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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Abuso di autorità e obbedienza cristiana

Ángel Rodríguez Luño

Pontificia Università della Santa Croce (Roma)

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Il testo è diviso in due parti. Nella prima si offrono alcune considerazioni sui delitti da una prospettiva vicina alla criminologia. La seconda invece è di indole teologica.

Parte I

Il tema che affrontiamo è molto complesso, ha mille risvolti e può essere studiato da molti punti di vista. Lo spazio che ho a disposizione mi consentirà di trattare unicamente due o tre questioni che mi sembrano più rilevanti. Questioni dottrinali generali riguardanti il fondamento e la natura della potestà sacra nella Chiesa vengono presupposte.

La drammatica esperienza degli abusi, emersi in questi ultimi anni, ha generato sfiducia, e ha sollevato una riflessione che si interroga sull’esercizio dell’autorità nella Chiesa.

La riflessione giuridica e soprattutto teologica sugli abusi ha un limite metodologico che conviene tener presente. Ogni riflessione è in qualche modo condizionata dall’esperienza che viene presa come punto di partenza. In termini generali la riflessione teologica sempre prende lo spunto dall’esperienza di fede. All’interno di questa esperienza è possibile tuttavia partire da alcuni aspetti particolari, si tratti di fatti della storia della Chiesa, di esperienze spirituali di un santo o di una realtà ecclesiale antica o nuova, di controversie teologiche, ecc. La riflessione sugli abusi presenta una difficoltà particolare. Non è difficile capire che è molto problematico voler elaborare una teoria della personalità sulla base della sola esperienza di soggetti schizofrenici e psicotici, così come sarebbe rischioso studiare il matrimonio unicamente dalla prospettiva del fallimento matrimoniale. Si potrebbe arrivare alla conclusione che la cosa migliore sia eliminare l’istituto matrimoniale. Tolto il matrimonio, tolti i fallimenti. Prendere come punto di partenza la terribile realtà degli abusi, può portare a pensare che la potestà sacra è fondamentalmente un rischio o persino una fonte di abusi, modo di vedere che sarebbe un grande e ingiustificabile errore. D’altra parte però gli abusi ci sono stati, e quindi una riflessione su di essi è necessaria. Sarà compito nostro realizzarla con equilibrio e completezza, evitando di assolutizzare prospettive che, pur essendo vere, sono parziali.

Personalmente sono perplesso sulla convenienza di concentrare l’attenzione sull’idea di relazione asimmetrica. Due sono le ragioni di questa mia perplessità. La prima è che la maggior parte dei rapporti di collaborazione sociale sono da qualche punto di vista asimmetrici. Rapporti di collaborazione sociale assolutamente simmetrici, cioè simmetrici da ogni possibile punto di vista, ce ne sono pochi, e forse non c’è neppure uno. L’asimmetria è presente nella Chiesa, nel matrimonio, nella famiglia, nell’università, nella politica, nell’esercito, nel mondo dell’imprenditoria e del lavoro, nel mondo dello sport e dello spettacolo, e persino nei rapporti tra amici, dove frequentemente il fatto di stare assieme una personalità forte e dominante con altre più deboli o insicure crea evidenti asimmetrie. Parlare di perversione di una relazione asimmetrica è parlare di perversione di un rapporto di collaborazione sociale e, alla fine, è parlare semplicemente di perversione. È scontato che ogni perversione comporta un contesto sociale che la rende possibile, vantaggiosa e poco rischiosa per il delinquente, così come ogni contesto sociale ha delle proprie caratteristiche che rendono più o meno gravi, e più o meno nocive, le perversioni.

La seconda ragione procede da una prospettiva criminologica (cfr. Van den Haag 1975, 80 ss.). Sappiamo che esistono diverse scuole di criminologia, e alcune privilegiano l’approccio neuro-biologico; altre, l’approccio psicologico o psichiatrico; altre, l’approccio sociologico, in corrispondenza più o meno stretta con le idee che si hanno circa le cause dei delitti. A me sembra più ragionevole l’opinione di coloro che ritengono che nel delitto confluiscono una molteplicità di elementi e circostanze, alcuni di indole intra-personale, altri di ordine strutturale e sociale, oppure culturale o economico. Sono pertanto del parere che il problema degli abusi deve essere affrontato da una prospettiva interdisciplinare, e che concentrare l’attenzione sulle relazioni asimmetriche o sui cosiddetti aspetti sistemici presupponga, non so su quale fondamento, un approccio criminologico esclusivamente o prevalentemente socio-strutturale. A mio avviso, determinati contesti relazionali o sociali possono essere solo uno degli elementi da prendere in considerazione.

Assumendo una prospettiva multidisciplinare, è possibile distinguere due tipi di delinquenti o, nel nostro caso, di abusatori.

1) Il primo tipo sarebbe costituito da coloro che sono spinti a delinquere da consistenti forze intra-personali, ragione per la quale rischiano di delinquere nella maggioranza delle situazioni in cui vengano a trovarsi.

2) Al secondo tipo apparterrebbero coloro che dal punto di vista caratteriale non sono più predisposti a delinquere delle persone che non commettono delitti, ma si sono venuti a trovare in una situazione nella quale una persona “media” potrebbe aver commesso il delitto, e quindi si può considerare che in questo secondo tipo il delitto risponde per la maggior parte ad uno stimolo esterno. In questo secondo tipo ci saranno alcuni soggetti per i quali, in una situazione determinata, il delitto risponde ad una valutazione “razionale” in termini di vantaggi e costi: la situazione in cui si trovano consente di ottenere dei vantaggi con un livello di rischio per loro basso o molto basso; e ci saranno altri soggetti per i quali, invece, il delitto potrebbe essere considerato come una reazione di fronte a una situazione che ha qualcosa di estremo o eccezionale.

Per completezza occorre aggiungere che sicuramente alcuni abusatori si trovano a metà strada tra il primo e il secondo tipo, cioè hanno dei fattori interni che li spingono verso il crimine e trovano una circostanza favorevole per commetterlo.

Queste considerazioni mi sembrano rilevanti da diversi punti di vista. È chiaro, per esempio, che per gli appartenenti al primo tipo (persone spinte da forze intra-personali) occorre una pena che miri anche all’incapacitazione (cioè, a mettere la persona in condizioni di non poter ripetere il delitto) e se possibile alla riabilitazione, per la quale sarebbe utile poter disporre di una buona diagnosi circa le cause1. Per coloro del secondo tipo la pena può avere soprattutto una motivazione retributiva e di deterrenza. Adesso mi interessa dire però che c’è un nutrito gruppo di abusatori che sono spinti all’abuso da forti istanze intra-personali. Anche se vengono stabilite regole, misure di prevenzione, concezioni e strutture che riducano entro il possibile l’asimmetria della relazione, ecc., questo tipo di abusatori non le rispetteranno e abuseranno comunque. A ciò si deve aggiungere, guardando le cose dall’altra parte, che anche le persone più fragili tendono facilmente a non rispettare le misure di prudenza e di prevenzione, ragione per la quale le misure di prevenzione non saranno efficaci qualora entrino in relazione due persone che, per motivazioni differenti, tendono a non rispettarle, talvolta senza avvertire, almeno inizialmente, la pericolosità del rapporto instauratosi. Infine, il solo aumento delle regole corre il rischio di finire per distruggere i normali rapporti di fiducia, senza riuscire a eliminare però gli abusi.

Questo porta il nostro ragionamento a tre considerazioni ulteriori. La prima riguarda l’etiologia degli impulsi che portano verso il delitto. La questione è troppo ampia e difficile, e qui non è possibile affrontarla. Il fatto che io abbia iniziato i miei studi universitari nel 1968 mi porta ad attribuire notevole importanza ai mutamenti culturali, morali e sociali avvenuti in quegli anni. Per dirlo brevemente: quando in una società si propongono alcuni fini come fini che tutti dovrebbero raggiungere, senza che tali fini possano essere da tutti raggiungibili, coloro che non possono raggiungerli per mezzi leciti, o almeno “normali”, si possono sentire spinti a ottenerli mediante comportamenti perversi e abusivi. Non è da stupirsi che in una società fortemente erotizzata e assetata di potere si verifichino abusi sessuali e di potere2, anche in ambito ecclesiale. Ma certamente sarebbe necessario un discorso più ampio, che qui non può essere fatto, sull’epidemia di ansia e di solitudine, che colpisce anche persone impegnate in istituzioni ecclesiali.

La seconda considerazione, riferendomi adesso agli ambienti ecclesiali, è che la prevenzione richiede certi provvedimenti prudenziali, ma soprattutto un’accurata selezione dei candidati al sacerdozio, che a sua volta presuppone una profonda conoscenza delle persone. La paura di essere invadenti, oppure di essere accusati di abuso di potere o di coscienza, nonché altre giuste disposizioni sul foro interno, possono rendere di fatto più difficile la conoscenza approfondita delle persone che aspirano al sacerdozio o alla vita religiosa. La circostanza, che certi comportamenti ritenuti invadenti o troppo autoritari siano stati attribuiti a realtà ecclesiali non proprio “liberali”, può rispondere ad un modo non appropriato da parte di queste realtà ecclesiali di assicurare l’idoneità delle persone che eserciteranno un compito pastorale. Con questo non approvo e non critico nulla. Mi limito a dire come, a mio avviso, stanno andando le cose.

Un altro capitolo è il problema dell’insufficiente vigilanza e trasparenza avuta in passato, così come quello della mancata attenzione verso le vittime. Non ho nulla da aggiungere a quanto si è scritto sull’argomento. Siamo tutti ben consapevoli degli errori commessi.

La terza considerazione riguarda il ruolo fondamentale che dovrebbe svolgere un’adeguata formazione sia da parte del clero e dei membri degli istituti di vita consacrata, sia da parte dei fedeli che sono oggetto della cura pastorale dei primi. Questo è un punto molto importante sul quale vorrei soffermarmi con maggiore attenzione, dando così inizio alla seconda parte del mio intervento, che sarà di carattere teologico.

Parte II

A mio avviso il punto centrale di tutta la problematica è l’adeguata e profonda comprensione della natura e del valore della libertà cristiana, indispensabile anche per capire correttamente la natura e l’ambito dell’obbedienza, sia dell’obbedienza in senso stretto che il suddito deve al superiore gerarchico, sia della disponibilità del fedele nei confronti dell’accompagnatore spirituale o del leader carismatico.

Ogni buon cristiano, e più ancora se si tratta di un sacerdote o di una persona appartenente ad un istituto religioso o ad un movimento ecclesiale, ha sempre presenti le parole di San Paolo: «abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Il cristiano vuole essere alter Christus, sapendo che Cristo dice che il suo cibo è fare la volontà di colui che lo ha mandato e compiere la sua opera (cfr. Gv 4,34). La coscienza e la libertà di Cristo sono una coscienza e una libertà filiali, tutte protese verso la volontà del Padre. Anche la coscienza e la libertà del cristiano sono coscienza e libertà filiali, che hanno il loro cibo nella volontà del Padre, che amano e compiono liberamente. Si agisce liberamente quando si fa ciò che si ama. L’amore non può non essere libero.

L’essenza della libertà non sta nella capacità di scegliere tra corsi alternativi di azione. Molte volte c’è questa possibilità di scelta. Ma essa non è l’essenziale. Dice il Concilio Vaticano II che la libertà «è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina» (Gaudium et spes, 17), il che presuppone che Dio è libero in se stesso, e non solo in quanto Creatore. Dio è Amore (cfr. 1 Gv 4,8) e l’amore non può non essere libero. I beati in Cielo amano e sono liberi, e non sono in situazione di dover scegliere tra diversi corsi di azione. E anche Cristo è libero, pur sentendosi vincolato alla volontà del Padre. La libertà è essenzialmente libertà di adesione, di autonoma affermazione del bene perché è buono, e non per altri motivi. Mi sembra che in questo senso diceva sant’Anselmo che la libertà è «potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem» (De libertate arbitrii, III; ed. Schmitt, I, 212).

Il rapporto tra la libertà del cristiano e la volontà del Padre si realizza in buona parte attraverso una mediazione umana, che risponde al carattere sacramentale dell’economia salvifica. È la mediazione della Chiesa, e di coloro che nella Chiesa hanno una legittima autorità o un ruolo di accompagnamento, partecipando questi ultimi del munus sanctificandi.

Questa mediazione è una vera mediazione, vale a dire, qualcosa che sta nel mezzo, e che pertanto non può sostituirsi a nessuno dei due estremi della relazione: né a Dio né alla coscienza personale. Nessuno può porsi come se fosse la bocca di Dio né come padrone della coscienza altrui, e a nessuno è lecito abdicare alla propria capacità di decisione e alla propria responsabilità davanti a Dio. L’obbedienza non è un rimedio per le personalità insicure.

Il punto che devono tener presente, sia chi governa o accompagna, sia chi obbedisce o è accompagnato, è che l’obbedienza cristiana è in fondo un’obbedienza libera: si obbedisce o ascolta perché e nella misura in cui si cerca e si ama la volontà del Padre, e l’amore non può non essere libero, così come nessuno rinuncia alla sua libertà quando fa ciò che ama. L’obbedienza non sostituisce la libertà del figlio di Dio. D’altra parte, il rapporto alla volontà del Padre vincola ugualmente chi accompagna e chi è accompagnato. Tutti e due amano la volontà del Padre e vogliono eseguirla autonomamente.

A mio avviso punto fondamentale della formazione che devono avere tutti i fedeli, sia chi svolge un compito pastorale sia colui a cui si rivolge l’azione pastorale, è capire come e perché si governa o si accompagna, e come e perché si obbedisce o si ascolta. Il “come” si riferisce alla modalità che in ogni caso va osservata, che richiede grande attenzione e grande tatto.

Enumero de seguito, senza pretese di esaustività, alcuni punti che tutti dovrebbero tener presenti, sia i governanti e gli accompagnatori, sia i sudditi e coloro che vengono accompagnati. Mi riferirò pertanto sia a questioni di governo che a questioni legate all’accompagnamento spirituale.

Agire con il proposito di compiere la volontà del Padre richiede muoversi sempre entro l’ambito della dottrina cattolica e delle leggi generali della Chiesa, entro l’ambito definito dalle Costituzioni, Regolamenti e altri documenti approvati che delimitano l’area della missione vocazionalmente assunta. Andare oltre è arbitrarietà e comporta la lesione della legittima libertà dei fedeli. E ogni fedele dovrebbe essere in grado di allontanarsi, energicamente se necessario, da chi esercita arbitrariamente l’autorità o il ruolo di accompagnatore3.

Il vero accompagnatore spirituale ama la libertà di coloro che a lui si rivolgono e perciò la rispetta sempre. Il suo compito non è di governo, né di controllo, né di dominio, e neppure di ottenere certi risultati ad ogni costo. Consiste piuttosto nell’aiutare, nella misura in cui è possibile e gli viene richiesto, perché chi a lui si rivolge voglia liberamente unirsi a Cristo discernendo e compiendo la volontà del Padre per lui. Dovrà aver cura che l’adesione alla volontà di Dio sia un’adesione autonoma o, con le parole di sant’Anselmo prima citate, all’accompagnatore spirituale interessa che l’accompagnato eserciti «il potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa» e non per altro motivo, né interno né esterno, e in ogni caso mai per coazione fisica o morale.

In questo senso, è a mio avviso un errore giudicare una persona o una realtà ecclesiale guardando soltanto la materialità di ciò che si fa. Forme molto radicali di vivere la povertà o l’obbedienza possono essere vissute in perfetta libertà interiore oppure in un contesto di coazione morale (facendo pensare, per esempio, che se non si fa così ci si colloca in uno stato di inimicizia con Dio meritevole dell’inferno). E in modo analogo forme più larghe e flessibili ‒ e in qualche caso addirittura lasse ‒ di vivere la povertà o l’obbedienza possono essere ugualmente vissute con piena libertà interiore o in un clima di coazione. Talvolta si impone il “bene”4, e talvolta e forse più spesso si impone il male, ma né il bene né il male comportano di per sé l’imposizione autoritaria.

Personalmente sono anche perplesso sull’idea che aprire la propria coscienza ad un altro comporti un aumento della vulnerabilità che ciascuno può avere per natura o per particolari caratteristiche personali. Dipende dal clima di amore e di rispetto della libertà o di mancanza di amore per la libertà in cui tale atto si svolge. In ogni caso, l’essenziale è la libertà, ben sapendo che si agisce liberamente quando si fa ciò che si ama. Se il fuoco dell’amore si spegne, si può aiutare perché si riaccenda, ma né la coazione, né il lassismo, né il silenzio sono la soluzione. Se non si riesce ad amare, non resta altra via che cambiare lo stile di vita. Se ciò sia un bene o un male non sempre è facile da sapere, e in ogni caso sarà Dio a giudicarlo.

Passando alle questioni di governo, l’amore per la libertà porterà generalmente ad ascoltare la persona o le persone coinvolte prima di prendere una decisione nei loro confronti, fra l’altro perché ci sono informazioni e circostanze che solo le persone interessate conoscono. E se si tratta di controversie, occorre sentire tutte le parti in causa: sentire le due campane.

Tranne casi veramente eccezionali e per motivazioni ben comprovate, occorre uno scrupoloso rispetto delle procedure stabilite, che sono una garanzia per tutti. Il Codice di Diritto Canonico stabilisce chiaramente che, tranne alcuni pochi casi ben determinati, i Vescovi non possono dispensare delle leggi processuali e penali (Codice di Diritto Canonico, can. 87). Occorre altresì molta attenzione prima di procedere ad una deroga, così anche per quanto riguarda il principio dell’irretroattività delle leggi (Codice di Diritto Canonico, cann. 9 e 1313), peraltro sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (Dichiarazione universale dei diritti umani, 10-XII-1948, Art. 11, 2)5. Infine, sarebbe buono non dimenticare le parole del governatore romano riportate dagli Atti degli Apostoli: «i Romani non usano consegnare una persona, prima che l’accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall’accusa» (At 25,16).

Probabilmente ci saranno altre questioni, che verranno trattate dagli altri contributi pubblicati in questo stesso volume. A me sembra che se in qualcosa siamo in difetto è nella cultura della libertà. Questo difetto c’è senz’altro nelle persone che per la loro fragilità interiore non riescono a vivere con libertà interiore gli impegni assunti all’interno di istituzioni ecclesiali. Ma temo che il problema sia molto più ampio e che abbia radici teologiche più profonde. Occorrerebbe capire fino in fondo che la comunione con Dio alla quale siamo destinati, richiede necessariamente che la libertà che Dio ci ha dato, benché sia finita, è una vera libertà, che Dio rispetta completamente, e che anche colui che intende aiutare gli altri in nome di Dio deve rispettare in modo assoluto6.

Bibliografia

Codice di Diritto Canonico. https://www.vatican.va/archive/cod-iuris-canonici/cic_index_it.html.

Concilio Vaticano II. Gaudium et spes. 7 dicembre 1965. https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html.

Di Noto, Fortunato. “Abuso sessuale di bambini (pedofilia).” In Enciclopedia di bioetica e sessuologia, a cura di Giovanni Russo, 7-12. Torino: ELLEDICI-Velar-CIC Edizioni Internazionali 2004.

Rodríguez Luño, Angel. “La libertà. Fondamenti teologici e scelte temporali”. https://www.eticaepolitica.net/eticafondamentale/ConfUrioLiberta.pdf

Van den Haag, Ernest. Punishing Criminals. Concerning a Very Old and Painful Question. New York: Basic Books, 1975.


1 Tenendo presente l’importanza degli elementi di indole intra-personale, anche in ordine alla diagnosi e alla riabilitazione, mi lascia molto perplesso che l’ordinamento canonico consideri gli abusi su minorenni come una sola fattispecie. A mio avviso, dal punto di vista psicologico e criminologico gli abusi su bambini che non hanno raggiunto la pubertà e gli abusi su adolescenti post-puberi, che tuttavia non hanno raggiunto i 18 anni, sono cose molto differenti.

2 Anche se qui mi sto riferendo soprattutto agli abusi di autorità, che non riguardano solo i minorenni, meriterebbero un’attenta considerazione alcuni elementi culturali e politici attuali. Come scrive F. Di Noto, «una forma di “abuso sessuale culturale” è la “pedofilia culturale”, una sorta di ideologia che, fortemente strutturata, sta facendo passare il concetto che è “orientamento, tendenza, diritto inalienabile dell’uomo”, nel vivere relazioni “affettive e d’amore con i bambini, da parte di adulti”. Non a caso l’Associazione Psichiatrica Americana e rami della scuola europea (in particolare l’inglese Richard Green) e italiana ritengono che la pedofilia debba essere cancellata dall’elenco delle disfunzioni mentali e che gli stessi argomenti che hanno giustificato la cancellazione dal DSM dell’omosessualità valgono anche per la pedofilia». Di Noto (2004), 7. Altrettanto illustrativa della tendenza culturale a cui mi riferisco è la pagina web della North American Man/Boy Love Association (www.nambla.org), oppure le dichiarazioni di un ministro dell’attuale governo spagnolo sul diritto dei bambini ad avere esperienze sessuali con chi vogliono loro: https://www.eldebate.com/espana/20221111/irene-montero-insiste-ninos-ninas-les-nines-tienen-derecho-saber-pueden-tener-sexo-quien-quieran_72066.html (consultato il 22 maggio 2023).

3 Un discorso specifico sarebbe necessario per quanto riguarda i bambini piccoli, nei confronti dei quali mi sembra che si dovrebbe parlare di violenza e di inganno più che di un abuso di autorità in senso proprio.

4 Lo metto tra virgolette perché mi sembra di poter dire che il bene imposto in modo autoritario e irrispettoso non è che una forma di male. Maggiore è tuttavia la negatività dell’imposizione autoritaria del male.

5 «Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso».

6 Mi sono occupato del problema della libertà finita nel mio saggio La libertà. Fondamenti teologici e scelte temporali, in https://www.eticaepolitica.net/eticafondamentale/ConfUrioLiberta.pdf.