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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Le relazioni asimmetriche nella Chiesa. Che configurazione dare ai comportamenti “abusivi” e quali strumenti di tutela si possono offrire

Davide Cito

Pontificia Università della Santa Croce (Roma)

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Premessa

I due capitoli precedenti toccano tematiche cruciali nella vita ecclesiale e che hanno fatto emergere, prima come indizi e poi come tragica conferma, una realtà “sotterranea” e quasi nascosta1 che ha contribuito a produrre la tragica piaga2 degli abusi sessuali sia su minori che su persone in situazione di vulnerabilità da parte non solo di chierici ma anche di membri qualificati di istituti di vita consacrata o società di vita apostolica e laici in posizione di responsabilità in movimenti ecclesiali o associazioni, al punto da “obbligare” sia per la gravità dei fatti e lo scandalo provocato, sia per la tutela delle vittime di questi comportamenti abusivi, la significativa modifica di alcuni canoni del Libro VI del Codice di Diritto Canonico dedicata alle “Sanzioni penali nella Chiesa”, con la revisione del can. 13953 e la nuova redazione del can. 1398 che nel suo paragrafo secondo include come autori del delitto fedeli non chierici.

Questa sottolineatura e le sue caratteristiche sta interrogando sempre più frequentemente chi, pur da prospettive disciplinari differenti, si è imbattuto in situazioni in cui era certamente riconoscibile un uso distorto della posizione di superiorità di un soggetto rispetto ad un altro con conseguenze a volte gravi di tipo psicologico, fisico, spirituale, morale o anche economico sulla vittima di questo comportamento (Valenzuela 2020, 393-397). Del resto, il m.p. Vos estis lux mundi4 aveva già voluto includere specificamente l’abuso di autorità tra le circostanze che rendono punibile il comportamento di cui all’art. 1 §1 a) i, e che è stato ripreso poi dall’attuale can. 1395 §3 CIC.

Queste problematiche risultano poi particolarmente importanti nella vita ecclesiale perché colui che, chierico o laico, occupa un ruolo riconosciuto di “formazione/guida/direzione” realizza azioni che in certo modo rimandano a Cristo Pastore, svolgendo quindi una funzione di mediazione che dovrebbe consentire e favorire l’incontro personale con Cristo e l’apertura all’azione dello Spirito Santo in un soggetto che nella crescita e nell’aiuto spirituale possa essere in grado sempre più di discernere e di rispondere personalmente al Signore. E tutto questo è essenziale alla vita della Chiesa ed è contemporaneamente anche un cammino di crescita spirituale della persona che svolge tale funzione.

Vi sono, pertanto, delle profonde ricadute sui soggetti interessati dal momento che, con intensità diverse, viene coinvolta la coscienza poiché nella Chiesa queste dinamiche implicano il nome e la volontà di Dio e quindi una persona viene ferita in modo particolarmente profondo giacché dietro a queste azioni c’è l’idea di Dio che “sembra d’accordo con il comportamento abusivo” e ne viene pertanto falsata l’immagine, con il conseguente distacco dalla comunità ecclesiale come indicava lucidamente Benedetto XVI nella lettera ai cattolici di Irlanda: «È comprensibile che voi troviate difficile perdonare o essere riconciliati con la Chiesa» (Benedetto XVI 2010, 6).

E se certamente sono riscontrabili “relazioni asimmetriche” in tutti gli aspetti della vita sociale, famigliare, lavorativa ecc., nel caso della Chiesa e più in generale delle comunità di tipo religioso, questa asimmetria è vissuta in modo del tutto speciale perché colui che si trova in posizione di superiorità “rappresenta” in modo più o meno intenso, l’autorità religiosa che richiede non semplicemente una obbedienza “giuridica” verificabile e sanzionabile, ma l’obbedienza religiosa che è principalmente morale ed esistenziale e pertanto molto più incisiva di quella giuridica.

Al tempo stesso, dal punto di vista giuridico e non solo, non è immediata la qualificazione di tali comportamenti che potrebbero costituire dei veri e propri delitti canonici o magari soltanto azioni imprudenti, sconvenienti o improprie che, pur non costituendo specificamente delitti, sono giuridicamente rilevanti e possono richiedere provvedimenti sanzionatori di tipo disciplinare o quantomeno richiami o avvertimenti per il danno che provocano nei fedeli vittime di queste azioni (cfr. Cito 2020, 302-312 e Fernández 2021, 557-574). Non va dimenticato, inoltre, che la dinamica di queste azioni non si presenta praticamente mai in fatti isolati seppur prepotenti o violenti (più facilmente avvertibili e identificabili), ma sono il frutto di relazioni significative tra persone fortemente legate in un rapporto di interdipendenza che abbatte le naturali difese dell’intimità e della coscienza, perché poggiano su una fiducia che va ben oltre la semplice fiducia umana (sono relazioni che rimandano a Dio stesso) e quindi non sono subito in grado di oggettivare frasi e comportamenti di stampo abusivo ossia che non favoriscono la crescita nella libertà ma creano ulteriori vincoli morali ed esistenziali nel soggetto vittima di questi atteggiamenti. Vincoli che sono quindi inizialmente vissuti soggettivamente come realtà positive fino a quando non si squarcia il velo che impediva di vedere la realtà con l’inevitabile reazione di ribellione e di disincanto.

La domanda di fondo è non solo quella di cercare di offrire un quadro delle diverse tipologie di abuso, ma anche se l’attuale assetto normativo canonico offra un adeguato presidio nei confronti di queste tipologie di comportamenti efficacemente riassunti nell’espressione di «utilizzazione perversa dell’asimmetria del potere in ambito spirituale» (Murillo 2020, 425), la cui caratterizzazione specifica, che la distingue da altre deviazioni dell’asimmetria del potere, consiste proprio nel fatto che essa si svolge in “ambito spirituale”.

Il problema, come emerge dagli approfondimenti in materia, risiede nel fatto che se da un lato in questi anni sono stati delimitati in modo sempre più preciso e circostanziato gli abusi “sessuali” sia su minori che su altri soggetti, anche per le caratteristiche che ha un “abuso fisico”, e questo fatto si è manifestato non solo a livello normativo, basti pensare alla nuova redazione dei cann. 1395 e 1398 cui si è fatto cenno prima, e anche alle “Norme sui delitti riservati” (Norme sui delitti riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, art. 6) e alla nuova versione del Vademecum (Vademecum su alcuni punti di procedura nel trattamento dei casi di abuso sessuale di minori commesso da chierici, versione 2.0), non altrettanto si può dire per quanto riguarda gli abusi “non fisici” (che sono diversi dagli abusi spirituali o di coscienza collegati all’abuso sessuale) sia per quanto riguarda la loro configurazione giuridica che sui rilievi penalistici o amministrativistici che tali abusi possono comportare. Del resto, anche dal versante delle discipline non strettamente giuridiche (De Lassus 2021), al di là di alcuni elementi specifici che caratterizzano le fattispecie in esame, non si ravvisa una definizione né un inquadramento uniforme. Si può passare dalla più comune tripartizione (abuso di potere, spirituale e di coscienza), anche ad una possibile quadripartizione includendo accanto agli abusi sopra ricordati anche l’abuso psicologico.

Al tempo stesso, si può constatare che sempre più si va affermando che alla base delle diverse tipologie di abuso si ritrova quella di potere, dai contorni più ampi, e che le altre modalità si presentino quasi come dei suoi sottotipi, certamente con caratteristiche specifiche e anche esiti differenti, ma che comunque rappresentano forme di “utilizzazione perversa dell’asimmetria del potere in ambito spirituale”, e da questa base si può cercare di operare una ricostruzione giuridica che permetta di individuare, ed entro quali limiti, una tutela penale o amministrativa ai beni personali e spirituali minacciati o violati da tali condotte abusive.

1. Per una definizione delle diverse tipologie di abuso

Considerando l’abuso come una condotta, anche omissiva, posta da chi ricopre un ufficio od un incarico riconosciuto nella Chiesa od anche soltanto legittimato all’esercizio dell’autorità o del potere, che oltrepassi i limiti posti all’esercizio di tale ufficio od incarico a vantaggio proprio o di altri, anche l’eventuale istituzione ecclesiale, e che causa un danno ingiusto a soggetti vittime di tali condotte, si può in prima battuta affermare che esso consiste nell’uso o nell’esercizio illegittimo del potere “ecclesiale”, e di conseguenza si è definito l’abuso di potere come «qualsiasi intervento da parte di chi, avvalendosi del proprio ruolo d’autorità, non rispetti dignità e autonomia, libertà e responsabilità di un’altra persona, specie se in condizioni di fragilità, in lei inducendo, con modalità più o meno evidenti, lo stesso suo modo d’intendere e volere, e di fatto forzandola ad agire ponendosi in vario modo al suo proprio servizio» (Cencini e Lassi 2021, 52).

L’elemento caratterizzante è dato dall’avvalersi del proprio ruolo di autorità che non deve essere semplicemente un ruolo personale od individuale, come potrebbe ad esempio avvenire in contesti amicali o affettivi, ma un ruolo che è tale in forza di un vero riconoscimento ecclesiale mediante il conferimento di un ufficio, incarico, anche temporaneo, da parte di un’autorità ecclesiale. Certamente si tratta di una definizione dai contorni ampi che può includere fattispecie molto variegate. Occorre tuttavia tener presente che non vuole essere una stretta definizione normativa ma piuttosto di un’espressione che contiene, tra gli altri, anche gli elementi giuridicamente rilevanti che possono rinviare alla normativa penale, o disciplinare, attualmente vigenti.

Rimanendo nell’ambito di una definizione descrittiva non strettamente giuridica si considera invece come abuso spirituale, inteso peraltro come una forma di abuso di potere: «ogni manipolazione relazionale di tipo emotivo, ma con argomenti di contenuto religioso-spirituale (“in nome di Dio”), che incide sulla sensibilità della persona nei confronti del divino. Tale manipolazione contamina e deforma in essa l’immagine di Dio, disorienta e danneggia la sua vita di fede, e più in generale il rapporto della persona con il proprio mondo interiore di valori e convinzioni» (Cencini e Lassi 2021, 54). Generalmente si manifesta in tre categorie: atteggiamenti lesivi che feriscono la persona nel rapporto maestro/discepolo sfruttando l’asimmetria ma soprattutto la fiducia che si è riposta nella “guida” spirituale; atteggiamenti coercitivi e di controllo nel contesto soprattutto di un gruppo o aggregazione religiosa. Infine, atteggiamenti di violazione dell’autodeterminazione spirituale (Häuselmann e Insa 2023, 46-50).

Anche in questo caso è importante sottolineare che non si tratta di un’azione nell’ambito di una semplice relazione personale stabile od occasionale che sia, ma che da una parte entrambi i soggetti la individuano come manifestazione di un’autorità “istituzionale” e dall’altra che l’autorità ecclesiale le conferisce un riconoscimento ed una legittimazione, ed è il motivo per cui è possibile l’utilizzazione dell’espressione “in nome di Dio”. Ed è soprattutto nell’ambito dell’abuso spirituale che si possono riscontrare in comunità ecclesiali pratiche incoraggiate o soltanto permesse o non contrastate, in cui l’autorità può risultare negligente nei suoi doveri di vigilanza. Sebbene rientri nel più ampio ambito dell’abuso di potere, l’abuso spirituale costituisce passaggio ulteriore poiché parte dalla fiducia che si è venuta a creare tra i due soggetti e quindi sembra quasi un’azione “buona” da parte di chi esercita il potere e quindi è difficilmente riconoscibile (e tende a creare sensi di colpa nella vittima).

Più complessa è, invece, la definizione di abuso di coscienza, che generalmente viene considerato come sinonimo di abuso spirituale. Il medesimo testo, opera una distinzione tra abuso spirituale e abuso di coscienza definendo quest’ultimo: «una forma di violazione della intimità altrui, consistente nell’induzione nell’altro del proprio modo di giudicare e dei propri criteri di discernimento, o della propria sensibilità morale (e penitenziale)» (Cencini e Lassi 2021, 56). Si potrebbe individuare come criterio di distinzione il fatto che l’abuso di coscienza tende ad impossessarsi del giudizio di coscienza delle persone soprattutto rispetto alla moralità delle scelte, annullando o deformando tale giudizio come frutto di un processo di progressiva sottomissione all’abusatore che può portare la vittima a identificarsi con la volontà dell’abusatore intesa come “volontà di Dio”. Nell’abuso di coscienza, l’abusatore si pone “al posto di Dio” nell’imporre le proprie scelte o visioni.

2. Il senso della dimensione ministeriale del potere nella Chiesa

Queste sommarie e sintetiche definizioni evidenziano la necessità di riflettere sul senso e le caratteristiche dell’esercizio del potere nella Chiesa e le sue implicazioni giuridiche che toccano da vicino la sua identità e permettono anche di delinearne le caratteristiche ed i limiti entro cui va esercitato. Il punto di partenza è dato ovviamente dalle pagine evangeliche in cui non soltanto si descrive la figura del buon pastore, che dà la vita per le pecore a differenza del mercenario, ma soprattutto si presenta la dimensione del servizio di chi è chiamato in una posizione di “preminenza”: «Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10,42-45). Non è soltanto un atteggiamento interiore ma si manifesta in modi di agire che evidenziano l’autentico servizio. Sono espressioni applicabili direttamente all’esercizio del governo, ma che abbracciano tutta la dimensione “ministeriale”, dal momento che anche l’attività di governo o di formazione o di accompagnamento è esercitata per un fine spirituale riconosciuto come tale. E non è soprattutto una tecnica da imparare ma un’identità ministeriale, ordinata o meno, da vivere nella progressiva unione con Cristo Pastore.

La riflessione conciliare sulla Chiesa ha voluto ribadire in modo particolare questa dimensione ministeriale sottolineando che in certo senso proprio chi è maggiormente rivestito di autorità ha uno speciale ruolo di servizio: «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri, infatti, che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza» (Lumen Gentium, 18). Sulla stessa linea si muovono sia la cost. ap. Sacrae disciplinae leges con cui è stato promulgato il Codice di Diritto Canonico del 1983 che il Catechismo della Chiesa Cattolica che, al n. 876, afferma: «alla natura sacramentale del ministero ecclesiale è intrinsecamente legato il carattere di servizio. I ministri, infatti, in quanto dipendono interamente da Cristo, il quale conferisce missione e autorità, sono veramente “servi di Cristo” (Rm 1,1), ad immagine di lui che ha assunto liberamente per noi “la condizione di servo” (Fil 2,7). Poiché la parola e la grazia di cui sono i ministri non sono loro, ma di Cristo che le ha loro affidate per gli altri, essi si faranno liberamente servi di tutti».

In questo senso Papa Francesco, a più riprese, ha evidenziato che per questo «Il clericalismo è una tentazione permanente dei sacerdoti», ma si potrebbe estendere anche a tutti coloro che occupano un ruolo di guida nella Chiesa, che interpretano «il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla» (Francesco, es. ap. post-sinodale Christus vivit, 98) sottolineando sia l’aspetto personale che, per così dire comunitario, del clericalismo, ossia non solo il clericalismo personale ma anche quello del gruppo.

Ed è su questa base che si innesta, prima ancora del concreto ufficio o incarico da svolgere, il ministero o la consacrazione ricevuta che, in modo naturale e positivo, sono diretti a creare una relazione di fiducia e di “superiorità” nei confronti di coloro che si rivolgono ai ministri sacri o a coloro che sono incaricati della formazione, rafforzata dal fatto di essere in qualche modo “rappresentanti” di Dio e quindi meritevoli di ascolto, di obbedienza e di fiducia proprio perché espressione in certo senso della voce e della volontà di Dio.

Queste premesse, che fanno parte della lunga tradizione ecclesiale, si sono andate riflettendo sulla configurazione giuridico-canonica dell’esercizio della potestà ecclesiastica ai vari livelli. Infatti, tra i dieci principi approvati dal Sinodo dei Vescovi del 1967 che dovevano guidare il lavoro di riforma del Codice del 1917 il n. 6 stabiliva che: «per la fondamentale uguaglianza di tutti i fedeli e per la diversità degli uffici e delle funzioni, fondata nello stesso ordine gerarchico della Chiesa, è opportuno che gli stessi diritti delle persone siano in modo idoneo definiti e tutelati. Ciò contribuirà a far più chiaramente apparire l’esercizio dell’autorità come un servizio, in modo che il suo uso sia rafforzato e siano rimossi gli abusi»5 (Communicationes, 1 1969, 82).

La fondamentale uguaglianza di tutti i fedeli ha spinto a proclamare per i rigenerati in Cristo con il Battesimo la condizione di uguaglianza, di dignità e di libertà dei figli di Dio (cfr. Lumen Gentium, 9 e 32). In questo senso il Concilio ha posto le basi affinché tale condizione si traducesse giuridicamente nel noto concetto di “diritti e doveri fondamentali” dei fedeli, concetto che rappresenta la posizione giuridica fondamentale del battezzato in Ecclesia e pertanto definisce, al di là della semplice terminologia, la manifestazione giuridica dell’essere cristiano (Cito 2004, 175-190)6.

Ciò esprime la condizione del fedele evidenziandone soprattutto la sua chiamata alla santità, la sua corresponsabilità nell’edificazione della Chiesa, la sua piena partecipazione all’unica missione. Viene sottolineato quindi soprattutto l’aspetto di doverosità che la condizione di fedele comporta, che si deve realizzare nella libertà e nella dignità, condizioni indispensabili per un’autentica realizzazione umana e cristiana. Si è evidenziato quindi un, per così dire, “protagonismo” ecclesiale dei fedeli, non solo del laico, perché diversamente sfuggirebbe la loro dimensione più profonda che rende uguali nella dignità tutti. Il fatto che i diritti e doveri fondamentali, di cui ogni battezzato è titolare, procedendo dalla rigenerazione in Cristo, precedano e fondino tutte le altre situazioni giuridiche derivanti da ulteriori distinzioni, oltre a conferire loro i caratteri di prevalenza, perpetuità, inalienabilità, irrinunziabilità, fa sì che la loro promozione, difesa e tutela costituisca la finalità primordiale di tutto l’ordinamento canonico, e conseguentemente del senso e del valore del servizio dell’autorità, dal momento che rappresenta la dimensione giuridica dell’edificazione della Chiesa poiché è proprio attraverso l’esercizio dei diritti e doveri fondamentali che il fedele realizza la sua missione di discepolo di Cristo. In altre parole, i diritti fondamentali dei fedeli sono non tanto limiti della potestà dell’autorità ma realtà positive che occorre favorire per la crescita della persona e del fedele.

Il loro riconoscimento non si ferma quindi alla loro enunciazione ma al fatto che la loro esistenza richiama una doverosità specifica degli altri fedeli (e segnatamente dei Pastori o di chi svolge un ufficio od incarico collegato al servizio pastorale) che implica l’impegno a diversi livelli e con modalità differenziate, per consentirne e promuoverne l’esercizio. E ciò manifesta ancora la struttura “ministeriale” della Chiesa e quindi del suo diritto.

Nel contesto in cui queste riflessioni si muovono, possono essere ricordati i diritti fondamentali principali che possono essere interessati dalle svariate forme di abuso che si pongono in contrasto o deviazione con quanto il servizio dell’autorità sarebbe chiamato a prestare affinché possano essere realmente riconosciuti ed esercitati, come realizzazione peraltro di quanto indicato nel can. 208: «Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i cómpiti propri di ciascuno».

Corollario di tale enunciato, come espressione della dignità nell’essere e nell’agire, è il can. 219 che stabilisce: «Tutti i fedeli hanno il diritto di essere liberi da ogni tipo di coercizione nella scelta dello stato di vita». Certamente il canone è innanzitutto diretto allo stato di vita in senso stretto (scelta matrimoniale o di vita consacrata) ma credo coinvolga anche tutte quelle situazioni “vocazionali” che accompagnano stabilmente la vita del fedele.

E non si tratta solamente di evidenziare tutte quelle forme che in modo diretto o indiretto ostacolano ad esempio la libera scelta di tipo vocazionale (che possono anche concretizzarsi nel dissuadere da una scelta in favore di un’altra per la convenienza dell’abusatore o dell’istituzione), ma soprattutto costituisce per coloro che svolgono una funzione di formazione/guida/direzione un obbligo e conseguente grave responsabilità nell’ambito di un autentico discernimento vocazionale che non solo non ammette autoritarismi abusivi che sulla base del rapporto di fiducia instauratosi impongono scelte positive o negative (hai o non hai vocazione), ma al contrario è diretta a favorire l’autentico discernimento dei soggetti nel lavoro formativo e di accompagnamento. E ciò non soltanto nei momenti iniziali del cammino formativo ma durante tutto il percorso, per così dire, di formazione permanente. Del resto, anche il can. 214 da un lato protegge da deviazioni abusive il cammino del fedele: «I fedeli hanno il diritto […] di seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla dottrina della Chiesa», ma anche interpella il formatore/guida perché lo favorisca secondo la situazione concreta del destinatario della sua azione formativa.

Collegato al diritto di libertà è anche il can. 213: «I fedeli cristiani hanno il diritto di ricevere dai sacri pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti». Non si può dimenticare l’abuso di privare i fedeli dei sacramenti, come il sacramento della riconciliazione o la predicazione della parola di Dio secondo il magistero della Chiesa, ma al tempo stesso si potrebbe evidenziare che la parola di Dio e i sacramenti non sono “oggetti” o “cose” da distribuire ai fedeli secondo le loro legittime richieste o necessità, ma momenti privilegiati di un cammino di fede personale ed ecclesiale. E in questo contesto si inserisce l’accompagnamento spirituale, sacramentale o meno, che è a servizio di questo cammino di fede che porta all’incontro con la Parola e il Sacramento che fondano la relazionalità personale e comunitaria con Cristo nello Spirito Santo. Da qui il diritto del fedele e il corrispondente dovere “ministeriale” di prestare un vero servizio in favore della persona nel rispetto della sua intimità, coscienza, libertà. E concretizzazioni di questo diritto/dovere sono anche le norme sulla libertà nella scelta del confessore (cann. 240 §1, 630, 991) o del direttore/accompagnatore spirituale (cann. 246 §4, 719 §4). Ossia tutti quegli aspetti cui si oppone un rapporto di dipendenza che legasse in modo esclusivo o totalizzante il fedele con il direttore/accompagnatore/guida, rispetto ad una relazione che favorisca invece la crescita in libertà ed autonomia interiori nei fedeli.

Ed anche il can. 212 § 2: «i fedeli sono liberi di far conoscere ai pastori della Chiesa le loro necessità, soprattutto spirituali, e i loro desideri» che non si oppone al dovere di obbedienza del §1 ma invita ad un dialogo rispettoso e fecondo in cui entrambe le parti si arricchiscono vicendevolmente.

La dimensione di servizio di ogni ministero ecclesiale, e conseguentemente dell’esercizio del “potere” ad esso collegato e che ne giustifica il ruolo e la funzione, e l’ambito primario della sua realizzazione, ossia la tutela e la promozione dei diritti dei fedeli (intesi come christifideles prima ancora che laici, consacrati o in altre condizioni ecclesiali) delimita e consente di inquadrare le condotte lesive od abusive tenute da coloro che, in differenti situazioni, adottano comportamenti contrari o quantomeno distorti rispetto ai beni di rilevanza giuridica che sono tenuti a rispettare e a promuovere.

3. Il presidio giuridico agli abusi nell’esercizio del potere ecclesiale

Giunti a questo momento occorre chiedersi quali tutele giuridiche offra oggi l’ordinamento canonico nei confronti delle situazioni di abuso prima sinteticamente descritte. Partendo dalla tutela più penetrante, ossia quella penale, che interviene laddove si riscontra la commissione di veri e propri delitti, credo che il nuovo can. 1378 possa offrire elementi significativi in tal senso.

Da questo punto di vista si può inquadrare il presidio penale offerto dal nuovo can. 1378 che stabilisce:

§ 1. Chi, oltre ai casi già previsti dal diritto, abusa della potestà ecclesiastica, dell’ufficio o dell’incarico sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione dell’ufficio o dell’incarico, fermo restando l’obbligo di riparare il danno.

§ 2. Chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui o scandalo un atto di potestà ecclesiastica, di ufficio o di incarico, sia punito con giusta pena, a norma del can. 1336, §§ 2-4, fermo restando l’obbligo di riparare il danno.

Sebbene si prenda innanzitutto in considerazione, come del resto avveniva nel CIC 17 e nel can. 1389 CIC 83, l’esercizio e l’abuso della potestà ecclesiastica in senso stretto, distinguendo forse meglio la potestà ecclesiastica da altre forme di potere ecclesiale (legato ad un ufficio od incarico che non erano peraltro escluse del tutto dal testo del can. 1389), credo che la formulazione permetta di poter tutelare i fedeli da un ampio campo di abusi del potere ecclesiale sia di carattere doloso che colposo, non solo legati all’esercizio della potestà ecclesiastica in senso stretto, ma anche ad altre forme di esercizio di potere che si fondano sulle caratteristiche dell’ufficio o dell’incarico da svolgere.

Infatti, la dicitura del §1 prevede che non solo l’abuso della potestà ecclesiastica in senso stretto, senza entrare nelle problematiche relative alla configurazione e portata della sacra potestas rispetto alla distinzione potestas ordinis e potestas iurisdictionis (cui sembrano riferirsi gli attuali cann. 1389 e 1378), di cui sono titolari innanzitutto gli uffici capitali nella Chiesa ma anche titolari di altri uffici, e che si riferisce propriamente all’emanazione di disposizioni, decisioni o mandati che hanno la qualità riconosciuta dall’ordinamento giuridico di vincolare giuridicamente, all’esterno e all’interno, la condotta dei fedeli, ma anche più ampiamente al munus o incarico, che comporta un insieme di funzioni e di compiti. In questo senso la nozione di munus sembra essere una categoria che include uno spettro estremamente ampio di attività all’interno della Chiesa che riguardano azioni di valore ecclesiale pubblico, non essendo permessa un’interpretazione estensiva che riguardasse attività “extraecclesiali” (Erdö 1989, 430-431).

Di conseguenza un esercizio illegittimo del potere collegato alla funzione od incarico ecclesiale che, contrariamente alla finalità di servizio per cui è costituito in favore dei fedeli, pregiudichi o rechi danno ai fedeli in modo diretto oppure anche a causa di negligenza colpevole, potrebbe costituire un delitto canonico punibile. E lo sarebbe in forza dell’illegittimità del comportamento in violazione di diritti altrui, che nei casi in esame toccano direttamente i diritti fondamentali dei fedeli a volte ulteriormente specificati in norme canoniche, in assenza ancora di una norma incriminatrice relativa agli abusi spirituali o di coscienza. E, sia detto per inciso, forse non sarebbe nemmeno facile da determinare in modo da poter proteggere adeguatamente le svariatissime forme abusive che possono darsi in questi ambiti.

La distinzione operata dal canone, nei riguardi dei medesimi soggetti, distingue l’abuso doloso da quello colposo ai sensi del can. 1321 §3. Nel caso di delitto colposo occorre che vi sia danno o scandalo. Per quanto riguarda il danno esso è ingiusto quando è una violazione della sfera giuridica che ha causato una lesione di un interesse ad un bene giuridicamente rilevante considerato degno di protezione dall’ordinamento giuridico. Da tale definizione, si può dedurre che il danno deve pregiudicare un bene protetto dall’ordinamento canonico, tra i quali occorre sottolineare qualsiasi danno che ferisca direttamente la salvezza delle anime, che è certamente implicato nelle tipologie di abusi di cui si sta trattando. Nella Chiesa i danni spirituali, che sono conseguenti alla condizione battesimale non tanto alla condizione umana generale anche se spesso sono correlati, hanno un rilievo proprio. Anche lo scandalo occupa un posto di rilievo perché è la reazione di fronte alla violazione del valore tutelato dal can. 1378: l’esercizio corretto e non discrezionale del potere, dell’ufficio o della funzione ecclesiastica in un modo che sia credibilmente orientato alla salvezza delle anime. Da un altro punto di vista, il canone serve a proteggere la fiducia del popolo di Dio che coloro che agiscono in nomine Ecclesiæ stanno impiegando la fiducia riposta in loro in un modo che è veramente per il bene della Chiesa e non per se stessi. Il primo paragrafo lo fa disciplinando gli atti che sono direttamente abusivi di tale fiducia. Il paragrafo due lo fa disciplinando gli atti che abusano indirettamente di tale fiducia. E qui si può inserire la negligenza colpevole di chi fosse chiamato, per ufficio o ruolo, a vigilare sul retto esercizio del potere nella Chiesa omettendo colpevolmente atti dovuti (Astigueta 2013, 151-153).

Quanto indicato in precedenza non significa ampliare a dismisura l’ambito strettamente penale (come rischia di apparire in questo canone e di altri come il 1376 §2, 2°7), ma soltanto di circoscrivere un atto giuridicamente illegittimo con danno a fedeli e che richiede un intervento appropriato. In questo senso va notato innanzitutto che l’intervento penale richiede tutte le condizioni di certezza del fatto, imputabilità, non prescrizione del delitto ecc. che possono già di per sé restringere la possibilità di un’azione penale, e inoltre anche il novellato can. 1341, pur avendo cambiato il termine curet con debet, richiede l’aver constatato l’insufficienza delle vie dettate dalla sollecitudine pastorale, correzione fraterna, ammonizione, riprensione, prima di avviare la procedura per infliggere le pene. Ciò comporta evitare, in questi casi, che si cada in due estremi altrettanto contrari al senso del governo pastorale nella Chiesa: un’utilizzazione anche forzata del diritto penale, e qualora non fosse possibile, rinunciare a qualunque intervento. Viceversa, come indica il can. 1311 §2:

Chi presiede nella Chiesa, deve custodire e promuovere il bene della stessa comunità e dei singoli fedeli, con la carità pastorale, con l’esempio della vita, con il consiglio e l’esortazione e, se necessario, anche con l’inflizione o la dichiarazione delle pene, secondo i precetti della legge, che sempre devono essere applicati con equità canonica, e tenendo presente la reintegrazione della giustizia, la correzione del reo e la riparazione dello scandalo.

Ciò significa, come peraltro richiamato anche nel can. 1339 sui rimedi penali, che di fronte a fatti che non possono essere considerati o trattati come delitti ma che costituiscono però innegabili situazioni di abuso della situazione di superiorità nella relazione spirituale con persone che si sono affidate alla direzione/guida/accompagnamento di un soggetto titolare di questo ruolo, sono non solo possibili ma doverosi interventi pastorali di carattere anche giuridico che possono concretizzarsi in ammonizioni, riprensioni, misure disciplinari, anche se ad esempio fossero trascorsi i sette anni di prescrizione dei delitti di cui al can. 1378.

Va rilevato, come avveniva per il can. 1395 §2 per quanto riguardava gli abusi sessuali, che il punto di vista del can. 1378 è quello di sanzionare il titolare di potestà, ufficio od incarico svolti a nome della Chiesa o avendone usurpato la funzione, e non invece quello del bene giuridico delle vittime violato dalla condotta abusiva.

Da un lato l’utilizzazione di questa prospettiva è comprensibile perché il diritto canonico non è un doppione del diritto secolare ma riguarda la specificità della vita e della missione ecclesiale, e quindi il ruolo dei ministri o in ogni caso delle persone che hanno autorità sono al centro della sua vita e missione. E peraltro qualora questi delitti lo fossero anche per l’ordinamento secolare potrebbero essere perseguiti in entrambi gli ordinamenti (come avviene per quelli di natura sessuale).

Va comunque tenuto presente un rischio che ad esempio il nuovo can. 1398 da un certo punto di vista ha scongiurato adottando una nuova prospettiva. Infatti, la prima indicazione che offre il nuovo can. 1398 è un cambiamento culturale nel trattamento canonico della Chiesa dei crimini sessuali collocandolo tra i delitti contro la vita, la dignità e la libertà umana. E questa semplice modifica del titolo è uno degli sviluppi più significativi nella legislazione penale della Chiesa, dal momento che possiamo vedere qui il cambiamento che ha voluto inquadrare l’abuso sessuale di minori e di altre persone vulnerabili come un’offesa alla loro dignità umana, piuttosto che un’offesa ai buoni costumi (1917 CIC) o all’obbligo clericale della continenza (1983 CIC). Ciò segnala un cambiamento che si concentra sul danno arrecato alla persona che subisce un abuso sessuale da parte di chi occupa una posizione di potere nella Chiesa.

Si tratta di un cambiamento culturale nella Chiesa che non deve essere sottovalutato per la sua importanza. Infatti, quando questi reati vengono intesi in primo luogo come reati contro la dignità della persona umana, è più naturale che si prenda in considerazione la prospettiva di colui che è stato vittima nel determinare una pena appropriata per il reato. Si può fare un esempio un po’ estremo, ma neanche tanto, per evidenziare la differenza di prospettiva: un singolo reato di abuso sessuale nei confronti di un minore commesso da un chierico che riconosce immediatamente la scorrettezza delle sue azioni, si pente e giura di non agire mai più in quel modo. Considerato solo da questa prospettiva, e nel contesto degli insegnamenti di Gesù sulla misericordia e sul perdono, non sembra irragionevole che il chierico sia riammesso al ministero dopo un periodo di riabilitazione, cosa che di fatto è avvenuta nella Chiesa per molti anni. Tuttavia, quando lo stesso reato viene considerato dal punto di vista di colui che ha subito il danno, la pena dell’allontanamento permanente dal ministero con giovani e forse anche dallo stato clericale può emergere come una possibilità non remota per un reato così grave, al di là delle conseguenze che possono essere imposte dalle autorità secolari. E questo, credo, valga anche per gli abusi spirituali o di coscienza, nel senso che occorre il riconoscimento di questi reati come offese alla dignità della persona umana perché occorre non limitarsi a considerarli solo come una mancanza morale da parte del colpevole o peggio atti che in certo senso sono stati in qualche modo provocati o favoriti dalla stessa vittima, cosa che in certo senso avviene proprio per la dinamica di questa tipologia di comportamenti illeciti.

Se il can. 1378, constatando che l’atto delittuoso ha causato un danno la cui riparazione costituisce un obbligo insito nella pena prevista per il delitto, sia doloso che colposo, potrebbe stabilire nella sentenza o nel decreto le modalità risarcitorie. Il danno potrebbe andare dalla lesione ingiusta della buona fama, a danni psicologici, fisici, economici.

La considerazione del danno e della sua riparazione potrebbe in qualche modo rientrare anche qualora non fosse esperita una procedura penale, una volta accertata la responsabilità, sulla base del can. 128 attraverso procedure di tipo amministrativo che consentissero di raggiungere una conciliazione secondo il giusto e l’onesto come indicato dal can. 1718 §4.

Conclusione

In conclusione, così come nell’evoluzione del trattamento dei casi di abuso sui minori si è passati da una considerazione penalistica e di intervento tempestivo per arginare un fenomeno che nella sua consistenza e tragicità aveva costituito una piaga dolorosa, alla considerazione delle vittime e di pratiche che potessero al contrario favorire uno stile pastorale realmente evangelizzatore, allo stesso modo negli abusi di potere, spirituale e di coscienza, occorre non limitarsi all’intervento pastorale e giuridico di fronte a situazioni di abuso, ma incamminarsi verso una cultura e una prassi del rispetto della dignità del fedele nella vita spirituale. Se da un lato la Chiesa, già da tempo, pone limiti a situazioni che possono essere veicolo di abusi, in cui la potestà di governo può mescolarsi con la guida spirituale, dal can. 984 sull’uso delle conoscenze acquisite in confessione, al 985 sul rettore del seminario e il maestro dei novizi, dall’altro è un percorso che deve far crescere un atteggiamento da parte dei formatori/guide/accompagnatori in cui si possa scoprire sempre di più il servizio prezioso che questo ruolo possiede per favorire la libertà e il discernimento dei fedeli, indispensabile per poter ascoltare e seguire la voce dello Spirito Santo nella loro vita.

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1 Una realtà peraltro non limitata all’azione individuale di singoli soggetti, ma anche a pratiche di tipo istituzionale, ossia a modalità di comportamento collettivo, incoraggiato o tollerato, e che hanno indotto o facilitato pratiche abusive. La problematica fu evidenziata da Papa Francesco nella Lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018 e nell’incontro del successivo 25 agosto, durante il viaggio in Irlanda, con un gruppo di gesuiti, quando ha ribadito in modo simile che: «L’elitismo, il clericalismo favoriscono ogni forma di abuso. E l’abuso sessuale non è il primo. Il primo è l’abuso di potere e di coscienza». Spadaro (2018), 449. In realtà già agli inizi del suo pontificato, papa Francesco si era soffermato sulla manipolazione delle coscienze in ambito spirituale, cfr. Papa Francesco (2013).

2 Il livello di drammaticità di questo fenomeno è dato dalle espressioni usate dagli ultimi due Papi, Benedetto XVI e Francesco: tsunami da un lato e catastrofe dall’altro. La prima è tratta da un’intervista a monsignor Scicluna apparsa sul Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitug nel marzo 2013 ed è richiamata da D’Auria (2018), 74-75. Quest’ultimo è stato usato due volte dal Papa nella sua lettera al card. Marx del 10 giugno 2021.

3 Nel caso del can. 1395 sono stati modificati i paragrafi 2 e 3 che ora stabiliscono: «§ 2. Il chierico che abbia commesso altri delitti contro il sesto precetto del Decalogo, se invero il delitto sia stato compiuto pubblicamente, sia punito con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale, se il caso lo comporti. § 3. Con la stessa pena di cui al § 2, sia punito il chierico che con violenza, con minacce o con abuso di autorità commette un delitto contro il sesto comandamento del Decalogo o costringe qualcuno a realizzare o a subire atti sessuali». Il can. 1398 è invece completamente nuovo ed è del seguente tenore: «§ 1. Sia punito con la privazione dell’ufficio e con altre giuste pene, non esclusa, se il caso lo comporti, la dimissione dallo stato clericale, il chierico: 1° che commette un delitto contro il sesto comandamento del Decalogo con un minore o con persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione o con quella alla quale il diritto riconosce pari tutela; 2° che recluta o induce un minore, o una persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione o una alla quale il diritto riconosce pari tutela, a mostrarsi pornograficamente o a partecipare ad esibizioni pornografiche reali o simulate; 3° che immoralmente acquista, conserva, esibisce o divulga, in qualsiasi modo e con qualunque strumento, immagini pornografiche di minori o di persone che abitualmente hanno un uso imperfetto della ragione. § 2. Il membro di un istituto di vita consacrata o di una società di vita apostolica, e qualunque fedele che gode di una dignità o compie un ufficio o una funzione nella Chiesa, se commette il delitto di cui al §1, o al can. 1395, §3, sia punito a norma del can. 1336, §§ 2-4, con l’aggiunta di altre pene a seconda della gravità del delitto.

4 Qui Papa Francesco conferma quanto stabilito nella versione ad experimentum per un triennio del m.p. del 7 maggio 2019.

5 Un’attenta analisi di tale principio è svolta da Pree (2000), 305-346, soprattutto 309-314.

6 Per un quadro complessivo dello statuto giuridico del fedele cristiano, cfr. Incitti (2022), 131-155.

7 § 2. Sia punito con giusta pena, non esclusa la privazione dall’ufficio, fermo restando l’obbligo di riparare il danno: […]; 2° chi è riconosciuto in altra maniera gravemente negligente nell’amministrazione dei beni ecclesiastici.