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Ror Studies Series | La vita come relazione

Relazione e le “buone ragioni”

Salvatore Abbruzzese

Università di Trento

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La relazione è un atto gratuito del soggetto; ci si pone in relazione con l’altro per noi significativo senza attesa alcuna di ritorno e nulla appare più antitetico a questa dimensione della relazione che la logica di uno scambio a fini utilitari. La rete di relazioni nella quale ciascuno di noi è immerso e che hanno vita propria – nel senso che non dipendono completamente da noi, ma hanno comunque necessità della nostra disponibilità a portarle avanti ed a farcene carico – costituisce la parte più sensibile ma anche la meno analizzata, dell’agire sociale. Certamente alla base di ogni relazione esiste una dimensione affettiva, ma sarebbe erroneo confinare la relazione alla sola dimensione emozionale. La relazione nasce anche da un’istanza più generale che se incontra la rete dei ruoli sociali da un lato e delle affinità elettive dall’altro, va al di là di queste dimensioni: le comprende ma le oltrepassa instaurando uno spazio inedito tra i soggetti, quello di una relazione che ha vita propria.

Queste note si inseriscono nella proposta della sociologia relazionale di Pierpaolo Donati e mostrano come la sociologia generale non relazionale, colta qui nella corrente dell’individualismo metodologico, lasci affiorare degli interrogativi e indichi delle dimensioni dell’azione che rivelano l’ampiezza e mostrano l’importanza – l’inevitabilità – di un approccio relazionale. Senza quest’ultimo l’intero individualismo metodologico resta imprigionato nella tensione polemica con il determinismo sociologico che se costituisce comunque un dibattito importate nella sociologia del secondo dopoguerra, non può mantenersi a questo livello.

In particolare l’individuazione di un soggetto sociale inteso, sempre e ovunque, come attore razionale porta a chiedersi come operi la ragionevolezza di quest’ultimo. Una volta determinato il carattere circoscritto, e per questo parziale, di una logica meramente utilitaria, diventa sempre più impellente non solo marcare le distanze dalla teoria della scelta razionale alla quale molto spesso l’individualismo metodologico viene accostato, ma anche impegnarsi a fare luce sulle logiche del singolo attore sociale. Se queste sono ragionevoli, non possono non mostrare la loro ragionevolezza attraverso l’assenza di “scatole nere”, non possono cioè non rivelarsi in modo solare, perfettamente osservabile ed adeguatamente comprensibile.

Ora è proprio nel processo di comprensione delle “buone ragioni” alla base dell’azione sociale dell’attore intenzionale che la dimensione relazionale emerge in modo incontrovertibile. Nelle pagine successive si vuole mostrare come questo si realizza a proposito di una dimensione decisiva dell’agire individuale, quella della razionalità assiologica, cioè dell’adesione consapevole e cosciente del singolo a credenze ed a valori normativi.

La mancata centralità della dimensione relazionale: un’importanza occultata e ignorata

Nel suo percorso storico lo studio dell’azione sociale sembra spesso operare esclusivamente sull’interazione tra soggetti. La relazione è spesso schiacciata sulla semplice interazione e consiste nel reciproco riferirsi intenzionale tra A e B nel corso della loro azione e nient’altro. La relazione intesa come qualcosa che sta tra A e B e che tuttavia non si riduce a nessuno dei due soggetti, resta in ombra e passa inosservata. Ma c’è di più. Nella misura in cui il motore della società moderna risiede nella sempre maggiore autonomia accordata all’individuo ed alle sue potenzialità, la dimensione della relazione, intendendo con questo termine essenzialmente la realizzazione di legami significativi con gli altri, scivola in second’ordine. Una prospettiva relazionale “forte” nel senso indicato da Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) riportato da Pierpaolo Donati appare risuonare semplicemente paradossale nell’ambito dell’analisi del mondo sociale. Dire infatti, come dice Papa Ratzinger, che “Da solo io non sono affatto me stesso, ma lo sono soltanto nel tu e mediante il tu”1 può essere accettato solo a condizione di rinviare una tale analisi alle stanze del messaggio religioso, inteso come dottrina sublime sulle verità ultime dell’uomo, ma che entra decisamente poco nella realtà culturale della modernità contemporanea, quella della laicità autoreferenziale dominante, una laicità dalla quale l’intera dimensione religiosa è culturalmente espulsa2. Dire, come fa Papa Ratzinger, che il soggetto (l’io) esiste solo nella relazione con un “tu” e non esiste nessun “io” che sia definibile al di fuori di questa se non in forma annichilita, depotenziata e implicitamente deviante, vuol dire porsi in diretta linea di conflitto non tanto con l’individualismo inteso come paradigma principale della modernità, quanto con la sua esaltazione iperbolica che da euristica metodologica lo conduce ad essere principio normativo. Un’esaltazione che dalle euristiche empiriche presenti nella scienza economica ed in quella politica è approdata alla semplificazione sociologica, dove il soggetto si conclude – e si esaurisce – nella figura dell’attore sociale definito dalla posizione che occupa e quindi dagli status/ruoli che lo definiscono e dentro i quali egli stesso si definisce. In una tale chiave la dimensione della relazione non va oltre la semplice interazione ed è priva di qualsiasi sostanza propria.

Ciò è tanto più rilevante quanto più ad un simile sottodimensionamento della dimensione della relazione si è affiancata una cultura diffusa che fa del soggetto senza vincoli né legami – quindi senza relazioni in quanto ogni relazione è comunque un vincolo – il modello di riferimento normativo. Si passa così dal piano descrittivo a quello valoriale, dall’individualismo come semplificazione euristica ai fini della ricerca all’individualismo come condotta esemplare, come vero e proprio modo di essere. Rifiutare la relazione, una volta ridotta a semplice vincolo, sembra iscriversi nei cromosomi del soggetto dentro la modernità contemporanea. Le conseguenze sono palpabili: “spesso il rifiuto della relazione lo constatiamo nei comportamenti della vita ordinaria, quando siamo tutti centrati su noi stessi e non vediamo l’Altro, oppure lo vediamo e lo scansiamo, o ci rifiutiamo di entrare in relazione con lui semplicemente perché, per qualche motivo, non ci interessa. … L’Io non accetta facilmente di abbandonarsi alla relazione, perché ha paura di perdersi e segue una specie di istinto di conservazione … proprio perché scegliere di vivere secondo una determinata relazione è spesso duro, difficile, costa rinunce, doloroso… gli uomini girovagano nel mondo lasciandosi spesso trascinare dalle relazioni, anziché guidarle con fermezza verso il loro compimento.”3

Da questa citazione di Pierpaolo Donati si capisce l’ampiezza della posta in gioco. Da un lato l’essenziale della vita sociale è costituito da relazioni. Per essere precisi: “…qualsiasi fenomeno o formazione sociale … è un complesso di relazioni sociali. Non è né un sistema … né un prodotto di azioni individuali aggregate o sommate fra loro, ma è un altro ordine di realtà: la società è relazione, e ogni formazione sociale – pensiamo anche ad Internet – è fatta di relazioni sociali.”4 Dall’altro questa dimensione è semplicemente non vista, trascurata, quando non addirittura coscientemente e consapevolmente evitata.

Le relazioni sociali, percepite nella loro pura dimensione fenomenica, costituiscono una sorta di sovrappiù della vita sociale: l’esito di un’esigenza comunicativa che il soggetto può assolvere in modi diversi, quanto non addirittura serenamente scansare. Si possono facilmente evitare le relazioni, lasciarle decantare nell’area della pura formalità dei buoni rapporti quotidiani, così come si possono benissimo non costruire, nella granitica certezza di un soggetto che, contrariamente a quanto asserisce Papa Ratzinger, basta a sé stesso e non sente affatto il bisogno di un tu attraverso il quale e grazie al quale essere realmente persona. Ovviamente, nei fatti, è il contrario che si verifica: tutti viviamo dentro delle relazioni significative e siamo definiti da queste, ma tali dinamiche sono vissute con discrezione e sono definite come un vincolo, cioè un limite che crea impedimenti alla libera autonomia del singolo. I vincoli famigliari sono visti come una fonte di intralcio, un impegno amato ma non dimeno gravoso. L’idea che questi siano la condizione necessaria per la propria più profonda e autentica realizzazione non sembra minimamente apparire sulla superficie del “discorso comune”5. In pratica le relazioni sono essenziali e negate al tempo stesso, decidono la qualità di qualsiasi gruppo come di qualunque realtà associativa, eppure sono costantemente denegate nella loro sostanza e ridotte a opzioni individuali facoltative, come se l’essenziale passasse altrove.

In sociologia, come è noto, una tale prospettiva individualista ha trovato un solo paradigma capace di opporglisi, quello del soggetto definito e deciso dal contesto sociale. Un soggetto culturalmente socializzato e socialmente condizionato al punto da essere sostanzialmente incomprensibile senza i dovuti riferimenti al contesto che lo definisce e lo condiziona. Se nel caso del paradigma individualista c’è al centro l’individuo con la sua razionalità ed è questo a scegliere le soluzioni più convenienti, a sancire alleanze, firmare patti, aderire a gruppi o movimenti, nel secondo c’è invece l’esperienza associativa dei diversi aggregati comunitari nei quali il soggetto nasce e dentro i quali matura: dalla famiglia, al clan, alla comunità, al gruppo, alla polis, alla Chiesa, alla nazione. Ciascuno di questi aggregati diventa il luogo di un’esperienza di interazione che lo definisce completamente e dal quale riceve valori di riferimento e modelli di comportamento.

Anche in questo paradigma la dimensione relazionale appare comunque depotenziata. Se nel primo caso infatti questa viene utilizzata solo strumentalmente: si ricorre agli altri quando sono necessari per perseguire obiettivi concreti. In questo caso, che apparentemente sembra invece valorizzarli in quanto nega l’autoreferenzialità dell’individuo, le relazioni svaniscono nel fiume dell’esperienza collettiva; gli altri non sono che altrettanti pari intrappolati dalla stessa cultura di appartenenza, all’individuo libero si replica con il soggetto socialmente e culturalmente identificato, gli altri sono inutili nel primo caso mentre non sono che l’espressione fenomenica delle emozioni della condivisione nel secondo. Se nel primo caso il soggetto può fare a meno degli altri, nel secondo questi non sono che i rappresentanti di un riferimento e di un’appartenenza comune. L’altro è scelto strumentalmente nel primo mentre è casualmente contestuale nel secondo.

Che gli altri nella loro significativa individualità siano irrilevanti in entrambi i paradigmi lo dimostra la facilità con la quale sono sostituiti. Infatti se nel primo caso l’utilizzo strumentale degli altri a fini di interesse può essere sostituito da una rete adeguata di informazioni sulla scelta da praticare o da servizi che la facilitano senza ricorrere ad alcuna rete di mutuo aiuto (la fine delle dimensioni relazionali della piazza del paese, del circolo associativo, della sede parrocchiali o di partito come altrettanti luoghi di acquisizione delle informazioni sostituiti da canali qualificati specializzati) nel secondo gli altri non sono i partner di un’azione ma solo i compagni di un’appartenenza, le loro singole individualità sono assolutamente irrilevanti nel quadro della variabile socio-culturale che li caratterizza e li rende intercambiabili.

Ovviamente entrambe le prospettive, quella individualistica come quella comunitaria, sono state esplorate in tutte le loro potenzialità.

Nel primo caso la ricerca del proprio interesse da parte dell’individuo può sfociare in associazioni stabili, capaci di perseguire obiettivi sempre più rilevanti. Il processo è descritto nel modo seguente da Tocqueville: “Degli uomini per caso hanno un interesse comune in un determinato affare. Si tratta di un’impresa commerciale da dirigere, di un’operazione industriale da concludere; si incontrano, si uniscono, e si familiarizzano un poco alla volta con l’associazione. Più il numero di questi piccoli affari aumenta, più gli uomini acquisiscono, quasi a loro insaputa, la facoltà di perseguire in comune quelli grandi. Le associazioni civili facilitano dunque le associazioni politiche; ma d’altra parte, l’associazione politica sviluppa e perfeziona singolarmente l’associazione civile.”6 Di fatto l’agire associativo non solo diventa un modello stabile di interazione, ma va al di là degli interessi privati per giungere a perseguire interessi civili e politici. In pratica l’interesse comune produce l’interesse civile e quello politico.

Nel secondo caso questa stessa dinamica è letta non come il risultato di una scelta volontaria bensì come l’esito di un’esperienza inattesa. In una conferenza del 1914 Emile Durkheim, chiamato a dare ragione dell’esistenza del sentimento religioso ad un uditorio di non credenti, dichiara come alla base di un tale sentimento non ci sia altro che la vita associata: “Per esperienza … sappiamo che, quando gli uomini sono riuniti, quando vivono una vita comune, dalla loro stessa riunione sorgono forze eccezionalmente intense che li dominano, li esaltano, portando il loro tono vitale a un grado che non attingono nella vita privata.”7 Qui Durkheim non precisa gli interessi che sono alla base della riunione, gli è sufficiente che questa si realizzi in modo volontario e continuativo per trovare una spiegazione alla percezione che il credente ha “di partecipare ad una forza che lo domina, ma che, allo stesso tempo lo sostiene e lo eleva al di sopra di sé stesso.”8 In pratica la dimensione dell’interazione (o dell’interrelazione) è vista anche da Durkheim come la base di una dimensione associativa inedita e se per Tocqueville l’interazione è alla base dello spirito civico, per Durkheim è fondativa della comunità morale.

Queste due citazioni danno un’idea di come la dimensione della relazione (il termine ancora non compare) per quanto apparisse in modo rilevante in questi due fondatori della sociologia, fosse già depotenziata e, di fatto, a rischio. Tanto Tocqueville quanto Durkheim sono infatti coscienti della caducità delle esperienze di interazione (e di interrelazione). In assenza di una chiara percezione dell’interesse ben inteso nulla spingerebbe i soggetti a riunirsi nel primo caso: l’esperienza civica può benissimo non prodursi e la democrazia privarsi così di una risorsa fondamentale. In pari modo, in assenza di una dimensione religiosa (di un ideale politico o di una volontà morale) nulla può alimentare la “vita in comune” della quale parla Durkheim. In pratica la sociologia vede l’importanza della dimensione relazionale (colta nella sfera delle associazioni di interesse nel primo caso ed in quelle religiose nel secondo) ma, nello stesso tempo, ne coglie l’inevitabile caducità. Si arriva così a fare della precarietà del “legame sociale” il problema principale della sociologia.

In pratica la dimensione della relazione significativa, la centralità del rapporto con l’altro sembrano non essere garantite da alcunché. La dinamica relazionale, pur così essenziale, è di fatto non solo ancorata ad una scelta volontaria ma soprattutto non rientra in nessuna necessità costitutiva del soggetto agente. Questi può benissimo realizzare la propria azione o vivere la propria intera esistenza sociale accontentandosi di interazioni strumentalmente funzionali in un caso o di condivisioni emozionalmente significative ma estemporanee nell’altro.

L’analisi delle credenze e la relazione necessaria

Una possibilità di recuperare la relazione come possibilità effettiva la si può rintracciare nell’ambito della razionalità assiologica, cioè in quell’ambito dell’agire dove anziché perseguire degli obiettivi si affermano principi e le azioni non vengono poste in essere perché sono utili sul piano strumentale ma perché sono preziose su quello dei valori. Non servono a realizzare un obiettivo ma a affermare un principio. Credenze, valori e principi etici costituiscono così delle guide dell’azione dei principi di orientamento.

La spiegazione dell’adesione non strumentale dei soggetti a credenze, valori e principi etici è stata spesso cercata (e trovata) nei meccanismi della socializzazione e dell’adesione ai quadri culturali dominanti, cioè all’iscrizione del soggetto, indipendentemente dalla sua volontà, alla serie di credenze ed ai valori prevalenti all’interno dello specifico gruppo sociale al quale questi appartiene o sceglie di appartenere.

Nella variante radicale di un simile paradigma la scelta è totalmente inconsapevole: il soggetto sottoscrive l’intero quadro dei principi e delle norme morali già con l’apprendimento del linguaggio, delle rappresentazioni e delle narrazioni che dominano all’interno del gruppo. Anche nei casi di adesione volontaria e quindi cosciente ad un gruppo o ad un’associazione, quale può essere quella che si realizza in età adulta, l’adesione ai valori, ai principi e alle credenze che dominano all’interno di questo rientra negli automatismi del percorso di acculturazione e di socializzazione. In sociologia delle religioni una tale ripartizione tra appartenenza involontaria e adesione volontaria trova una rappresentazione nella ripartizione weberiana tra Chiesa e setta: là dove la prima si manifesta come collettività inclusiva alla quale si appartiene per nascita, la seconda emerge come comunità esclusiva nella quale si entra per adesione volontaria.

A questo tipo di spiegazione si è opposta quella supportata dal paradigma individualistico in virtù della quale l’adesione a credenze, principi e valori è il risultato invece di scelte consapevoli dei singoli soggetti. A lungo confinata nell’ambito dell’agire economico e da qui dominante l’intero ambito della razionalità strumentale, tale spiegazione è rimasta a lungo inefficace dinanzi al caso dell’adesione non strumentale, quando si tratta di far proprie credenze fattuali e principi morali che non hanno nulla a che vedere con i propri interessi. Ancora nel 1979, un autore proveniente dal paradigma individualista come Raymond Boudon, scriveva che l’adesione alle ideologie, intese qui come insieme organico di rappresentazioni della realtà intimamente legato a credenze normative ed a valori prescrittivi, restasse “in gran parte, terra incognita”9: un’esplicita dichiarazione di insoddisfazione verso le spiegazioni di tipo individualistico che si accontentava di risolvere le scelte del soggetto all’interno del solo paradigma utilitaristico razionale.

L’insoddisfazione di Boudon nei confronti del paradigma utilitarista10, unita al suo rifiuto di considerare l’adesione a credenze ed a valori come semplice risultante degli effetti di socializzazione, lo porta a cercare la soluzione nell’ambito della razionalità cognitiva. Questa razionalità, che è propria della ricerca scientifica ma non solo di questa, è volta alla ricerca del vero. Essa vede il soggetto far proprie delle rappresentazioni della realtà che giudica attendibili in quanto ritiene di avere elementi di conoscenza ed esperienze sufficienti a sostenerle. Per tale strada Boudon arriva a ritenere che l’adesione a valori o la sottoscrizione di credenze normative siano il risultato della razionalità cognitiva applicata al piano normativo. Il percorso concettuale che conduce a dirimere il giusto dall’ingiusto – quindi a discernere i principi di distinzione ed i valori di riferimento – non è diverso da quello applicato per distinguere il vero dal falso. Il soggetto crede in ciò che crede in quanto percepisce, in maniera concreta, il senso che la singola credenza ha per lui. Ovviamente, ed è questo il dato maggiormente rilevante, una simile pretesa del soggetto non ha nulla di illusorio e non è affatto la pretesa ambiziosa di chi si crede di essere al di sopra dei condizionamenti culturali che pur esistono. Per Boudon i condizionamenti dell’ambiente esistono, ma ciò non pregiudica l’esistenza della verità stessa, anche se non esistono strumenti di validazione universali.

Nella sua polemica contro il culturalismo Boudon afferma pertanto una prospettiva risolutamente anti relativista. Nell’ambito dei valori morali, cioè nell’ambito della ricerca di ciò che è giusto, il soggetto non fa ricorso ad una razionalità diversa da quella che pone all’opera quando è immerso nella ricerca di ciò che è vero11. Che il soggetto nella sua ricerca del giusto, esattamente come in quella del vero, possa essere sviato da errori di prospettiva, effetti di posizione, conflitti politici e scorciatoie ideologiche, luoghi comuni e paradigmi culturali, non impedisce a questi di arrivare a evidenziare ciò che è giusto, esattamente come non impedisce all’uomo di scienza di pervenire a rintracciare ciò che è vero. Il carattere relativo della conoscenza dei fatti come di quella dei principi normativi non preclude la possibilità di superare i condizionamenti e di scoprire ciò che è giusto, esattamente come non impedisce di scoprire ciò che è vero: è il peso delle culture ad essere relativo e, come tale, superabile da una ragione illuminata dall’esperienza e non quest’ultima, costantemente offuscata dalle culture, come ritiene la tesi opposta.

Un aspetto essenziale di questa prospettiva è dato dalla possibilità di individuare nella volontà relazionale del soggetto una caratteristica centrale per il percorso di verifica. La volontà di relazionarsi con gli altri costituisce, per Boudon, la presenza di una percezione soggettiva del bene e del giusto più che la semplice eco di un condizionamento oggettivo. Se il soggetto sceglie ciò che è giusto esattamente come individua ciò che è vero sulla base di “buone ragioni”, cioè di spiegazioni che gli appaiono effettivamente sensate, diventa importante il metodo che questi adotta per acquisire una ragionevole certezza delle proprie affermazioni.

Ora per Boudon la prova che il soggetto ritiene di operare sulla base di “buone ragioni” risiede espressamente nella volontà di quest’ultimo di sottoporre queste stesse “buone ragioni” al giudizio degli altri. Il soggetto “agisce e giudica sulla base di ragioni che percepisce come aventi la vocazione ad essere condivise.”12

In pratica non solo il soggetto ha delle ragioni per credere in ciò in cui crede (siano questi dei principi morali, degli scenari socio-politici, delle persone concrete, delle entità spirituali) ma, nel processo di riflessione, intesa come presa di coscienza consapevole della credenza sottoscritta o del valore scelto, il soggetto è inevitabilmente spinto verso la dimensione intersoggettiva, gli diventa cioè essenziale evidenziare agli altri di volta in volta significativi, le “buone ragioni” alla base della propria scelta, le ragioni che percepisce come evidenti e che, proprio per questa loro oggettività, non possono non ottenere il consenso degli altri per lui significativi.

È facile vedere come siamo qui dinanzi ad un’apertura costitutiva del soggetto, tale cioè da rientrare nella sua dimensione antropologica e far parte piena ed inevitabile del suo corredo umano naturale. Di fatto, la ricerca della conferma intersoggettiva detiene un’evidenza addirittura superiore a quella della ricerca degli interessi utilitaristici, il suo grado di “necessità” è ancora più elevato. Infatti se la ricerca del proprio utile può serenamente non ricorrere a nessuna interazione e soprattutto, accontentarsi di intrecciare con gli altri delle relazioni puramente strumentali, la ricerca della conferma intersoggettiva delle proprie ragioni di riconoscimento del giusto e del buono non conosce ostacoli. Essa è, di fatto, “necessaria” al soggetto, nel senso che è parte integrante del suo percorso di validazione.

La dimensione delle “buone ragioni” fa dell’adesione ad ogni singola credenza e ad ogni singolo valore il risultato di una modalità di riflessione (una procedura) che, procedendo secondo la stessa metodica applicata alla ricerca del vero, costituisce una forma di razionalità cognitiva. L’apertura sull’altro è una componente essenziale dello stesso processo di adesione alla credenza o alla sottoscrizione di un valore, questa ha un carattere necessario ed inevitabile, abbattendo così l’individualismo ingenuo presente nella teoria della scelta razionale. “I postulati della teoria cognitivista conferiscono a quest’ultima un vantaggio considerevole rispetto alle teorie di ispirazione utilitarista…quello di evitare di concepire l’essere umano come solipsista.”13 Non c’è atto del credere come non c’è adesione a valori, principi morali, entità spirituali con capacità normativa che non si sostanzi in una esplicitazione agli altri delle buone ragioni che il soggetto vede alla base della propria scelta.

La condivisione delle buone ragioni

Ovviamente la condivisione delle buone ragioni alla base della scelta di credenze e valori non ha nulla di automatico; il soggetto può infatti scegliere di mantenerle per sé in quanto percepisce l’ambiente quotidiano alla propria portata come pregiudizialmente chiuso verso queste. Di più, risiede proprio in questo la capacità da parte delle diverse “credenze dogmatiche” o delle “passioni generali e dominanti” (Tocqueville) di imporsi. Il soggetto, dinanzi ad un’opinione pubblica che fa proprie delle credenze diverse dalla propria – soprattutto quando queste gli sono presentate in forma non di proposta dialogica ma come affermazione già immediatamente assertiva – tende a non esplicitare il proprio punto di vista. Discutere vuol dire instaurare una tensione e riconoscere un potenziale conflitto, incrinare un’armonia che proprio il carattere perentorio delle ragioni dell’altro rende apparentemente possibile in quanto ritiene il dibattito già di fatto risolto e superato14. In questo caso il soggetto espone le sue ragioni solo se la divergenza sui valori e le credenze che l’altro sostiene concerne aspetti che questi ritiene decisivi per la sua permanenza in quel determinato contesto sociale. Le stesse Chiese negli Stati Uniti, come annota ancora Tocqueville, non entrano in conflitto con l’opinione pubblica dominante se non quando sono in discussione i principi fondamentali e inaggirabili del proprio annuncio evangelico. Il primato dell’opinione pubblica, come quello del “senso comune” – un primato che costituisce una vera e propria forma di oppressione nell’ambito della costituenda società democratica – trovano in questa volontà di evitare il conflitto il loro inatteso alleato.

Tuttavia, proprio per questo, non solo siamo dinanzi ad una “controprova” che conferma l’adeguatezza di quanto già dichiarato poiché il fatto che si tacciano le proprie ragioni è il risultato di una situazione di costrizione e quindi testimonia la presenza di un ostacolo verso una ragionevole esplicitazione. Ma soprattutto ci stiamo esattamente dirigendo verso la situazione opposta rispetto a quella dell’ordinaria costruzione della vita sociale e della comunità cittadina: siamo infatti dinanzi ad un caso di segmentazione e di disgregazione. In altri termini, se il tacere le proprie “buone ragioni” è una scelta innaturale, dovuta ad una segmentazione conflittuale dell’universo societario circostante, l’esplicitazione di queste rientra invece nell’ordinaria vita sociale. La relazione tesa alla ricerca del riconoscimento intersoggettivo delle proprie “buone ragioni” costituisce un atto naturale e inevitabile per il soggetto stesso, ansioso di vedersi confermare dagli altri per lui significativi quelli che sono i suoi più profondi convincimenti.

Le motivazioni alla base di una tale volontà non coincidono minimamente con l’interesse. La relazione con l’altro significativo al quale si presentano i motivi della propria scelta di valore o di quella delle proprie credenze non rientra minimamente nell’alveo delle strategie utilitarie se non allargando a dismisura il concetto di “utilità” fino a svuotarlo di qualsiasi consistenza. L’intera teoria della scelta razionale è fuori campo in quanto l’adesione a determinate credenze, così come la sottoscrizione di specifici valori, è indipendente dal consenso che chi le sottoscrive conta di ricevere nel proprio ambiente di riferimento15. Se l’interesse che il soggetto ha nel vedere confermate le ragioni alla base delle proprie credenze e dei propri valori transita per l’assenso degli altri, non situa affatto nell’eventuale consenso di quest’ultimi la propria ragione costitutiva. Il riconoscimento che può ottenere non è all’origine della scelta già fatta ma è successivo a questa. Il soggetto va “alla ricerca” di quanti condividono il suo stesso credo, o hanno maturato gli stessi principi solamente dopo che ha recuperato le ragioni in base alle quali ha maturato la propria convinzione. Espressioni come “resto del mio parere”, “gli altri pensino ciò che vogliono ma io ritengo che …” sono altrettante affermazioni che non solo lasciano trasparire la volontà di difendere le proprie “buone ragioni”, ma consentono anche di comprendere come queste siano state elaborate prima di qualsiasi ricerca di consenso e siano sostanzialmente indipendenti nei confronti di quest’ultimo, salvo nei casi di adesione strumentale, dove l’intero percorso della razionalità cognitiva cede il passo alla razionalità strumentale.

La richiesta di conferma intersoggettiva nasce pertanto da qualcosa di più profondo dell’interesse o dell’utilità, questo qualcosa è dato dalla ricerca del vero. Nell’aderire ad un principio o nel far propria una credenza si può essere disinteressati così come si può porre in secondo piano la dimensione utilitaria, ma non si può aderire né sottoscrivere alcunché senza indagarne il grado di coerenza e di non contraddizione con le proprie conoscenze o i propri principi più generali. Un’adesione a una credenza o la sottoscrizione di un valore che non passasse per un simile giudizio sarebbe decisa solo su base affettivo-emozionale e quindi risulterebbe inevitabilmente provvisoria. In realtà il giudizio di adeguatezza di un valore o di una credenza con i propri principi, esattamente come la costante verifica della consistenza della credenza e della sua coerenza con quanto ci è già noto, costituiscono elementi essenziali dell’adesione cosciente e consapevole16.

Una tale forma di relazione che così si instaura con l’altro al quale si presentano le proprie ragioni, proprio in quanto assolutamente primaria e quindi elementare, non è riducibile ad una relazione di scambio – come quella che può sussistere tra un commerciante e l’acquirente del suo prodotto o come quella che si può instaurare tra un avvocato e il suo cliente. In questo secondo caso, come osserva Pierpaolo Donati, ciascuno dei due soggetti permane nella propria identità e tutto ciò che compie rientra interamente nel ruolo sociale che ciascuno si trova a ricoprire in quel momento17. Certamente e all’opposto – ed è qui il suo carattere assolutamente elementare – la relazione di presentazione e verifica delle proprie ragioni non può nemmeno presentarsi come una relazione consapevole e intimamente coinvolgente, quale può essere una relazione di coppia. Il carattere assolutamente precario, ancorché non banale come vedremo più avanti, della presentazione delle proprie “buone ragioni” alla ricerca del consenso intersoggettivo, la sua dipendenza dall’importanza dei valori che ne conseguono18, fanno sì che questo modello di “relazione minima” possa assolutamente non svilupparsi a livelli più intensi ma restare un semplice tentativo di relazione. Eppure, già a questo stadio, questa detiene tutti gli elementi della relazione in quanto i soggetti si confermano reciprocamente sulle rispettive “buone ragioni”, essi ne sono reciprocamente investiti.

Per essere più precisi: se riteniamo, in accordo con Pierpaolo Donati che: “Le relazioni… sono un ordine di realtà che ha esistenza propria, non puramente soggettiva e relativistica, una realtà assai delicata da cui dipende la felicità propriamente umana delle persone e la bontà delle forme sociali attraverso cui essa si realizza”19 non abbiamo nulla che, nella relazione conseguente alla richiesta di conferma delle proprie buone ragioni, permetta di escludere un’evoluzione in questo senso, al di fuori della sua evidente precarietà, del suo carattere assolutamente elementare, dell’essere, di fatto, una relazione in embrione, in nuce. Infatti, tanto la felicità propriamente umana quanto la bontà delle forme sociali attraverso le quali questa si realizza, vedono nell’eventuale conferma delle proprie “buone ragioni” alla base dei principi orientativi della propria esistenza (valori) e di quanto viene creduto vero in assenza di certezza (credenze), una delle prime e più essenziali condizioni tanto della felicità del singolo, quanto della bontà delle forme sociali nelle quali questi si riconosce.

La relazione che si instaura tra due persone sulla dimensione intersoggettiva delle buone ragioni che portano ciascuno di questi a sottoscrivere un determinato principio o a far propria una determinata credenza non ha nulla a vedere con l’interazione medico-paziente o con quella tra il commerciante e l’acquirente. Qui sono in gioco i principi primi, le scelte di fondo, le credenze ultime. Un tale dialogo non ha nulla di automatico ma si muove a partire dalla libera decisione di comunicare, in un luogo ed a persone determinate, le proprie ragioni di adesione ad una credenza o di sottoscrizione di un valore. Un tale aspetto, unito a quello dell’assenza di interesse, ne definisce per intero la dimensione gratuita anche se non esclude minimamente una sorta di prudenza ragionevole. Di fatto non ci si rivolge a chiunque, ma solo a quanti sono ritenuti dotati di un’attendibilità tale da garantire, secondo il soggetto che li individua, il possibile riconoscimento della sensatezza delle ragioni che questi andrà a presentare. Per tale strada una tale presentazione contiene implicitamente la speranza che l’altro riconosca la ragionevolezza delle “buone ragioni” proposte. Un’eventuale disconoscenza, una mancata conferma di queste o un rifiuto, lasciano spesso trasparire – in modo più o meno esplicito – il disappunto di chi le aveva presentate. Ma può anche emergere il rifiuto di chi era stato scelto come ascoltatore. In non pochi casi l’esito può essere quello della fine della relazione o il suo rinvio ad un momento eccessivo: “su questo ti sentiremo un’altra volta” come avvenne tra i filosofi dell’areopago e l’apostolo Paolo (Atti 17, 32-33)

Ciò che appare interessante dal punto di vista relazionale emerge nel caso della conferma. In questo caso ci sono le condizioni minime affinché la relazione tra A e B prosegua, sviluppandosi e approfondendosi man mano che le conferme delle proprie “buone ragioni” si sommano l’un l’altra. Lo sviluppo di una relazione in senso pieno, intesa cioè come la crescente consistenza di qualcosa che “sta” tra A e B ma non coincide né con A, né con B può allora essere assolutamente possibile: ciascuno dei due soggetti è le buone ragioni che presenta e, da quel momento in poi, ciascuno dei due è definito dalle sue “buone ragioni”, queste lo “abbigliano” di una scelta valoriale che può arrivare a surclassare lo stesso ruolo sociale con il quale questi è solitamente definito in relazione alla posizione sociale che occupa. I soggetti mostrano la parte più sensibile dei principi che orientano la loro esistenza e questo non è affatto indifferente ai fini della costituzione di quel dialogo tra un “io” e un “tu” che costituisce la premessa essenziale affinché si instauri una relazione. Ciascuno percepisce l’altro come “colui che ritiene che”, sostiene cioè credenze e valori determinati e la manifestazione di queste scelte può arrivare ad avviare un rapporto permanente tra i due soggetti. È quanto accade nei gruppi associativi di vario genere e si sviluppa, in particolar modo in quelli strutturati intorno ad un credo religioso.

Di fatto le ragioni alla base delle proprie credenze così come quelle che sottostanno alla scelta dei valori che si ritengono significativi hanno nella relazione il loro punto d’approdo. Non c’è credenza che non cerchi la condivisione delle buone ragioni che sono alla base dell’adesione e, proprio nel perseguire un tale obiettivo, il soggetto si pone alla ricerca di altri ai quali esplicitarle, per arrivare a quella dimensione della convinzione intersoggettiva che è parte integrante del proprio processo di adesione e senza la quale le “buone ragioni” resterebbero confinate nell’universo della propria vita interiore.

Per concludere: condivisione delle “buone ragioni” e legame sociale

Se una tale tesi può essere ragionevolmente accolta come plausibile siamo dinanzi ad una dinamica completamente diversa sia rispetto a quella messa in moto da logiche utilitarie e alla base dei gruppi di interesse, sia rispetto a quella, puramente emozionale, dove l’adesione esplicita e corale ad un principio è mossa da un fatto o da un evento che ha scosso le coscienze e portato un popolo intero ad una gigantesca “dichiarazione di valore”20. Le “buone ragioni”, in questo caso, sono catturate dall’universo mediatico e dalle istituzioni politiche chiamate in causa: la lettura istituzionale le rinforza e le precisa, ma questa individua anche una precisa gerarchia, indicando e soprattutto definendo secondo i propri parametri ciò che è accaduto.

Di fatto, con la centralità della dimensione intersoggettiva come passo necessario e inevitabile per la conferma delle proprie “buone ragioni”, siamo dinanzi al possibile sviluppo di una dimensione intimamente relazionale, non riassumibile nella semplice interazione di qualsiasi scambio di beni o di prestazioni, né nella semplice condivisione dell’emozione. La prima interazione, quella alla base della logica dei gruppi di interesse, non sfocia necessariamente nella relazione. I soggetti mettono in opera un’azione comune per il conseguimento di un obiettivo del quale percepiscono i vantaggi sul piano utilitario. Una tale interazione può certamente essere alla base di progetti successivi e costituire quindi il nucleo per un’azione continuativa di tipo civico tesa al perseguimento di interesse comuni, tuttavia non si sviluppa la relazione intesa come definizione dell’identità personale dei singoli. Se quest’ultima si afferma ciò avviene per ragioni non inerenti al processo di interazione. L’intera società, almeno sotto quest’aspetto, si produce attraverso reti di interazioni, ma queste non sono significative dal punto di vista relazionale: la società resta formata da reti di individui di fatto autoreferenziali e vede proprio nella costante debolezza del legame sociale il primo dei problemi che la caratterizza.

Anche la condivisione emozionale non sfocia immediatamente nella relazione: la condivisione di una cerimonia, l’emozione di un rito, il coinvolgimento emotivo di una festa dall’alto valore simbolico non sono ancora, di per sé, fondativi della relazione. Se da un lato creano un clima favorevole dall’altro restano ancorati all’eccezionalità del tempo e del luogo. L’emozione dell’incontro, l’effervescenza delle relazioni, l’esperienza comunitaria, dovendo poi reinserirsi nell’universo della vita ordinaria, possono diluirvisi fino a scomparire. Le relazioni del giorno di festa o delle celebrazioni comunitarie non si traducono necessariamente nell’esperienza relazionale stabile e non momentanea, capace di dare vita ad una dimensione identitaria di sé.

Nel caso della dimensione relazionale che si stabilisce a seguito della verifica intersoggettiva delle “buone ragioni” che portano a sottoscrivere una credenza o un valore siamo dinanzi ad una rete di tipo nuovo che non è ancora cementata da fini comuni, né da ideali condivisi, ma ne costituisce comunque il retroterra essenziale. Il passaggio a livelli di coesione maggiormente visibili attraverso la costituzione di relazioni significative non ha ancora alcunché di automatico. La rete di relazioni estemporanee, nate intorno alla condivisione della ragionevolezza delle proprie ragioni di sottoscrizione della credenza o del valore, all’inizio non va al di là della sensazione di “essere a casa propria”, cioè di trovarsi tra quanti “la pensano come me”. Tutto ciò che si può osservare è la predisposizione del soggetto ad un’apertura verso l’altro che non ha nulla di irrazionale né di puramente emozionale una volta che si fonda sull’esperienza della condivisione delle “buone ragioni”. Ciò che va evidenziato è comunque il carattere volontario, intimamente gratuito – cioè non mosso da nessun interesse utilitario – e comunque intrinsecamente umano, cioè del tutto inerente alla necessità del singolo di presentare le proprie buone ragioni, pretendendone il riconoscimento intersoggettivo.

La dimensione relazionale in senso stretto si instaura successivamente, lungo dei livelli di significatività dell’altro sempre meno estemporanei, pur conservando la forma primigenia: quella di un soggetto che non può accontentarsi delle proprie convinzioni senza averle fatte transitare attraverso il riconoscimento intersoggettivo.

È possibile così arrivare alla prefigurazione di un percorso di razionalizzazione interno alla dimensione assiologica che mostra la stessa pervicace evidenza di quella strumentale. Alla razionalità utilitaria, legata al perseguimento di un interesse che sfocia in reti e aggregazioni gestite dalla semplice interazione, si affianca adesso una razionalità assiologica volta alla riaffermazione di credenze e valori che sfocia in aggregazioni elementari gestite dalla dimensione relazionale. Quella relazionalità che nella dimensione strumentale è provvisoria e comunque marginale, in quella assiologica, proprio attraverso la tensione al riconoscimento della validità intersoggettiva delle proprie “buone ragioni”, si manifesta come uno dei possibili e inevitabili sviluppi.

La centralità qui accreditata al peso delle “buone ragioni” come luogo di apertura alla dimensione relazionale consente anche di comprendere il ruolo del relativismo nel disconoscimento della dimensione relazionale in funzione di un individualismo radicale.

Il primato del relativo, facendo della ricerca del vero un’illusione ottica, priva di ogni senso anche la ricerca delle conferme intersoggettive. Quest’ultime costituiscono più il sostegno del quale ha bisogno uno spirito debole e incerto che non il cammino logico di un’adesione ragionevole. Solo disinnescando il relativismo estremo e radicale (quello che liquida la possibilità stessa di pervenire al vero) è possibile riconoscere una dimensione relazionale originata dall’esigenza soggettiva di recuperare “le ragioni dei valori”. Solo alla luce di una tale operazione si può restituire al soggetto la dignità di un percorso razionale che non è affatto illusorio. Per tale strada la verifica intersoggettiva delle proprie “buone ragioni” costituisce uno specifico momento del metodo, del tutto analogo a quello che gli uomini di scienza pongono in essere quanto presentano i risultati di una loro ricerca e li espongono al dibattito. Con una differenza sostanziale: mentre quest’ultimi, confidando nel rigore del metodo al quale si sono affidati presentano i loro risultati già certi della loro validità, quanti espongono le loro “buone ragioni” mettono in piazza delle certezze interiori, sostenute da principi che sentono come profondi. La relazione che si instaura nel caso di un riconoscimento intersoggettivo è in questo secondo caso molto più importante e le possibilità che quanti le riconoscono diventino altrettanti “tu” si fa molto più elevata. Ed è in questa sede che la relazione in senso pieno può arrivare a installarsi, esattamente come i legami sociali possono trovare la terraferma, fuori dalle incertezze dell’eterna relatività che costantemente li insidia.

Si può osservare, tra i valori aggiunti di una simile analisi, come la stessa partecipazione alle cerimonie religiose conosca delle ragioni che vanno al di là della pura cornice emozionale nella quale molto spesso è erroneamente confinata. In realtà – a questo punto è chiaro – si tratta meno di condividere un’emozione che non di recuperare quella conoscenza intersoggettiva che è indispensabile a ciascuno affinché il proprio personale percorso di adesione gli appaia sempre più solidamente fondato. Ed è proprio quest’esigenza che spiega, ad esempio, tutta la parte pedagogica e non emozionale presente all’interno delle cerimonie stesse. Gli altri che, con la loro presenza, condividono implicitamente le nostre “buone ragioni” sono parte indispensabile di quell’esigenza di riconoscimento intersoggettivo di ciò che è vero e di ciò che è bene, esigenza che è parte integrante di ogni singola credenza ragionevolmente appresa e di ogni valore consapevolmente sottoscritto.

Bibliografia
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Salvatore Abbruzzese, Vincenzo Bova (eds.), Forme della razionalità cognitiva e assiologica. La religiosità in Italia, Francia e Polonia (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2009).
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Pierpaolo Donati, Sociologia relazionale. Come cambia la società (Brescia: La Scuola, 2013).
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Danièle Hervieu-Léger, Catholicisme, la fin d’un monde (Bayard: Paris, 2003).
Joseph Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato (Torino: Lindau, 2006).
Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, vol. II, (Gallimard: Paris, 1961).

1Joseph Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato (Torino: Lindau, 2006), 98-99, cit. nel contributo di Pierpaolo Donati nel presente volume.

2Danièle Hervieu-Léger, Catholicisme, la fin d’un monde (Bayard: Paris, 2003).

3Pierpaolo Donati, “L’enigma della relazione e la matrice teologica della società”, nel presente volume a p. 40.

4Ivi, p. 49.

5Esiste un «discorso comune» esattamente come esiste un senso comune, una «sociologia perenne» ed una lettura della società condivisa, la cui superficialità non toglie assolutamente nulla alla sua importanza ma, al contrario, ne rinforza in modo decisivo le potenzialità.

6Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, vol. II, (Gallimard: Paris, 1961), 122.

7Emile Durkheim, “Le sentiment religieux à l’heure actuelle”, Archives des Sciences Sociales des Religions, 27 (1969): 73-78, cit. p.74.

8Ibidem. Sono le note analisi già presenti nelle Forme elementari della vita religiosa, testo pubblicato qualche anno prima e che era stato alla base della conferenza citata.

9Raymond Boudon, La logique du social (Paris: Hachette, 1979), 258.

10Idem, Raison, bonnes raisons (Paris: PUF, 2003).

11Idem, Le juste et le vraie (Paris : Fayard, 1995).

12Idem, Le relativisme (Paris: PUF, 2008), 63.

13Ibidem.

14Una tale analisi è stata sviluppata da chi scrive nello spiegare il silenzio dei credenti cattolici nel dibattito politico, un silenzio spesso scambiato per indifferenza o scarsa volontà di impegno civile quando invece va ascritto in gran parte alla difficoltà nel muoversi su di un registro di conflittualità continua, tanto più necessario quanto più le “buone ragioni” degli altri non vengono argomentate ma sono presentate già nella retorica assertiva, e implicitamente aggressiva, dell’auto-evidenza. Salvatore Abbruzzese “Appartenenza religiosa e spirito civico”, in R. Gubert, G. Pollini (a cura di) Il senso civico degli italiani: la realtà oltre il pregiudizio (Milano: Angeli, 2008), 81-131.

15In questo caso la scelta perderebbe ogni valore in quanto si rivelerebbe puramente strumentale. Saremmo qui dinanzi ad una strategia adattiva che non fonda nessun consenso né sulle credenze, né sui valori.

16Cfr. a tal proposito Salvatore Abbruzzese, Vincenzo Bova (eds.) Forme della razionalità cognitiva e assiologica. La religiosità in Italia, Francia e Polonia (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2009) e Salvatore Abbruzzese (ed.) Percorsi del credere: convinzioni religiose e iscrizioni identitarie in Europa (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2014).

17Pierpaolo Donati, Sociologia relazionale. Come cambia la società (Brescia: La Scuola, 2013), 221-222. Il concetto è riproposto anche nel più recente L’enigma della relazione (Milano-Udine: Mimesis Edizioni, 2015), 243-244.

18Credenze e valori possono riguardare tanto gli elementi fondativi della propria esistenza quanto le scelte più banali ed ordinarie, ne è prova la definizione di valore esistente in economia e da questa mutuata alla sociologia. Cfr. la voce Valore in Raymond Boudon, François Bourricaud, Dictionnaire de Sociologie (Paris: PUF, 1982).

19Donati, Sociologia relazionale, 34.

20Un simile fatto si è prodotto a Parigi con la manifestazione dell’11 gennaio 2015 in risposta al massacro della relazione del giornale satirico Charlie Hebdo da parte di terroristi islamici.