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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

La formazione umana come prevenzione. Personalità dell’accompagnatore e dell’accompagnato

Francisco Insa

Pontificia Università della Santa Croce (Roma)

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1. Dall’utopia alla formazione dell’affettività

Gran parte della pressione sociale ed ecclesiale per la prevenzione degli abusi si sta indirizzando verso una maggiore trasparenza nelle denunce e pene più severe. Queste misure mirano a dissuadere chi sta pensando di commettere questi crimini e a evitare la recidiva, ma hanno lo svantaggio di arrivare troppo tardi: quando il seme dell’abuso è già stato almeno seminato nel cuore o nella mente di quella persona, o addirittura quando l’ha già commesso. Siamo tutti d’accordo che la prevenzione dovrebbe iniziare molto prima. La domanda è: dove? E soprattutto: come?

Immaginiamo un mondo in cui le persone investite di autorità abbiano un equilibrio psicologico tale da non provare l’impulso di dominare, manipolare o abusare di nessuno. A tal punto che, se lo provassero, ne sarebbero consapevoli e in grado di autoregolarsi e di chiedere aiuto.

Immaginiamo un mondo in cui le persone fossero così sicure di sé da chiedersi se una direttiva ricevuta dall’autorità sia adeguata, da esprimere i propri dubbi e, se convinti che quella richiesta non fosse compatibile con la morale cristiana, da essere capaci di rifiutarla.

“Questo può accadere solo sull’isola di Utopia”, potrebbe dire qualche scettico. Certo, il peccato – sia originale che personale – sarà sempre presente su questa terra, sia all’interno che all’esterno della Chiesa e delle sue istituzioni. Ma noi possiamo riuscire a dare alle persone un bagaglio formativo che le aiuti a gestire le situazioni ora menzionate. Questo è ciò che si propone la formazione dell’affettività1.

L’affettività può essere definita come la reazione interiore – sotto forma di sentimenti, emozioni e passioni – che nasce in una persona quando interagisce con se stessa, con gli altri e con il mondo. Tale interazione suscita sensazioni piacevoli o spiacevoli che la porteranno a cercare o a evitare quella determinata relazione.

A prima vista si potrebbe obiettare che ci troviamo nel regno della soggettività, al di là del dominio della nostra volontà. Tuttavia, la sensibilità può e deve essere educata: Amedeo Cencini afferma che «ognuno è responsabile della propria sensibilità, se l’è costruita e continua a costruirsela con le proprie scelte d’ogni giorno. In termini ancor più diretti e un po’ crudi: ognuno ha la sensibilità che si merita» (cfr. Cencini 2022, 211).

In questo capitolo svilupperemo alcuni aspetti dell’affettività che sono fonte di possibili abusi: un cuore fuorviato o una personalità immatura. Discuteremo prima gli aspetti che riguardano le persone investite di autorità e poi offriremo alcuni suggerimenti per rendere le persone in formazione (e tutti noi siamo sempre in formazione) più resistenti a eventuali proposte inappropriate.

Ci concentreremo quindi sulla dimensione umana della formazione. Ovviamente questa dimensione deve essere integrata in una solida vita di pietà e deve contare sull’azione della grazia. Ma non possiamo farci illusioni: come dice Tommaso d’Aquino, «la grazia presuppone la natura» (Tommaso d’Aquino, Summa di teologia, I, q. 2, art. 2, ad 1), e «la grazia non distrugge la natura, ma anzi la perfeziona» (Ibidem, I, q. 1, a. 8, ad 2). Prima viene la natura – la maturità umana e l’equilibrio psicologico – e su questo fondamento lo Spirito Santo agirà per costruire la santità. Se il fondamento venisse meno, rimarrebbe una natura danneggiata o malata sebbene elevata al piano soprannaturale; una tale persona potrà raggiungere la santità, ma manterrà una ferita che in qualsiasi momento potrà aprirsi e sanguinare. Anche una persona malata di cancro può raggiungere la santità, offrire le sue sofferenze e persino chiedere la guarigione. Dio può concederla… il che sarebbe un miracolo. I miracoli esistono, perché Lui è il Signore della creazione, ma di solito conta su di noi per fornire i mezzi umani per la guarigione: andare da un medico, prendere medicine, sottoporsi a un’operazione e così via. Nel nostro caso bisogna rivolgersi a un formatore esperto e, se necessario, anche a un professionista della salute mentale.

2. Autorità, servizio e autocontrollo

a) Autorità giuridica e morale

Iniziamo a considerare alcune caratteristiche da promuovere nelle persone investite di autorità. Considererò in questa categoria, senza fare troppe distinzioni, coloro che svolgono funzioni di governo, formazione e accompagnamento spirituale, anche se questi ruoli presentano differenze importanti dal punto di vista canonico in quanto la loro sfera di competenza è diversa (foro esterno nei primi due casi e ambito della coscienza nel secondo). Il motivo di questo paragone è che mi riferirò all’autorità in senso lato, cioè non limitata al fatto di occupare un ufficio, ma comprendente anche l’autorità morale di chi svolge compiti di formazione, accompagnamento spirituale, catechesi, ecc.

Di solito i beneficiari di questa autorità (gli accompagnati) tendono a mostrare fiducia e a seguirne i consigli, poiché danno per scontato che insegnerà e chiederà loro qualcosa che li aiuterà a crescere. Si trovano inoltre in una relazione di asimmetria, che sarà maggiore se si tratta di minori, giovani in fase di discernimento o nei primi anni di vocazione, persone che attraversano fasi difficili della vita, ecc. In tutti questi casi si tratta di persone più o meno vulnerabili2. Vale la pena ricordare che dallo scoppio della crisi degli abusi all’inizio di questo millennio, la Chiesa ha ampliato la sua attenzione dalla “prevenzione degli abusi sessuali sui minori” alla “protezione delle persone vulnerabili da ogni forma di abuso”. Lo stesso concetto di “abuso” è stato esteso ad altri ambiti, perché, come ha ricordato Papa Francesco,

è difficile comprendere il fenomeno degli abusi sessuali sui minori senza la considerazione del potere, in quanto essi sono sempre la conseguenza dell’abuso di potere, lo sfruttamento di una posizione di inferiorità dell’indifeso abusato che permette la manipolazione della sua coscienza e della sua fragilità psicologica e fisica (Francesco, Discorso al termine dell’incontro “La protezione dei minori nella Chiesa” e Lettera al Popolo di Dio che è in cammino in Cile).

Quando parleremo di abuso, quindi, non includiamo solo l’abuso sessuale, ma anche quello psicologico, spirituale e di coscienza (cfr. Haüselmann, Insa 2023, 42-55).

Parlando delle sue prime esperienze come formatore in seminario, un giovane sacerdote mi disse che una delle cose che lo colpì di più fu che i seminaristi erano sempre disposti a fare tutto ciò che lui suggeriva, dall’essere più puntuali nello studio all’andare al supermercato per comprargli un oggetto personale. Ed erano felici di farlo, di solito senza fare alcuna distinzione tra il rispetto delle regole, il fargli un favore… o il lasciarsi manipolare per i suoi comodi. Questo giovane prete aveva scoperto cosa significa avere autorità morale sugli altri.

Penso che la maggior parte dei piani di formazione al sacerdozio e alla vita consacrata non preparino i soggetti ad esercitare l’autorità. Forse in quei programmi la parola “governare” viene troppo rapidamente sostituita da “servire”, sulla base del fatto che in Cristo «servire equivale a regnare» (cfr. Lumen gentium, 36; Catechismo della Chiesa Cattolica, 786). Questo è certamente vero, ma è anche vero che governare implica l’esercizio dell’autorità, il comando, e che i sudditi devono obbedire. D’altra parte, l’espressione “direzione spirituale”, che ha una lunga tradizione nella vita della Chiesa, è stata erroneamente interpretata da alcuni come equivalente a “governare” e non a “guidare, orientare e accompagnare”. La conseguenza è, da un lato, un’indebita confusione tra foro interno ed esterno (cfr. Francesco, Discorso ai partecipanti al 30° Corso di Diritto Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica) e, dall’altro, che il direttore spirituale può presentare le sue raccomandazioni come mandati di governo quando invece sono solo suggerimenti che la persona interessata deve sentirsi libera di accettare o meno.

Insomma, per evitare l’abuso di potere bisognerebbe avvertire coloro che sono chiamati ad assumere ruoli di accompagnamento che avranno almeno un’autorità morale che dovranno gestire in modo tale che sia un servizio alle anime e non un modo per compensare la propria immaturità, le proprie carenze affettive, i complessi di inferiorità, ecc. Questo ci riporta alla formazione dell’affettività.

b) Le personalità a rischio nell’accompagnatore

Il fatto di essere obbediti produce una sensazione piacevole, una sorta di “iniezione di narcisismo” che porterà a replicare la situazione. Se la persona che esercita l’autorità ha una bassa autostima e ha bisogno (di solito inconsciamente) di essere apprezzata, lodata, seguita… può perdere di vista il bene della persona che ha di fronte e cercare semplicemente una gratificazione narcisistica. Questo porta a un circolo vizioso che tende a perpetuarsi.

Diversi autori hanno messo in relazione l’abuso con una struttura di personalità narcisistica (cfr. Cucci e Zollner 2010, 37-63). Prima di descriverla però, sembra utile distinguerla da quello che alcuni autori chiamano “tratto narcisistico” o “narcisismo sano”, che sarebbe una caratteristica di personalità che tutti abbiamo e che è addirittura necessaria in quanto legata a un’adeguata valutazione di sé e alla ricerca di un legittimo riconoscimento da parte degli altri (Kohut 1980; Bolognini 2008, 104-111). Tra gli aspetti positivi di questo tratto ci sono la fiducia nelle proprie opinioni (che permette di mantenerle controcorrente quando necessario), la proattività, la capacità di leadership, ecc. Le biografie di molti santi ci mostrano come essi abbiano saputo utilizzare la loro personalità “carismatica” per svolgere la missione affidata loro da Dio, aiutando lo sviluppo umano e spirituale di molte persone. Questo è stato possibile perché – forse lottando contro la spinta del loro carattere – sono stati umili, hanno avuto una sana sfiducia nel proprio giudizio e hanno voluto contare sull’aiuto di altre persone: le persone a loro affidate, i collaboratori nel governo e un direttore spirituale personale.

C’è invece un narcisismo patologico, che il DSM-5 chiama disturbo narcisistico della personalità (cfr. American Psychiatric Association 2014, 775-779). È caratterizzato da un senso esagerato della propria importanza e delle proprie capacità, in cui il soggetto vede come normale che gli altri lo seguano e lo ammirino, e a sua volta non si fa scrupolo di trattarli in modo arrogante e dispotico. Questa apparente grandiosità nasconde però un nucleo molto debole: il narcisista manca di autonomia affettiva, dipende dall’accettazione e dal riconoscimento degli altri. In effetti, tra gli abusatori è stato riscontrato un potenziamento reciproco dei tratti narcisistici e dipendenti (cfr. John Jay College of Criminal Justice 2004, 181, 235-245; The John Jay College Research Team 2011, 21).

Un altro disturbo legato all’abuso è il disturbo antisociale della personalità (cfr. American Psychiatric Association 2014, 763-767), in cui il soggetto disprezza le regole e le persone, che usa e manipola senza provare sensi di colpa o rimorsi. A differenza del narcisista, non cerca lodi o altri benefici se non quello di umiliare, anche direttamente, persone o animali per sentirsi superiore.

Entrambi i disturbi hanno in comune la mancanza di consapevolezza di avere un problema; giustificano e razionalizzano il loro comportamento e pensano di avere il diritto di servirsi degli altri. Spesso questi individui mostrano grandi capacità di leadership e proattività, tanto che a prima vista possono sembrare adatti al governo degli apostolati e delle istituzioni ecclesiastiche. Ma è probabile che questa nomina venga percepita come un riconoscimento del loro valore personale e che rafforzi i loro tratti più disadattivi, portando, a cascata, una serie di problemi.

Prima o poi, la loro mancanza di empatia e di rispetto per i bisogni degli altri diventerà evidente, così come la confusione tra l’adesione alla loro persona (che può degenerare in un “culto della personalità”) e la fedeltà al carisma o all’istituzione. Qualsiasi contestazione di una decisione sarà vista come un’offesa personale o una mancanza di obbedienza o di impegno. Le persone normali finiranno per allontanarsi da loro o addirittura dall’istituzione o dalla Chiesa, oppure li sfideranno, dando luogo a resistenze, dispute, tensioni, triangolazioni, interventi di altri leader, ecc. Solo li seguiranno acriticamente le persone deboli, disposte a far parte della loro cricca. Infine, non è raro che i narcisisti e gli antisociali abbiano anche difficoltà a obbedire, per cui finiranno per generare conflitti con i loro superiori. In breve, queste personalità sono un terreno fertile per l’abuso di potere e di coscienza, che, come abbiamo già visto, sono all’origine dell’abuso sessuale.

Come distinguere tra semplici tratti di personalità e un disturbo patologico che richiederebbe un’attenzione specializzata fin dall’inizio del processo formativo?

La prima caratteristica che può guidarci è l’assenza di sensi di colpa. Per quanto una persona sia esperta, avrà sempre dei difetti e degli errori. Riconoscerli e chiedere perdono, insieme a una genuina intenzione di fare ammenda, sono indice di normalità. Al contrario, l’abuso del meccanismo di difesa della negazione dovrebbe metterci in guardia. La tendenza a giustificare l’ingiustificabile, a razionalizzare il proprio comportamento oggettivamente sbagliato e a ritenere gli altri responsabili dovrebbe metterci in guardia.

In secondo luogo, vi è una caratteristica mancanza di empatia, cioè un’incapacità di mettersi nei panni dell’altro e di capire come si sente (sfruttato, manipolato, insultato, umiliato, ecc.).

Un terzo elemento è la quantità e la qualità delle relazioni che si instaurano, anzitutto con i coetanei. Dovremmo essere attenti davanti a una persona che non ha amici della stessa età (su questo approfondiremo più avanti) o che ricorre alla manipolazione, cioè a forzare la relazione a proprio vantaggio facendo fare o sentire all’altro ciò che non vuole fare o sentire, ad esempio sfruttando le sue virtù o i suoi difetti, mettendolo in una situazione estrema, inducendolo al senso di colpa, facendolo sentire inferiore, ricorrendo al “ricatto emotivo”, ecc. Un altro segnale d’allarme si può percepire se il soggetto chiede agli altri molto più di quanto lui dà: tempo, favori, cedimenti a gusti e opinioni, ecc.

Forse qualche lettore ha individuato questa situazione in una persona che conosce e quindi si chiede: È possibile aiutarla a cambiare dal mio ruolo di governo, formazione o direzione spirituale?

La prima cosa da notare è che il cambiamento è difficile, perché fa parte del disturbo il fatto che il soggetto non sia consapevole di avere un problema. Inoltre, gli obiettivi sono spesso limitati, perché migliorare la personalità non è un compito semplice, e direi che cambiarla completamente è impossibile; per esempio, si può aiutare un introverso a migliorare le sue abilità sociali, ma difficilmente si riuscirà a renderlo una persona veramente estroversa. Infine, le risorse disponibili su questo argomento sono scarse3.

Se si vuole aiutare una persona con queste caratteristiche ci vuole una preparazione (anche in psicologia), molta pazienza e una grande visione soprannaturale.

È necessario un tono fermo ma affettuoso. Non dobbiamo perdere di vista che alla base di questo problema c’è spesso una bassa autostima, spesso legata a ferite biografiche. Finché gli viene dimostrato che è accettato e amato, non avrà bisogno di forzare le relazioni per sentirsi valido. Vale la pena ripetergli che Dio lo ama sempre, così com’è, che lo conosce e (se è il caso) gli ha fatto il dono della vocazione, che ha ancora fiducia in lui… e allo stesso tempo vuole che migliori umanamente e spiritualmente.

Allo stesso tempo, è necessaria una certa distanza emotiva, poiché non di rado il narcisista cercherà di manipolare il suo accompagnatore con lusinghe, minacce, drammatizzazioni, ecc. Ci vuole quindi una sincera capacità di auto-osservazione e di autocontrollo per non cadere nelle reti di una relazione che sarebbe tossica per entrambi.

Abbiamo già sottolineato che non bisogna affidare loro compiti di governo, perché questo rafforzerebbe i loro tratti più disadattivi. Se invece i tratti narcisistici non sembrano patologici e decidiamo di affidargli questi compiti, dovremo accompagnarlo da vicino per guidarlo e correggerlo quando necessario.

L’obiettivo principale con una persona con tratti narcisistici è aiutarla a mettersi nei panni degli altri. Questo richiede un giudizio di realtà che nei casi più gravi può essere fuori dalla portata del soggetto, che risponderà giustificandosi e sfuggendo alle responsabilità. In queste situazioni non è consigliabile intavolare discussioni interminabili, ma limitarsi a spiegare la situazione e a indicare il comportamento che ci si aspetta da lui per non ferire gli altri. Un soggetto con queste caratteristiche ha bisogno di limiti chiari: ci sono obblighi da rispettare e linee da non oltrepassare.

Nel caso in cui superi i limiti, deve sapere che il comportamento inaccettabile ha delle conseguenze: riceverà una punizione proporzionata e coerente che – con una certa flessibilità – sarà mantenuta nonostante le sue promesse di cambiamento. Non dimentichiamo che può usare scuse, pentimento e lacrime come metodo di manipolazione.

È importante essere consapevoli delle triangolazioni con altri leader o fratelli, che potrebbero portare a un’atmosfera di scontro tra chi “lo capisce” e chi “non lo capisce” (chi si lascia sedurre o manipolare e chi no). Una persona con un disturbo della personalità può viziare profondamente l’atmosfera di una comunità.

Se il soggetto non migliora e/o i comportamenti sono chiaramente disadattivi, sarà necessario rivolgersi senza indugio a un professionista della salute mentale. Non sarà facile che la persona accetti di fare trattare un proprio disturbo che non vuole ammettere, quindi potranno essere addotte altre ragioni: migliorare le abilità sociali e le interazioni, alleviare l’ansia o lo stato d’animo, ecc.

Infine, è bene ricordare che anche se accetta di ricevere un aiuto psicologico, avrà comunque bisogno di un accompagnamento spirituale, di un’altra persona che non cercherà di “fare lo psicologo” ma di aiutare la sua crescita umana e l’integrazione – tramite la carità e l’umiltà – dei suoi problemi relazionali nell’identità vocazionale e nella ricerca della santità.

c) L’abuso “in buona fede”

Passiamo a un altro modo errato di esercitare l’autorità, quello di un accompagnatore che invade l’intimità degli accompagnati, li sostituisce nel discernimento e dà loro le decisioni già prese da lui, allo scopo di accelerare la loro crescita, impedirgli di sbagliare, accorciare i tempi, incoraggiarli a prendere una decisione che a lui sembra evidente, ecc. In questo modo però l’accompagnatore non solo sostituisce il ruolo dell’accompagnato ma anche quello di Dio, poiché in un certo senso presume che ciò che lui ha visto (anche nella preghiera) sia la volontà divina per la persona accompagnata. Si tratta di un caso di “clericalismo onnisciente”, un abuso spirituale o di coscienza che non rispetta la libertà dell’interessato, spesso sulla base di una visione idealizzata della figura del sacerdote o dell’accompagnatore.

Apparentemente, chi cade in questi abusi non cerca il proprio tornaconto ma quello dei formandi; eppure, scavando nella sua personalità si scopre spesso che non è del tutto così. Di solito ci troviamo davanti a una persona insicura, dominata dalla paura che gli altri commettano errori, si smarriscano, non perseverino, ecc. e preferisce prendere il controllo della loro vita indicando le strade che ritiene più affidabili per raggiungere un porto sicuro. Ora, sta davvero cercando il bene degli accompagnati, o piuttosto quello proprio, risparmiandosi ogni incertezza? Questo è l’auto-beneficio che, ancora una volta inconsapevolmente, starebbe cercando. Ed è anche il motivo per cui una personalità molto insicura è spesso considerata un grosso handicap per essere un buon formatore.

D’altra parte, da un punto di vista pedagogico, è chiaro che questa sostituzione sarebbe inefficace a medio e lungo termine, poiché non genererebbe soggetti che pensano e decidono, ma meri esecutori di comportamenti dettati loro dall’esterno (cfr. Diéguez 2022). Al contrario, l’apprendimento per tentativi ed errori è uno dei modi più umani e duraturi per scoprire come comportarsi in ogni situazione. Come dice Romano Guardini, «ognuno deve fare le proprie sciocchezze per imparare a non farle più» (Guardini 1992, 37).

Questa pedagogia è stata sempre importante nei processi vocazionali, ma lo è ancora di più nel nostro tempo, in cui i candidati hanno spesso notevoli carenze umane e spirituali. Se la formazione ha sempre richiesto la gradualità di un piano inclinato, forse oggi la pendenza deve essere un po’ meno ripida. In alcuni casi, sarà anche opportuno prolungare gli anni della formazione iniziale o i periodi che precedono l’assunzione degli impegni temporanei o definitivi. D’altra parte, non sarebbe opportuno accettare candidati che non hanno le condizioni minime: sarebbe un tradimento sia dell’individuo che dell’istituzione.

d) Finestre aperte per far entrare e uscire l’aria

«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Questo passo, che introduce nella Genesi la creazione di Eva, può risvegliare in alcune persone una domanda inquietante: “E io, che ho ricevuto la chiamata al celibato, è bene che sia solo, contrariamente a quello che Dio stesso ha voluto per Adamo?”. No, risponderei, non è bene nemmeno che tu sia solo; sarebbe una fonte di problemi.

Il matrimonio è l’ambito più frequente in cui si realizza la chiamata dell’uomo al dono di sé, ed è la via abituale per raggiungere la maturità umana e soprannaturale. Per questo il magistero recente afferma che si tratta di un’autentica vocazione (cfr. Gaudium et spes, 49, 52; Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Familiaris consortio, passim; Francesco, Esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia, 69, 72, 317 ed Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, 14, 141). Tuttavia, non è l’unica via. La persona umana non ha bisogno del matrimonio – o dell’esercizio della funzione sessuale – per svilupparsi pienamente; ciò di cui ha bisogno è un ambiente che gli permetta un’interazione con altre persone dove possa amare e sentirsi amata vivendo il dono di sé. In termini negativi, ciò che impedirebbe un sano sviluppo della persona è l’isolamento.

Si potrebbe obiettare che quasi dall’inizio del cristianesimo ci sono stati eremiti e comunità religiose che vivono un silenzio molto rigoroso anche tra i loro membri. Questo è vero, ma bisogna tener conto di due fattori. Il primo è che questi stili di vita implicano una vocazione specifica che è accompagnata da una grazia corrispondente che, come abbiamo detto, non distrugge la natura, ma anzi la perfeziona. Il secondo, più importante, è che in questi stili di vita c’è un’intensa relazione di amore reciproco, quella che il soggetto ha con Dio. Il silenzio è solo esteriore ed è accompagnato da un dialogo costante e intimo che soddisfa i bisogni relazionali. Questa esperienza porta loro a dire con Santa Teresa: «Dio solo basta» (Teresa di Gesù, poema Nada te turbe). Chi è illuminato dalla luce del sole non ha bisogno di accendere una lampada. Ma questo richiede che chi entra in questo tipo di vita abbia già sviluppato una profonda vita interiore.

Per la maggior parte delle persone celibi – che devono aspirare allo stesso grado di unione con Dio – il bisogno di sentirsi accompagnati è abbondantemente soddisfatto dall’amicizia:

L’astinenza sessuale può diventare a tratti dura da vivere, ma il vero e più grande sacrificio per il celibe è il sacrificio dell’intimità. […] per il celibe, la via dell’intimità è quella dell’amicizia (Faggioni 2019, 166-167).

La capacità relazionale è un ottimo termometro per valutare la maturità affettiva di una persona. Oserei essere più specifico: l’aspetto da valorizzare – e da incoraggiare – è soprattutto la capacità di relazionarsi con i coetanei, con persone della stessa età e a parità di condizioni. Quando vediamo che una persona è in grado di interagire in modo naturale, senza cercare il dominio di o la dipendenza dagli altri, senza rivendicare un’autonomia assoluta né mostrare paura di condividere la propria intimità, possiamo a priori essere rassicurati sulla sua maturità.

Vale la pena soffermarsi sulla solitudine di chi governa. Per il responsabile di una comunità le persone con cui vive non sono “suoi pari”, quindi si troverebbe senza qualcuno con cui condividere gioie, dolori, preoccupazioni, ecc. È vero che esiste sempre la direzione spirituale, che è un aiuto anche dal punto di vista psicologico. L’accompagnamento spirituale, però, ha i limiti di essere asimmetrico (direttore e diretto sono su livelli nettamente diversi), l’interazione non è reciproca (il direttore non condivide la propria intimità nei colloqui) e in un certo senso è istituzionale, nel senso che si esercita in actu, durante i colloqui programmati e definiti come tali. In breve, manca la freschezza, la spontaneità e l’interazione di una conversazione con un amico.

A questo proposito, i superiori dovrebbero essere attenti a coloro a cui è stato affidato un compito di governo, soprattutto se sono ancora giovani, e offrire loro luoghi in cui possano parlare, sfogarsi ed esprimersi con naturalezza, senza la pressione di essere un punto di riferimento per i subordinati. Per queste persone sarà particolarmente utile avere rapporti al di fuori della propria comunità, sia con persone di altre comunità che con persone aliene. Ovviamente, ciò deve avvenire nel rispetto del proprio carisma e in modo da evitare eccezioni allo stile di vita del resto dei confratelli.

Parlando ancora sulle persone che occupano posizioni di responsabilità, un modo per dare espressione concreta allo stile delle “finestre aperte” è quello di evitare il governo unipersonale e di incoraggiare invece uno stile di governo collegiale o sinodale (cfr. Commissione Teologica Internazionale 2018; Coda e Repole 2019; Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi 2021). Anche quando la norma prevede che il capo abbia un’elevata capacità decisionale, la prudenza raccomanda di ascoltare più voci prima di prendere una decisione e, salvo casi specifici e giustificati, di non agire contro il parere della maggioranza. Questo stile, che implica umiltà e una sana sfiducia nella propria opinione, costituisce un limite a possibili personalità narcisistiche ed è il modo migliore per evitare abusi di potere.

Collegata a questo stile di esercizio dell’autorità è la trasparenza, che rende conto delle decisioni (anche a livello economico) alle persone interessate, che in linea di principio saranno tutti i membri della comunità. Questo modo di gestire le istituzioni non solo non mina la fiducia nel leader ma la favorisce, perché fa sì che tutti i membri vedano che sta lavorando in modo appropriato, con precauzione e garanzie. Uno stile paternalistico, invece, infantilizza i membri e apre la porta a un uso improprio dell’autorità e delle risorse finanziarie.

e) Formare i formatori

Non vorrei che quanto detto finora fosse interpretato come se le persone con queste caratteristiche fossero potenziali abusatori e dovessero quindi essere escluse a priori dai compiti di formazione e di governo o addirittura da una eventuale vocazione al sacerdozio o a un’istituzione della Chiesa. Si tratta piuttosto di fare un buon discernimento (che può richiedere una valutazione psicologica) e di aiutarli, tramite la formazione e la direzione spirituale, a maturare umanamente (cfr. Vial 2018, 139-166; Chiclana Actis 2019, 467-504). Questa formazione aiuterà il soggetto a maturare anche nella propria vocazione e a viverla in modo più sereno e libero. In alcuni casi sarà opportuno rimandare l’incorporazione o non affidare loro compiti di responsabilità per il momento, perché nelle loro attuali condizioni psicologiche potrebbero non essere in grado di portarli avanti e potrebbero fare male a loro stessi o alle persone che sono chiamati a servire.

Molte delle situazioni che abbiamo dovuto deplorare negli ultimi anni avevano all’origine carenze emotive di cui il protagonista non era consapevole o non sapeva gestire. La formazione dell’affettività cerca di dare un nome a queste mancanze e di indicare la strada per risolverle.

3. Costruire una personalità solida

Nel numero 43 dell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis, Giovanni Paolo II ha coniato il motto «la formazione umana, fondamento della formazione sacerdotale», che ritengo sia altrettanto valido per altre vocazioni. In questa sezione vedremo alcuni aspetti da rafforzare in coloro che sono in formazione per renderli più resistenti di fronte alle difficoltà della vita e di fronte a possibili richieste inappropriate. Alcune delle caratteristiche che vedremo qui sono applicabili anche agli accompagnatori, a cui abbiamo fatto riferimento nella sezione precedente, e viceversa.

a) Amare se stessi

Abbiamo detto sopra che una personalità forte messa al servizio di Dio è uno strumento nella missione evangelizzatrice, particolarmente necessario quando si lavora in un ambiente avverso. In effetti, l’umiltà non va confusa con la pusillanimità, come mostra C. S. Lewis in una delle sue Lettere di Berlicche. Il maestro dei diavoli scrive al suo giovane apprendista:

Bisogna perciò che tu nasconda al paziente il vero scopo dell’Umiltà. Non deve ritenerla dimenticanza di sé, ma una certa opinione (cioè una bassa opinione) dei suoi talenti e del suo carattere. Mi pare che alcuni talenti li abbia davvero. Piantagli in mente l’idea che l’umiltà consiste nello sforzarsi di credere che quei talenti valgono meno di quanto egli crede che valgano. Senza dubbio è vero che di fatto valgono meno di quanto crede, ma ciò non ha importanza. Ha invece importanza fargli valutare un’opinione per un aspetto diverso dalla verità, introducendo in tal modo un elemento di disonestà e di pretesa nel cuore di ciò che altrimenti minaccia di diventare una virtù. Con questo metodo migliaia di uomini sono stati indotti a pensare che l’umiltà significa donne carine che si sforzano di credersi brutte e uomini intelligenti che si sforzano di credersi sciocchi (Lewis 2012, 58).

Santa Teresa di Gesù scriveva che «l’umiltà è camminare nella verità» (Teresa di Gesù, Il castello interiore, VI, 10). E la verità è che tutti noi abbiamo ricevuto molti talenti – ad esempio la nostra vocazione – che dobbiamo riconoscere per metterli al servizio del Signore. A volte incontriamo persone che si definiscono così umili da rifiutare come una cattiva tentazione l’idea di avere dei talenti e si accontentano di una vita mediocre. Forse non ne hanno ricevuti dieci, ma di certo non ne hanno ricevuto uno. Temo che quando sarà chiesto loro di regolare i conti (cfr. Mt 25,14-30) diranno con soddisfazione: “un talento mi hai dato, ecco l’altro che ho guadagnato”; ma il Signore farà loro capire che gliene aveva dati cinque e che si aspettava un frutto molto maggiore.

Questa conoscenza sarà di grande utilità per lo stesso discernimento vocazionale, come ha ricordato Papa Francesco:

Quando si tratta di discernere la propria vocazione, è necessario porsi varie domande. […] io conosco me stesso, al di là delle apparenze e delle mie sensazioni? So che cosa dà gioia al mio cuore e che cosa lo intristisce? Quali sono i miei punti di forza e i miei punti deboli? […] Ne seguono altre molto realistiche: ho le capacità necessarie per prestare quel servizio? Oppure, potrei acquisirle e svilupparle? (Francesco, Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, 285).

In questo modo, si eviteranno gli estremi della bassa autostima (ignoranza dei punti di forza) e del narcisismo (ignoranza di ciò che deve ancora essere migliorato). L’idoneità alla vocazione non significa impeccabilità in nessun senso: né morale, né affettivo, né caratteriale. Significa avere capacità che dovranno sempre essere sviluppate. Ma per avanzare è necessario sapere dove sono e dove devo andare.

b) La vulnerabilità si chiama dipendenza

La mancanza di autostima porta alla ricerca di surrogati. Il narcisista umilia gli altri e forma una corte di ammiratori, ma un’altra via d’uscita è cercare la protezione di un altro, il che ci porta alla personalità dipendente. Se il primo può facilmente cadere in comportamenti abusivi, il secondo è un terreno fertile per essere abusato.

Il DSM-5 caratterizza il disturbo dipendente di personalità come un comportamento caratterizzato dalla sottomissione (American Psychiatric Association 2014, 675-678). Il soggetto sperimenta una grande insicurezza che lo porta a evitare di prendere decisioni, preferendo delegare ad altri la responsabilità (anche per questioni personali importanti), oppure cerca insistentemente conferma alle proprie scelte. Si sente incapace di prendersi cura di sé e soffre di un bisogno esagerato di essere accudito, protetto e sostenuto, mentre la sua paura più grande è quella di essere abbandonato. Quando viene lasciato solo, si sente disagiato e impotente, e per evitarlo è disposto a rinunciare alla propria dignità: fa cose che non gli piacciono, si lascia sfruttare, non esprime il proprio dissenso e rinuncia ai propri diritti.

Quanto detto sopra sulla necessità di rapporti paritari, cioè in condizioni di uguaglianza e con persone della stessa età, vale anche per le persone in formazione. È quindi necessario prestare attenzione alle persone che mostrano difficoltà a interagire con gli altri, che tendono a stabilire rapporti di sottomissione o di dominio, che manipolano gli altri, che appaiono assorbenti o dispotici, ecc. La diade formata da un soggetto con personalità narcisistica e un altro dipendente deve destare particolare preoccupazione, in quanto si completano a vicenda nei loro aspetti più patologici e possono dar luogo a relazioni dannose per entrambi.

Vale la pena di considerare il concetto di “amicizie particolari”. Nella sua accezione negativa classica, l’espressione non si riferisce a una semplice affinità tra due persone che si riflette in un certo trattamento preferenziale; questo è naturale e non va quindi impedito a priori. Ciò che va evitato è un rapporto esclusivo e chiuso, soprattutto quando scade nella critica e nella maldicenza o porta all’omissione di obblighi. Santa Teresa ne aveva chiaramente preannunciato il pericolo:

Qui il demonio tende ogni sorta d’ insidie […]. Credo che questo difetto si riscontri più fra le donne che fra gli uomini. E assai gravi sono i danni che ridondano nella comunità. Ne viene infatti che non si amino tutte egualmente, e che si sentano tutte le mancanze di attenzione di cui è vittima l’amica. Frattanto si desidera di aver sempre qualche cosa da regalarle, si cerca ogni motivo di parlare con lei: spesso per dirle che la si ama, ed altre simili sciocchezze, non già per parlarle dell’amore che si deve a Dio. È assai raro, infatti, che queste grandi amicizie siano ordinate ad infiammarsi vicendevolmente nell’amore di Dio! (Teresa di Gesù, La via della perfezione, IV, 5-6).

Un’altra situazione delicata è quella di chi nasconde le proprie difficoltà relazionali avvicinandosi a persone molto più anziane o più giovani, con le quali trova accoglienza molto più facilmente che tra i coetanei. Sarebbe il caso di chi si impegna nella pastorale con bambini o adolescenti (di solito più deboli, sottomessi e acritici) ma non riesce ad avere un dialogo con un coetaneo, probabilmente cercando sicurezza. Purtroppo questo non lo aiuterà a risolvere i problemi, ma li renderà cronici. È stato dimostrato che la mancanza di relazioni con i coetanei è uno dei fattori più frequenti tra gli abusatori (cfr. Cucci e Zollner 2010).

In termini positivi, la capacità di stabilire rapporti di autentica amicizia con i propri coetanei – tra i fratelli in vocazione, tra i destinatari della pastorale e tra coloro con cui ci si confronta nelle molteplici circostanze della vita – è una manifestazione di maturità e un modo per sviluppare in modo sano la propria personalità. Sarà quindi un fattore protettivo non solo contro gli abusi, ma anche contro altre false vie di fuga nei momenti di difficoltà.

c) Primato della coscienza e assertività

Un certo formatore era solito dire ai suoi giovani studenti: “se in questa istituzione vedete qualcosa che non è perfetto, congratulazioni: significa che avete una capacità di giudizio”. La Chiesa (e ogni sua parte, come le istituzioni) è fondata sull’Incarnazione del Signore, sull’unione dell’umano con il divino. Ma a differenza di Gesù Cristo, la componente umana su questa terra non è mai perfetta, quindi non si può affermare che un’istituzione o i suoi membri (né i suoi leader) non abbiano margini di miglioramento. Se questa idea è chiara, si porrà un limite all’autoreferenzialità e al complesso messianico che possono portare a una sorta di “arroganza istituzionale”. I membri saranno quindi meno esitanti nell’esprimere i loro dubbi e le loro proposte di miglioramento, o nel porre domande su ciò che non capiscono. È importante distinguere queste domande dalla ribellione o dalla mancanza di buon spirito (ciò che si cerca è proprio di capire lo spirito). Saranno opportunità perché il formatore spieghi nuovamente, mettendosi al livello del suo interlocutore, ciò che potrebbe aver dato per scontato.

Passiamo alla delicata questione dell’obbedienza4, specialmente rilevante nella vita consacrata. Questa è forse una delle virtù più difficili da comprendere per i giovani di oggi. Non è colpa loro: i messaggi che ricevono nelle serie, nei social, nei film e nella televisione insistono sull’autonomia, sull’autenticità, sull’emancipazione, ecc., e può essere difficile per loro concepire che sia un bene mettere la propria vita nelle mani di un’altra persona. Secondo la mia esperienza, capiscono molto meglio il linguaggio della fiducia: “Mi fido di te”; il problema è che qui si scivola dall’ambito dell’oggettività (“obbedisco al superiore”) a quello della soggettività (“mi fido di te… e non di quest’altro”). D’altra parte, al superiore occorre un’autorevolezza che si può ottenere solo con la testimonianza della propria vita coerente e con l’interesse, l’attenzione e l’affetto con cui tratta gli altri. Si dice spesso che “la fiducia non si impone, si ispira”.

La obbedienza ci identifica con Cristo (cfr. Fil 2,5-11), ha portato molti frutti di santità nel corso della storia e il voto è vigente nella vita consacrata. Ma ha anche dato origine ad abusi. Come evitarli? Ancora una volta, formando persone capaci di obbedienza umana, il che implica mettere in gioco intelligenza e volontà, e capire qual è la sua portata. L’Ufficio delle letture per la memoria di San Massimiliano Kolbe può aiutarci a comprenderne l’eccellenza e i limiti di questa virtù:

L’obbedienza, ed essa sola, è quella che ci manifesta con certezza la divina volontà. È vero che il superiore può errare, ma chi obbedisce non sbaglia. L’unica eccezione si verifica quando il superiore comanda qualcosa che chiaramente, anche in cose minime, va contro la legge divina. In questo caso egli non è più interprete della volontà di Dio (Kolbe, Lettera, 45).

L’obbedienza è una sottomissione della volontà alla volontà dell’altro (“faccio quello che vuoi tu e non quello che voglio io”) che implica un’analoga sottomissione dell’intelligenza (“mi fido di quello che tu pensi sia meglio, e non di quello che penso io”). Ma non implica l’annientamento della ragione e della volontà: deve essere sempre chiaro che «bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29), per quanto questi uomini siano investiti di autorità. Dietro molte storie di abusi leggiamo una coscienza distrutta, in cui il soggetto ha acconsentito a pratiche che sapeva che erano immorali, perché richieste da una persona investita di autorità a cui non riusciva a dire di no. Abbiamo già visto che l’autorità morale genera fiducia, e la fiducia ci rende in qualche modo vulnerabili perché porta a un abbassamento del nostro senso critico.

Il Catechismo afferma che

L’uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà, per prendere personalmente le decisioni morali. L’uomo non deve essere costretto «ad agire contro la sua coscienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso (Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis Humanae, n. 3)» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1782).

Il superiore e il direttore spirituale devono essere consapevoli che in quel nucleo più segreto che è «il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio» (Gaudium et spes, 16) si può entrare solo in ginocchio e con il massimo rispetto. E l’interessato deve sapere che non può agire contro i dettami della sua coscienza, chiunque glielo chieda. Nella sua nota opera sul primato della coscienza, il Cardinale Newman scrisse:

Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia, prima alla Coscienza, poi al Papa (Newman 1999, 236-237).

Il cardinale inglese però era tutt’altro che sprezzante nei confronti dell’obbedienza, affermando anche: «Per ogni persona che ha subito un torto seguendo la guida di un altro, centinaia di persone sono state rovinate seguendo la propria volontà» (Newman 1957, 78).

La fiducia genera una certa vulnerabilità, sì, ma sarebbe sbagliato basare la prevenzione degli abusi sulla sfiducia. Sarebbe andare contro la natura stessa della Chiesa, che è «la grande famiglia dei figli di Dio» (Francesco, Udienza generale 2013). È molto più umano e soprannaturale aiutare gli accompagnati a formare la loro coscienza e ad applicare la loro intelligenza.

Infine, vorrei menzionare un’abilità sociale che contribuirà a rafforzare la personalità: l’assertività. Si tratta della capacità di essere fedeli a se stessi, facendo ciò che si ritiene giusto, anche se gli altri non sono d’accordo. Una persona assertiva è in grado di far valere i propri diritti, di stabilire dei limiti in una relazione, di esprimere emozioni negative, di segnalare che qualcosa l’ha infastidita, di dire no… e di farlo in modo educato. È in grado di superare sia l’impulso a rispondere in modo sgarbato sia la tentazione di accondiscendere per paura di inimicarsi o di essere rifiutato. Sicuramente questa capacità richiede la fiducia in se stessi di cui abbiamo parlato all’inizio di questa sezione.

d) Riconciliarsi con la propria biografia

Molti accompagnatori affermano che i giovani stanno diventando sempre più fragili e meno resilienti. Tra i tanti fattori causali mi limiterò a citarne due: la società del benessere, in cui quasi tutto si può ottenere con il minimo sforzo, e soprattutto l’aumento della disgregazione familiare, che fa sì che molti dei ragazzi che incontriamo non sono stati cresciuti dai loro genitori biologici.

In questi casi c’è il grande rischio che il giovane, trovando riparo e cura in una comunità cristiana, cerchi di rifugiarsi in essa per trovare ciò che non ha trovato a casa propria, fino a pensare che Dio lo chiami a donarsi a Lui in quel luogo dove ha trovato la pace e l’amore. Può essere così, ma non va dato per scontato. È vero che la provvidenza di Dio può servirsi di eventi dolorosi per aiutare il soggetto a scoprire la sua volontà, e anche che il fatto di trovarsi a proprio agio in un istituto è un segno di una possibile vocazione. Ma può anche accadere che il giovane non cerchi consapevolmente Dio, ma un rifugio in cui colmare i propri bisogni. In questi casi è necessario un attento discernimento, che richiederà tempo, e anche – di nuovo – favorire le relazioni del giovane con i coetanei sia all’interno che all’esterno dell’istituto.

In breve, oggi riceviamo molti più ragazzi con ferite biografiche, e quindi più vulnerabili. Possiamo fare qualcosa per aiutarli attraverso il nostro lavoro formativo? Sì, e in un modo che ci rafforzerà nella nostra stessa vocazione: l’esercizio della paternità o maternità spirituale, che dà senso al nostro celibato e alla nostra dedizione (cfr. Insa, Stili educativi e interiorizzazione dell’immagine di Dio, 2022, 177-201).

Cominciamo con i primi passi della vocazione. Poiché non conosciamo le difficoltà che ciascuno può portarsi dentro, dobbiamo essere particolarmente accoglienti con tutti, in modo che si sentano a casa, con la fiducia di mostrarsi come sono realmente, senza paura di fallire e senza lasciarsi trascinare dalla “tirannia delle aspettative”. È normale che all’inizio si sentano valutati e giudicati, ma dobbiamo incoraggiarli ad agire con naturalezza, assicurandoli che diremo loro ciò che riteniamo debbano migliorare con la stessa fiducia che stanno dimostrando a noi.

Il passo successivo consiste nell’incoraggiarli a raccontare la loro storia: il rapporto con i genitori, i fratelli, i compagni di scuola, gli amici (cioè i rapporti con persone di entrambi i sessi), il vissuto della propria sessualità5, le esperienze sentimentali, la scoperta della vocazione, ciò che sperano di trovare, i desideri e le paure, ecc.

Da questa narrazione può emergere un rapporto conflittuale con un genitore, più spesso con il padre. In questo caso, l’accompagnatore deve avere chiaro che, anche se non lo cerca, probabilmente occuperà il ruolo di quella figura nella mente del giovane. In modo inconsapevole, il ragazzo probabilmente chiederà ciò che non ha ricevuto (affetto, tempo, attenzione, apprezzamento, sicurezza, conferma…) e paradossalmente tenderà a ripetere lo stile di relazione che era stato insoddisfacente, perché è l’unico che conosce e in cui si sente sicuro. Il formatore sarà quindi in una posizione privilegiata per aiutarlo a guarire la sua ferita… ma può anche peggiorarla. Ci vuole umiltà, conoscenza di sé e autocontrollo, poiché dovrà trattenersi per non sostituire nelle sue decisioni un ragazzo con tratti di personalità dipendenti, per non invadere un altro la cui privacy non è stata rispettata, per non incoraggiare una sproporzionata auto-esigenza a un perfezionista, ecc. E dovrà anche farlo a poco a poco, perché se frustra le aspettative del giovane, questi si sentirà inevitabilmente abbandonato di nuovo.

Il passo successivo è arrivare al perdono, che non può essere imposto. Aggiungo che è quasi meglio non proporlo o farlo in modo molto delicato, perché se il ragazzo non è ancora pronto a concederlo possiamo risvegliare in lui una rivittimizzazione (che si senta in colpa per non aver perdonato chi lo ha fatto soffrire). Se l’accompagnamento è paziente, man mano che il candidato approfondisce i suoi rapporti con Dio, se ne accorgerà e il suo cuore si ammorbidirà, così che, se è il caso, deciderà di rinunciare all’amarezza che gli brucia dentro. Secondo la mia esperienza, è molto difficile per un giovane che non si è riconciliato con la figura paterna stabilire un rapporto sano con Dio. Inoltre, gli sarà altrettanto difficile esercitare la paternità o la maternità spirituale ma tenderà inconsciamente a ripetere sugli altri ciò che lui stesso ha sofferto: ciò che non è stato guarito tende a ripetersi.

La guarigione delle ferite biografiche è un processo che richiede tempo e talvolta l’aiuto di un professionista. L’obiettivo non è quello di ignorare le malefatte dei genitori, né di ripristinare necessariamente un rapporto con loro, ma di raggiungere la pace con se stessi e con le persone che hanno causato le ferite. Vale la pena provarci perché è una fonte di serenità e un modo per rafforzare la propria identità e autostima, e soprattutto perché è molto gradito agli occhi di Dio, che darà abbondantemente la sua grazia a chi decide di intraprendere questo percorso.

4. Dalle fondamenta al pinnacolo

New York è conosciuta come “la città dei grattacieli”. Una volta mi è stato detto che lo skyline della città è possibile grazie al terreno: l’isola di Manhattan è una grande roccia che si affaccia sull’oceano. Questa base rende possibile la costruzione di edifici così alti che sembrano toccare il cielo.

La similitudine si può applicare alla vita cristiana. La formazione dell’affettività porta i formatori e i formandi ad avere una personalità matura, una sensibilità equilibrata, relazioni affettuose e varie (con se stessi, con gli altri e con il mondo). Si sviluppano così le fondamenta su cui costruire una vita spirituale (una relazione con Dio) solida e soddisfacente. Come i nostri templi, l’edificio sarà coronato dalla Croce, che ci ricorderà che l’amico, il modello e la meta è Nostro Signore Gesù Cristo.

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1 Questo concetto e molte delle idee contenute in questo capitolo possono essere approfondite in Insa (2022) La formazione dell’affettività.

2 Questo concetto di vulnerabilità è molto più ampio della definizione offerta da Francesco, Lettera apostolica in forma di motu proprio Vos estis lux mundi, art. 1, §2, b): «ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa».

3 Raccomando il libro DeGroat (2020).

4 A questo proposito, consiglio il libro di de Lassus (2021), in particolare 109-145 (capitolo 6: L’obbedienza e in particolare il suo terzo livello).

5 Può essere utile per guidare queste conversazioni Rigon (2009), 300-307.