Ror Studies Series | La vita come relazione
Dalla Trinità alla socialità umana: una prospettiva critica sul metodo
Paul O’Callaghan
Pontificia Università della Santa Croce
La questione che mi pare importante nel contributo di Martin Schlag quella dell’‘analogia sociale della Trinità’, un’espressione ispirata al pensiero di san Gregorio di Nissa. Si può notare che il locus di quest’ultima idea sta nella condanna fatta dal Nisseno della schiavitù: il cristiano che crede alla Trinità di persone consustanziali tra di loro non può accettare l’esistenza di un rapporto servo-padrone, un rapporto cioè di disuguaglianza di fondo, tra gli uomini.
I
Poi, come dice l’autore, è stato Karl Barth nel xx secolo ad introdurre la analogia relationis tra Creatore e creatura, tra Trinità e società umana… non è l’unico teologo, però è il più autorevole. Guardiamo bene: per Barth l’analogia relationis non equivale all’analogia entis (considerava quest’ultima la larva diaboli, la ragione per cui non poteva diventare cattolico, poiché secondo lui collocava Dio e l’uomo sullo stesso piano, e questo era impensabile). L’analogia relationis appartiene piuttosto a ciò che egli chiama l’analogia fidei, l’analogia della fede. Secondo Barth l’immagine di Dio nell’uomo esprime il fatto che (1) l’uomo dipende da Dio come creatura (ha un’esistenza interamente ab alio), una posizione sostanzialmente accettata da tutti i cristiani, e (2) l’uomo nella sua socialità o relazionalità riflette in qualche modo la vita trinitaria: allo stesso modo che l’essenza divina include un io e un tu, così la vita umana si esprime sempre in un io e un tu, in modo speciale nel rapporto tra uomo e donna: per questo leggiamo nella Genesi che Dio fece l’uomo a sua immagine, ‘maschio e femmina lì creò’ (Gen 1,27). Barth esclude però dall’immagine di Dio ciò che è stato sin dalla prima teologia cristiana il cuore di questa espressione, cioè lo spirito umano, il nous, l’intelletto, la volontà, perché se l’uomo è fatto a immagine di Dio, e ‘Dio è Spirito’, allora l’immagine dovrebbe riflettere il suo essere spirito. Però per Barth, questa sarebbe un’applicazione inappropriata dell’analogia entis.
Si può osservare che la comprensione barthiana dell’immagine di Dio, pur influente, non è stata accolta con entusiasmo dalla teologia e dall’esegesi biblica, in quanto rappresentava una spiegazione solo parziale di ciò che significa l’immagine di Dio nell’uomo. L’unità/distinzione uomo-donna come espressione dell’immagine di Dio sembra fare riferimento nella Bibbia al dominio che l’uomo deve svolgere rispetto al mondo creato, tra l’altro mediante la fertilità: “Maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cieli’ ” (Gen 1,27s.). Lungo l’ultimo secolo infatti questa comprensione è diventata frequentissima nell’esegesi biblica: fatto a immagine di Dio l’uomo è invitato a participare al potere supremo di Jahvè sul mondo creato, cioè il dominio, il lavoro. E questo domino si esercita tramite l’attività umana, il lavoro e la fertilità. Per questa ragione si parla della creazione dell’uomo ‘maschio e femmina’, perlomeno a livello esegetico. Nell’esegesi biblica dell’immagine di Dio non sembra presente l’analogia relationis invece, certamente nell’Antico Testamento, e neppure nel Nuovo. Sin dai tempi dei Padri della Chiesa, la questione dogmatica di fondo era piuttosto questa: se l’immagine di Dio era situata nell’anima sola (la posizione di maggioranza, Gregorio di Nissa e Agostino tra di loro) oppure nell’anima unita al corpo (come pensavano Ireneo, Tertulliano ed altri). Per quanto so, prima del secolo XX, dunque, non si considera l’immagine di Dio come espressione della socialità umana.
Comunque sono più che interessanti gli spunti presenti nei testi del Magistero ecclesiastico riguardanti questo tema, la Gaudium et spes, n. 24 del Concilio Vaticano II, e l’Enciclica Caritas in veritate, n. 54s., di Papa Benedetto XVI.
II
Come sappiamo, Tommaso d’Aquino parla delle persone trinitarie, Padre, Figlio e Spirito Santo, come ‘relazioni sussistenti’. Insiste però sul fatto che la categoria di ‘persona’ è segnata dalla ‘incomunicabilità’, seguendo in ciò Riccardo di Vittore in un testo citato dal prof. Schlag. Duns Scoto dà la medesima definizione: persona est substantia incommunicabilis naturae rationalis. In effetti, in Dio ‘persona’ equivale a ‘relazione’; però Tommaso non applica questa equivalenza né all’angelo né all’uomo. Il fatto quindi che in Dio la persona sia relazione non vuole dire necessariamente che lo sia nella creatura (uomo o angelo). Perlomeno per Tommaso. Una posizione simile è mantenuta da Agostino.
Penso che la ragione di questo modo di impostare le cose da parte di Tommaso sta nella perfezione della persona divina… tutte e tre, il Padre, il Figlio e lo Spirito, vengono adorati insieme come un solo Dio, da sempre e per sempre. La persona umana invece è imperfetta, e cresce, può diventare sempre più perfetta, sempre più arricchita, a partire da ciò che riceve, cioè passivamente… a partire da Dio, che crea l’uomo e stabilisce con lui una relazione fondante (per questo, nei confronti di Dio, l’uomo esiste essenzialmente ab alio); e a partire da altre persone umane con cui condivide la natura e stabilisce delle relazioni, molte delle quali, in fin dei conti, sono più o meno contingenti. Al contempo, la relazionalità fondante (con Dio) è ciò che rende possibile la relazionalità contingente (con le creature). Bisogna aggiungere che la nozione dell’‘incomunicabilità’ della persona non va interpretata (come facevano Buber, Lévinas ed altri personalisti) come negazione della relazionalità; anzi, ciò che rende possibile la relazionalità tra le persone è appunto la loro incomunicabilità ontologica: solo ciò che contiene se stesso può comunicare con l’altro senza perdere se stesso, come succederebbe invece con il grano di sale che, cadendo nell’oceano, si dissolve e diventa ‘tutto’ oceano.
III
Però ci domandiamo: si può spiegare la radice trinitaria della nozione di persona umana, della donazione, della socialità e della relazionalità in un’altro modo?
Kierkegaard è dell’idea che il grande contributo del cristianesimo sta nell’affermazione dell’individuo, della persona, e non della collettività, dell’umanità: “Il singolo: con questa categoria si mantiene in piedi, o cade, la causa del cristianesimo”. Gli antichi – gli stoici ad esempio – aspiravano al consolidamento dell’individualità umana autonoma tramite l’acquisto faticoso – e vano – delle virtù individuali. Però nell’Antico Testamento e nel Nuovo le cose cambiano radicalmente: Dio si indirizza all’uomo, lo chiama per nome, e invita l’uomo a rispondere alla sua chiamata. Nei confronti di Dio, l’uomo, ogni uomo, si scopre ‘da solo’ di fronte a Dio, diventando nei suoi confronti ‘insostituibile’. A partire dalla convinzione della chiamata di Dio sorge la nozione che la ‘persona’ è qualcosa in più del mero ‘esemplare della specie umana’. Nella Scrittura, invece, il fatto della socialità umana non è la novità… essa era assunta come qualcosa di ovvio. La novità era nell’apprezzamento dell’individuo, della persona. E allo stesso tempo questo fa sì che la dinamica della socialità cambia radicalmente.
Già Aristotele diceva che l’uomo fosse un’essere sociale. Però non basta. In un contesto cristiano bisogna aggiungere, a livello previo, che l’uomo è un essere corporeo, libero, storico e poi sociale. E con lui e per mezzo di lui, il mondo intero.
L’uomo è libero, perché aperto al dono che gli viene incontro. In effetti, le creature esistenti sono il frutto dell’atto creatore di Dio; nel contesto cristiano, sono creatio ex nihilo, dono puro, senza nessuna presupposizione condizionante né in Dio stesso, né nel mondo. E si comprende il mondo come dono a partire appunto dalla dottrina della Trinità di persone che creano il mondo per amore, un mondo che trova il suo senso soltanto nella sua capacità di rivolgersi di nuovo a chi l’ha creato: il Padre crea per mezzo del Figlio nello Spirito Santo.
Però questa donazione divina cerca una risposta libera, convinta e gioiosa, da parte della creatura spirituale, perché Dio non vuole condividere la sua eternità con delle creature indisposte a vivere con Lui e in Lui come figli. E allo stesso tempo questa risposta libera è per forza corporea, storica e sociale: accade nel corpo, nella storia, lungo il tempo, e si svolge insieme ad altre persone, in relazione con loro.
La vita umana in effetti è costituita da una narrativa storica. La libertà e la socialità si vivono storicamente, entro il tempo. Però il fatto della storicità umana rende palese, in molti modi, le disuguaglianze tra le cose (e le persone) create. Per mezzo della storia sorge una straordinaria varietà di cose e persone e situazioni, aperte alla crescita, alla vita… ed anche alla decrescita e alla morte, come un processo in cui la libertà umana – o meglio, le libertà umane – svolgono un ruolo essenziale. Concretamente, la fondamentale uguaglianza tra gli uomini (tutti sono persone, chiamate da Dio) si dà nel contesto di una grande varietà di disuguaglianze… Forse si può dire che il vero motore della vita sociale non è l’uguaglianza tra le persone (questa è senz’altro condizione di possibilità della vita sociale), ma piuttosto le disuguaglianze, perché permettono lo scambio vicendevole tra tutte le cose. Se tutte le persone fossero perfette e uguali tra di loro (come pensava Origene rispetto alle anime originalmente create), la vita sociale non avrebbe mordente, non sarebbe luogo di corporeità, di libertà, di storia. Inoltre, tale scambio tra le creature richiede la possibilità di riconoscere la situazione dell’altro, e di donare a lui ciò che Dio ha dato ad uno, ma ha destinato all’altro.
Tommaso si chiede se le disuguaglianze tra le creature, e specialmente tra gli uomini, sono frutto del peccato, della trasgressione etica, e risponde di no: le cose (e le persone) sono state create da Dio diverse tra di loro propter perfectionem universi, ‘dovuto alla perfezione dell’universo’. Le divergenze introdotte dall’agire libero umano arricchiscono questo processo.
IV
Siamo passati quindi dalla Trinità di persone alla creazione del mondo e delle persone, e poi all’atto libero dell’uomo, alla storia e al sorgere delle disuguaglianze tra gli uomini… e infine alla socialità umana.
In poche parole: per parlare del rapporto tra la comunione trinitaria di persone e la vita sociale dell’uomo mi pare importante passare dall’una all’altra lungo una serie di tappe. Il cammino epistemologico è più lungo, intricato e in fin dei conti appassionante.