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Ror Studies Series | La vita come relazione

Dalla persona alla società e viceversa: a che serve il paradigma relazionale?

Sergio Belardinelli

Università di Bologna

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Per affrontare il mio tema, prenderò le mosse da una domanda banale e intricatissima insieme: “Sono le persone umane che fanno la società o è la società che fa le persone?”1

Si tratta di una domanda dentro la quale si nasconde sia l’enigma della relazione, come lo ha definito Pierpaolo Donati nel suo ultimo libro, sia l’enigma che sta alla base di quanto mi appresto a dire. Ma molti purtroppo non vedono questo enigma; anzi, tendono a rispondere o come se la socialità della persona fosse un fatto scontato: in fondo si sa dai tempi di Aristotele che l’uomo è un animale sociale; oppure come se la relazione tra persona e società, diciamo pure, il cammino dalla persona alla società e viceversa non esistesse o quanto meno non fosse descrivibile: è un po’ la vicenda di gran parte del pensiero moderno, impigliato ora nel riduzionismo individualistico (la società non esiste, esistono soltanto gli individui), ora in quello organicistico (l’individuo è un mero prodotto della società).

Ebbene il paradigma relazionale serve anzitutto proprio a vedere ciò che normalmente si fatica a vedere, ossia le relazioni, precisamente quelle relazioni che sono costitutive, non meramente accidentali, della persona e della società, salvaguardando l’autonomia sia dell’una che dell’altra. Potremmo anche dire che il paradigma relazionale serve a vedere come la persona si formi grazie alle relazioni sociali che la costituiscono, e come queste ultime possano essere generate e modificate dalla persona stessa.

Come scrive Donati in un saggio sulla persona umana in quanto soggetto relazionale, “La filosofia classica ha concepito il sociale come un semplice ‘accidente’ che può essere separato dalla sostanza o dalla natura dell’ens. Se concettualizziamo la ‘socievolezza’ della persona umana come ‘relazionalità’ costitutiva della persona stessa, siamo costretti ad andare oltre la distinzione sostanza/accidente. Dobbiamo prendere in considerazione il carattere relazionale (naturale, pratico, sociale e spirituale) della persona umana come co-essenziale alla sua esistenza e alla nostra comprensione”2.

In questa prospettiva la persona viene vista come un essere costitutivamente in relazione che trascende costantemente le relazioni nelle quali volta a volta egli opera e si realizza (in teoria come nella prassi). Se A e B sono in relazione, tale relazione ha una specificità che va oltre la specificità di A e di B o di A+B. Pur appartenendo a A e B, tale relazione non appartiene a A e B prese separatamente. Per fare un esempio, la relazione coniugale è certamente la relazione che c’è tra due coniugi, tuttavia non appartiene a nessuno dei due coniugi singolarmente presi; è qualcosa che emerge da e su di essi, con tutto ciò che tale emergenza implica in termini di autonomia, imprevedibilità, novità, spontaneità. Nessuno può dire, a priori, che cosa concretamente scaturirà da quel matrimonio; e saranno certamente effetti che interesseranno sia le persone coinvolte nella relazione, sia le altre relazioni sociali. Tutto dipenderà in ultimo dalla cura che i coniugi metteranno nella loro relazione, diciamo pure dal lavoro che essi sapranno fare su di essa. Siamo quindi agli antipodi rispetto a qualsiasi forma di meccanicismo, a qualsiasi pretesa che la società possa essere ridotta ad un campo di forze fisiche, ma anche rispetto alla pretesa che la realtà sociale non esista e che esistano invece soltanto gli individui. Nella prospettiva relazionale i fatti sociali non sono «cose», come pensava Durkheim, né sono così evanescenti da sfumare in ultimo nella realtà del soggetto agente, quale unica vera «realtà» degna del nome; abbiamo piuttosto a che fare con una «realtà sui generis», che Pierpaolo Donati già venticinque anni orsono definiva come «un fenomeno emergente di soggetti in interazione»3 e che oggi ripropone nel modo che segue:

“Una persona è qualcosa per un’altra persona a prescindere dalle sue qualità individuali per il fatto che c’è un legame oggettivo che le accomuna. Esiste una realtà che appartiene a due persone, e solo a loro, senza essere proprietà di nessuna di esse. È la relazione che sta ‘fra’ di esse. Le unisce, ma fino ad un certo punto, perché esse sono pur sempre diverse, e quindi le accomuna solo per qualcosa che non è individuale, e che però viene all’esistenza solo con l’agire dell’individuo. La relazione, infatti, unisce e tiene distinte le persone nello stesso tempo. Anzi, proprio in quanto relazione, rispetta e promuove le loro differenze. Questa realtà dipende dagli individui, perché sono essi che la accettano o meno, e la agiscono o meno. Ma non può essere compresa come un atto o un fatto degli individui. L’enigma della relazione sociale umana sta appunto in questo: essa è fatta ‘dagli’ individui, ma non è fatta ‘di’ individui”4.

Visto che altri vi si soffermeranno in modo specifico, non mi sembra il caso di dilungarmi sulle conseguenze che questa idea di relazione come “realtà emergente” potrebbe avere in un campo, oggi d’importanza fondamentale, quale è quello dell’educazione. Vorrei soltanto sottolineare quanto poco le famiglie siano consapevoli della fondamentale funzione educativa nei confronti dei figli svolta dalla relazione che i genitori hanno tra di loro. Non c’è soltanto la specifica funzione educativa del padre e della madre, singolarmente presi, ma anche quella, forse più rilevante ancora, svolta dalla relazione che padre e madre hanno tra di loro. Un’evidenza tutt’altro che scontata al di fuori di una prospettiva relazionale, ma che proprio per la sua importanza sembrerebbe esigere da parte dei coniugi una consapevolezza e una cura particolari. Occorrerebbe, in altre parole, che i coniugi si ponessero “riflessivamente” in relazione, ma, affinché questo avvenga, ci vuole una consapevolezza che purtroppo non sembra adeguatamente diffusa né tra i coniugi, né tra coloro che, a vario titolo, si occupano di problematiche familiari. D’altra parte, come ci ha ricordato Donati nella sua relazione, “Mettersi riflessivamente in relazione è problematico perché questa azione solleva degli enigmi. Sono gli enigmi contenuti in quella relazione, nei quali si gioca il problema esistenziale del soggetto che deve agire. Il fatto è che, proprio perché scegliere di vivere secondo una determinata relazione è spesso duro, difficile, costa rinunce, doloroso. Per questo gli uomini girovagano nel mondo lasciandosi spesso trascinare dalle relazioni anziché guidarle con fermezza verso il loro compimento”.

Non è facile sollevarci all’altezza delle nostre relazioni, guardarle, prendercene cura. Ma le nostre relazioni, per quanto “invisibili”, sono realissime. Per questo, non soltanto la qualità di una teoria sociale, ma la stessa qualità della nostra vita dipendono dalla nostra consapevolezza relazionale. Sia in quanto soggetti individuali che sociali dovremmo diventare insomma dei “soggetti relazionali”. E questo in virtù della riflessività. “È assai raro – dice Donati – che i termini della relazione (Ego e Alter) riflettano personalmente su come la relazione fra di essi possa essere generata e modificata dal loro agire. Di norma la relazione rimane implicita e latente. Nel mondo sociale accade qualcosa di simile al mondo fisico. Noi non vediamo la luce, ma vediamo con la luce. Parimenti nel mondo sociale noi non vediamo le relazioni, ma vediamo con le relazioni, le quali rimangono non viste”5.

Detto in altre parole, il paradigma relazionale serve a vedere noi stessi e gli altri, non in quanto “individui” che hanno determinate caratteristiche fisiche, morali o intellettuali, intese in senso individuale, bensì in quanto “soggetti relazionali”, diciamo pure, in quanto persone che sono figli, genitori, fratelli, colleghi di lavoro, vicini di casa, membri di un’associazione e che per questo sono significative, a prescindere dalle loro caratteristiche individuali. Come ci ha detto Donati nella sua relazione, “Sono le qualità e le proprietà causali delle relazioni con quelle persone che le rendono significative per me” e questo anche se non sempre ne siamo consapevoli, non sempre vediamo la relazione nella sua specificità. Fa una profonda differenza dire che quella persona è intelligente oppure che quella persona è un mio collega, mio cognato, mio figlio, ecc. In questi casi infatti, anche se non me ne rendo pienamente conto, evoco una relazione, guardo in virtù di una relazione, della quale posso anche disinteressarmi, ma tale relazione esiste, c’è, ha una sua specificità e avanza persino delle pretese. Per intenderci, non posso considerare mio figlio come se fosse un mio collega, un mio studente o uno dei miei compagni di squadra a calcetto. Tanto è vero che, se lo faccio, non appena “ci rifletto” (se ci rifletto, ovviamente) mi accorgo che qualcosa non va, che confondo, oppure non rispetto o addirittura snaturo una relazione.

Il soggetto relazionale

Questo del “soggetto relazionale” e della sua costitutiva “riflessività” è un tema che presenta non poche difficoltà, ma nel suo ultimo libro, L’enigma della relazione, Donati lo affronta con insolita chiarezza.“Un soggetto relazionale –egli scrive- è un soggetto che vive nella relazione ed è costituito dalla relazione di cui si prende cura. Tutti hanno relazioni, perché non esiste un soggetto senza relazioni, così come non esiste una relazione senza soggetti. Ma il soggetto diventa relazionale solo nella misura in cui prende coscienza di questa realtà, la accetta e si comporta di conseguenza”6.

Anche Hegel diceva in fondo che il soggetto diventa veramente soggetto, soltanto quando diventa soggetto “in sé e per sé”, ossia consapevole di esserlo. Ma non bisogna confondere il paradigma hegeliano con quello relazionale. Quest’ultimo interpreta infatti la consapevolezza del soggetto come consapevolezza della realtà “sui generis” della relazione nella quale è inserito, la quale, pur essendo soggetta alle trasformazioni da parte dell’agire del soggetto, acquista tuttavia “poteri causali e qualità proprie”. Ancora con le parole di Donati: “Un soggetto diventa razionalmente riflessivo quando riflette su come la relazione con l’Altro, venendo all’esistenza o modificandosi, produce cambiamenti su di Sé e sull’altro, cioè sulla loro identità sociale e personale”7. Dunque, non una riflessione con un se stesso, assunto nella sua ipseità, la quale, a pensarci bene, non è altro che un’astrazione, bensì una riflessione messa in moto dalle relazioni con l’altro e capace a sua volta di produrre o modificare relazioni. I soggetti individuali diventano “soggetti riflessivi in senso relazionale (‘relazionalmente riflessivi’) quando riescono a osservare la relazione che essi hanno con altri agenti/attori come un’entità a se stante e quindi la considerano come una realtà che, pur dipendendo da loro stessi, può a sua volta determinare la loro identità e il loro agire”8.

Lo stesso vale per i “soggetti sociali” o collettivi. Nella prospettiva relazionale il sociale non è semplicemente un aggregato di individui o di strutture, bensì di relazioni, anzi, è addirittura un “sinonimo” di relazionale. Il sociale è definito dalle sue relazioni. Ma non è tutto, poiché Donati specifica anche qualcos’altro: “Parliamo di soggetto relazionale, sia individuale, sia collettivo, quando le relazioni sociali vanno a costituire l’identità personale di chi vi è coinvolto, e non si limitano alle sue identità sociali. Il soggetto relazionale non esiste se la relazione non va a costituire l’identità personale dei partecipanti. Per esempio: la coppia è un soggetto relazionale se e nella misura in cui l’identità personale dei due partner si definisce attraverso la relazione di coppia; mentre la relazione medico-paziente o venditore-acquirente non costituisce un soggetto relazionale, nella misura in cui la loro relazione non entra nell’identità personale dei due attori, ma rimane esterna (puramente sociale)”9.

Da un punto di vista strettamente sociologico, credo di comprendere perché Donati distingua così nettamente tra relazioni che costituiscono un “soggetto relazionale” (ad esempio, la relazione di coppia) e relazioni che, invece, non entrando nell’identità personale dei due attori, (ad esempio, la relazione venditore-acquirente) non lo costituiscono. È la realtà sociale stessa che sembra accreditare tale distinzione. Mi domando tuttavia, se su questo punto il discorso di Donati non possa essere, diciamo così, allargato, se cioè non sia proprio quella che lui chiama la “matrice teologica della società” a implicare, magari come una sorta di ideale regolativo, la “soggettività” di qualsiasi relazione sociale. Quando San Paolo ci invita a pensare a Dio qualsiasi cosa facciamo, è evidente che in questa prospettiva tutti i nostri pensieri, le nostre opere e le nostre azioni diventano elemento costitutivo e coerente di una identità che non si gioca più semplicemente su noi stessi, né sulle nostre relazioni sociali, bensì sulla capacità che abbiamo di ricondurci e ricondurle a Dio. In questa prospettiva anche la relazione venditore-acquirente, come del resto quella tra medico e paziente o tra maestro e allievo, possono generare quella “relazione-del-Noi” che costituisce il tratto caratteristico del soggetto relazionale. Direi addirittura che tanto più tali relazioni si avvicinano alla “relazione-del-Noi” e tanto più esse funzioneranno come relazioni umanamente “buone”, schiudendo quello che Donati ha chiamato “l’essere della relazione” nel suo duplice significato, il fatto cioè che con tale espressione “ci si riferisce sia all’essere che è nella relazione, sia al fatto che stare in quella relazione ci fa esistere in un certo modo, e non in un altro”. Ma su questo aspetto torneremo più avanti, quando affronteremo il problema della normatività insita nella relazione. C’è invece un altro aspetto del soggetto relazionale, che ha a che fare con la matrice teologica della società, sul quale vorrei richiamare subito l’attenzione. Si tratta precisamente della sua trascendenza, sia in quanto soggetto individuale che sociale: la trascendenza della persona e la trascendenza delle relazioni sociali, le quali, come dice Pierpaolo Donati, sono diventate enigmatiche proprio perché si è andato progressivamente oscurando il loro lato “verticale”, la loro relazione con Dio, la matrice teologica della società, appunto.

Ovviamente non abbiamo bisogno di Dio per vedere le relazioni sociali. La loro realtà emergente è un fatto che, per quanto difficile da cogliere, si impone alla nostra conoscenza. Con il linguaggio dell’antica scolastica, potremmo dire che, in ordine conoscitivo, esse sono “prime”, stanno cioè sotto i nostri occhi. Ma la loro “orizzontalità” non esaurisce il loro essere; la trascendenza che le contraddistingue ci induce a vedere successivamente anche un altro tipo di relazione, quella con Dio (ecco la matrice teologica della società!), una relazione “verticale” che, sempre in linguaggio scolastico, si rivela “primain ordine reale e senza la quale tutte le altre relazioni “orizzontali” appaiono come mancanti di qualcosa.

Quanto alla persona, in quanto soggetto relazionale, anch’essa trascende costantemente se stessa; è generatrice di relazioni e quindi di realtà “sui generis” poiché in ultimo le trascende; un’eccedenza (relazionale!) che la fa essere nella relazione (poniamo nella relazione marito-moglie), ma anche capace di relazionarsi al se stesso relazionato e quindi sempre decentrata (relazionalmente) rispetto a qualsiasi relazione10.

Questo decentramento è un po’ la «grandezza e la miseria» dell’uomo, come direbbe Pascal: è grandezza perché lo rende capace di trascendersi e di trascendere l’intero universo; è miseria perché è inquietudine, un continuo essere «oltre», una continua insoddisfazione che soltanto Dio è in grado di placare. La mia anima è inquieta finché non riposa in te, diceva Agostino.“La persona umana è un essere che, trovandosi tra il mondo naturale (bio-fisico) e la trascendenza, si sviluppa attraverso l’interazione sociale”, dice Donati11. Proprio per questo nessuna persona è riconducibile a priori alle condizioni sociali o biologiche della sua esistenza, né si lascia facilmente ricondurre a un semplice “fascio di ruoli”, come sostiene Goffman, oppure a un semplice “polo di rimando” che serve per la comunicazione, come sostiene Luhmann.

Approccio relazionale e approccio sistemico

Luhmann, si sa, è un po’ la bestia nera della sociologia contemporanea. Mi sembra pertanto opportuno dire due parole anche sul rapporto che l’approccio relazionale intrattiene con quello sistemico.

Per motivi che qui sarebbe forse troppo lungo esplicitare, penso che l’approccio sistemico luhmanniano, al di là della sua apparente adeguatezza rispetto alla realtà sociale nella quale viviamo, a furia di insistere su categorie come contingenza, possibilità di essere altrimenti, rischio, alla fine corra il grave pericolo di depotenziare eccessivamente la realtà sociale, di nascondere cioè qualcosa che, sociologicamente parlando, non è meno importante della dimensione cognitiva sulla quale egli tanto insiste: intendo in particolare la dimensione etica e culturale della società. L’oggetto della teoria sistemica, al pari della teoria stessa, non è altro se non relazione, capacità di connessione, confrontabilità, capacità di riferirsi ad altro. Potremmo anche ritenere che ci sia una parentela stretta tra l’approccio sistemico e l’approccio relazionale: sia Luhmann che Donati condividono in fondo la convinzione che il sociale non sia altro se non «relazione». Eppure la distanza tra i due approcci è letteralmente abissale.

«La sociologia relazionale – scrive Donati – è una specifica ermeneutica del senso normativo dell’azione sociale, della attualità sociale, in breve della società»12. Si tratta pertanto di offrire, sì, una descrizione adeguata della società, ma, in quanto tale, la sociologia si configura come «una riflessione sulla realtà sociale che va ben oltre le scienze cognitive. Essa non è solo, come in Luhmann, auto-tematizzazione e auto-riflessione della realtà, ma relazione significante con ciò che si presenta davanti ai nostri occhi nel senso della esperienza vitale»13. Rispetto a Luhmann, Donati rivendica in sostanza una maggiore densità, se così si può dire, alla relazione sociale: «una relazione di coppia non è quella fra un imprenditore e un operaio o tra un medico e il suo paziente»14. In questo senso la relazione sociale potrebbe essere intesa, a suo avviso, come un «testo vivente» che «deve essere costantemente interpretato pena il non senso. In sociologia non l’Alter, ma la relazione con lui è normativa per Ego. Specie se Ego intende e vuole che l’alter non sia né semplicemente un riflesso del Self (come un “alter ego”), né la sua autotematizzazione (referenza), ma un Tu vero e proprio, con il quale creare una relazione di Noi»15.

Rispetto a certe impostazioni oggettivistiche del rapporto teoria-realtà, le quali debbono più o meno ipostatizzare qualità, rapporti o strutture, poiché soltanto fissando il proprio oggetto possono fondare la propria validità, la teoria sistemica luhmanniana e quella relazionale di Donati presentano indubbiamente un certo vantaggio. Nel momento in cui, ad esempio, la teoria sistemica definisce il proprio oggetto come relazione, come confrontabilità, come possibilità di essere altrimenti, essa può concepire negli stessi termini anche la relazione tra oggetto e teoria. Sta qui, in questa possibilità, l’universalità-autoreferenzialità della teoria sistemica. Trattasi appunto di una teoria che si riferisce a se stessa come a qualsiasi altra cosa e come qualsiasi altra cosa si riferisce a un’altra, poiché essa, in quanto teoria, non può essere altro che ciò che può essere il suo oggetto: relazione, capacità di connessione, confrontabilità, possibilità di riferirsi ad altro.

Rispetto a Luhmann, però, mi pare che la teoria di Donati abbia, tra le altre cose, una maggiore concretezza, una maggiore capacità di relazionarsi alla realtà per ciò che essa effettivamente è, non dopo averla depotenziata in una miriade di relazioni senza qualità. Fermo restando l’impianto relazionale e quindi la non ipostatizzazione dei suoi oggetti, mi sembra insomma che sia indispensabile distinguere tra la relazione che c’è tra teoria e realtà sociale, da un lato, e la società come relazione o le singole relazioni sociali, dall’altro. Donati scrive giustamente: «Una teoria è relazionalmente adeguata: (a) se innanzitutto si colloca al livello della realtà sui generis della relazione sociale, e (b) se riesce a definire l’oggetto sociologico come relazione sociale»16. Proprio perché la teoria è una relazione, si pone il problema di una descrizione «adeguata»; a meno che non si creda che ogni teoria è in ultimo arbitraria o mera costruzione o addirittura indifferentismo rispetto ai termini relati.

Sia Donati che Luhmann fanno propria l’idea di una teoria sociale fondata sulla relazione, sulla confrontabilità. Nel caso di Luhmann, tuttavia, si direbbe che perdano di consistenza i termini relati; ciò che conta, in altre parole, non sono tanto questi ultimi, quanto l’instaurarsi della relazione stessa, la quale, in virtù della natura particolarissima del concetto luhmanniano di senso, si configura in primo luogo come una «selettività rischiosa», «possibilità di essere altrimenti», «contingenza». Donati invece guarda alla relazione soprattutto in quanto relazione tra due termini, che va perduta o rischia di ridursi a semplice «gioco», se i termini che la costituiscono non vengono rispettati nella loro identità relazionale. Tra le altre cose, sta qui la convinzione che Donati ha esplicitato nel suo ultimo libro, L’enigma della relazione, circa la compatibilità tra il concetto classico di persona, quello di Boezio che la considera come una “sostanza individuale di natura razionale”, e il paradigma relazionale. “Non c’è opposizione –egli scrive- tra l’ontologia della persona e l’ontologia della relazione. Non c’è nessuna opposizione, anzi c’è una sinergia, c’è un’integrazione. Non possiamo definire la persona senza la relazione e viceversa. L’ontologia della persona e l’ontologia della relazione stanno in una sintesi necessaria”17.

Se dunque nella teoria luhmanniana la persona è soltanto un “polo” che rende possibile la relazione, la quale ha come tale un codice impersonale; nella teoria di Donati la relazione trae tutta la sua consistenza dall’essere sempre una concreta relazione tra persone. In sostanza ciò che non convince di Luhmann è la riduzione della relazione sociale a pura e semplice comunicazione, la quale, per di più, finisce per scindere in modo inquietante uomo e società, umano e sociale. L’uomo, come dice Luhmann, non è più il metro di misura della società: vero punto di approdo, questo, di quel soggettivismo moderno, così geloso della sua soggettivistica libertà e quindi ostile a ogni legame sociale, da finire col trovarsi letteralmente fuori della società. Volevate questa libertà, la libertà di essere in tutto e per tutto autonomi, nella vostra individualità? Bene, l’avete trovata, sembra dire Luhmann. Ma dovete pagarla rinunciando all’idea che questa libertà possa avere qualcosa a che fare con il sociale. È la vera e propria eterogenesi dei fini del soggettivismo moderno.

Qui si apre, a mio avviso, uno dei lati più intriganti dell’approccio relazionale. Sono infatti convinto che la qualità di una teoria sociologica, quale che sia la natura che le si intende conferire, se descrittiva o normativa non fa differenza, dipenda in primo luogo dal rapporto che la teoria è in grado di intrattenere con quello che io chiamo il soggetto del proprio oggetto, ossia l’uomo, la persona appunto.

La distinzione umano/non umano

Donati si riferisce in genere al concetto di persona tutte le volte che prende partito riguardo ad alcuni dilemmi classici delle scienze sociali, in particolare il rapporto individuo-società e il concetto di cittadinanza18. È la società una semplice proiezione individuale o va considerata invece una realtà autonoma? Stiamo con Weber o con Durkheim? Oppure: è sufficiente interpretare i cosiddetti diritti di cittadinanza nella loro variante liberale o socialista, lib/lab come la chiama Donati, secondo una concezione economico razionale dell’individuo, stretto esclusivamente tra stato e mercato? La risposta di Donati in proposito è molto chiara: “Che la valorizzazione dell’individuo abbia messo in gioco, e anzi abbia portato a eliminare le relazioni sociali, riducendo la persona (individuo-in-relazione) a mero “Io” (soggetto monadico), è un fatto. Che libertà ed uguaglianza siano diventati codici simbolico-normativi dell’evoluzione sociale che operano ‘automaticamente’ anziché ‘ideologicamente’ (cioè come procedure – anche amministrative – più che come forze intenzionali e come norme rinvianti a dei presupposti morali), è – per certi versi – un’altra realtà”19. “D’altra parte, le crescenti difficoltà di fondare i diritti su un modello razionale economico dell’individuo suggeriscono l’ipotesi che l’individualità sia una costruzione sociale modellata storicamente da culture e valori. Occorre guardare ad una antropologia più complessa dell’individuo soggetto, che non nasconde nella sua ombra o in un quadro formale di attese le relazioni in cui si riconosce: affettive, di gender, di generazione; le solleva alla consapevolezza della sua autodefinizione e ne fa la base dei suoi processi di determinazione. Pesa e valuta la diversità compresente degli interessi, delle obbligazioni e delle opzioni, alla luce delle responsabilità e degli impegni verso gli altri. Una tale antropologia invita a distinguere fra diritti che universalizzano l’“io” a criterio esclusivo di scelta e di azione (non senza esiti autocontraddittori) e diritti che scrivono una trama istituzionale comune, in quanto sono regole e risorse per l’espressione di una soggettività autonormativa e relazionale”20.

È sulla base di queste premesse che Donati, in polemica soprattutto con la sociologia di Niklas Luhmann, elabora la sua idea di una società dell’umano. Se in Luhmann l’umano e il sociale finiscono per diventare due poli che si escludono a vicenda, ponendosi uno nell’ambiente dell’altro, in Donati essi sono, sì, distinti, ma costantemente «compenetrati»: nessuno dei due termini può sostituirsi all’altro, ma entrambi sono destinati, con diverse variazioni, a stare uno dentro l’altro: «La società è fatta di relazioni per le quali l’esigenza della distinzione umano/non umano non può mai essere annullata e che si differenziano di conseguenza, secondo processi contingenti; la società sta lì, nel fatto che anche i meccanismi funzionali richiamano e richiedono relazioni, e non solo comportamenti per i quali gli orientamenti soggettivi degli attori siano irrilevanti o addirittura fattori da eliminare; parlare di “società dell’umano” significa prendere atto che la società umana non è più un dato in-mediato, ma deve essere prodotta riflessivamente, attraverso nuovi conferimenti di senso ai nessi in cui l’umano viene distinto dal non umano»21.

Uno dei problemi sociologicamente più rilevanti della modernità è rappresentato, in effetti, dalla difficoltà a porre in modo adeguato il problema dell’«umano» nel sociale. Il funzionalismo rappresenta da questo punto di vista una vera e propria riduzione drastica di complessità e, in quanto tale, la sfida più impegnativa dei nostri giorni. Con Donati «possiamo dire che una forma sociale è umana in quanto le relazioni sociali di cui consiste sono prodotte da soggetti che si orientano reciprocamente in base a un senso sovrafunzionale»22. Ecco, in una formula stringata, quella che a me sembra la sostanza dell’approccio relazionale. La sua intima intenzione polemica nei confronti del funzionalismo è evidente; direi però che la sua forza sta principalmente proprio nella capacità di utilizzarne in modo diverso l’armamentario concettuale: «L’analisi sociale non è distinguibile da questioni relative a chi agisce; e chi agisce sta dentro e fuori del sistema sociale, ossia il (sistema) sociale può essere considerato ambiente del (soggetto) umano, e viceversa; il confine tra umano e sociale esiste in virtù di questa relazione immanenza/trascendenza dell’umano rispetto al sociale e viceversa del sociale rispetto all’umano»23.

La strategia relazionale non impone alcun rifiuto della contingenza o della complessità in cui consiste il nostro mondo; cerca piuttosto di farsene carico, contrastando però la «radicale indeterminazione nei confini tra umano e non umano», della quale sembrano soffrire non poco le società più avanzate. Tenendo fermo il concetto di persona, quale punto sintetico dell’irripetibile unicità e insieme della costitutiva relazionalità di ciascuno di noi e del sociale nel quale siamo immersi, ne consegue che il problema del rapporto individuo/società non è più concepibile né al modo di certo individualismo falso, secondo il quale esisterebbero soltanto gli individui, essendo la società una pura “astrazione”, né al modo di certo organicismo di tipo marxista o durkheimiano, secondo il quale veramente reale sarebbero soltanto i “rapporti sociali” e “astratti” gli individui, né al modo infine della sociologia sistemica, secondo la quale individuo e società starebbero tra loro in una relazione sistema/ambiente. Se il sociale è relazionale, vuol dire che persona e società stanno tra loro in un rapporto che non è di esclusione, bensì di “immanenza/trascendenza”. Nel sociale c’è sempre anche l’“umano” e viceversa. In questo senso, cosa per niente affatto trascurabile, mi pare che il paradigma relazionale cerchi di far valere anche un’importante istanza normativa, tutta incentrata sulla «qualità umana» di determinate relazioni sociali: «è la qualità delle relazioni che una forma sociale esprime che decide del tipo e del grado di umanità che quella forma sociale contiene rispetto ad un’altra»24.

La normatività insita nella relazione

In un contesto socio-culturale che tende a proclamare la “neutralità etica” come unico criterio capace di garantire il funzionamento equo di una società sempre più pluralista e individualizzata, questa insistenza di Donati sulla qualità umana delle relazioni sociali mi sembra molto importante. Siamo di fronte infatti a una normatività sui generis, che certamente non è compatibile con la neutralità e il relativismo etico oggi imperanti, ma neanche con gran parte delle etiche che vi si contrappongono. Il carattere “normativo” della relazione non va confuso con le virtù morali o con i principi morali dei singoli soggetti in essa coinvolti, né viene calato dall’alto sulle relazione stesse, bensì cercato al loro interno, senza determinismi e nel rispetto della loro autonomia. “La realtà delle relazioni con gli altri ci interroga e ci rende inquieti perché sappiamo che la relazione va per conto proprio, non obbedisce alle intenzioni individuali” ci ha ricordato Donati nella sua relazione. Le relazioni sociali “non sono semplicemente espressione della coscienza delle persone”, né le relazioni sociali e i loro effetti possono essere intese come semplici “prolungamenti” o risultati “dei sentimenti (buoni o cattivi), delle virtù (o dei vizi), dell’intimità (o della estraneazione) delle persone”. Se vogliamo incidere veramente sulla realtà, è tempo, questo un po’ il messaggio, di guardare a ciò che sta “nel mezzo” fra le virtù dei singoli individui; è tempo di valorizzare appunto le virtù sociali, le quali si riferiscono specificamente proprio alle relazioni sociali.

Quanto alla differenza tra virtù personali e virtù sociali, Donati la riferisce alle “diverse modalità con cui la relazionalità viene considerata nell’un caso e nell’altro: nelle virtù personali la persona riflette su sé stessa in relazione al contesto sociale per deliberare sul proprio agire; nel caso delle virtù sociali la persona deve riflettere sui beni (o mali) relazionali in gioco per adeguare ad essi la propria deliberazione interiore”.

Già questa distinzione, da sola, richiederebbe a mio avviso una riflessione a parte. Ciò che in ogni caso mi sembra importante sottolineare è la particolare accezione che il paradigma relazionale conferisce all’agire morale in una società complessa come la nostra, dove, in moltissimi casi, si vedano ad esempio le questioni ecologiche, lo scarto tra la buona volontà individuale e la possibilità di incidere concretamente sulla realtà sta diventando sempre più marcato e preoccupante. A tal proposito, mi pare che Donati ci abbia detto parole piuttosto significative: “La visione umanistica che fa dipendere la realtà sociale dalla retta coscienza e dalla buona volontà delle persone poteva forse avere un riscontro effettivo in certe società del passato, e in astratto potrebbe ancora avere una qualche validità in certi piccoli gruppi sociali in cui fra l’interiorità della persona e le sue relazioni esterne c’è un rapporto di causalità molto stretta, come in una famiglia, sempre a condizione che questa relazione (per esempio famigliare) riesca a controllare in modo molto fermo ed efficace i suoi confini con un ambiente esterno complesso e turbolento. In linea generale, comunque, in una società aperta il rapporto causale fra la soggettività individuale e la forma delle relazioni sociali che essa può generare diventa sempre più lasco e imprevedibile.

Nel nuovo ambiente globalizzato, affinché si possa generare una certa relazione sociale dotata di certe qualità e proprietà causali (per esempio una relazione di vera e propria famiglia), non è solamente necessaria una certa disposizione e agency degli individui, ma diventa altrettanto necessaria un’altra condizione: ossia, che le persone ‘vedano’ il bene specifico di quella relazione, che non è la stessa cosa dei sentimenti e delle virtù individuali, e perseguano quella relazione come ’bene in sé’, a cui dedicare una cura particolare. In mancanza di questa condizione, l’agire individuale, anche il più virtuoso e meglio intenzionato, può generare – seppure non intenzionalmente – un male relazionale anziché un bene relazionale”25.

A coloro che considerano il sociale come un semplice “sistema comportamentale”, avente dinamismi propri di tipo meccanico, sistemico, ma certamente non riconducibili a una “soggettività” di tipo relazionale, Donati contrappone un’idea di società, il cui ethos coincide con quello delle sue relazioni. “Con riferimento ai casi del matrimonio e del lavoro, ossia ai legami che essi implicano, occorre vederli come relazioni sociali (non prestazioni funzionali o scambi o altro ancora) il cui carattere di legame consiste nel complesso dei diritti e dei doveri relazionali che le persone coinvolte hanno non solo verso se stessi come individui, ma anche verso un assetto umanizzante della loro relazione. Il che significa configurare il loro legame come bene, anziché come male relazionale. I diritti relazionali sono diritti personali ad avere relazioni capaci di umanizzazione, quelle che fanno fiorire l’umano26.

In un contesto sociale in cui si esaltano le differenze, in nome di una sorta di pirandellismo allegro, nel quale tutto è ugualmente possibile, eccetto che la possibilità di formulare un giudizio morale, il paradigma relazionale ci ricorda la “dimensione normativa” insita in ogni relazione sociale27. Lo fa inoltre evocando non un astratto “dover essere” della società, bensì un’istanza di umanizzazione, che si realizza nella relazione stessa, nella misura in cui i soggetti coinvolti se ne prendono cura. E questo mi sembra uno dei contributi più interessanti del paradigma relazionale. Sul piano strettamente morale, abbiamo un approccio che, guardando soprattutto al “bene” concreto della relazione, evita non soltanto il relativismo etico imperante, ma anche il dogmatismo di chi ritiene che un qualche “Bene” con la maiuscola possa essere imposto contro la volontà dei diretti interessati. L’imperativo categorico dell’approccio relazionale sembra essere uno soltanto: guarda la relazione e prenditene cura, prenditi cura dell’umano che in essa vive, dei beni relazionali che essa produce, e sappi rifiutare evenuali mali relazionaliLe relazioni non sono eticamente indifferenti. Se siamo capaci di guardarle, ne vediamo anche la diversa consistenza etica, distinguando ad esempio tra una relazione d’amicizia e una relazione mafiosa, oppure tra un coniuge che si prende cura della relazione coniugale e uno che la trascura, incapace persino di vederla.

Sul piano strettamente politico, trovo invece particolarmente importante il fatto che le relazioni non obbediscano alle “intenzioni individuali”. In questo modo, infatti, mi pare che l’approccio relazionale evochi un salutare senso di imprevedibilità e di libertà, che rende difficile concepire l’ordine sociale come il “disegno” di qualcuno, senza tuttavia cadere nel semplice gioco dei sistemi sociali di Luhmann. Per certi versi tale approccio mi fa pensare all’“ordine spontaneo” di von Hayek, ma con un di più di concretezza relazionale, che qui non posso esplicitare e che richiama, da un lato, la volontà di promuovere la realizzazione dei beni relazionali volta a volta in gioco, dall’altro la consapevolezza di essere sempre e comunque “servi inutili” (S. Belardinelli, La comunità liberale. La libertà, il bene comune e la religone nelle società complesse, Studium, Roma 1999.). È in fondo anche questo un segno della matrice teologica della società.

Conclusioni

Sintetizzando quanto sono venuto dicendo finora, a che serve dunque il paradigma relazionale?

Serve anzitutto a vedere ciò che, pur essendo realissimo, non si vede, ossia la relazione che tiene unite persona e società, salvaguardandole nella loro reciproca autonomia.

Serve a vedere la trascendenza della persona e della società, in quanto “soggetti relazionali” (e quindi anche la loro “matrice teologica”).

Serve a costruire una teoria della società alternativa sia alle teorie organicistiche, sia a quelle individualistiche, sia a quelle sistemiche.

Serve a vedere l’“umano” che c’è nel sociale e il sociale che c’è nell’umano.

Serve a vedere la normatività insita nella relazione. Un nuovo realismo etico, certamente alternativo al relativismo e all’emotivismo dominanti, ma anche capace di gettare una luce nuova sul realismo etico tradizionale.

Serve infine a costruire una teoria della società che sia adeguata, ossia capace di descrivere come le cose stanno, ma sia anche critica, ossia capace di denunciare le patologie sociali, senza scadere in cattiva ideologia. Come dice Donati a conclusione del suo ultimo libro, ciò che l’approccio relazionale intende affermare è che “nella società del prossimo futuro, il destino delle persone, sia come singoli individui sia come membri a vario titolo della società (in quanto membri di una organizzazione di lavoro, di una famiglia, di una associazione socile, ecc.), è legato al fatto di riuscire a diventare ‘soggetti relazionali’ ”28.

Bibliografia
S. Belardinelli, La comunità liberale. La libertà, il bene comune e la religone nelle società complesse, (Roma: Studium, 1999).
Idem, La sociologia relazionale e l’idea di persona, in P. Terenzi (a cura di), Percorsi di sociologia relazionale, (Milano: Franco Angeli, 2012), 88-94.
P. Donati, Teoria relazionale della società, (Milano: Franco Angeli, 1991).
Idem, La cittadinanza societaria, (Roma-Bari: Laterza, 1993).
Idem, “Sulla distinzione umano/non umano”, Il mondo, 2, (1994), 158-177.
Idem, “Luoghi ed esplorazioni di una cittadinanza delle persone: dal codice statuale al codice societario”, in A. Pavan (a cura di), Dire persona. Luoghi critici e saggi di applicazione di un’idea, (Bologna: il Mulino, 2003), 359-395.
Idem, “Sociologia della persona e cittadinanza: luoghi ed esplorazioni di una cittadinanza delle persone umane”, Sociologia, a. XXXVII, n. 3, (2003), 23-36.
Idem, “Il lavoro e la persona umana”, La Società, vol. XV, n. 4-5, luglio-ottobre (2005), 575-595.
Idem, “Understanding the Human Person as a Relational Subject: An ‘After’-Modern Paradigm for the Social Sciences (or: The ‘Economy’ of Human Persons Lies on Their Ultimate Concerns)”, in E. Malinvaud, M.A. Glendon (eds.), Conceptualization of the Person in Social Sciences, The Pontifical Academy of Social Sciences, Acta 11, (Vatican City: Vatican City Press, 2006), 284-295.
Idem, Sociologia della relazione, (Bologna: Il Mulino, 2013).
Idem, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015).
Idem, L’enigma della relazione e la matrice teologica della società, nel presente volume.

1P. Donati, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015), 230.

2P. Donati, Understanding the Human Person as a Relational Subject: An ‘After’-Modern Paradigm for the Social Sciences (or: The ‘Economy’ of Human Persons Lies on Their Ultimate Concerns), in E. Malinvaud, M.A. Glendon (eds.), Conceptualization of the Person in Social Sciences, The Pontifical Academy of Social Sciences, Acta 11, (Vatican City: Vatican City Press, 2006), 284-295, 285

3P. Donati, Teoria relazionale della società, (Milano: Franco Angeli, 1991), 27.

4Idem, L’enigma della relazione e la matrice teologica della società. In questo volume, 37-38.

5Idem, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015), 241-242.

6Ibid., 241.

7Ibid., 242.

8Ibid., 242.

9Ibid., 243-244.

10S. Belardinelli, La sociologia relazionale e l’idea di persona, in P. Terenzi (a cura di), Percorsi di sociologia relazionale, (Milano: Franco Angeli, 2012), 88-94.

11P. Donati, Understanding the Human Person as a Relational Subject: An ‘After’-Modern Paradigm for the Social Sciences (or: The ‘Economy’ of Human Persons Lies on Their Ultimate Concerns), in E. Malinvaud, M.A. Glendon (eds.), Conceptualization of the Person in Social Sciences, The Pontifical Academy of Social Sciences, Acta 11, (Vatican City: Vatican City Press, 2006), 284-295, 289.

12P. Donati, Teoria relazionale della società, (Milano: Franco Angeli, 1991), 28.

13Ibid., 508.

14Ibid., 75.

15Ibid., 511.

16Ibid., 68.

17Idem, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015), 99.

18P. Donati, La cittadinanza societaria, (Roma-Bari: Laterza, 1993); P. Donati, “Luoghi ed esplorazioni di una cittadinanza delle persone: dal codice statuale al codice societario”, in A. Pavan (a cura di), Dire persona. Luoghi critici e saggi di applicazione di un’idea, (Bologna: il Mulino, 2003), 359-395; P. Donati, “Sociologia della persona e cittadinanza: luoghi ed esplorazioni di una cittadinanza delle persone umane”, Sociologia, a. XXXVII, n. 3, (2003): 23-36; P. Donati, “Il lavoro e la persona umana”, La Società, vol. XV, n. 4-5, luglio-ottobre (2005): 575-595.

19P. Donati, “Luoghi ed esplorazioni di una cittadinanza delle persone: dal codice statuale al codice societario”, in A. Pavan (a cura di), Dire persona. Luoghi critici e saggi di applicazione di un’idea, (Bologna: il Mulino, 2003), 359-395, 362-363.

20Ibid., 391.

21Idem, “Sulla distinzione umano/non umano”, Il mondo, 2, (1994), 158-177, 170.

22Ibid., 171.

23Ibid., 173.

24Ibid., 172.

25Idem, L’enigma della relazione e la matrice teologica della società, in questo volume, p. 29.

26Idem, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015), 211

27Idem, Sociologia della relazione, (Bologna: Il Mulino, 2013).

28Idem, L’enigma della relazione, (Milano: Mimesis, 2015), 227-228