Ror Studies Series | Autorità e mediazione
Le relazioni asimmetriche nella Chiesa nel contesto socio-culturale contemporaneo
Cecilia Costa
Università degli Studi Roma Tre
«Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Mc 1,22)
e subito si ribadisce «Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: Chi è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità» (Mc 1,27).
1. Alcune premesse
Nel riflettere sulle relazioni asimmetriche, rispetto alle dinamiche interne ed esterne alla Chiesa, è necessario partire dalla specificità del contesto storico-culturale nel quale si inseriscono. Altresì, non possono essere sottovalutati alcuni problemi di natura macro-sociologica e micro-sociologica, che sono tra loro trasversalmente correlati e che esercitano una profonda influenza sulle forme relazionali, determinandone i loro assestamenti, le loro evoluzioni e le loro diverse modificazioni. Nello specifico delle relazioni asimmetriche nella Chiesa, bisogna anche ricordare che l’istituzione-Chiesa ha una sua tipologia precisa di gerarchia, di organizzazione e di esercizio dell’autorità: un esercizio di autorità, quest’ultimo, che non può essere democratico, ma partecipativo e sinodale. Forse uno degli esempi emblematici di simmetria relazionale nella Chiesa, in armonia con i necessari principi di autorevolezza e di gerarchia, è stata la professione di fede di Paolo VI (1968), da lui voluta in una forma personale per non dare l’impressione di essere alla testa dei cattolici, ma di essere «uno di loro, il primo di loro» (Paolo VI 2012). Una professione, quella di papa Montini, che ricorda molto da vicino una posizione espressa da Sant’Agostino: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano».
Ancora, nell’argomentare di relazioni simmetriche-asimmetriche, bisogna tener conto di alcune altre premesse. In prima istanza, non si può trascurare il fatto che il Cristianesimo, più di ogni altra religione, «vive nella storia ed è vulnerabile alla storia» (Riccardi 2021, 123) e che la stessa Chiesa è disposta al crocevia della storia umana. La Chiesa, infatti, non si presenta come altro rispetto all’umanità, ma è una realtà in movimento per andare “incontro”, come recita il Proemio della Gaudium et spes, «alle gioie, alle speranze, alle tristezze, alle angosce», degli uomini e alla «sbalorditiva novità del tempo moderno» (Paolo VI 1964, n. 99). Questa nuova rotta dinamica, inaugurata dal Vaticano II, trova sintonia con la visione di papa Francesco di una «Chiesa libera e liberante» (Papa Francesco, Omelia, messa per il 60° anniversario dell’inizio del Concilio), pronta a porsi agli incroci delle strade del mondo, che ha come sua “dimensione costitutiva” la sinodalità (Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio). È un approccio, questo, di riforma, che coinvolge la Curia, le Istituzioni Ecclesiastiche, le Accademie Pontificie, la mentalità nei confronti delle donne e che intende valorizzare il sensus fidei di tutti i battezzati, coinvolgendoli nell’esperienza sinodale della Chiesa.
Sempre in premessa, come emerge dalle ricerche sociologiche sul fenomeno religioso, non si può mettere tra parentesi il fatto che la Chiesa-apparato, da un lato, viene considerata «come l’unica autorità spirituale degna di rispetto» (cfr. Garelli 2020). Dall’altro lato, invece, si registra un indebolimento del suo modello dogmatico-istituzionale, in parte determinato da alcuni scandali avvenuti negli ultimi anni. Un elemento particolarmente significativo, registrato nelle recenti indagini, è la differente percezione riservata alla Chiesa rispetto alle categorie di religione e di Papa, in quanto la Chiesa-istituzione viene spesso interpretata come il “territorio” delle imposizioni e appare quasi ostativa all’azione innovativa del Papa e al poter sperimentare soggettivamente la fede (cfr. Costa 2020).
In un approccio sociologico, è necessario ancora soffermarsi brevemente sul concetto di relazione: a partire dal presupposto che qualsiasi tipo di essa non è mai indifferenziato, simmetrico, bensì è collegato al potere (secondo Luhmann) e ha bisogno di struttura e di gerarchia per poter svolgere − se serve − una funzione normativa (Eherenberger 2010; Han 2019).
Agli esordi della sociologia, Simmel ha sottolineato che la società esiste solo come cristallizzazione delle interazioni reciproche tra individui (Simmel 1983), che contengono al loro interno una disparità di elementi formali contrastanti, da quelli di subordinazione e sovraordinazione a quelli di cooperazione e conflitto. A suo avviso, la sedimentazione delle formazioni sociali e il “fluire della vita” erano determinate dall’interdipendenza delle relazioni umane e dal modo in cui esse si stabilizzano o si modificano nei differenti periodi della storia. Nella modernità, Simmel coglieva la trasformazione delle forme essenziali delle relazioni, perché la combinazione di alcune variabili, − ad iniziare dall’adozione del denaro, simbolo dello “spirito moderno” della calcolabilità, dell’impersonalità, e principale strumento relazionale (Simmel 1984) −, tendeva a modificarle, depotenziando la loro intensità e sfaldando i vincoli di comunità, di appartenenza, di coesione (cfr. Simmel 2007). Per inciso, Simmel considerava il fenomeno religioso come la più semplice e la più complessa delle forme delle interazioni e come l’elemento che dava slancio alle relazioni, costituiva il collante e l’organizzazione normativa della vita collettiva (Simmel 1994; Martelli 1991).
Nella teoria di Bourdieu, attenta ai meccanismi che appartengono all’esercizio del potere, lo spazio sociale è stato inteso come una struttura relazionale, perché ogni posizione soggettiva si sostanzia solo in rapporto con la posizione degli altri (cfr. Bourdieu 2001). Dal canto suo, oggi, Donati afferma che la società è un’articolata relazione sociale a matrice teologica, nella quale si intrecciano differenti componenti: oggettive e soggettive, naturali e soprannaturali (cfr. Donati 2010).
In ultimo, come premessa e sempre in una prospettiva sociologica, si deve considerare un aspetto peculiare della cosiddetta complessità moderna (già enucleato da Simmel, Durkheim e, successivamente, da Parsons): ossia, l’incremento esponenziale delle “relazioni di interdipendenza” tra tutti gli elementi del sistema sociale1. In sostanza, per un “effetto di reciprocità” (Wechselwirkung), ogni evento, azione e altro ente possono essere definiti soltanto nei termini dei loro rapporti e della rete dei legami che essi hanno con altri fenomeni (cfr. Simmel 1984). Questo stesso criterio teorico-metodologico di interdipendenza, − tradotto nella connessione di tutto con tutti e nell’interrelazionalità tra ogni ambito, da quello socio-istituzionale, antropologico-culturale, a quello ambientale −, rappresenta anche uno dei punti cardine della Laudato sì, tanto che in un suo passaggio si legge: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme» (Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 48); così come «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati ampi» (Francesco 2023).
L’attenzione all’intreccio funzionale, − a volte anche disfunzionale −, tra i sistemi sociali in generale, tra ogni dato minimo interno ad essi, la trama culturale, l’agire “dotato di senso” dei soggetti, la dimensione religiosa e lo stesso ruolo pubblico della Chiesa, è stata una costante della speculazione sociologica. Ancor più di prima, oggi, il ricorso teorico al concetto di interdipendenza, che curva la speculazione sociologica al confronto con altri domini del sapere, aiuta a comprendere «tutti i livelli, tutti gli aspetti strutturali, tutti i piani di profondità» (Gurvitch 1965, 11) e le varie modificazioni della realtà sociale. In sostanza, la «causazione riflettente a specchio» (Simmel 2020, XV) del moltiplicarsi delle interazioni è un valido presupposto interpretativo per cogliere le scambievoli influenze tra fenomeni differenti e può consentire la penetrazione delle problematiche inerenti alla odierna configurazione delle relazioni simmetriche-asimmetriche, della mediazione e dell’autorità.
2. Le influenze delle attuali dinamiche storiche, socio-individuali, sulla trama culturale e sulla forma delle relazioni
In base alle premesse sopracitate, al principio di interdipendenza e al nesso che lega tutte le dinamiche sociali − non per ultime quelle relazionali − con il contesto culturale in cui sono calate, vanno anche considerate le attuali variabili di cambiamento che le influenzano, le “perfomano”, a volte le “deformano”, tra le quali: lo squilibrio tra «intelligenza pratica e le esigenze della coscienza morale» (Gaudium et spes, n. 8); un’assenza di ordine gerarchico dei valori che si traduce in un orizzontalismo politeistico e disincantato di essi (cfr. Dal Lago 1994); la sostituzione della determinazione sociale con l’autodeterminazione (cfr. Gehlen 2010) e la difficoltà di “conservare” la dimensione religiosa all’interno della Chiesa-apparato (pur se l’afflato spirituale persiste nonostante ogni “illuminismo”) (Simmel 2022, 55).
Queste stesse variabili tendono a causare non solo macro-sconvolgimenti, ma anche una sequenza di micro-mutamenti culturali, spirituali, esperienziali, relazionali, che provocano, a loro volta, una serie di “riduzioni” delle aree e delle proprietà semantiche di fondamentali categorie del pensiero e dell’azione. Per esempio, la verità si risolve nelle opzioni personali e dal livello oggettivo-universale viene trasferita a quello soggettivo-particolare; la libertà è spesso fatta coincidere con le inclinazioni soggettive; il sociale si diluisce nell’individuale; il reale è assorbito dalla plasticità del virtuale; la ragione si atrofizza nella razionalità tecnico-pratica; il sapere si frantuma nei saperi parcellizzati (cfr. Costa 2021, 15-21). A queste meno vistose, − ma pervasive −, modificazioni si deve sommare l’odierno affidamento della “salvezza” alla scienza, la quale può riuscire, certo, a dominare tecnicamente il mondo, però, non è in grado di indicare quali scopi debbono esser perseguiti, perché al suo sapere tecnico non corrisponde una cifra etica o “una maggiore conoscenza” del significato profondo del divenire dell’esistenza (cfr. Durkheim 2008; Weber 2008). Del resto, proprio nella nostra epoca di “quarta rivoluzione”, si avverte in modo ancor più accentuato, rispetto al passato, la frattura fra il “il mondo delle scienze” e il “mondo della vita” (cfr. Donati, Malo, Maspero 2016).
Inoltre, come evidenziato da Berger, si deve tener presente il fenomeno emergente del pluralismo dei pluralismi, che sovrasta il mero multiculturalismo, perché riguarda l’affidamento ai mondi vitali soggettivi della costruzione di senso della realtà (cfr. Berger 2017). Si può ancora dire che le dimensioni etico esistenziali del vivere «sono sempre più delegate nella sostanza alla spontanea elaborazione teorica e pratica del singolo» (Sequeri 2012, 30). Non a caso, lo stesso Berger ha rivisitato la teoria della secolarizzazione, − che per lungo tempo è stata usata per segnalare ogni modificazione e la parabola discendente del religioso a favore delle istanze della modernità, della razionalità e della tecnica −, perché ormai ritenuta discutibile e satura. In ugual misura, molti altri studiosi hanno messo in discussione la tesi della «intima relazione fra razionalità e modernità» (Habermas, Il discorso filosofico della modernità, 5) e l’equazione: più modernità meno religione, più modernizzazione più secolarizzazione (cfr. Berzano, Castegnaro, Pace 2014; Diotallevi 2014; Habermas, Ratzinger 2005).
Attualmente, sulla scorta delle posizioni di Berger, si tende ad adottare, al posto dell’abusata formula della secolarizzazione, il paradigma del pluralismo, in quanto più adeguato ad interpretare l’insorgere attuale di processi contraddittori, ambivalenti, contrastanti, dagli esiti e presupposti ancora non chiari. Infatti, gli esiti del perenne divenire della post-modernità sono imponderabili perché, se nella fase “solida” della modernità c’era ancora una possibilità di controllo e definizione del futuro, la nostra stagione della “modernità liquida” si delinea come una fase storica fragile, perennemente incompiuta, indefinita, incerta, effimera e informe, nella quale non si riescono ad immaginare quali assunti, strutture e scenari saranno “liquefatti”, sostituiti o conservati (cfr. Bauman 2011).
Tra i molti fattori che stanno conducendo a una metamorfosi culturale (cfr. Beck 2016) va aggiunto il linguaggio digitale, che non rappresenta uno strumento comunicativo neutro perché produce una molteplicità di effetti collaterali, come la de-materializzazione delle relazioni in connessioni. Questo transito dalla relazione alla connessione virtuale non è privo di conseguenze, perché vengono rimossi dall’interazione e dalla comunicazione il corpo, il metalinguaggio, la vicinanza fisico-empatica (Costa 2017, 235-254), e tali rimozioni tendono a separare più che ad unire (cfr. Bauman 2014), a far perdere la possibilità di comprendere le emozioni proprie e altrui, «il senso della parola dell’altro, le sue idee, la sua visione del mondo» (cfr. Morin 2015). Peraltro, il digitale non soltanto trasforma la natura, forma, la qualità, delle relazioni, ma tende a cambiare gli equilibri comunitari, a modificare e travolgere le antiche simmetrie tra: spazio sociale-concreto e spazio-astratto; pubblico e privato; razionalità e emotività; soggetto, la sua interiorità e gli altri; psiche e tecnica; consumo e comunicazione; conoscenza e informazione; linguaggio e pensiero; potere e legittimazione; mediazione ed esercizio dell’autorità (cfr. Viganò 2020).
In sostanza, secondo Beck, si sta assistendo ad una “trasfigurazione” storico-antropologica, non ad un semplice cambiamento. È una “trasfigurazione” che coinvolge il tessuto culturale, le istituzioni, la libertà, l’identità, la relazione, la formazione, la comunicazione, l’autorità, la mediazione. È un profondo mutamento che dal generale istituzionale penetra nella vita ordinaria delle persone e non avanza solo attraverso vistosi strappi percepiti, ma nasconde modificazioni impercettibili che riducono la densità degli orizzonti di significato, della coscienza, della riflessione, della percezione, della sensibilità, dell’introspezione.
3. Alcune corrispondenze teoriche interdisciplinari
Oggi, dunque, si è in presenza di una rapida mutazione, − a causa, o in virtù, della globalizzazione, della frammentazione culturali, dell’invasione del linguaggio digitale e dell’intelligenza artificiale −, che ridefinisce, o destruttura, ogni piano della realtà, ogni equilibrio, ogni codice di senso, ogni categoria o variabile del sociale. L’accelerazione delle trasformazioni, l’incremento delle interdipendenze tra gli elementi sociali e il moltiplicarsi delle correlazioni pertinenti tra fattori e ambiti differenti, − da quelli comunicativo-relazionali a quelli normativo-istituzionali −, obbligano a rendere contigue le diverse discipline, richiedono l’apertura a nuove soluzioni teorico-metodologiche e l’ibridazione tra conoscenze dissimili (cfr. Costa 2021, 113-128). C’è l’esigenza di «ripensare le scienze da un punto di vista che non pretenda di unificarle riconducendole ad unum, ma che si propone di trovare la loro unità in una reciproca relazionalità entro la quale esse possano dialogare in modo fecondo» (cfr. Donati, Malo, Maspero 2016, 11). Insomma, si rende necessaria, secondo papa Francesco, una fermentazione di tutti i saperi (Francesco, Veritatis gaudium).
Per questo motivo è stata molto positiva l’apertura di un confronto interdisciplinare nel seminario Autorità e mediazione: le relazioni asimmetriche nella Chiesa. In questo dialogo tra discipline differenti, è stato importante che siano emerse delle possibili corrispondenze teoriche su alcune tematiche, a cominciare dall’importanza attribuita alle ricadute culturali su ogni sfera del sociale.
Per esempio, nel suo intervento, Jordi Bertomeu Farnós ha evidenziato quanto le radici culturali di ogni società configurano il senso del diritto. In una cultura «segnata da relativismo, secolarismo e positivismo, in un contesto di pragmatismo ed efficientismo», sempre ad avviso di Jordi Bertomeu, si impone il seguente interrogativo: «se il diritto sia un semplice complesso normativo che regola la vita quotidiana, frutto di un accordo (quid iuris), oppure una dimensione essenziale dell’uomo, perché risposta al senso della vita e del suo fine (quid ius)». Queste sue riflessioni si accordano con due dati sociologici: il primo dato, che riguarda tanto il diritto canonico quanto la sociologia, è la constatazione dell’effetto di reciprocità tra cultura e diritto, fino al punto che le istanze culturali non solo possono incidere sul diritto, ma possono “snaturarne” la sua intima essenza. Il secondo dato da considerare − che ancora una volta abbraccia le prospettive sia del diritto canonico sia della sociologia − è la centralità attribuita al diritto. Infatti, Weber, uno dei padri fondatori del pensiero sociologico, riteneva il diritto il punto di partenza di analisi comparative e genetiche della società: a suo avviso, più il diritto era sviluppato e più erano sviluppate le società. Queste coincidenze speculative tra diritto-canonico e sociologia sfidano entrambi i due ambiti disciplinari e li sollecitano a porsi degli interrogativi congiunti, tra i quali: come cercare di far emergere le cause e concause della riduzione del diritto a solo complesso normativo? Attraverso dei percorsi interdisciplinari come poter riportare al centro del dibattito intellettuale la riscoperta della densità del diritto? Come tentare di far riemergere il suo status di dimensione essenziale dell’uomo perché risposta al senso della vita e del suo fine?
Nel discutere su Potere e autorità, delitto e peccato, anche Ángel Rodríguez Luño ha sottolineato il fatto che gli abusi nella Chiesa non sono da attribuire solo alle relazioni asimmetriche, ma piuttosto al fatto che gli impulsi delittuosi vengono in parte generati «dai mutamenti culturali, morali e sociali». Quando in una società, afferma Ángel Rodríguez Luño, «si propongono alcuni fini come fini che tutti dovrebbero raggiungere, senza che tali fini possano essere da tutti raggiungibili, coloro che non possono raggiungerli per mezzi leciti, o almeno normali, si possono sentire spinti a ottenerli mediante comportamenti perversi e abusivi». Questa sua argomentazione si avvicina molto alla teoria di Merton, che vedeva alla base degli atteggiamenti devianti la non corrispondenza tra fini proposti da una società e mezzi legittimi utilizzabili per raggiungere tali fini. Così come l’incidenza assegnata ai cambiamenti culturali sui comportamenti abusivi riflette una tesi sociologica che evidenzia quanto la “conversione” dalla stabilità ordinata in dinamicità disordinata, propria della nostra modernità avanzata, stia accelerando la “corsa” verso l’anomia e provocando, come già denunciava Durkheim, una distorsione delle «disposizioni dello spirito e della volontà».
Nella sua articolata esposizione sull’esercizio del potere come mediazione nella Chiesa. Riflessioni dall’ambito della comunicazione, Jordi Pujol ha evidenziato, tra l’altro, la crisi di legittimità che ha colpito gli apparati istituzionali pubblici e privati. A questo proposito, molta letteratura sociologica ha denunciato la perdita della “aura di sacralità” delle istituzioni, che non riescono più a svolgere il loro ruolo e la loro funzione di intermediari tra l’ambiente e i soggetti, tra il sociale e la sfera intima individuale (cfr. Giaccardi, Magatti 2005), perché l’autodeterminazione e l’autoriflessività sostituiscono i dettati verticistici e i codici sovra-determinati. In questo caso, le domande che provocano, a vario titolo, gli studiosi dei diversi domini del sapere, a cominciare da coloro che si occupano di comunicazione, potrebbero essere le seguenti: come riattivare la necessaria funzione di mediazione delle istituzioni tra l’ambiente e i soggetti? Come, in che modo, con quali linguaggi, con quali modelli formativi e comunicativi si può tentare di sanare la crisi di legittimità istituzionale e, quindi, arrestare il processo di de-istituzionalizzazione e di disintermediazione?
Paul O’Callaghan, nelle sue riflessioni su Mediazioni e libertà: l’incontro tra Dio e la coscienza, invece, si è soffermato sulle due “polarità omologhe” di coscienza e mediazione. Nell’ottica sociologica, attualmente, queste due polarità sono molto controverse. Il concetto di mediazione è indebolito a tutti i livelli, da quelli educativi a quelli istituzionali e spirituali, e sta lasciando il posto alla nuova situazione di disintermediazione e ciò si riflette sullo stile di vita, sulle scelte, sulla maturità delle persone. La stessa composizione della coscienza, − intesa come “nucleo segreto” in cui si sperimenta la «chiamata a compiere il bene» (Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 9) e in cui si dovrebbe continuamente elaborare una riflessione sui propri atti e pensieri −, risente dell’odierna problematica costruzione della forma interna dell’individuo.
Per non parlare, poi, della dialettica che dovrebbe avvenire all’interno della coscienza tra la libertà e l’autorità. A suo tempo Ratzinger aveva indicato la verità come elemento di composizione, di controllo e di mediazione tra le forze esistenziali antagoniste della libertà e della negazione dell’autorità (cfr. Benedetto XVI 2009). Oggi, però, proprio il concetto di verità è quanto mai dibattuto, perché non solo non si pretende più «di possedere la verità», ma si rinuncia anche a cercare o a scoprire la verità (cfr. Horkheimer 1982). In definitiva, quasi nessuno desidera trovare una verità unica o un’unica verità, piuttosto ognuno vive in «uno straordinario ecumenismo delle minoranze, che vale sia per il mondo circostante cui decide di appartenere sia per quel che concerne il suo cosmo interiore» (Matteo 2021, 36).
La coscienza, dunque, risulta essere sempre più condizionata, − pur se non determinata interamente −, dai processi di destrutturazione, scomposizione, ricomposizione, degli universi di significato e dal disancoramento dalla verità. Non a caso, rispetto al passato, si configurano personalità “del fai da te”, a bassa definizione, flessibili, decentrate, inclini alla continua rinegoziazione delle regole, delle norme, degli ideali, dei valori, delle credenze e, data la discrezionalità delle opzioni possibili, pressate a dover sopportare i rischi delle loro decisioni spesso prive di un baricentro etico (cfr. Beck 2000). Più che condurre verso un’autonomia interiore, l’incessante rinegoziazione e l’autodeterminazione producono identità ansiose di conferme e di riconoscimento, mosse da desideri senza oggetto (cfr. Pulcini 2001), che non riuscendo ad attribuire peso a ciò che dentro di loro è più profondo, sono votate a «rendere omaggio a ciò che è più superficiale» (Newman 2008, XLVIII). In questo controverso e flessibile scenario identitario, anche l’etica della responsabilità si scolora nell’autoreferenzialità e l’esaltazione dell’io, come sostiene Donati, prevale sulla relazione.
A proposito di coscienza, in base a quanto detto e in un dialogo epistemologico aperto, la teologia e la sociologia potrebbero tentare di vagliare insieme alcuni interrogativi, tra i quali: in presenza di forme relazionali sempre più frammentate, disincarnate, istantanee e di identità “liquide” come aiutare, soprattutto le nuove generazioni, ad assumere l’atteggiamento interiore del saper riconoscere, interpretare e scegliere (Sinodo dei Vescovi 2018)? Come far riemergere nelle coscienze contemporanee, affascinate dalla superficialità del particolare e dal rapido scorrere degli eventi, «pensieri e percezioni, che nascono dalla riflessione e dalla contemplazione» (Carr 2011, 262)? Come promuovere, nel tempo del “frastuono”, l’abitudine a restare in “silenzio”, che rappresenta il clima interiore fondamentale per la crescita spirituale e intellettuale delle coscienze (cfr. Costa e Fabene 2021)? Come far ricordare agli uomini di oggi che la coscienza è il “luogo” in cui si incontrano «l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio» (Benedetto XVI 2009)?
4. Conclusioni
Nella nostra civiltà votata alla mutabilità permanente, le dinamiche culturali trasformative si riflettono, modificandoli, sull’ordine istituzionale, sul paradigma relazionale, sulle legature sociali, sulla struttura dell’io storico (non sulla qualità costante ed essenziale di tutti gli esseri umani). Nel nostro periodo segnato dal vortice tecno-scientifico, dalla messa tra parentesi delle garanzie tradizionali e dalla sacralizzazione del sé, però, al contrario degli effetti attesi di liberazione collettiva e di emancipazione individuale, si sta manifestando, oltre allo sfilacciamento del tessuto comunitario, soprattutto una “crisi del soggetto” e della relazionalità. Infatti, il nostro tempo dell’individualismo, dell’enfasi sul consumo (ormai inteso come categoria esistenziale più che economica), della connessione globale, della fretta e dell’efficienza tecnocratica, per un’eterogenesi dei fini, sembra favorire eccessi di burocratizzazione, strutture sociali e relazionali anomiche, configurazioni di personalità destrutturate, vulnerabili e incerte.
Se è vero che la nostra epoca, da un lato, ha potenziato il progresso scientifico, tecnologico-comunicativo e, per questo la Chiesa «perfino gode riconoscendo l’enorme potenziale che Dio ha dato alla mente umana» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 243). Dall’altro lato, ha modificato, se non travolto, i codici consolidati, le forme tradizionali della convivenza, della formazione, dell’organizzazione, della comunicazione, dell’esperienza, della percezione, della costruzione del sé e della relazione.
Si è in un momento epocale descritto da Mannheim in questo modo:
a volte il corso della storia avanza per una strada dritta e senza ostacoli, altre volte esso deve invece fare una svolta brusca. Sulla piana strada maestra non è necessario che poca o punta manovra di guida, né v’è bisogno di consultare la mappa: ma al momento della brusca sterzata è necessaria una guida accurata e vigile per evitare che il prezioso carico di tradizione, di cultura e di beni materiali venga rovesciato. Ai bivi della storia, noi dobbiamo cercare di riorientarci, consultare la mappa e chiederci: dove portano queste strade, dove vogliamo andare? (Mannheim 1969, 26)
Se dal punto di vista laico si è data questa interpretazione di “svolta brusca” della storia; da un punto di vista teologico, invece, la nostra stagione è stata metaforicamente riassunta in un breve racconto che narra di un certo Gianni, il quale:
per maggior comodità, si era messo a scambiare il suo mucchio d’oro, che gli risultava troppo pesante e faticoso, con una serie di altre cose: dapprima un cavallo, poi una mucca, indi un’oca, e infine con una cote per affilare, che terminò per gettare in acqua senza nemmeno perderci molto tempo; anzi, ciò che ora ne aveva ottenuto in cambio era il dono della piena libertà da lui tanto agognata (Benedetto XVI 2007, 25).
Questa “storiella” sembra suggerire che il gettare via il patrimonio del passato − il “mucchio d’oro” −, perché considerato un peso inutile, più che rendere tutti leggeri e svincolati dalla costrizione delle regole, può compromettere proprio la libertà, la capacità di comprendere il senso del mondo e le ragioni profonde dell’esistenza. Inoltre, il disfarsi del “peso” della memoria può “alterare lo stato della società” e provocare una generale destabilizzazione di sistema. Però, nella nostra condizione di interregno (direbbe Bauman), nonostante sia in atto questa svolta brusca della storia e nonostante si voglia fare a meno del “carico” della tradizione − situazioni e decisioni che sembrerebbero archiviare parametri, principi, coordinate, universi simbolico-valoriali precedenti a favore di un’emancipazione dai residui del passato (cfr. Taylor 2009) −, si evidenzia, quasi a frenare queste spinte disgregatrici, una sovrapposizione, addizione, compresenza, di istanze tradizionali e postmoderne. Si colgono una giustapposizione e una singolare coabitazione di antinomie culturali: arcaico e tecnologico; sacro e profano; razionalità e “culto dell’emozione”; sacralizzazione del sé e ricerca di “beni relazionali”; globalizzazione e attrazione verso “mondi chiusi”; autoreferenzialità e bisogno di figure carismatiche; indifferenza e “nostalgia” del mistero; post-cristianesimo e neoreligiosità; ateismo esistenziale e fascinazione verso ogni sorta di miracolo e mito.
Solo all’interno di questo complesso scenario socio-culturale − nel quale le opposte spiegazioni e «tutte le versioni galleggiano, per così dire, con la stessa gravità specifica» (Bauman 2010, 202), in cui l’innovazione tecnologica è sempre più rilevante, ma sono travolte le antiche architetture del pensiero e le tradizionali strutture di plausibilità − si può sviluppare una riflessione su: autorità, mediazione, relazioni simmetriche/asimmetriche, abusi sessuali e spirituali nella Chiesa.
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1 Simmel, ma anche Durkheim, avevano individuato due connotazioni determinanti della complessità socio-sociale: «la prima riguarda l’aumento del numero e della varietà degli elementi del sistema, mentre la seconda riguarda la moltiplicazione delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi». Sciolla (2002).