Vai al contenuto

Ror Studies Series | La vita come relazione

Il paradigma relazionale e l’educazione

Paolo Terenzi

Università di Bologna

Scarica l’articolo in pdf

Poiché la società complessa, si dice, non tollera valori assoluti né norme prefissate (…) si deve portare la scuola sulle rive di un’isola che deve essere in grado di saper riemergere dopo ogni devastazione dei tifoni che la percuotono. Ma, nel frattempo, l’isola si è trasformata in un arcipelago di isolette appena appena affioranti, dove a malapena ci si può ritirare sperando che il prossimo nubifragio non porti via tutto
(P. Donati, Teoria relazionale della società, pp. 398-399).

Le sociologie relazionali e l’educazione

Nelle sociologie relazionali che sono emerse e che si sono consolidate nel panorama internazionale nelle ultime tre decadi, l’educazione è un tema assente, tanto sul piano teorico, quanto su quello della ricerca empirica. Questo vale per gli studiosi che hanno introdotto la sociologia relazionale negli Stati Uniti (Harrison White, Charles Tilly, Mustapha Emirbayer), in Canada (Simon Laflamme), in Francia (Guy Bajoit), in Inghilterra (Nick Crossley)1. In questo quadro, la sociologia relazionale di Pierpaolo Donati si distingue per diversi motivi. In primo luogo perché è l’unico caso in cui a partire da una fondazione teorica (ontologica ed epistemologica) incentrata sul riconoscimento del carattere originario e non derivato della relazione sociale, sono stati elaborati principi e strumenti metodologici (l’analisi relazionale) che sono coerenti con queste premesse e che hanno consentito la realizzazione di numerose ricerche empiriche. Gli ambiti applicativi a cui la sociologia relazionale

In secondo luogo, bisogna aggiungere che l’educazione, sebbene non abbia avuto una trattazione così ampia come quella riservata agli argomenti ora ricordati, è un tema che attraversa come un fiume carsico l’intera produzione di Donati, dalle prime pubblicazioni scientifiche fino ad oggi. In uno dei suoi primi saggi scientifici, pubblicato all’inizio degli anni Settanta, epoca in cui la sociologia relazionale non era ancora stata formulata, Donati ha riflettuto sulle dinamiche culturali connesse alla crisi della scuola3. All’inizio degli anni Novanta, Donati pubblica Teoria relazionale della società, uno dei suoi libri più importanti per una formulazione teorica sistematica della sociologia relazionale. In questo studio dedica uno specifico capitolo al tema della educazione, intesa come «guida relazionale», nella società moderna e contemporanea4. Anche alla luce del contributo “fondativo” appena citato, da metà degli anni Novanta, Donati inizia a dedicarsi con maggiore insistenza al tema dell’educazione. La prima tappa di questa riflessione tocca l’autonomia scolastica (che in quegli anni iniziava ad essere assai dibattuta in Italia), la scuola cattolica e il principio di sussidiarietà applicato alla relazione scuola famiglia5. All’inizio degli anni Duemila, vengono dedicate riflessioni al ruolo delle scienze della formazione in una learning society, alla formazione come relazionale sociale e al ripensamento del concetto di socializzazione alla luce della conversazione interiore e delle riflessività6. A partire da metà degli anni Duemila, il centro dell’attenzione si sposta sulla relazione tra scuola e capitale sociale attraverso ricerche empiriche e riflessioni di natura teorica dove viene introdotto il concetto di educazione come «bene relazionale»7. In questi anni si segnala anche un approfondimento sul disagio giovanile a scuola8.

Nel presente saggio, non è possibile operare un confronto critico tra le differenti sociologie relazionali sul tema dell’educazione, visto che, come è stato osservato all’inizio, a parte quella di Donati, le altre proposte non si sono occupate del tema. Non si intende neanche proporre uno studio analitico di tutti i saggi di Donati citati in precedenza e collocali all’interno del corpus complessivo della sua produzione scientifica (un intento di tale portata eccede la finalità e lo spazio assegnati a questo saggio). Si cercherà invece di mostrare come il paradigma relazionale rappresenti «un contributo esplicativo e interpretativo originale necessario per “risolvere” alcuni problemi dalla forte rilevanza pratica oltre che teorica» (Maccarini 2006, p. 196)9. In questa prospettiva, si metteranno a tema quelli che ritengo essere gli apporti più significativi della sociologia relazionale allo studio dei processi educativi. L’approccio di Donati può essere inteso come una chiave interpretativa che consente di superare i riduzionismi moderni sul rapporto tra società e sistemi scolastici (n. 2), di analizzare in modo critico l’approccio costruttivista (esito della modernità) all’educazione e alla pratica didattica (n. 3), di delineare i contorni di una nuova modalità di pensare e di vivere in modo più riflessivo rispetto al passato le relazioni educative, intese come bene relazionale, in un contesto dopo-moderno (n. 4).

Oltre i riduzionismi moderni sul rapporto tra società e sistemi scolastici

Nell’organizzazione delle società moderne, si viene progressivamente a creare uno stretto legame tra sistemi educativi, ordinamento politico e mercato del lavoro10. L’istruzione elementare fu resa obbligatoria per tutti a metà del XIX secolo nell’Europa industrializzata. In questo modo si rafforzò il controllo dello stato sui cittadini e si diede inizio al processo di alfabetizzazione di massa che avrebbe raggiunto il suo apice nel secolo successivo. Lo stato istituisce e finanzia scuole che rendano gli individui buoni cittadini in grado di interiorizzare valori comuni necessari al mantenimento di un certo livello di coesione sociale. Anche il mercato avanza le sue richieste nei confronti del sistema scolastico: avere a disposizione (pochi) individui preparati per il percorso universitario e per le professioni e (molti) individui che abbiano acquisito un patrimonio di conoscenze adeguato per essere avviati direttamente al mondo del lavoro. La scuola si distanzia progressivamente dalla famiglia e anche dalla tradizione religiosa che è messa in discussione dai processi di secolarizzazione. La scuola inizia così gradualmente ad essere misurata sul tipo di prestazione che è in grado di fornire in riferimento al nuovo contesto sociale, politico ed economico.

È paradigmatica la lettura sociologica che Durkheim fa del rapporto, sopra richiamato, tra educazione e società moderna11. Il sociologo francese traccia i contorni di un’educazione morale del tutto funzionale ad esigenze di integrazione sociale. Il primo elemento dell’educazione morale è infatti individuato nello spirito di disciplina: la disposizione con cui l’uomo si spoglia della tendenza individualistica e si immedesima nei valori della società. Il secondo elemento dell’educazione morale è considerare la società come ideale, ossia rafforzare la solidarietà degli individui fra di loro. In terzo luogo, il sociologo francese parla di autonomia della volontà, concepita però come un consenso spontaneo alle norme della collettività. Durkheim ha avuto il merito di esprimere in modo molto chiaro una concezione antropologica, che in seguito è stata definita ultrasocializzata, in virtù della quale nella relazione educativa si perde l’eccedenza della persona e della sua libertà sulla società. L’educazione diventa un sinonimo di integrazione e di coesione sociale12.

Questa impostazione di fondo teorizzata da Durkheim descrive i sistemi scolastici moderni, ma assume una forma differente a seconda dei contesti. Dopo la tragedia dei totalitarismi, le aspettative dei sistemi scolastici verso la politica e della politica verso i sistemi scolastici non poteva non modificarsi sensibilmente. Se i totalitarismi avevano rappresentato l’assolutizzazione della tendenza a fare del sistema scolastico uno strumento privilegiato per imporre i valori socio-politici di cui lo stato si faceva portatore, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il nuovo imperativo, in termini di istanze socio-politiche, diventa dare una base morale alle rinascenti democrazie occidentali uscite dal conflitto. In questo periodo si accresce la diffusione e l’importanza delle opere di Dewey e in modo particolare della sua riflessione su Democrazia e educazione. In questa opera emerge una concezione quasi “religiosa” della missione dell’educazione, per Dewey l’educazione esiste in funzione della democrazia, ogni bambino “è un membro potenziale della chiesa democratica, funzione dell’istruzione è proprio quella di renderne attuale l’appartenenza e di allargarne il potere di partecipazione”13. La scuola deve fondamentalmente preparare i giovani alle responsabilità che, nella vita adulta, i ruoli sociali richiederanno. Ciò che si ha di mira in questa prospettiva funzionalista (non è un caso che in questi anni in ambito sociologico faccia scuola proprio il funzionalismo strutturale di Parsons) sono principalmente imperativi come “stabilità”, “ordine sociale”, “integrazione sociale”, “consenso”. Nella fase post-bellica si assiste, parallelamente, anche ad una particolare enfasi sugli output economici dei sistemi scolastici. Paradigmatico, da questo punto di vista, è il caso del Giappone che dall’inizio degli anni cinquanta attuò una serie di riforme del sistema scolastico con lo specifico intento di aumentare in modo significativo il proprio PIL e portarlo al passo con quello dei paesi occidentali (nel 1950, il PIL pro capite del Giappone era il 20% di quello degli Stati Uniti, nel 1990, prima dello scoppio della bolla finanziaria e della crisi del Sud-Est asiatico era diventato il 70% di quello americano). Alla fine degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti avviarono un programma diretto a migliorare la qualità dell’insegnamento della scienza e della matematica per non vedere messo in discussione il proprio primato sul piano economico e tecnologico (va notato nel 1957 era avvenuto il lancio dello Sputnik da parte dell’Unione Sovietica). Pochi anni dopo, Gary Becker (1964) pubblicò Human Capital che ha rappresentato un testo fondamentale nel campo dell’economia dell’istruzione e che ha aperto un ampio dibattito nell’opinione pubblica, prima americana e poi europea. Questo testo di Becker ha anche contribuito in modo significativo alla ridefinizione di un framework delle politiche scolastiche a livello internazionale.

Dopo un ventennio in cui il ruolo della scuola nel processo di integrazione socio-politica era stato messo profondamente in discussione, dalla fine degli anni Ottanta un’attenzione crescente è stata rivolta a preoccupazioni di natura civica e al tema della cittadinanza. Questa attenzione è legata anche ad un rinnovato interesse per il tema della religione civile14. Tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, sono usciti documenti rilevanti e hanno preso il via processi che hanno avuto in seguito una notevole influenza, prima in termini di agenda building nella sfera pubblica e poi nella politiche scolastiche15. Il libro bianco “Insegnare e apprendere. Verso la società della conoscenza” (1995) della Commissione Europea e il Rapporto Delors (1996), identificavano nell’educazione una priorità del XXI secolo. Nel Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 uscirono precise indicazioni su priorità e obiettivi che i sistemi formativi europei avrebbero dovuto perseguire; il processo di Copenaghen, avviato nel 2002, si propose di migliorare le prestazioni, la qualità e l’attrattiva dell’istruzione e della formazione professionale a livello europeo; il lancio del Programma Ocse-Pisa, la cui prima rilevazione risale al 2003, ha portato al centro del dibattito pubblico il tema della performance dei sistemi scolastici.

Negli ultimi venti anni, sono emerse dunque nei confronti del sistema scolastico nuove domande sociali o sono diventate più pressanti domande già esistenti. Lo sviluppo della infrastruttura internet e la diffusione capillare di nuove tecnologie digitali hanno consentito la creazione di una rete comunicativa istantanea che sta incidendo in modo significativo sui processi di socializzazione. In un contesto in cui partecipare in modo attivo alla vita economica di una knowledge society richiede la formazione di un’identità, personale e comunitaria, incentrata sulla cura delle sfere culturali e relazionali dell’esistenza e sullo sviluppo del senso di responsabilità16, ci si rivolge all’educazione. Le crisi, i problemi dello sviluppo economico, la lotta alla povertà possono essere riletti alla luce del contributo fondamentale che anche sul piano economico sono stati apportati da fattori culturali e dalla creatività della persona umana17, e dunque ci si rivolge all’educazione. Su un piano socio-politico, il fenomeno sempre più significativo delle migrazioni e, in modo particolare, i flussi verso l’Europa portano ad un incontro tra culture che costringe a ripensare radicalmente consolidati modelli di convivenza18. Anche in questo caso il ricorso all’educazione è di solito considerato un tassello fondamentale di un nuovo ordine sociale: non è possibile costruire una società aperta senza il contributo dell’educazione, non è un caso, quindi, se già dalla fine degli anni Novanta in Italia si sia assistito ad un vero e proprio proliferare di studi e di progetti sull’educazione interculturale19.

Alla luce delle linee di indirizzo richiamate in precedenza e dei processi culturali ora descritti, si finisce per mettere a tema con sempre maggiore insistenza la necessità di ripensare il ruolo e la funzione dei sistemi scolastici. Sembra dunque che stiamo attraversando oggi una vera e propria emergenza educativa: questa idea è ormai ampiamente diffusa sia nell’opinione pubblica, sia tra gli addetti ai lavori20.

Ma, quando parliamo di emergenza educativa, a che cosa ci riferiamo precisamente? Le riflessioni in merito sembrano in genere privilegiare aspetti relativi alle risorse (finanziare o umane), all’organizzazione, alla governance, alla performance delle istituzioni educative. Questo genere di problemi ha senza dubbio una importanza fondamentale, tuttavia incentrare la discussione esclusivamente su problemi di questo tipo e prospettare soluzioni in termini di ingegneria sociale applicata alle politiche scolastiche, rischia di far rimanere sullo sfondo la portata culturale e strettamente “educativa” del discorso. In questi ultimi anni, nel dibattito pubblico in Italia, ma non solo, la discussione sulla scuola è spesso stata ridotta ad un terreno di battaglia in cui la scena è dominata da funzionari ministeriali, sindacati e specialisti di ICT applicate all’educazione21.

Il rapporto tra società e scuola è costituito dunque da una tensione polare, i cui estremi sono una scuola asservita a esigenze di natura socio-politica e una scuola del tutto funzionale all’economia. Ciò che manca, in entrambi i casi, è la consapevolezza del fine della cultura e della educazione. Nel primo caso, ci troviamo di fronte a quello che Nietzsche chiama egoismo dello stato22 . In questa prospettiva, lo sviluppo della cultura e dell’educazione è in realtà in funzione della stabilità e della sussistenza di ordine politico con un livello almeno minimale di coesione. Dal lato opposto, Nietzsche denuncia un altro eccesso, speculare all’egoismo di stato, che chiama l’egoismo degli affaristi. Questa concezione del rapporto tra scuola ed economia può essere sintetizzata così: «Quanta più conoscenza e istruzioni possibili, e quindi quanto più bisogno possibile, e quindi quanta più produzione possibile, e quindi quanto più guadagno e felicità possibili – così suona la formuletta tentatrice»23.

Queste due derive, pur speculari tra loro, possono portare a un medesimo esito: uno svilimento e una riduzione funzionalista dell’educazione e del sapere. Il destino del sistema scolastico sembra dunque giocarsi tutto su questo duplice legame: in alcuni casi prevale una preoccupazione socio-integrativa, in altri prevale una preoccupazione socio-economica, nella maggior parte dei casi prevale un mix tra le due, una sorta di modello lib-lab applicato all’educazione. In tutti i casi, ogni relazione educativa che ponga chiaramente ed esplicitamente dei fini al di là dell’integrazione socio-politica o della performance in termini economici, è guardata con sospetto. Per come si sono configurate le relazioni tra scuola, stato e mercato nel modello sociale dominante nella modernità, non è certamente facile, dunque, trovare spazio per istanze sovra funzionalistiche.

Il contributo della sociologia relazionale in questo quadro è prima di tutto quello di ricordare che la sfida dell’educazione è oggi, invece, prima di tutto, una sfida culturale, una sfida relativa al significato, al senso dell’educare stesso. In questo senso Donati scrive che la scuola «è lì non per servire un’ideologia, né per implementare un programma ministeriale, né per preparare la formazione di individui disponibili a tutto. Ma per sviluppare la personalità umana di base nella sua globalità»24. Come è stato giustamente osservato riflettere sulle possibilità di riforma dell’educazione significa, per Donati, «saper pensare alle condizioni perché emergano e trovino espressione bisogni educativi post-funzionalistici, definibili come capacità di relazionamento sensato. In questo senso, l’educazione è “relazionale” se e in quanto incrementa le possibilità che le persone hanno di conoscere se stesse e di formare la propria identità attraverso le relazioni con gli altri e attraverso un’esperienza non riduttiva della realtà»25. Richiamare l’importanza di questo “relazionamento sensato” è fondamentale proprio in un momento in cui «la crisi dell’istruzione» inizia ad essere vista come «il sintomo dell’incapacità di una società di raccontarsi in modo sensato»26.

Per una critica all’approccio costruttivista

Dopo aver riflettuto sui differenti modelli generali di relazione tra società ed educazione in un’ottica macro, passiamo ora a confrontarci nello specifico con un modo di intendere la relazione tra docenti e studenti che vanta oggi largo seguito nelle pratiche didattiche. Sto parlando degli approcci costruttivisti che si configurano come un’alternativa rispetto al paradigma messo a tema in questo saggio e alla sua premessa epistemologica. Per Donati, il realismo critico e relazionale è prima di tutto un atteggiamento conoscitivo verso la realtà. Questo atteggiamento da per scontata l’esistenza di una realtà in sé, cioè di una realtà non del tutto riducibile alla osservazione e non del tutto dipendente da essa, una realtà che sia anche intelligibile attraverso procedure di approssimazione che assumono il criterio della verità-corrispondenza27. Il punto di partenza basilare del costruttivismo risiede invece nella convinzione, espressa da Jean Piaget, secondo la quale «la mente organizza il mondo organizzando se stessa»28. Questo tipo di posizione induce a ritenere che il “mondo”, la sua organizzazione, il suo ordine, le sue coordinate, siano, in sostanza, costruzioni dell’uomo. Se questo è vero, si modifica anche il posto riservato alle relazioni. In una concezione fondata sul realismo critico e relazionale, le relazione (tra soggetti e oggetti; tra docenti e realtà; tra studente e realtà; tra docenti e studenti) hanno un ruolo fondamentale; in una concezione costruttivista, protagonisti indiscussi diventano i processi interni al soggetto, le relazioni tra il soggetto e la sua rappresentazione mentale del mondo, l’attenzione è calamitata dai processi interni al soggetto, dalle procedure e dalle strutture cognitive che portano alla costruzione di un mondo29.

La preoccupazione principale diventa così la scoperta delle procedure cognitive che conducono alla “costruzione” del mondo. Uno dei teorici del costruttivismo radicale ritiene che «non possiamo condividere la nostra esperienza con altri, possiamo solo raccontarla […] Ciò che gli altri capiscono quando parliamo o scriviamo è necessariamente in termini di significati che la loro esperienza li ha condotti ad associare alle immagini sonore delle parole […] la loro esperienza non è mai identica alla nostra»30. La genialità artistica di Pirandello, esprimeva già molti decenni prima questa modalità di relazionarsi al mondo, scrivendo in Uno, nessuno, centomila: «Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, uguali, immutabili. Non c’è. C’è per me una realtà mia, quella che io mi do, e una realtà vostra per voi, quella che voi vi date, le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me»31. Queste affermazioni esprimono una più generale condizione culturale che il Novecento ci ha lasciato in eredità e che i costruttivisti hanno avuto il merito di sintetizzare e di formalizzare. Per il costruttivismo, i significati possono essere negoziabili, attraverso una continua e reciproca interpretazione, ma non sono mai condivisibili: l’asimmetria relazionale è una condizione ineliminabile poiché «una realtà originaria esterna a noi non la possiamo conoscere, anzi non esiste […] Noi costruiamo molte realtà e lo facciamo sulla scorta di intenzioni diverse”, tutto questo è l’opera di “uomini sostenuti dalla fede di poter fare e rifare il significato»32. Nel costruttivismo l’attenzione è rivolta principalmente alle attività mentali del soggetto che apprende e alle pratiche culturali dell’ambiente in cui esso si inserisce. Per Luhmann, le teorie costruttiviste sostengono che i sistemi cognitivi non possono distinguere condizioni di esistenza degli oggetti da condizioni della loro conoscenza: in una situazione in cui il mondo è irraggiungibile «non resta nessun’altra possibilità se non costruire la realtà, ed eventualmente osservare come gli osservatori costruiscono la realtà»33.

In un approccio costruttivista, ciò che è importante è solo il presente, mentre ciò che vi viene tramandato è un retaggio svuotato di significato e di valore esistenziale. Sul piano didattico, si richiama la necessità di ridurre i contenuti e le “nozioni” che gli studenti dovrebbero apprendere. La critica alla “scuola delle nozioni” sottintende la convinzione che sia auspicabile imparare meno per imparare tutti e dunque l’«eliminazione di quei contenuti educativi che non sono accessibili a tutti nello stesso modo […] Non deve esserci nulla che non sia per tutti»34. Ci troviamo di fronte ad un paradosso: da una parte, diversi attori (famiglie, aziende, università, centri di ricerca, organizzazioni internazionali…) sottolineano il crescente bisogno di formazione, d’altra parte, però, ed in modo contraddittorio, la soluzione ai problemi attuali della scuola sembra consista nell’alleggerire contenuti e programmi prefissati, per lasciare spazio alla creatività delle sperimentazioni didattiche.

I modelli pedagogici costruttivisti sembrano assumere la frammentazione della realtà, e conseguentemente del sapere, come dato insuperabile. Il frammento è considerato il solo oggetto cui valga la pena dedicare attenzione. Nulla ha significato, nulla ha una storia, nulla ha relazioni, ogni cosa sta a sé, va e viene a suo turno, come gli scenari mobili di uno spettacolo, lasciando lo spettatore (lo studenti) attonito, fermo al punto di partenza. Una volta che la realtà è ridotta ad una serie di frammenti sarà impossibile rimetterli insieme. Quello che avviene oggi, si potrebbe dire prendendo spunto da un’espressione di Vico, è che «pur dottissimi in singole dottrine, nella totalità, che è poi il fiore del sapere, si finisce per valere bene poco»35. Qualunque ipotesi di relazionamento sensato e fondato tra i saperi è messa in disparte, nonostante si moltiplichino i tentativi di dare vita a una didattica interdisciplinare. Il problema di fondo è la convinzione per cui se si desidera comprendere in modo esauriente un dato, bisogna considerarlo in se stesso, isolandolo e ignorando le sue relazioni con gli altri dati, compreso il dato fondamentale che siamo noi stessi. Detto in altri termini, «nella scuola» come sostiene Belardinelli «il moltiplicarsi delle discipline di studio sembra che vada di pari passo con una diffusa perdita di senso dello studio stesso»36.

La parola d’ordine della pratica scolastica, la prima responsabilità dell’educazione, sembra essere ormai diventata dare istruzioni su “come fare a…”. Educare non significa più comunicare, mettere a tema ipotesi di significato (oggi del resto chi ha ancora qualcosa da trasmettere, qualcosa per cui “valga la pena”…?), educare significa aiutare lo studente ad “imparare ad apprendere”. Questa è la «formula della pedagogia più moderna» e «spinge la relazione pedagogica non verso qualcosa che abbia valore in sé, bensì verso una metodologia che consente di apprendere qualche cosa in modo da permettere un ulteriore approfondimento, anziché “chiusure di valore”»37. Non si tratta più di proporre alla libertà qualcosa, tradizioni di ricerca, contenuti, valori, ipotesi di comprensione e di interpretazione della realtà. È preferibile imparare l’imparare, una specie di nuotare nel vuoto; come scrive Morin «è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena»38.

Si potrebbe dire, richiamando una riflessione della Arendt che «influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto si insegna»39. La necessità di passare a una scuola tutta incentrata sulle competenze e sulle abilità affonda le sue radici in un approccio costruttivista, ma riscuote consensi ampi e trasversale nel mondo della scuola.

Nella morfogenesi culturale sociale in atto, emerge, dunque, un tipo di relazione educativa in cui il docente sembra essere ridotto ad una sorta di addestratore dell’apprendimento per studenti sempre più autoreferenziali e auto socializzati. Emerge, in altri termini, una concezione di relazione educativa, o sarebbe meglio dire, di mancata relazione educativa, che riporta alla ribalta, in forma evidentemente più raffinata ed evoluta, il principio di facilitazione elaborato da Skinner, principio in base al quale l’unico compito di chi insegna è rendere più efficace, rapido ed efficiente, sia da un punto di vista quantitativo sia da un punto di vista qualitativo, l’apprendimento. Una volta però che questo principio sia accettato, e portato alle sue estreme conseguenze, il docente perde inevitabilmente la propria fisionomia culturale e diventa un tecnico dell’istruzione: come è stato notato da Arendt «non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a proseguire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle ‘morte nozioni’, bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è di insegnare una conoscenza bensì di inculcare una tecnica: come risultato, gli istituti per l’istruzione diventano una sorta di istituzioni professionali, altrettanto capaci di insegnare a guidare un’automobile e a servirsi di una macchina da scrivere (oppure – cosa ancor più importante per l’‘arte’ di vivere – ad andar d’accordo con gli altri e riuscire simpatici), quanto si rivelano incapaci di dare agli allievi i normali requisiti preliminari di un programma medio»40. L’insegnate, fa notare Donati, non può essere ridotto a una sorta di allenatore, ad un trainer, ha un ruolo ben più ampio e importante: presentare modelli di comportamento e visioni del mondo (che il bambino da solo non è in grado di formulare) in modo che queste possano essere messe alla prova41. Nella didattica costruttivista invece «l’acquisizione di nuove conoscenze non consiste nella loro trasmissione dal docente al discente, bensì nella lenta e graduale costruzione di esse da parte del discente»42.

In questo processo, un ruolo fondamentale viene riconosciuto alle ICT applicate ai processi educativi. Per uno dei più influenti teorici dei nuovi media dell’utilizzo della rete in ambito educativo, De Kerckhove43, la principale innovazione dei nuovi media e delle reti è la possibilità di de-personalizzare e de-localizzare sapere, conoscenza e memoria. In un contesto di questo genere, anche l’educazione e le modalità interattive di apprendimento risultano profondamente trasformate: “L’importante non è più sapere qualcosa, ma sapere in che modo accedere alle conoscenze ed elaborarle. L’importante è rendersi conto che oggi non pensiamo più da soli, isolati, ma assieme a tutte le persone che sono impegnate, nel breve o nel lungo periodo, nelle attività di problem solving, di scoperta e di fissazione dei risultati per renderli accessibili a tutti”. Nella prospettiva di De Kerckhove emerge la priorità dei processi sui contenuti, che, si vedrà nel seguito dello studio, costituisce oggi una delle sfide più insidiose per un’autentica relazione educativa. Certo, a fondamento dell’identità personale ci sarebbero ancora le capacità di leggere e di scrivere, che il bambino dovrebbe imparare solo “per diventare un buon processore nella memoria connettiva dei media in rete”44. In questa prospettiva, il web diventa una sorta di protesi virtuale in cui fluttua tutto ciò che ha contenuto cognitivo, con Internet “ci avviamo cioè a sapere tutto senza aver dovuto imparare nulla: non dobbiamo far altro che collegarci alla rete”45. Quando si era ancora agli albori dell’utilizzo delle ICT nella scuola, Negroponte sosteneva che “la linea di demarcazione tra piacere e dovere diventerà sempre più sfumata, grazie a un denominatore comune: la natura digitale”46. Le politiche scolastiche nel settore ICT hanno finito per fondarsi su un “sillogismo”: per imparare è necessario divertirsi; le tecnologie applicate alla didattica permettono di divertirsi; le tecnologie applicate alla didattica sono necessarie per imparare. Come ha mostrato Clifford Stoll47, questo sillogismo è, in realtà, traballante, a cominciare dalla premessa. Studiare e imparare può essere gratificante, può condurre ad una profonda soddisfazione. Ma è forse giunto il momento in cui pedagogisti, insegnanti, genitori e alunni, riaffermino, con onesta intellettuale, che non ci sono scorciatoie: “Di solito è solo un duro lavoro che fa maturare un’idea”48. A questo si deve aggiungere poi che “il processo educativo non è affatto un problema di accesso al sapere [e] migliorare l’accesso […] non accrescerà di una virgola il desiderio di sapere che deve animare l’allievo”49. Alla luce delle considerazioni appena svolte, non si può fare a meno di rilevare che in molti casi, “i computer nelle aule stanno diventando un alibi politico per i problemi della scuola”50.

L’ideologia dell’imparare ad imparare sottende un paradosso. Milner, studiando molti anni fa la scuola francese arrivava già a conclusioni che avrebbero potuto essere prese come monito anche per altri contesti. Lo studioso faceva notare, con drammatica ironia, che tutto il parlare di metodi, tecniche, competenze, nasconde in realtà un gran vuoto sui fini e sulla natura stessa dell’educazione, è doveroso riconoscere, infatti, che oggi ci troviamo di fronte a «nuove procedure, sempre nuove e sempre promettenti, per dei domani sempre posticipati: si parla solo dei metodi che sarebbero convenienti se per caso si dovesse insegnare qualche cosa, ma non c’è nulla da insegnare»51. Il vero scopo non dichiarato dell’educazione, diventa l’autoconservazione, «non è un paradosso – scrive Donati – se si afferma che, nelle zone più modernizzate dei paesi più industrializzati, la scuola diventa un corso di addestramento alla sopravvivenza»52.

In questo mutamento di significato, il sapere stesso diventa autoreferenziale. Ciò che è già stato acquisito non è prima di tutto un patrimonio da integrare nella identità personale, le competenze acquisite diventano abilità ristrutturabili e plasmabili in vista dell’acquisizione di altre informazioni. In questo modo però rischia di rimanere inevasa la domanda di significato dei giovani. Questo tipo di pedagogia, in altri termini, «forma individui a debole identità, poiché impedisce ciò che è un diritto del bambino: avere possibilità di identificarsi»53.

L’approccio costruttivista sposta l’attenzione verso una preparazione “più pratica”, più operativa, è stato giustamente osservato a questo proposito che «si va verso il pragmatismo del quotidiano»54. Spostare il baricentro dell’istruzione dai contenuti, all’apprendimento di competenze e di abilità sarebbe anche un modo di fare fronte alle necessità dell’economica contemporanea. Questa argomentazione si basa su un presupposto di fondo, e cioè che la scuola possa (e debba) essere in grado di fornire una preparazione specialistica utilizzabile immediatamente in ambito lavorativo. Tuttavia, insegnare a scuola le ultime novità in campo tecnologico, meccanico, elettronico, solo per fare alcuni esempi, potrebbe essere, oltre che molto dispendioso, anche difficilmente realizzabile. Oggi gli sviluppi in questi settori avvengono più rapidamente di quanto possa muoversi la scuola, e poi, si chiede provocatoriamente Stoll: «Un quindicenne alle prese con un compito di scienze ha proprio bisogno degli abstract dei congressi del mese scorso? Io rimarrei già impressionato se un compito ben fatto mi mostrasse una comprensione del semplice moto armonico, un concetto vecchio almeno di duecento anni»55.

In ogni caso, non è possibile attutire del tutto l’impatto con il mondo del lavoro, che risulta sempre drammatico e che richiede comunque una disponibilità a imparare di nuovo ciò che si è già imparato o ad aggiornare, plasmare, integrare le competenze possedute nel confronto con le esigenze particolari e nuove alle quali ci si trova di fronte56. L’ipotesi di avere una scuola che possa eliminare tutto questo, non solo è illusoria, ma finisce per vanificare e alterare la natura stessa del sapere e dell’educazione. Come ha osservato Luhmann , infatti, «le numerose relazioni sulle esperienze fatte […] hanno dimostrato che, in ogni orientamento professionale che dà l’istruzione, l’inizio dell’esercizio professionale richiede spesso una disposizione nuova, spesso drastica e deludente, riguardo ciò che si è imparato […] Sarebbe del tutto sbagliato cercarne la colpa, come accade nella maggior parte dei casi, in un carattere ‘troppo teorico’ o ‘accademico’ dell’istruzione. Con qualsivoglia critica ai piani di studio e agli obiettivi dell’apprendimento non si potrebbero affatto eliminare l’astrazione e il contenuto teorico, l’erudizione libresca e l’esperienza condensata di ciò che appare estraneo senza far crollare l’istruzione come istruzione»57.

Il paradosso di questa situazione è che quella che di solito è presentata come la possibile soluzione (e cioè il passaggio dai contenuti alle abilità, dal sapere al saper fare, da una cultura nozionistica ad una “cultura della praticità”) non è in grado di reggere la sfida. Le risorse oggi più necessarie, e più scarsamente disponibili, sono invece quelle legate ad un solido fondamento culturale, in grado di dare una reale capacità di giudizio e di azione in situazioni sociali ed economiche sempre nuove. La competenza più necessaria è la competenza ad essere, «quella che fa dell’uomo un adulto, un essere pieno, responsabile ed autonomo, capace, in tutti i campi che lo riguardano, di giudicare con la propria testa»58. La possibilità che la scuola non perda la sua fisionomia e anzi acquisti una maggiore consapevolezza dei compiti che le sono propri va quindi ricercata non tanto nella rincorsa affannosa delle ultime novità o delle ultime tecnologie, che del resto una volta introdotte si rivelerebbero già vecchie, ma nella responsabilità di rendere il giovane in grado di comprendere il mondo. Di fonte ad una realtà complessa, policentrica, in continua evoluzione, questo si rivela un compito di non poco conto.

Con queste considerazioni non si intende separare in modo assoluto conoscenza tecnica e conoscenza riflessiva, e neanche si intende sostenere l’esclusività di una forma di sapere rispetto all’altra. È auspicabile anzi che sia possibile trovare un’armonia tra le due, sia da un punto di vista istituzionale sia da un punto di vista culturale. Certamente non è una soluzione auspicabile quella che mira a rendere la scuola un tutto indistinto e confuso. È necessario mantenere una distinzione di ambiti: non ci può essere una scuola ibrida (metà liceo e metà formazione professionale), è auspicabile piuttosto una pluralità di metodi e di proposte formative. Sapere riflessivo-speculativo e sapere tecnico sono complementari: il primo è costitutivo dei licei (ma non è una esclusiva di questo tipo di scuole), il secondo è fondamentale nella formazione tecnica e in quella professionale, benché sia necessaria, anche in questo caso, una preparazione culturale di fondo, indispensabile anche per l’acquisizione di conoscenze preziose in un mercato del lavoro che sta attraversando profondi processi morfogenetici59.

Un maggior rapporto scuola-lavoro è senza dubbio fondamentale, perciò tutte le iniziative che si muovono in questa direzione debbono essere valutate attentamente. Allo stesso tempo, però, una caratteristica peculiare delle istituzioni educative è quella di preservare una certa autonomia. È in questo contesto che Milner parla di una parziale separazione scuola-vita60. Concepire la scuola esclusivamente in termini funzionalisti ed adattativi espone al rischio di uno svilimento culturale e sociale della relazione educativa: come scrive Donati, «una disponibilità all’apprendimento che sia senza limiti comporta una docilità incontrollata a adattarsi a qualunque cosa e a qualunque situazione»61.

Più di cento anni fa, del resto, Nietzsche, con la solita provocatoria acutezza, denunciava una condizione dello spirito per la quale «nella cultura si vede ormai solo ciò che reca vantaggio: così, ben presto, si scambierà ciò che reca vantaggio con la cultura». L’educazione è ridotta a ciò che permette di adattarsi, di essere «all’altezza dei tempi», e ha di mira la formazione di un «uomo corrente»62.

L’alternativa a questa deriva non è rinnegare la valenza sociale ed economica dell’educazione, rinunciare alle competenze professionali, alla tecnica, alla civilizzazione, all’utile. L’alternativa è conservare tutto questo e, allo stesso tempo, risvegliare anche il senso di ciò che è inutile, poiché «inutile – scrive Heidegger – è il senso delle cose. Per questo la meditazione che medita su di esso non frutta certamente alcuna utilità pratica, e tuttavia il senso delle cose è quanto di più necessario ci sia»63.

Per affrontare in modo adeguato i problemi contingenti e urgenti che sono stati richiamati poco fa (il come dell’educazione) è oggi indispensabile una riflessione incentrata sulla natura dell’educazione (il perché dell’educazione) e sul suo compito all’interno della società64. È su questo terreno che la sociologia relazionale può portare un contribuito significativo.

Verso una nuova relazione educativa riflessiva

I problemi principali delle scuole sono certamente legati alle risorse (finanziarie e umane), alla governance, all’organizzazione, ma la questione essenziale è di natura più profonda: in un contesto di crescente anomia, gli studenti si domandano perché dovrebbero continuare a studiare quello che studiano, molti docenti si domandano perché debbano continuare a insegnare quello che insegnano. In un contesto culturale di questo genere, i processi scolastici non possono non risultare più difficoltosi, infatti «per l’uomo», come notava già Max Weber, «non ha nessun valore ciò che egli non è capace di fare con passione»65. La crisi in atto si manifesta in modo drammatico (i tassi di dispersione scolastica, la noia e il disimpegno) e a volte in modo anche tragico, basti pensare ai fatti di cronaca che ogni tanto irrompono nella routine di una apparente tranquillità: suicidi per insuccessi scolastici o per casi di bullismo, fatti di sangue tra studenti, omicidi perpetrati da adolescenti.

Le domande di senso sono, di solito, tenute rigorosamente ai margini dell’educazione. Ogni tentativo di proporre a qualcuno un’ipotesi generale della realtà, una tradizione, un insieme di significati, è oggi percepito come «un attentato alla sua ‘libertà di scelta’»66. Nonostante questo però, riemerge nei giovani, in modo prepotente, una esigenza di significato dello stare a scuola, dell’amicizia e in ultima istanza, della vita. In altri termini, sta lentamente riemergendo la convinzione che il primo problema dell’educazione sia l’educazione stessa. Sembrano sempre più difficilmente eludibili domande come «“Quale è il fine della mia vita?’; ‘Perché devo morire?’; ‘Donde vengo e dove vado?’; ‘Chi sono io?’» interrogativi che di solito «non sono soltanto eliminati nella vita pratica, ma sono liquidati teoreticamente e relegati tra le assurdità»67. Mettere a tema la questione del senso dell’educare, non significa sminuire la gravità di ritardi, lacune, disfunzioni che oggi sono presenti nella scuola italiana, significa invece leggere tutti questi problemi all’interno dello scopo stesso dell’educazione.

A questa crisi di senso nelle relazioni educative, si possono adattare le seguenti considerazioni di Arendt: «una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto» l’unica cosa a cui fare attenzione è che questa crisi non si trasformi in una catastrofe e ciò avviene «solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere»68. Nella relazione educativa, cioè, «si tratta di osservare il bambino con attenzioni che l’epoca antica non aveva (e non poteva avere), nella consapevolezza che, nell’interagire con lui, è il mondo adulto che mette alla prova se stesso»69. Educare, prima ancora di avere a che fare con tecniche, abilità, competenze, ha a che fare con il rapporto che ognuno ha con la realtà, educare è, in qualche modo, una introduzione alla realtà. Come scrive Spaemann: «l’educatore ha il compito di far avvicinare il bambino alla realtà nella sua autonomia e nelle sue resistenze»70 l’educatore ha cioè il compito primario di presentare la realtà come qualcosa che si fa incontro, qualcosa di solido e di resistente. Come scrive Arendt a proposito dei genitori, ma lo stesso discorso potrebbe essere esteso anche agli insegnanti, essi «non si limitano a chiamare i figli alla vita, facendoli nascere, ma allo stesso tempo li introducono in un mondo»71. Un docente ha come compito anche quello di insegnare ai suoi studenti a riconoscere i fatti scomodi72, i fatti, per tornare alle parole di Spaemann, resistenti. L’incontro con la realtà è però per il ragazzo anche l’esperienza di qualcosa «di amichevole da cui gli viene aiuto. Dare questa esperienza fondamentale – la psicologia parla di una ‘fiducia originaria’ – è quanto di più importante l’educazione possa dare in assoluto»73. È chiaro quanto mai sia urgente un compito di questo tipo. Il senso di una realtà solida, comune, su cui fare affidamento è infatti compromesso, non solo per gli studenti, dall’ethos postmoderno incapace di riconoscere l’esistenza di un dato certo su cui costruire. Allo stesso tempo, il senso di positività che viene dall’impatto con la realtà è messo in discussione dall’influsso che i “maestri del sospetto”, Marx, Nietzsche, Freud, continuano ancora ad esercitare. Richiamare il ruolo essenziale del rapporto con la realtà nella relazione educativa, non significa ricadere in quell’oggettivismo, giustamente criticato, in cui la personalità del bambino è del tutto subordinata alle esigenze di tradizioni, valori, autorità “imposte” in modo estrinseco. Il problema fondamentale dell’educazione è certo la formazione della persona e della sua identità, ma questo processo può avvenire in modo sano solo attraverso il rapporto con la realtà, poiché in ultima istanza «noi vogliamo la realtà, noi arriviamo a noi stessi facendo esperienza della realtà e confrontandoci attivamente con essa»74. La dinamica educativa è formata da una relazione tra una tradizione, altri autorevoli e libertà delle persone coinvolte. Se uno solo di questi elementi si perde, la relazione educativa presenta lacune che lo compromettono.

Il richiamo ad una tradizione e a persone autorevoli che la incarnino, è oggi il fattore messo più in discussione e, in alcuni casi, intenzionalmente rimosso nelle relazioni educative. Tuttavia, come scrive Belardinelli, «essendo l’uomo un animale culturale, ne consegue con una certa evidenza che quando si parla di scuola, di educazione o di formazione venga sempre presupposta una determinata tradizione»75. Da questa considerazione, emerge l’importanza che gli educatori hanno nel sostenere e guidare il cammino delle giovani generazioni nel vagliare ed eventualmente nel fare proprie ipotesi di spiegazione e di interpretazione della realtà che una determinata tradizione fornisce (senza questo elemento, si va verso una scuola che non ha più cultura, ma solo comunicazione)76. In tutto questo, non può esserci nulla di automatico o di scontato perché l’educazione implica sempre, da parte di chi educa, un rischio, un esporsi alla libertà incoercibile dell’altro. È un vecchio retaggio illuminista (o meglio, di un certo illuminismo) quello che individua nella tradizione un ostacolo alla formazione di una personalità libera e responsabile. Il radicamento di questo pregiudizio porta a concezioni parziali del significato dell’educazione. Come è stato giustamente osservato «pervenire alla maturità non significa affatto che l’uomo diventi padrone di se stesso nel senso di diventare libero da ogni tradizione e da ogni legame col passato»77. Autonomia individuale, spirito critico, senso di responsabilità non si formano contro una tradizione, ma nel confronto con una tradizione: «La tradizione è sempre un momento della libertà e della storia stessa»78. In un approccio relazionale, identità «significa essere rimandati ad una “appartenenza culturale”. Quest’ultima non consiste però, nella modernità e dopo di essa, in un retaggio di valori, norme, pratiche già date, in residui (…) appartenenza culturale significa capacità di elaborare ciò che la relazione sociale incorpora come sua storia normativa. Tradizione culturale è la capacità di sviluppo normativo delle relazioni, in quanto capacità di interpretare valori, simboli, situazioni»79.

Come ci insegna l’esperienza dei totalitarismi, che può essere un monito anche per il presente, un individuo che perde il senso della propria identità, della propria storia e della propria origine è più vulnerabile. In una concezione ideologica, come quella dei regimi totalitari, ad esempio, il passato e il legame che ci lega ad esso erano ostacoli da abbattere. Ciò che ci precede era confinato in una sfera mitica o era negato perché vi si intravedeva un ultimo baluardo della libertà umana. Passato significa anche origini, legami, radicamento, ci si doveva perciò adoperare incessantemente per estirpare la rilevanza di questi fattori nelle vicende presenti. Eliminando la memoria di ciò che siamo, e le realtà sociali dalle quali la memoria individuale riceve la forza e il potere di resistere, l’uomo diventa completamente manipolabile. L’azione di destrutturazione del vecchio ordine nei regimi totalitari non riguardava solo il senso della memoria storica, ma si indirizzava anche verso i legami sociali e le energie proprie della società civile. L’«annichilimento di quei rapporti sociali entro i quali l’individuo si sviluppa»80 è una condizione fondamentale per il sorgere e per l’affermarsi di un luogo esclusivo di appartenenza. Anche alla luce di questa esperienza storica risulta più comprensibile la convinzione della Arendt per cui «l’uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria»81.

Strettamente connesso alla tradizione, intesa come storia normativa portatrice di una ipotesi di significato da verificare anche nel presente, è anche il senso dell’autorità. Anche quando si parla di questo termine, non sono pochi i pregiudizi da superare, pregiudizi che vengono da molto lontano82. Costrizione, sottomissione, prevaricazione, sono tutte parole che capita di vedere associate ad autorità, e che invece andrebbero considerati, semmai, sinonimi di autoritarismo. Qualsiasi rimando ad una autorità nella relazione educativa, viene guardato con sospetto perché minerebbe la possibilità di una concezione integralmente paritaria del rapporto docente-studente, «l’educazione diventa un sistema di interazione in cui tutti dovrebbero apprendere dagli altri, o meglio da se stessi attraverso gli altri»83. L’autorità, in una visione pedagogica molto in voga, dovrebbe lasciare il posto alla «autosocializzazione»84 e alla autoreferenzialità. Come osserva Arendt, in tutto questo c’è un equivoco e un grosso rischio: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti, il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza»85. Ad un’osservazione disincantata, un paradigma pedagogico radicalmente egualitario si rivela carico di connotazioni utopiche o romantiche86. Perché una relazione educativa sia costruttiva è necessaria sempre una qualche asimmetria e questo non deve essere percepito come qualcosa di per sé negativo. Il vero fondamento dell’autorità, scrive Gadamer «è quindi un atto della libertà e della ragione, la quale attribuisce fondamentalmente al superiore, in quanto ha una visione più vasta o è più esperto, un’autorità»87. Richiamarsi all’autorità in un ambito educativo non significa fare appello ad una presunta sottomissione della ragione individuale, ma, anzi, implica l’esigenza di un riconoscimento libero ed intelligente di una ragione che «consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri»88 in vista di una crescita personale. Nel modello della sociologia relazionale, pertanto, chi educa deve sviluppare nell’altro una non solo una competenza cognitiva e affettiva, ma anche una componente «morale (poter distinguere tra ciò che è un bene in sé e ciò che è buono solo in relazione ad uno scopo, ovvero funzionale) e il processo si attua attraverso una strategia di “capacitazione” (empowerment) dell’educando, che assume un ruolo attivo nella relazione di socializzazione»89.

Nelle riflessioni ora elaborate sulla realtà, sulla tradizione e sulla autorità è stata introdotta in modo ricorrente la parola libertà che qualifica, in senso pieno, la relazione educativa. Si può parlare di relazione educativa (e non appena di socializzazione o comunicazione) quando un individuo, per qualche aspetto autorevole, comunica ad un altro individuo un’ipotesi vissuta di spiegazione e di comprensione della realtà. In ogni relazione che voglia essere educativa, questa dimensione è inevitabile. Dietro ogni neutralità sbandierata con assolutezza, c’è sempre una precisa concezione del mondo90. Il rispetto e la promozione della libertà è reale quanto più la relazione avviene su un piano di reciproca sincerità. La proposta educativa chiede una risposta libera e responsabile, una verifica nella realtà da parte del discente che costituisce il banco di prova dello spirito critico di ognuno. La libertà si rivela così il fondamento essenziale su cui si può edificare una scuola che risponda al bisogno di educazione di giovani e famiglie. Nella scuola di oggi, scrive Donati, «servono programmi finalizzati, ossia orientati allo scopo dell’educazione come sviluppo della personalità, sempre che non siano stati elaborati da qualche burocrazia. Si deve poter ripensare la scuola come ad una relazione inter-soggettiva, una relazione-del-noi, che esprima le istanze di un mondo vitale insieme locale e universale»91. La relazione educativa ha la peculiarità di essere un bene relazionale ossia «un bene che può essere prodotto e fruito soltanto assieme, non individualisticamente né per determinismi collettivi, fra coloro che sono coinvolti, laddove tale bene consiste nella cura della persona. In breve, la socializzazione educativa implica relazioni sociali (anzi consiste di relazioni sociali) orientate a produrre uno specifico bene: l’attenzione alla persona umana»92. Questa attenzione assume anche la forma del coltivare e del promuovere la riflessività delle persone e delle relazioni (e questo è un tema emergente nella più recente produzione di Donati). Ogni relazione che voglia essere, in senso proprio, educativa rimanda alla questione degli «ultimate concerns» che «sono le risposte alle domande esistenziali che la persona si pone quando deve rispondere al suo bisogno di felicità, al desiderio di una “vita buona” per sé»93.

Bibliografia
Hannah Arendt, Tra passato e futuro (Milano: Garzanti, 1991).
Alberto Bargellini, Susanna Fedi, “Per una didattica costruttivista”, Res, 13 (1997): 52-55.
Ulrich Beck, I rischi della libertà (Bologna: il Mulino, 2000).
Sergio Belardinelli, La comunità liberale (Roma: Studium, 1999).
Peter L. Berger, Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea (Bologna: Il Mulino, 1995).
Norberto Bottani, Requiem per la scuola? Ripensare il futuro dell’istruzione (Bologna: il Mulino, 2012).
Philippe Breton, L’utopia della comunicazione (Torino: Utet, 1996).
Jerome Bruner, La mente a più dimensioni (Roma-Bari: Laterza, 1988).
Giliberto Capano, Paolo Terenzi, “I gruppi di interesse nel settore educazione”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 3 (2014): 409-436.
Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiano il nostro cervello (Milano: Raffello Cortina, 2011).
Comitato per il progetto culturale della Cei, La sfida educativa (Roma-Bari: Laterza, 2009).
Thomas H. Davenport, Larry Prusak, Working Knowledge (Cambridge MA: Harvard Business Review Press, 2000).
Christopher Dawson, La crisi dell’educazione occidentale (Brescia: Morcelliana, 1965).
François Dépelteau, Christopher Powell (eds.), Conceptualizing Relational Sociology: Ontological and Theoretical Issues (New York: Palgrave MacMillan, 2013).
Iidem (eds.), Applying Relational Sociology (New York: Palgrave MacMillan, 2013).
Pierpaolo Donati, “Sulla crisi della scuola: dal ‘successo’ alla ‘autorealizzazione’, Sociologia, 1 (1972): 83-149.
Idem, “La crisi dell’autorità fra pubblico e privato: il simbolo del padre nel capitalismo avanzato”, Sociologia, 3 (1978): 21-54.
Idem, Introduzione alla sociologia relazionale (Milano: Franco Angeli, 1983).
Idem, Teoria relazionale della società (Milano: Franco Angeli, 1991), 388-43.
Idem, “L’autonomia e le dinamiche socio-culturali”, in Autonomia della scuola e sviluppo formativo, ed. G. Dalle Fratte (Trento: Unoedizioni 1994), 29-86.
Idem, “Il principio di sussidiarietà e il nesso famiglia-scuola”, Vita e Pensiero, 6 (1997): 419-445.
Idem, “La scuola cattolica: cultura, valori e società in cambiamento”, Seminarium, 1 (1998): 67-90.
Idem, La cittadinanza societaria (Roma-Bari: Laterza, 20002).
Idem, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna (Torino: Bollati Boringhieri, 2001).
Idem, “Le scienze della formazione e le nuove domande sociali in una Learning society”, in Formazione in età di Learning Society, eds. Annalisa Pavan, Francesco Russo (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2001), 149-179.
Idem, “La formazione come relazione sociale in una learning society”, in Scuola e società: le istituzioni scolastiche in Italia dall’età moderna al futuro in eds. Guido Gili, Maurizio Lupo, Ilaria Zilli (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2002), 443-478.
Idem, (ed.), Sociologia. Una introduzione allo studio della società (Padova: Cedam, 2006).
Idem, “La conversazione interiore: un nuovo paradigma (personalizzante) della socializzazione”, in Margaret Archer, La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale (Trento: Erickson, 2006), 9-73.
Idem, “Tre forme di capitale sociale tra famiglia e scuola: chi e come genera beni relazionali nei processi di socializzazione delle nuove generazioni”, in Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori, eds. Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (Milano: Franco Angeli, 2006), 23-62.
Idem, “Introduzione. Chi e come valorizza il capitale sociale nei processi di socializzazione delle nuove generazioni?”, in Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale, eds. Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (Milano: Franco Angeli, 2006), pp. 9-17
Idem, “La socializzazione educativa e il capitale sociale: in che modo famiglie e scuole generano beni relazionali?”, in Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale, eds. Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (Milano: Franco Angeli, 2006), 122-150.
Idem, Disagio giovanile, scuola e capitale sociale. La socializzazione educativa come bene relazionale, in Paolo Terenzi, Contrasto alla dispersione e promozione del successo formativo (Milano: Franco Angeli, 2006), 101-127.
Idem, “Famiglia, scuola e capitale sociale nei processi di socializzazione: una ricerca empirica”, Sociologia, 3 (2008).
Idem, “La teoria del realismo sociologico è una Ragione sociologica che fa esperienza della realtà: come? e di quale “realtà”?”, in Realismo sociologico. La realtà non ama nascondersi, eds. Andrea Maccarini, Emmanuele Morandi, Riccardo Prandini (Genova-Milano: Marietti 1820, 2008), 163-182.
Idem, Il valore delle relazioni sociali nei processi educativi e nelle scuole, Postfazione al volume Scuola e capitale sociale. Un’indagine nelle scuole secondarie di secondo grado della Provincia di Trento, ed. Ivo Colozzi (Trento: Erickson, 2011): 129-148.
Idem, Oltre il multiculturalismo (Roma-Bari: Laterza, 2008).
Pierpaolo Donati, Margaret Archer, The Relational Subject (Cambridge: Cambridge University Press, 2015).
Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (eds.), Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutra (Bologna: il Mulino, 1997).
Émile Durkheim, Il suicidio. L’educazione morale (Torino: Utet, 1969).
Scott Eacott, Educational Leadership Relationally (Rotterdam: Sense Publisher, 2015).
Alain Finkielkraut (ed.), La querelle de l’école (Paris: Folio, 2009).
Milton Friedman, Free to Choose (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1980).
Frank Furedi, Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona (Milano: Vita e Pensiero, 2012).
Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo (Milano: Bompiani, 1997).
Martin Heidegger, Linguaggio tecnico e linguaggio tramandato (Pisa: ETS, 1997).
Eric Donald Hirsch, The Schools We Need (New York: Doubleday, 1996).
Derrick Kerckhove, “Rischi pochi, vantaggi tanti. Oggi è meglio studiare on line”, Telema, 12 (1998).
Laurent Lafforgue, Liliane Lurçat (eds.), La débâcle de l’école. Une tragédie incomprise (Paris: F-X. de Guibert éditeur, 2007)
David S. Landes, Ricchezza e povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre così povere (Milano: Garzanti, 2000).
Cristopher Lasch, “La cultura di massa in questione. Sradicamento, modernizzazione, democrazia”, Futuro Presente 4 (1993): 77-90.
Niklas Luhmann, La realtà dei mass-media (Milano: Franco Angeli, 2000).
Niklas Luhmann – Karl Eberhard Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività (Roma: Armando, 1988).
Andrea Maccarini, Lezioni di sociologia dell’educazione (Padova: Cedam, 2003).
Luca Martignani, Davide Ruggieri (eds.), Sociologia relazionale. Teorie a confronto (Milano: Franco Angeli, 2014).
Jean Claude Milner, La scuola nel labirinto (Roma: Armando, 1986).
Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, (Milano: Raffaello Cortina, 2000).
Nicholas Negroponte, Essere digitali (Milano: Sperling & Kupfer, 1995).
Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, in Id., Considerazioni inattuali, (Roma: Newton & Compton), 153-224, 199-201.
Idem, Sull’avvenire delle nostre scuole (Roma: Newton & Compton, 1998).
Robert Nisbet, La comunità e lo stato (Milano: Comunità, 1957).
Oecd, Educazione e occupazione (Roma: Armando, 1996).
Jean Piaget, La costruzione del reale nel bambino (Firenze: La Nuova Italia, 1955).
Riccardo Prandini (ed.), “The Challanges of Relational Theories. Themed Section”, International Review of Sociology 1 (2015).
Olivier Reboul, Apprendimento, insegnamento e competenza (Roma: Armando, 1988).
Gian Enrico Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile? (Roma-Bari: Laterza, 1999).
Milena Santerini, La scuola della cittadinanza (Roma-Bari: Laterza, 2010).
Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica (Milano: Rizzoli, 2000).
Adolfo Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi di una scuola 2.0, (Bologna: il Mulino, 2015).
Robert Spaemann, “Emancipazione – un traguardo formativo?”, in Per una critica dell’utopia politica (Milano: Franco Angeli, 1995 ).
Idem, L’educazione ovvero: il principio di piacere e il principio di realtà, in Idem, Concetti morali fondamentali (Casale Monferrato: Piemme, 1993).
Clifford Stoll, Confessioni di un eretico high-tech (Milano: Garzanti, 2001).
Paolo Terenzi, Contrasto alla dispersione e promozione del successo formativo (Milano: Franco Angeli, 2006).
Paolo Terenzi, Lucia Boccacin, Riccardo Prandini (eds.), Lessico della sociologia relazionale (Bologna: il Mulino, 2016).
Ernst Von Glasersfeld, Il costruttivismo radicale (Roma: Società Stampa Sportiva, 1999).
Max Weber, La scienza come professione (Milano: Rusconi, 1997).

1Per una panoramica delle sociologie relazionali nel contesto internazionale si rimanda a Luca Martignani, Davide Ruggieri (eds.), Sociologia relazionale. Teorie a confronto (Milano: Franco Angeli, 2014); Riccardo Prandini (ed.), “The Challanges of Relational Theories. Themed Section”, 1 (2015), International Review of Sociology; François Dépelteau, Christopher Powell (eds.), Conceptualizing Relational Sociology: Ontological and Theoretical Issues (New York: Palgrave MacMillan, 2013); François Dépelteau, Christopher Powell (eds.), Applying Relational Sociology (New York: Palgrave MacMillan, 2013). L’unica parziale eccezione, è uno studio di matrice relazionale sulla leadership educativa che è stato da poco pubblicato da parte di un giovane studioso australiano: Scott Eacott, Educational Leadership Relationally (Rotterdam: Sense Publisher, 2015). Nella premessa al volume, l’autore dichiara l’importanza di Bourdieu per la formazione del proprio approccio relazionale.

2Per una sintetica introduzione a tutti questi temi si rimanda a Paolo Terenzi, Lucia Boccacin, Riccardo Prandini (eds.), Lessico della sociologia relazionale (Bologna: il Mulino, 2016).

3Pierpaolo Donati, “Sulla crisi della scuola: dal ‘successo’ alla ‘autorealizzazione’”, Sociologia, 1 (1972): 83-149.

4Idem, Teoria relazionale della società (Milano: Franco Angeli, 1991), 388-43.

5Idem, “L’autonomia e le dinamiche socio-culturali”, in Autonomia della scuola e sviluppo formativo, ed. G. Dalle Fratte (Trento: Unoedizioni 1994), 29-86; Idem, “La scuola cattolica: cultura, valori e società in cambiamento”, Seminarium, 1 (1998): 67-90; Idem, “Il principio di sussidiarietà e il nesso famiglia-scuola”, Vita e Pensiero, 6 (1997): 419-445.

6Idem, “La formazione come relazione sociale in una learning society”, in Scuola e società: le istituzioni scolastiche in Italia dall’età moderna al futuro in eds. Guido Gili, Maurizio Lupo, Ilaria Zilli (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2002), 443-478; Idem, “Le scienze della formazione e le nuove domande sociali in una Learning society”, in Formazione in età di Learning Society, eds. Annalisa Pavan, Francesco Russo (Napoli Edizioni Scientifiche Italiane, 2001), 149-179; Idem, “La conversazione interiore: un nuovo paradigma (personalizzante) della socializzazione”, in Margaret Archer, La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale (Trento: Erickson, 2006), 9-73.

7Idem, “Tre forme di capitale sociale tra famiglia e scuola: chi e come genera beni relazionali nei processi di socializzazione delle nuove generazioni”, in Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori, eds. Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (Milano: Franco Angeli, 2006), 23-62; Idem, “Introduzione. Chi e come valorizza il capitale sociale nei processi di socializzazione delle nuove generazioni?”, in Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale, eds. Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (Milano: Franco Angeli, 2006), pp. 9-17; Idem, “La socializzazione educativa e il capitale sociale: in che modo famiglie e scuole generano beni relazionali?”, in Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale, eds. Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (Milano: Franco Angeli, 2006), 122-150; Idem, “Famiglia, scuola e capitale sociale nei processi di socializzazione: una ricerca empirica”, Sociologia, 3 (2008); Idem, Il valore delle relazioni sociali nei processi educativi e nelle scuole, Postfazione al volume Scuola e capitale sociale. Un’indagine nelle scuole secondarie di secondo grado della Provincia di Trento, ed. Ivo Colozzi (Trento: Erickson, 2011), 129-148.

8Idem, “Disagio giovanile, scuola e capitale sociale. La socializzazione educativa come bene relazionale”, in Paolo Terenzi, Contrasto alla dispersione e promozione del successo formativo (Milano: Franco Angeli, 2006), 101-127.

9Andrea Maccarini (2006), Sociologia dell’educazione e politiche educative nelle società complesse, in Il paradigma relazionale nelle scienze sociali: le prospettive sociologiche, eds. Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi (Bologna: Il Mulino, 2006), 196.

10Steven Brint, Scuola e società (Bologna: Il Mulino, 1999), 41-94.

11Émile Durkheim, Il suicidio. L’educazione morale (Torino: Utet, 1969), 499-517.

12Marx e Durkheim sono all’origine di un modo di leggere la socializzazione che è diventato poi dominante in sociologia e che oggi una sociologia dell’educazione di tipo relazione dovrebbe reimpostare in termini di agency e di riflessività. Si veda Pierpaolo Donati, La conversazione interiore, 9-42.

13Christopher Dawson, La crisi dell’educazione occidentale (Brescia: Morcelliana, 1965), 118.

14Su questo rinnovato interesse in Italia per la religione civile, si veda ad esempio Gian Enrico Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile? (Roma-Bari: Laterza, 1999).

15Per una sintetica ricostruzione di questo importante passaggio per le politiche scolastiche si rimanda a Paolo Terenzi, Contrasto alla dispersione e promozione del successo formativo (Milano: Franco Angeli, 2006), cap. 1.

16Cfr. Thomas H. Davenport, Larry Prusak, Working Knowledge (Cambridge MA: Harvard Business Review Press, 2000).

17Cfr. David S. Landes, Ricchezza e povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre così povere (Milano: Garzanti, 2000).

18Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica (Milano: Rizzoli, 2000); Pierpaolo Donati, Oltre il multiculturalismo (Roma-Bari: Laterza, 2008).

19Per una introduzione alla educazione interculturale e al nesso tra scuola e cittadinanza, si rimanda a Milena Santerini, La scuola della cittadinanza (Roma-Bari: Laterza, 2010). Si veda inoltre il fascicolo “Pluralism and Diversity Management in Education”, Italian Journal of Sociology of Education, 2 (2013).

20Si vedano, ad esempio: Norberto Bottani, Requiem per la scuola? Ripensare il futuro dell’istruzione (Bologna: il Mulino, 2012); Laurent Lafforgue, Liliane Lurçat (eds.), La débâcle de l’école. Une tragédie incomprise (Paris: F-X. de Guibert éditeur, 2007); Alain Finkielkraut (ed.), La querelle de l’école (Paris: Folio, 2009); Frank Furedi, Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funzione (Milano: Vita e Pensiero, 2012); Comitato per il progetto culturale della Cei, La sfida educativa (Roma-Bari: Laterza, 2009).

21Giliberto Capano, Paolo Terenzi, “I gruppi di interesse nel settore educazione”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 3 (2014): 409-436.

22Friedrich Nietzsche, “Schopenhauer come educatore”, in Idem, Considerazioni inattuali, (Roma: Newton & Compton), 153-224, 199-201.

23Ibid., 200.

24Donati, Teoria relazionale della società, 404.

25Andrea Maccarini, Educazione relazionale, in Lessico della sociologia relazionale, eds. Paolo Terenzi, Lucia Boccacin, Riccardo Prandini. Maccarini (Bologna: il Mulino, 2016) è stato colui che ha sviluppato maggiormente le intuizioni della sociologia relazionale in riferimento alla educazione. Si rimanda in particolare ai seguenti lavori: Andrea Maccarini, Lezioni di sociologia dell’educazione (Padova: Cedam, 2003); Idem, Sociologia dell’educazione e politiche educative nelle società complesse.

26Frank Furedi, Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funzione (Milano: Vita e Pensiero, 2012), 149.

27Per il realismo critico e relazionale, si rimanda ai seguenti scritti: Pierpaolo Donati, Introduzione alla sociologia relazionale (Milano: Franco Angeli, 1983); Idem, “La teoria del realismo sociologico è una Ragione sociologica che fa esperienza della realtà: come? e di quale “realtà”?”, in Realismo sociologico. La realtà non ama nascondersi, eds. Andrea Maccarini, Emmanuele Morandi, Riccardo Prandini (Genova-Milano: Marietti 1820, 2008), 163-182.

28Jean Piaget, La costruzione del reale nel bambino (Firenze: La Nuova Italia, 1955), 311.

29Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, 97-115.

30Ernst Von Glasersfeld, Il costruttivismo radicale (Roma: Società Stampa Sportiva, 1999), 48.

31Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila, in Idem, Romanzi e Novelle (Trento: Luigi Reverdito, 1995), 243-244.

32Jerome Bruner, La mente a più dimensioni (Roma-Bari: Laterza, 1988), 191-192.

33Niklas Luhmann, La realtà dei mass-media (Milano: Franco Angeli, 2000), 20.

34Robert Spaemann, “Emancipazione – un traguardo formativo?”, in Per una critica dell’utopia politica (Milano: Franco Angeli, 1995), 150.

35Giambattista Vico, Opere (Milano: Mondadori, 1996), 209.

36Sergio Belardinelli, La comunità liberale (Roma: Studium,1999), 160.

37Donati, Teoria relazionale della società, 398.

38Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, (Milano: Raffaello Cortina, 2000), 15.

39Hannah Arendt, La crisi dell’istruzione, in Eadem, Tra passato e futuro (Milano: Garzanti, 1991), 237.

40Arendt, La crisi dell’istruzione, 239.

41Donati, Teoria relazionale della società, 408.

42Alberto Bargellini, Susanna Fedi, “Per una didattica costruttivista”, Res, 13 (1997), 55.

43Derrick Kerckhove, “Rischi pochi, vantaggi tanti. Oggi è meglio studiare on line”, Telema, 12 (1998).

44Ibid.

45Ibid. Per un punto di vista scettico sull’argomento, si rimanda invece a Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiano il nostro cervello (Milano: Raffello Cortina, 2011); Adolfo Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi di una scuola 2.0, (Bologna: il Mulino, 2015).

46Nicholas Negroponte, Essere digitali (Milano: Sperling & Kupfer, 1995), 230.

47Clifford Stoll, Confessioni di un eretico high-tech (Milano: Garzanti, 2001), 17-26.

48Max Weber, La scienza come professione (Milano: Rusconi, 1997), 79.

49Philippe Breton, L’utopia della comunicazione (Torino: Utet, 1996), 132.

50Stoll, Confessioni di un eretico high-tech, 36. In un approccio relazionale non si tratta di contrapporre una utopia ad una utopia di segno opposto, piuttosto «si deve valutare l’apprendimento ad apprendere mediante tecnologia sullo sfondo della capacità del bambino di relazionarsi agli altri. Ci si deve chiedere se il modello educativo di cui si fa uso, intenzionalmente o meno, volontariamente o meno, aumenta o diminuisce la sua capacità di conoscere se stesso attraverso gli altri, se non gli faccia perdere il senso della realtà, se non sconvolga le sue categorie di tempo e di spazio così da provocare carenze, disturbi e forse danni irreparabili alla capacità di simbolizzazione» (Donati, Teoria relazionale della società, 406).

51Jean Claude Milner, La scuola nel labirinto (Roma: Armando, 1986), 90.

52Donati, Teoria relazionale della società, 398.

53Spaemann, Emancipazione – un traguardo formativo?, 151.

54Donati, Teoria relazionale della società, 390.

55Stoll, Confessioni di un eretico high-tech, 37.

56Oecd, Educazione e occupazione (Roma: Armando, 1996), 57-71.

57Niklas Luhmann – Karl Eberhard Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività (Roma: Armando, 1988), 101-102.

58Olivier Reboul, Apprendimento, insegnamento e competenza (Roma: Armando, 1988), 141.

59Pierpaolo Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna (Torino: Bollati Boringhieri, 2001). Si vedano in particolare il cap. 4 (“Cambiamenti attuali nei significati del lavoro e loro impatto sulla riorganizzazione della società”) e il cap. 6 (“Il lavoro come relazione sociale: fondamenti sociologici di un’economia dopo-moderna”).

60Milner, La scuola nel labirinto, 110-112.

61Donati, Teoria relazionale della società, 402.

62Friedrich Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole (Roma: Newton & Compton, 1998), 49, 54.

63Martin Heidegger, Linguaggio tecnico e linguaggio tramandato (Pisa: ETS, 1997), 29-30.

64Come scrive Thomas Stearn Eliot: «non si può avere un’idea chiara né utile di ciò che è l’educazione, se non si ha un minimo di nozioni circa la scopo per cui si procede a questa formazione», I fini dell’educazione, in Opere, 2 voll., (Milano: Bompiani, 1993), Vol. I, 888.

65Weber, La scienza come professione, 77.

66Cristopher Lasch, “La cultura di massa in questione. Sradicamento, modernizzazione, democrazia,” Futuro Presente 4 (1993), 83. Si rimanda anche alla ricerca di Pierpaolo Donati, Ivo Colozzi (eds.), Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutra (Bologna: il Mulino, 1997).

67Peter L. Berger, Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea (Bologna: Il Mulino), 104.

68Arendt, La crisi dell’istruzione, 229.

69Donati, Teoria relazionale della società, 497.

70Robert Spaemann, L’educazione ovvero: il principio di piacere e il principio di realtà, in Id., Concetti morali fondamentali (Casale Monferrato: Piemme, 1993), 44.

71Arendt, La crisi dell’istruzione, 242-243.

72Weber, La scienza come professione, 109-110.

73Robert Spaemann, L’educazione ovvero: il principio di piacere e il principio di realtà, 44.

74Ibid., p. 43.

75Belardinelli, La comunità liberale, 159.

76Donati, Teoria relazionale della società, 400.

77Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo (Milano: Bompiani, 1997), 329.

78Ibid.

79Pierpaolo Donati, La cittadinanza societaria (Roma-Bari: Laterza, 20002), 75-76.

80Robert Nisbet, La comunità e lo stato (Milano: Comunità, 1957), 273.

81Arendt, Tra passato e futuro, 133.

82Cfr. Pierpaolo Donati, “La crisi dell’autorità fra pubblico e privato: il simbolo del padre nel capitalismo avanzato”, Sociologia, 3 (1978): 21-54.

83Donati, Teoria relazionale della società, 399.

84Ulrich Beck, I rischi della libertà (Bologna: il Mulino, 2000), 84.

85Arendt, Tra passato e futuro, 238.

86 Cfr. Eric Donald Hirsch, The Schools We Need, (New York: Doubleday, 1996).

87Gadamer, Verità e metodo, 328.

88Ibid.

89Giovanna Rossi, “Il processo di socializzazione”, in Sociologia. Una introduzione allo studio della società, ed. Pierpaolo Donati (Padova: Cedam, 2006), 92.

90Basti pensare a questo paradosso portato alla luce in modo arguto da Milton Friedman: «anche le scuole pubbliche (‘laiche’) insegnano religione, non una religione formale, teista, ma un insieme di valori e di opinioni che costituiscono una religione in tutto tranne che nel nome» Milton Friedman, Free to Choose (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1980), 164.

91Donati, Teoria relazionale della società, 422-423. Sulla relazione del noi e sul soggetto relazionale si rimanda anche a Pierpaolo Donati, Margaret Archer, The Relational Subject (Cambridge: Cambridge University Press, 2015).

92Donati, La socializzazione educativa e il capitale sociale, 122-123.

93Donati, La conversazione interiore, 31