario, mantengo la mia promessa nonostante i miei cambiamenti di umore. Questa è un’identità che potremmo chiamare di mantenimento, più che di sussistenza. Io sono e mi conservo lo stesso, nonostante non sia più identico, nonostante sia cambiato nel tempo» (Paul Ricoeur, Descrivere, raccontare, prescrivere, “Intervista, Paris, 20 dicembre 1991”, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=308, data della consultazione: 14 dicembre 2015).
19«In relation to the question, ‘What do I want?’, I have earlier conceptualised the internal process of answering it as the ‘DDD scheme’, representing three significant moments that can be distinguished as phases of the life-long internal conversation: discernement, deliberation and dedication» (Margaret Archer, Structure, Agency and the Internal Conversation, 20) .
20«There are, in other words, types of self-apprehension that do not have their origin in the self but depend on radical alterity» (Dan Zahavi, Subjectivity and Selfhood, 94).
21«Da molto tempo volgevo tra me e me molti e differenti pensieri e da tanti giorni cercavo ardentemente me stesso, cercavo il mio bene e quale male dovessi evitare; quando all’improvviso – ero io o un altro? di dentro o di fuori? è proprio quello che ora mi sforzo attentamente di sapere – una voce mi dice:
Ragione – Ecco: supponi di aver acquisito qualche conoscenza: a chi l’affiderai per passare ad altre ricerche?
Agostino – Alla memoria, naturalmente.
Ragione – Essa è dunque così valida da conservare egregiamente tutti i tuoi pensieri?
Agostino – Difficilmente; forse anzi le è impossibile.
Ragione – Allora devi scrivere. Ma come puoi farlo, se la tua salute ricusa la fatica di scrivere? Peraltro queste riflessioni non si devono dettare: esse richiedono un’assoluta solitudine» (Sant’Agostino, Soliloquia, I, 1).
22Identificazione non ha qui un significato psicologico, ma prettamente antropologico, in virtù del quale, nella costituzione della propria identità personale, è necessario un processo di relazione con un’altra persona che sia, da una parte, un modello in quanto legata all’io e che, dall’altra parte, sia differente.
23When I reflect, I am not confronted with the experiential life of a stranger. If I was, I would not say, “I perceive an emerald,” but “Somebody perceives an emerald.” By saying “I,” I am affirming the identity between the reflecting and the reflected subject. Thus, reflection is not a kind of empathy, nor is it a kind of multiple personality disorder; it is a kind of self-awareness. It is, however, a kind of self-awareness that is essentially characterized by an internal division, difference, and alterity (Dan Zahavi, Subjectivity and Selfhood, 91).
24«The activities involved range over a broad terrain which, in plain language, can extend from daydreaming, fantasising and internal vituperation; through rehearsing for some forthcoming encounter, reliving past events, planning for future eventualities, clarifying where one stands or what one understands, producing a running commentary on what is taking place, talking oneself through (or into) a practical activity; to more pointed actions such as issuing internal warnings and making promises to oneself, reaching concrete decisions or coming to a conclusion about a particular problem» (Margaret Archer, Making our Way through the World. Human Reflexivity and Social Mobility [Cambridge: Cambridge University Press, 2007], 2).
25Pierre Bourdieu, Outline of a Theory of Practice (Cambridge: Cambridge University Press, 1977), 79.
26Cfr. Pierpaolo Donati, Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno (Bologna: Il Mulino, 2011), 26.
27Similmente, K. Wojtyla sostiene che la persona è immanente all’azione e si identifica con il fine dell’azione stessa e, nel contempo, la trascende perché nessun atto la esaurisce. Il riferimento alla verità costituisce ciò che Wojtyla definisce trascendenza verticale, per distinguerla da quella orizzontale propria delle scelte o volizioni di un determinato valore: «Il riferimento alla verità, che nell’ambito della coscienza è soprattutto verità del bene (o anche verità sul bene) indica un’altra dimensione della trascendenza propria della persona, diversa da quella che trova espressione nell’oltrepassare i confini orizzontali del soggetto, quando esso si rivolge verso i valori oggettivi indipendentemente dal giudizio della coscienza» (Karol Wojtyla, Perché l’uomo. Scritti inediti di Antropologia e Filosofia [Milano: Leonardo, 1995], 144).
28«The following definition is used throughout the present work: ‘reflexivity’ is the regular exercise of the mental ability, shared by all normal people, to consider themselves in relation to their (social) contexts and viceversa» (Margaret Archer, Making our Way through the World. Human Reflexivity and Social Mobility, 4).
29«Any consideration of narrative identity obviously entails a reference to others, since there is a clear social dimension to the achievement of narrative self-understanding» (Dan Zahavi, Subjectivity and Selfhood, 109-110).
30«Courses of action are produced through the reflexive deliberations of subjects who subjectively determine their practical projects in relation to their objective circumstances» (Margaret Archer, Making our Way through the World, 17).
31L’importanza dei concern nell’azione è stata rilevata soprattutto da Charles Taylor, il quale scrive: «our most fundamental motivation, or our basic allegiance, or the outer limits of relevant possibilities for us, and hence the direction our lives are moving in or could move in» (Charles Taylor, Sources of the Self: The Making of the Modern Identity, [Cambridge: Cambridge University Press, 1989], 46).
32Cfr. Margaret Archer, Making our Way through the World, 147-148.
33Cfr. Zygmunt Bauman, Vita liquida (Roma-Bari: Laterza, 2006).
34«Finora il Cogito, sprezzando la percezione degli altri, mi insegna – come ha fatto – che l’io è accessibile solo a se stesso, dal momento che mi definisce come il pensiero che ho di me stesso, e che chiaramente sono io il solo ad avere, almeno in questo ultimo senso. Perché l”altro’ sia più di una parola vuota, è necessario che la mia esistenza non debba mai essere ridotta alla mia nuda consapevolezza di esistere ma debba anche prendere la coscienza che un altro può avere di essa; e quindi includere la mia incarnazione in qualche natura e la possibilità, almeno, di una situazione storica» (Marcel Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception [Paris: Gallimard, 1945], 7).
35Quest’esperienza si esprime poeticamente nel seguente verso: «Para vivir no quiero/ islas, palacios, torres./ ¡Qué alegría más alta:/ vivir en los pronombres!» (Pedro Salinas, La voz a ti debida [Madrid: Signo, 1932]).
36Qui si scopre l’inganno del mito, creato da Daniel Defoe (1719), di Robinson Crusoe che sarebbe capace di vivere senza altre persone. Infatti, anche se non sono presenti altre persone fisiche sull’isola dove è naufragato, egli le porta con sé nella sua stessa soggettività, come è mostrato nella sua conversazione interiore e nel suo agire, segnato dalla cultura del suo tempo.
37Cfr. Pierpaolo Donati, Sociologia della riflessività, 27.
38Ibid., 177.
39Ibid., 26.
40Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società (Soveria Mannelli: Rubbettino 2010), 38.
41Per una spiegazione del concetto di asimmetria mi permetto di rimandare al mio saggio Io e gli altri. Dall’identità alla relazione (Roma: ESC, 2010), specialmente il terzo capitolo.
42«Perché il rapporto con se stessi è una relazione interiorizzata ad un altro, l’opinione e la credenza sono il cuore di essa ; il valore non è visto né conosciuto, ma creduto. Credo di valere qualcosa agli occhi di un altro che approva la mia esistenza; nel caso estremo, questo “altro” sono io stesso. Nella misura in cui sono affetto da esso, questa fede, questa credenza, questa fiducia, costituisce il sentimento stesso del mio valore. Questo affetto che apprezza, o questo apprezzamento affettivo, è il punto più alto a cui l’autocoscienza può essere elevata in thymos» (Paul Ricoeur, Philosophie de la volonté. L’uomo fallibile [Aubier: Paris 1960], 124).
43Nicos Mouzelis, “Self and Self-Other Reflexivity:The Apophatic Dimension”, European Journal of Social Theory, 13 (Fall 2010): 271-284