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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Mediazione e autorità: l’esercizio dell’autorità spirituale

Gill Goulding

Regis College (Toronto)

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Raramente c’è stato un momento più importante di questo, per dialogare con colleghi di diverse discipline e considerare le ambiguità e i rischi dell’esercizio dell’autorità spirituale, tema centrale nel ruolo di mediazione che caratterizza la vita della Chiesa cattolica romana.

Di fronte alla crisi degli abusi sessuali da parte del clero, insistere sull’importanza di tale autorità è per sua natura controcorrente e, in alcuni casi, radicalmente offensivo per alcune parti della società contemporanea. Certamente, alla luce della crisi degli abusi che continua all’interno della Chiesa, la credibilità di qualsiasi autorità spirituale viene messa profondamente in discussione e l’esistenza e l’esercizio di relazioni asimmetriche viene denigrato.

Vorrei affermare, tuttavia, che le relazioni asimmetriche sono una realtà inevitabile dell’esistenza umana e di fatto sancite dalle nostre strutture ecclesiali, ma ciò non significa che vi sia una concomitante inevitabilità dell’abuso di potere. Anzi, il fondamento stesso della fede cristiana milita contro tale correlazione. Nel corso delle generazioni c’è stato un esercizio onorevole dell’autorità spirituale mediatrice all’interno della Chiesa, che ha permesso un’incalcolabile fecondità nella crescita della santità tra i fedeli cristiani. Il fatto che tale autorità sia talvolta disonorata non annulla questa fecondità.

Questo capitolo si propone di affrontare alcune delle questioni più profonde coinvolte nell’esercizio del potere/autorità spirituale, che è così centrale nel ruolo della mediazione. Vorrei suggerire che è sempre importante sondare più a fondo tali questioni reali, per scoprire i principi sottostanti che vorremmo affermare o rifiutare, piuttosto che sottometterci a risposte convenzionali e spiegazioni superficiali. Perché abbiamo questa autorità? Qual è il rapporto tra autorità divina e umana? Come possiamo garantire al meglio che tale autorità spirituale possa essere realmente esercitata per il bene di coloro che ne sono soggetti, in modo vivificante e non paternalistico o dominante? Come possiamo formare le persone ad esercitare l’autorità “alla maniera di Cristo”?

Da un punto di vista pragmatico, ciò che è diventato sempre più evidente, lungo lo svolgersi del processo sinodale, è la richiesta universale di formazione da parte del popolo di Dio, in particolare di formazione nella fede, nel modo di procedere della conversazione spirituale1 che è al centro della sinodalità, e nella pratica del discernimento. Due delle domande sollevate dall’Instrumentum Laboris per la prima sessione dell’Assemblea sinodale 2023 sono: «Come può la conversazione nello Spirito, che apre il dinamismo del discernimento comunitario, contribuire al rinnovamento dei processi decisionali nella Chiesa? E in che modo (tale conversazione nello Spirito) può essere inserita in modo più centrale nella vita formale della Chiesa e diventare così la nostra pratica ordinaria?» (Instrumentum Laboris). Questo porterebbe inevitabilmente a chiedersi quali cambiamenti nel diritto canonico siano necessari per facilitare tale processo.

Vorrei anche suggerire – forse audacemente – che è necessaria una formazione permanente2 per coloro che esercitano l’autorità spirituale, se vogliamo che il ruolo mediatore della Chiesa risplenda nel nostro mondo contemporaneo. Come per ogni formazione, ciò comporterà una rinnovata appropriazione e un apprezzamento dei principi chiave della fede e una ricettività impegnata – in particolare attraverso la preghiera – all’azione di Dio sempre all’opera nel nostro mondo, dove l’autorità può essere significativamente abusata in molti modi3.

Come ho detto in un articolo scritto del 2020 (Goulding 2021, 96-107), per affrontare la realtà dell’abuso di potere «propongo che parte del modo di affrontare questo problema sia attraverso una discussione sull’uso appropriato del potere; e forse, il modo migliore per pensare all’uso appropriato del potere è attraverso la nozione di uso appropriato dell’autorità come servizio» (Ibidem).

Questo potrebbe comportare una risposta ecclesiale più ampia, sulla falsariga del processo sinodale che Papa Francesco ha affermato essere d’ora in poi il modo di procedere all’interno della Chiesa. Infatti, l’Instrumentum Laboris, per la prima sessione del Sinodo dell’ottobre 2023, pone la domanda molto pertinente: «Come possiamo rinnovare il servizio dell’autorità e l’esercizio della responsabilità in una Chiesa sinodale missionaria?» (Instrumentum Laboris)4.

Dopo un’introduzione iniziale, questo capitolo è suddiviso fondamentalmente in tre sezioni. La prima si concentra sull’apprezzamento della “donazione dell’essere” come dimensione fondamentale di ogni interazione umana e dell’antropologia teologica alla base di ogni esercizio di autorità spirituale. Suggerisco che l’incapacità di intendere tale comprensione, e quindi la natura interconnessa di ogni persona umana, è un passo lungo un percorso che può portare, in ultima analisi, a un comportamento abusivo. La seconda sezione affronta le relazioni trinitarie che sono all’origine di tutta la realtà creata. Poiché il fondamento del nostro essere deriva dal dono del nostro Dio trinitario e le persone della Trinità sono distinte solo nella loro relazione, non c’è un dominio esercitato tra Padre, Figlio e Spirito. Piuttosto, le relazioni trinitarie implicano un dono di sé, l’uno all’altro5, che Hans Urs von Balthasar vede come un evento kenotico, che scaturisce in una divina creatività dinamica. Questa attività dinamica, suggerisco, è alimentata dall’amore misericordioso divino, al centro della Trinità – un’ontologia trinitaria della misericordia. Tale attività divina si rivela nella persona di Gesù Cristo e attraverso di essa. Qui lo sguardo sulle relazioni trinitarie può informare la nostra comprensione dell’infinita dignità, del valore di ogni persona umana che deve essere riverita e stimata. Nell’esempio della vita di Gesù vediamo una particolare predilezione per l’interazione con le persone più vulnerabili agli abusi attraverso l’autorità spirituale di altri. Nel suo impegno con coloro che erano denigrati dalle autorità spirituali del tempo, vediamo il ruolo mediatore dell’autorità spirituale utilizzato per il servizio vitale dei più fragili.

La sezione finale riflette ulteriormente sugli insegnamenti che si possono trarre dal processo sinodale, che continua a sottolineare l’importanza dell’ascolto attento come vitale per il discorso sinodale e come dono vivificante per tutti coloro che sono coinvolti in tale impegno. Questo ascolto profondo è fondamentale per l’esercizio dell’autorità spirituale mediatrice e per promuovere buone relazioni. Inoltre, il processo sinodale ha fatto emergere l’importanza di riconoscere una vulnerabilità umana condivisa e ha fatto emergere una preoccupazione universale per le persone più emarginate e quindi più soggette ad abusi di autorità – molto spesso concentrate nella figura del bambino o dell’adulto vulnerabile. Il processo sinodale ha anche sottolineato la necessità di una conversione continua per imparare da coloro che hanno subito abusi o sono vulnerabili o emarginati in altri modi. Tale conversione continua è necessaria per un esercizio purificato dell’autorità spirituale e per la consapevolezza che qualsiasi forma di corresponsabilità richiede una formazione significativa, radicata nella preghiera e nel discernimento, per essere fruttuosa per la comunione ecclesiale. Al centro di questa conversione c’è l’importanza della preghiera, una preghiera che richiede costantemente il dono di grazia di una vera umiltà, indispensabile per l’esercizio di una vera autorità spirituale.

1. La “donalità” dell’essere

La persona umana è costruita dall’interno, a immagine di Dio, per essere amata e per amare (…). Nella Trinità si manifesta l’essenza stessa dell’Amore. [La persona umana] è a immagine di Dio e quindi (…) è un essere la cui dinamica più intima è ugualmente orientata a ricevere e dare amore (Ratzinger 2002, 189).

Questa citazione del cardinale Joseph Ratzinger chiarisce che l’amore è fondamentale per l’essere e l’agire umano. Se è così, allora il nostro essere creatura si realizza attraverso l’amore, un amore che ci è stato dato per primo da Dio e che ci è stato donato in modo tale che noi siamo, nella nostra stessa origine, un dono, donato a noi stessi gratuitamente dalla generosità del nostro amorevole Dio Trino. Questa è la realtà del nostro essere fatti a immagine e somiglianza di Dio. Non appartengo a me stesso, ma a Dio, che ha fatto in modo che in ogni persona umana ci sia una ricettività ontologica data in precedenza, che porta un’energia dinamica all’attività ontologica. In questa luce, tutta la vita e l’attività umana sono destinate a diventare risposte al dono dell’amore divino che ci ha amati fino a farci nascere6 e che in Cristo Gesù ci ha amati fino alla fine attraverso la sua vita, passione, morte e risurrezione. Pertanto, come afferma David Schindler, «il mio dono originale di creatura è una partecipazione finita al “dare” del Creatore. Ricevere e dare, o amare, è quindi il mio atto più profondo e fondamentale come creatura» (Schindler 2018, 123-232; 211).

Se sono davvero un dono fatto a me stesso e chiamato a ricevere e a dare nella mia risposta a Dio, allora questo coinvolge inestricabilmente il mio impegno con gli altri che incontro nel viaggio della vita. Essi sono un dono per me e io sono chiamato a essere un dono per loro7. Quindi questa datità dell’essere è un modo di relazionarsi che si basa essenzialmente sulla nozione di dono. Inoltre, se l’atto umano più fondamentale è la ricettività grata, sia di se stessi in una risposta d’amore veramente filiale, sia dell’altra persona umana come donata da Dio a me per una fecondità di impegno, ciò ha ripercussioni significative sul nostro ruolo mediatore di Chiesa nell’esercizio dell’autorità spirituale. È allora proprio nella persona per la quale Dio afferma una preoccupazione primordiale, il più vulnerabile, il bambino, l’adulto vulnerabile – nella storia di Israele l’attenzione alle vedove e agli orfani – che siamo chiamati a realizzare la massima fecondità: nel riconoscimento della datità dell’essere come dono e nelle interazioni che intraprendiamo. Perché siamo chiamati a riconoscere una parentela ontologica più profonda di qualsiasi designazione di etnia, classe o clan.

Questo amore che ha portato ciascuno di noi all’esistenza, che ci ha amati da tutta l’eternità, è sia la realtà della nostra vita sia la realtà della testimonianza che siamo chiamati a condividere con coloro con cui viviamo e lavoriamo e con tutti coloro con cui ci confrontiamo. Pertanto, deve essere una disposizione fondamentale per tutti coloro che esercitano l’autorità spirituale all’interno della Chiesa, perché è il terreno della mediazione che caratterizza la vita della Chiesa. Questa comprensione era così importante per Papa Benedetto XVI che la sua prima enciclica, Deus Caritas Est, ha elaborato la realtà dell’«amore che Dio ci dona e che noi, a nostra volta, dobbiamo condividere con gli altri» (Benedetto XVI, 2006, 2).

Il Signore ci ricorda questo amore preveniente, suscitando una risposta d’amore che attende la parola della guida del Signore. È consapevole dell’iniziativa divina che è sempre presente davanti a noi e che è il terreno sicuro su cui camminiamo verso il futuro. Una volta che ci rendiamo conto che Dio è il centro di tutte le cose come Creatore amorevole, diventiamo disposti – per così dire – a vedere tutte le cose, nella loro stessa donazione, come un dono. Dal profondo di questo apprezzamento, possiamo comprendere che tutto partecipa alla realtà della generosità gratuita di Dio.

2. L’orizzonte trinitario8

È importante sottolineare che nel nostro impegno di fede e nel nostro impegno come popolo della Chiesa affermiamo che dobbiamo essere costantemente consapevoli della realtà del nostro Dio e della sua Parola fatta carne dall’opera dello Spirito nell’incarnazione e quindi estesa attraverso lo spazio e il tempo a tutte le generazioni dalla vita della Chiesa. Infatti, l’amore di Dio così come è rivelato in Gesù Cristo attraverso la Chiesa ha coinvolto l’intero cosmo. Questo messaggio è il cuore della buona notizia che il ruolo di mediazione della Chiesa è chiamato a comunicare. Su di esso si concentra l’attenzione di ogni autorità spirituale. Un messaggio di tale portata vitale richiede che il messaggero sia costantemente aperto e in sintonia con colui che invia tale messaggio e che è così desideroso di riunire tutte le persone umane nell’effervescenza della vita trinitaria.

«Con gli occhi fissi su Gesù e il suo sguardo misericordioso sperimentiamo l’amore della Santissima Trinità» (Papa Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile 2015). Possiamo considerare il pensiero di Balthasar come una radicalizzazione del linguaggio più tradizionale del “dono di sé” nella Trinità. Il Padre “non ha” nulla a parte ciò che “è”, quindi il suo dono al Figlio è un atto di totale “auto-espropriazione”. Il Figlio è l’immagine perfetta del Padre, che ricambia l’auto-dono del Padre con un atto di ringraziamento che coinvolge allo stesso modo tutto se stesso. E lo Spirito è la fecondità di questo dono reciproco che sempre eccede e trabocca da entrambi, tanto da essere non solo oggetto ma anche proprio soggetto nei confronti degli altri9.

Dio non è semplicemente un altro essere ontico i cui attributi positivi esistono solo in relazione alle loro negazioni; potremmo pensare alla nozione di Dio di Cusano, come un non aliud quando Balthasar scrive, alla maniera di F. Ulrich, che «in Dio la povertà e la ricchezza (cioè la ricchezza del dare) sono una cosa sola». C’è, quindi, una kenosi primordiale o sovra-kenosi all’interno della Trinità, che comprende i vari atti economici di kenosi di Dio, dalla creazione stessa all’alleanza, all’incarnazione e soprattutto alla croce di Cristo. Se si trascura il contesto trinitario della croce, non si riesce a vedere il significato più profondo della misericordia amorosa di Dio. In questo fallimento, qualsiasi analisi della croce non può che degenerare in un’interpretazione dell’esistenza individuale di Gesù. In tale interpretazione errata, le dimensioni cristologiche e soteriologiche della croce vengono fraintese in un trascendentalismo astratto. In tale interpretazione si perde anche l’assoluta unicità della kenosi di Cristo10.

Cristo è l’amore del Dio trino reso manifesto. È Cristo che ci rivela, in tutta la sua pienezza, il funzionamento interno del mistero trinitario della misericordia e ci chiama a parteciparvi. Come ci dice la Bibbia, «nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo» (Mt 11,27). È lui che parla della coesistenza dello Spirito Santo con il Padre e che lo invia alla Chiesa per santificarla con la sua amorevole misericordia fino alla fine dei tempi; ed è lui che ci rivela la perfetta unità di vita delle tre persone divine (cfr. Gv 16,12-15). Il Padre genera eternamente il Figlio, e il Padre e il Figlio insieme emanano eternamente lo Spirito Santo11.

La Teo-Logica di Balthasar ci aiuta a comprendere questa dinamica quando enfatizza il dono del Figlio, il dono di Cristo fino alla fine, come una forma di esposizione – quasi un’esegesi biblica – dell’amorevole compassione del Padre per il mondo12. In questo modo riprende l’enfasi giovannea sulla “verità”, così evidente nella preghiera del sommo sacerdote nei capitoli 14-17 del Vangelo di Giovanni. Come indica Juan Sara, Cristo stesso è verità, «forma logica come pienezza e, per la stessa ragione, alleanza: in lui, tutto l’amore del Padre è esposto in tutto il Figlio incarnato in e per tutto il mondo dallo Spirito» (Sara 2008, 209-240; 225). Cristo ha detto di sé che aver visto lui significa aver visto il Padre. Sara lo spiega in termini di «esegesi dell’esegesi del Padre da parte del Figlio» (Ibidem). Lo Spirito Santo ci aiuta a comprendere la realtà delle parole e della testimonianza di Cristo, e nel comprendere questa realtà ci fa intravedere qualcosa della realtà misericordiosa del Padre.

Il desiderio delle persone della Trinità è, nell’amorevole misericordia, di portarci nella vita di Dio. Nella pienezza del suo amore misericordioso donato fino alla fine, Cristo viene risuscitato dai morti, dall’inferno, e in quel momento «lo Spirito sigilla l’esposizione di Cristo dell’amore del Padre e ne dispiega le ricchezze con fedeltà creativa come Spiritus Creator». Solo allora lo Spirito è libero di esporre l’esegesi di Cristo sul Padre nei nostri cuori: la pienezza della verità è raggiunta e la Nuova Alleanza è sigillata (Sara 2008, 225)13. Se si può fare un salto immaginativo, vedere la gioia dello Spirito ci permette di essere attratti sempre più profondamente nella relazione con il Padre. Nel rapporto con il Padre, realizziamo nuovamente il nostro rapporto con il Figlio e lo Spirito, e così la vita della Trinità fluisce in noi e attraverso di noi. Balthasar, scrive Sara, «mette in evidenza come la discesa del Figlio sia un atto di amore trinitario che va fino in fondo, e così facendo rivela l’assolutezza dell’amore divino» (Ibidem). La piena umanità di Cristo si rivela nel suo dono di sé, che riunisce l’intera creazione nel corpo di Cristo. Così, il Figlio diventa l’unico mediatore e riconciliatore nella missione redentrice di misericordia della Trinità per la salvezza del mondo14.

Balthasar intende la Trinità come un evento di amore kenotico, in quanto le persone divine sono costituite in e attraverso movimenti di auto-donazione e ricezione kenotica. Si potrebbe suggerire che questa è la misericordia divina che opera ad intra. C’è uno svuotamento di sé nel cuore della Trinità, in modo tale che ogni persona si auto-dona alle altre due. Spiegando questo, ci rendiamo conto che la kenosi è un movimento estatico e che non ci può essere una vera kenosi senza iato. A questo punto è fondamentale sottolineare che la distanza non equivale alla separazione. Affinché ci sia una vera distinzione tra le persone del Padre, del Figlio e dello Spirito, è necessario che ci sia una “distanza”, ma questo non significa sollevare lo spettro del triteismo – la credenza che ci siano tre divinità separate. Si tratta piuttosto di affermare che la distinzione delle persone è più chiara nelle relazioni che esistono all’interno dell’unico Dio. Nella Trinità c’è la realtà dell’“alterità”: il Figlio non è il Padre e lo Spirito non è né il Figlio né il Padre. C’è sia la comunione in un unico Dio sia l’alterità in termini di persone distinte. Questa consapevolezza dà un ulteriore impulso allo scambio umano tra gli uomini, riconoscendo l’alterità unica di un altro, che non è come me, e che deve essere affrontato come “altro” con gli attributi singolari di una persona creata a immagine e somiglianza di Dio e quindi meritevole della riverenza dovuta a qualsiasi persona umana.

Di conseguenza, impariamo dalla Trinità che kenosi e alterità sono eventi simultanei ed espansivi nella dimensione della misericordia. Questa kenosi trinitaria non parla solo di Dio, ma indica anche cosa significa veramente la persona umana. A causa della rivelazione della kenosi di Cristo e della sua missione vissuta di umile obbedienza alla volontà del Padre, c’è una chiara indicazione che la pienezza dell’umanità sta nel movimento dall’eterno ringraziamento per la realtà della misericordia divina, all’umile obbedienza e, di nuovo, all’eterno ringraziamento. Questa è anche un’indicazione del modo in cui la distanza all’interno della Trinità è pure uno spazio inclusivo in cui Dio attira le persone nella misericordia.

In questa luce è possibile comprendere la “naturalezza” della gratitudine cristiana e notare l’invito divino a vivere a partire da questa disposizione, in obbedienza alla guida dello Spirito di Dio e con uno sguardo misericordioso verso gli altri. Questo è ciò che significa essere una persona umana pienamente viva. Nell’antropologia trinitaria di Balthasar, la persona non è definita in termini di una qualità posseduta, ma come un evento donale. Si è persone solo nelle relazioni kenotiche di libertà come amore misericordioso. Ci realizziamo solo nella capacità di donare liberamente noi stessi nell’amore che si svuota. La persona umana, intesa come formata nell’imago Dei, trova veramente il suo compimento nella risposta obbediente alla chiamata del Padre a una missione unica e personale, proprio come ha fatto Gesù. Il Figlio era completamente unito al Padre nel vivere la sua missione redentrice: l’annuncio della misericordia di Dio. Ogni persona è chiamata in modo unico e ogni persona che risponde a questa chiamata riceve una missione personale, che è, per gentile invito di Dio, una piccola parte nell’attuazione della misericordia divina nella missione redentrice di Cristo.

Cristo stesso è l’esempio supremo dell’esercizio dell’autentica autorità spirituale come servizio nel modo in cui insegnava ai suoi discepoli e nel suo impegno con coloro che erano ai margini della società. Radicato nella profondità della sua relazione con il Padre, Gesù si è costantemente rivolto ai più poveri e ai più disprezzati. Questo stesso movimento verso le periferie è la vocazione di tutti coloro che esercitano l’autorità spirituale all’interno della Chiesa, come ha indicato Papa Benedetto: «La disponibilità totale e generosa a servire gli altri è il segno distintivo di coloro che occupano posizioni di autorità nella Chiesa… (come) il primo servitore dei servitori di Dio è Gesù» (Benedetto XVI, Concistoro dei Cardinali, 24 marzo 2006). Papa Francesco ha ampliato questa comprensione nel suo discorso all’udienza generale del 26 marzo 2014, quando ha affermato che: «Coloro che vengono ordinati sono posti a capo della comunità. Sono “a capo” sì, ma per Gesù questo significa mettere la propria autorità al servizio [della comunità]… Un vescovo che non è al servizio della comunità non fa il suo dovere; un sacerdote che non è al servizio della sua comunità non fa il suo dovere, sbaglia» (Francesco, Udienza generale, 26 marzo 2014).

Qui c’è una duplice dinamica: dipendere da Dio e allo stesso tempo riconoscere la grande dignità di ogni persona umana. L’incontro con Cristo nella preghiera è l’imperativo primario per tale riconoscimento ed è elaborato da Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica Gaudete et Exsultate del 19 marzo 2018. Questo primato della preghiera è essenziale anche per l’efficace funzionamento delle assemblee sinodali. «Nella Chiesa sinodale tutta la comunità, nella libera e ricca diversità dei suoi membri, è chiamata a pregare, ascoltare, dialogare, discernere e offrire consigli per prendere decisioni pastorali che corrispondano il più possibile alla volontà di Dio». Commissione Teologica Internazionale (2019), 6815.

3. Imparare dal processo sinodale

È importante affermare, nel contesto del focus di questo capitolo, ossia l’autorità spirituale che è centrale nel ruolo di mediazione che caratterizza la vita della Chiesa cattolica, il ruolo dei Vescovi in questo processo sinodale. Essi sono, nelle loro Chiese particolari, come indica la Lumen Gentium (cfr. Lumen Gentium, 23), il principio e il fondamento dell’unità del Popolo santo di Dio. Essi hanno anche una certa responsabilità comune per il processo sinodale in corso, come afferma una lettera del Cardinale Grech e del Cardinale Hollerich ai Vescovi: «Non c’è esercizio della sinodalità ecclesiale senza esercizio della collegialità episcopale» (Grech e Hollerich 2023). In effetti, la lettera ribadisce la chiara affermazione della costituzione apostolica Episcopalis Communio secondo cui «ogni Vescovo possiede contemporaneamente e inseparabilmente la responsabilità per la Chiesa particolare assegnata alla sua cura pastorale e la sollecitudine per la Chiesa universale» (Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis Communio, 15 settembre 2018, 2). I due Cardinali si preoccupano di sottolineare che quest’ultimo documento non mina il funzionamento dell’episcopato ma piuttosto, sottolineando la natura del Sinodo come orientato al processo, indica l’importanza vitale del ruolo dei vescovi e della loro partecipazione a questo processo in corso. Ciò che Episcopalis Communio ha fatto è stato trasformare il Sinodo da evento a processo in fasi distinte16. All’interno del processo, così come è stato vissuto, ci sono state aree significative di maggiore consapevolezza che sono rilevanti per la nostra considerazione attuale.

a) Ascolto

La prima area di maggiore consapevolezza è l’importanza dell’ascolto. Si tratta in primo luogo di una chiamata ad ascoltare profondamente e con attenzione lo Spirito Santo all’interno della Chiesa, tra tutto il popolo di Dio. Così, nella prima fase del processo sinodale, le sessioni di ascolto sono state condotte in un’atmosfera di preghiera e di riflessione sulle Scritture, in modo che i membri potessero ascoltarsi l’un l’altro con riverenza, senza discutere, confidando nella convinzione che lo Spirito Santo sarebbe stato effettivamente presente illuminando i cuori e le menti. Si è trattato di una vera e propria esperienza di conversazione spirituale, di ascolto e di parola in base ai suggerimenti dello Spirito Santo. La lezione per chi esercita l’autorità spirituale, che è centrale nel ruolo di mediazione della Chiesa, è di prendere sul serio la necessità di un ascolto profondo e attento. Lo Spirito Santo ci chiama a prescindere dalle nostre sicurezze e dai nostri programmi e, attraverso un ascolto umile e una conversazione onesta, ad ascoltare dove lo Spirito di Dio ci chiama. Questo ascolto profondo di Dio e dell’altro è una dimensione dell’amore, e di fatto un adempimento del comandamento di amare Dio e amare il prossimo.

  • Siamo chiamati ad ascoltare bene, dal cuore. Ascoltare bene è il dono più prezioso e vivificante che possiamo offrire all’altro. È un vero dono dell’amore cristiano, esemplificato da Cristo stesso e da lui stesso raccomandato ai suoi discepoli (Amatevi come io vi ho amato). Quindi, è anche un dono di grazia sia per chi ascolta con attenzione, sia per chi è ascoltato. L’opera dello Spirito offre la possibilità di una vera trasformazione e l’ingiunzione di Cristo ad amare in questo modo è rivolta in particolare a coloro che sono chiamati a esercitare l’autorità all’interno della Chiesa. Questo profondo ascolto, attento, costituisce una dimensione chiave del dialogo successivo, perché al suo centro ci sarà una continua riverenza per il bene presente nell’altro (o negli altri) a cui ci rivolgiamo.

b) Vulnerabilità

La recente pandemia ha rivelato la profonda vulnerabilità dell’umanità. In ogni Paese i malati, i morenti e i morti hanno suscitato in noi sia orrore che compassione. La paura che ne è scaturita è stata in qualche modo attenuata grazie ai controlli governativi, alla responsabilità personale e alla disponibilità a considerare alcuni beni comuni che violano i diritti individuali. Nel processo sinodale sono state messe in luce altre vulnerabilità. L’incertezza per alcuni ha inficiato il processo, in particolare rispetto ai temi emersi dai gruppi di ascolto, alla comprensione stessa della conversazione spirituale e alla natura e alla pratica del discernimento. Per coloro che hanno poca o nessuna esperienza formativa di questi modi di procedere, la curva di apprendimento è stata particolarmente ripida e non sempre accolta. Questa situazione si è verificata anche per alcuni che occupano posizioni di autorità all’interno della Chiesa.

  • Quando la vulnerabilità viene messa a nudo, si può ritornare di fatto a una posizione di default, ossia a ciò che sappiamo grazie alla nostra istruzione, formazione o base di competenze. Il pericolo è che non attendiamo nella nostra vulnerabilità il soffio dello Spirito di Dio che continua a operare nella Chiesa, che lo si creda o meno. Il processo sinodale ha portato alla nostra attenzione che la vulnerabilità è sia intrinseca alla condizione umana sia una dimensione essenziale per essere aperti a percepire e ricevere l’azione dello Spirito.

L’icona del bambino può essere utile a questo proposito ed è la più adatta allo scopo di questo capitolo. L’infanzia ha un valore unico in sé e il cristianesimo ha riverenza per il bambino. L’infanzia è anche, come sostiene Rahner (Rahner 1971, 33-50), aperta al mistero, anzi in ultima analisi è un mistero. L’esperienza universale dell’infanzia comporta una realtà non solo esistenziale ma anche escatologica. Gesù indica i bambini come coloro che conoscono i propri bisogni, che non hanno nulla che li renda meritevoli dell’aiuto di Dio, ma che si aspettano tutto da Dio confidando nell’amorevolezza e nella protezione divina. Questo mistero di apertura fiduciosa a Dio rispecchia qualcosa della relazione tra Gesù e il Padre. Gesù, infatti, è sempre l’eterno Figlio del Padre. La sua stessa identità è inseparabile dal suo essere Figlio in relazione con il Padre. L’eterno bambino ci sostiene presso il Padre, mentre intercede per noi come sommo ed eterno Sacerdote. Il ruolo mediatore della Chiesa, svolto per grazia, poggia sul fondamento primario della sua stessa infanzia, che persiste e che permea ogni autorità quando essa viene esercitata come servizio.

c) Conversione

Questa prospettiva del centro di Cristo, come sopra delineato, implica anche che tutti noi abbiamo bisogno di una continua conversione a Cristo. Questo è un imperativo evangelico necessario per tutti e la testimonianza di una leadership vibrante lo richiede, se si vuole che il ruolo mediatore dell’autorità sia autentico. La conversione non è facile perché implica il confronto con la nostra cecità e la nostra riluttanza a impegnarci con persone che non ci piacciono, che non vogliamo ascoltare o che consideriamo minacciose. Allo stesso tempo, la conversione, come indicato da Bernard Lonergan (Lonergan 1972, 130), si traduce in un cambiamento della visione di sé e del mondo. È vedere la realtà benevola che è la creazione di Dio e condividere la generosità indiscriminata che caratterizza l’interazione divina con gli esseri umani. La conversione si concentra in un dialogo tra Dio e le persone umane in cui è coinvolta l’intera Trinità, in cui si incontrano la libertà infinita e quella finita e in cui si manifesta il ruolo della Chiesa17. Quest’opera di grazia preveniente è anche intrinsecamente personale, perché l’azione centrale di ogni conversione è la presa di coscienza della propria realtà e della propria peccaminosità attraverso l’incontro con Cristo. Si tratta di spogliarsi dei travestimenti e dei sotterfugi che sono diventati un’aggiunta all’ego, nonché di rinunciare alla ricerca di se stessi, il che porta alla fine la pace nell’anima. Questa pace – un dono di grazia – è una disposizione energizzante per l’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Permette un dialogo improntato alla cortesia, all’umiltà e alla compassione in una ricerca comune della verità, e costituisce un impulso dinamico per il processo sinodale.

d) Preghiera e discernimento

La Chiesa sinodale è chiamata a essere una Chiesa che discerne e i vescovi della Chiesa ne portano la responsabilità quando insieme «esercitano il loro carisma di discernimento nei Sinodi/Consigli delle Chiese sui iuris, nelle Conferenze episcopali, nelle Assemblee continentali e, in particolare, nell’Assemblea sinodale» (Grech e Hollerich 2023). Questo carisma implica il discernimento della volontà di Dio e Papa Francesco ci ricorda che ciò «significa imparare a guardare le realtà con gli occhi del Signore. Significa non eludere le realtà che la nostra gente sta vivendo, né cercare ansiosamente un’uscita rapida e tranquilla fornita dall’ideologia del momento o da risposte prefabbricate. Nessuna di queste due strade è in grado di affrontare i momenti più difficili e persino bui della nostra storia. Queste due strade ci porterebbero a negare “la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa proprio perché è una storia di sacrifici, di speranze e di lotte quotidiane, di vite spese nel servizio e nella fedeltà al lavoro (Evangelium Gaudium, 96)”» (Francesco, Discorso al Simposio teologico internazionale sul sacerdozio, 17 febbraio 2022). Come indicato in precedenza in questo capitolo, c’è un chiaro bisogno di un dialogo autentico fondato su un ascolto autentico. Entrambi devono diventare parte di un’identità e di un’autocomprensione più integrali della Chiesa. Questo bisogno è più acuto nel caso di individui che hanno sofferto in qualche modo di un esercizio abusivo dell’autorità ecclesiastica. In questo caso, è importante ascoltare la voce del lamento18, e sapere che il lamento può portare speranza e, insieme, un grido di fede. La fede stessa è un dono di Dio che può essere rinnovato nel corso della nostra vita se preghiamo e siamo ricettivi a riceverla. In modo meraviglioso può continuare a esistere nelle profondità dell’oscurità e del dubbio e nell’oscurità della visione occlusa, quando nell’umiltà è oggetto di una preghiera di petizione.

  • La Chiesa è sempre attivamente coinvolta nel discernimento e il discernimento è un atto teologico per eccellenza, perché è il dono della sapienza per vedere tutte le cose in relazione a Dio e per riconoscere il desiderio di Dio per il bene umano duraturo, rivelato in Cristo. Di conseguenza, il discernimento ci impegna anche in un processo continuo di conversione dei nostri modi di vedere e conoscere, amare e agire, mentre arriviamo a vedere il mondo attraverso e in Cristo e a percepire qualcosa dell’opera redentrice della grazia di Dio nel nostro mondo. In questo modo lo Spirito Santo opera all’interno dell’individuo e della Chiesa configurandoci sempre più a Cristo.
  • Il principio chiave, alla base della preghiera e della pratica del discernimento individuale e comunitario, consiste in una profonda fiducia nella cura amorevole e provvidenziale di Dio.
  • È la fedeltà di Dio che dà al discernimento la sua verità.
  • È imperativo che questa profonda fiducia nella fedeltà di Dio costituisca la base dell’esercizio di ogni discernimento esercitato da coloro che hanno autorità nella Chiesa, e in particolare nell’episcopato. Allo stesso tempo, abbiamo il nostro ruolo da svolgere nella libera risposta umana d’amore a Dio, nella pratica disciplinata della preghiera. I nostri cuori devono essere silenziosi per ascoltare i sussurri dello Spirito Santo. Questa umile sintonia contemplativa è il fondamento della nostra attività e affina la nostra sensibilità alla presenza di Dio all’opera nella nostra vita, nella vita degli altri membri del popolo di Dio e in questo processo sinodale.

Conclusione

Questo capitolo può sembrare che abbia vagato liberamente dall’attenzione filosofica sulla donalità dell’essere, fino al rapporto con le relazioni trinitarie e a una sezione sull’apprendimento dal processo sinodale. Tuttavia, c’è un filo conduttore che esplora i rischi e le ambiguità dell’esercizio dell’autorità spirituale, così centrale nel ruolo di mediazione che caratterizza la vita della Chiesa cattolica. Ho suggerito che, dopo la modalità di un processo di formazione, una bildung, ci sono alcuni elementi chiave che è importante includere nel momento in cui la Chiesa cerca di rinnovare il suo esercizio dell’autorità. Questi includono una riappropriazione dei principi chiave della fede, come il dono dell’essere che ci è stato dato e la sottolineatura dell’immensa dignità e del valore di ogni persona umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio; accanto a questo, occorre intravedere qualcosa della meraviglia dell’ontologia trinitaria della misericordia rivelata in-e-attraverso la persona di Gesù Cristo; e infine imparare dal processo sinodale le caratteristiche chiave per l’esercizio dell’autorità. Sono più che mai convinta che la dinamica del processo sinodale apporti risorse vitali alla nostra riflessione sull’autorità spirituale, sulla mediazione e sulle relazioni asimmetriche e sulla formazione necessaria per rinnovarle all’interno della Chiesa.

Lo scopo di tale impegno formativo è, in ultima analisi, quello di affinare la sensibilità allo Spirito di Dio che opera nel mondo e nelle nostre vite, attirandoci a un incontro sempre più profondo con Cristo, in modo che alla fine ci sia una percezione a livello del nostro essere – una realtà ontologica – dell’impegno appassionato di Dio verso ciascuno di noi. È a partire da questa conoscenza intima che l’esercizio dell’autorità ha un fondamento veritiero e un’esecuzione vivificante. Da tale esercizio dell’autorità la Chiesa può essere rinnovata come una comunione che irradia e risplende come un faro di speranza, posto su una collina o nel profondo di una valle, per illuminare i luoghi più oscuri del mondo tanto amato da Dio19.

Bibliografia

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1 «La conversazione nello Spirito è identificata come un modo di gestire il processo decisionale e la costruzione del consenso che costruisce la fiducia e favorisce un esercizio dell’autorità appropriato a una Chiesa sinodale». XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (2023).

2 L’Instrumentum Laboris descrive questa formazione come «una priorità a tutti i livelli della vita ecclesiale per tutti i battezzati, a partire dai ministri ordinati, in uno spirito di corresponsabilità e di apertura alle diverse vocazioni ecclesiali» (Ibidem).

3 Esempi evidenti si sono verificati in tutte le confessioni cristiane, nei servizi sanitari, nei club sportivi, nell’industria cinematografica e in molti altri settori.

4 Nell’affrontare questa questione, il documento afferma che: «Una Chiesa sinodale è chiamata a sostenere sia il diritto di tutti a partecipare alla vita della Chiesa in virtù del Battesimo, sia il servizio dell’autorità e l’esercizio della responsabilità che sono affidati ad alcuni. Il cammino sinodale è un’opportunità per discernere i modi in cui questo può essere fatto e che sono appropriati ai nostri tempi. La prima fase [del processo sinodale] ha permesso di raccogliere alcune idee per aiutare questa riflessione: a) autorità, responsabilità e ruoli di governo – a volte indicati sinteticamente con il termine inglese leadership – sono una varietà di forme all’interno della Chiesa. L’autorità nella vita consacrata, nei movimenti e nelle associazioni, nelle istituzioni legate alla Chiesa (come università, fondazioni, scuole, ecc.) è diversa da quella che deriva dal sacramento dell’Ordine; l’autorità spirituale legata a un carisma è diversa da quella legata al servizio ministeriale. Le differenze tra queste forme vanno salvaguardate, senza dimenticare che tutte hanno in comune il fatto di essere un servizio nella Chiesa; b) in particolare, tutte condividono la chiamata a configurarsi all’esempio del Maestro, che ha detto di sé: “Sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). “Per il discepolo di Gesù, ieri, oggi e sempre, l’unica autorità è quella del servizio”» [Francesco, Discorso alla cerimonia di commemorazione del 50 anniversario del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015]. Queste sono le coordinate fondamentali attraverso le quali può avvenire la crescita nell’esercizio dell’autorità e della responsabilità, in tutte le loro forme e a tutti i livelli della vita della Chiesa. È la prospettiva di quella conversione missionaria che «mira a rinnovarla [la Chiesa] come specchio della missione d’amore di Cristo stesso».

5 Anzi, potremmo affermare che, in seguito all’atto creativo del nostro Dio trinitario, «il dono è il vero e più profondo significato della vita e del mondo». Maspero (2022), 83.

6 «Dio mi ha amato per primo, prima che io stesso potessi amare. Solo perché mi ha conosciuto e amato, sono stato creato. Quindi, non sono stato gettato nel mondo da un’operazione del caso, come dice Heidegger, e ora devo fare del mio meglio per nuotare in questo oceano di vita, ma sono preceduto da una percezione di me, da un’idea e da un amore per me. Sono presenti nel terreno del mio essere… Dio è lì per primo e mi ama. E questo è il terreno affidabile su cui si regge la mia vita e su cui io stesso posso costruirla». Benedetto XVI (2006), 26-27.

7 «Nell’atto della creazione, sono dato a me stesso come ordinato dall’amore e verso l’amore, in un ordine… filiale che è inscritto nella mia carne. L’altro umano… mi viene così donato insieme al dono di me stesso». Schindler (2018), 228.

8 Ulteriori approfondimenti delle idee delineate in questa sezione si trovano in Goulding 2023, capitolo IV.

9 «Nella prospettiva della matrice giudaico-cristiana, la spiritualità è radicalmente definita dalla terza Persona, lo Spirito Santo. Pertanto, […] lo Spirito deve essere associato all’amore, alla comunione e al dono. Dalla prospettiva qui proposta, è chiaro che questi elementi non hanno solo un valore morale, ma sono fondati nella profondità ontologica della realtà stessa, attraverso l’atto creativo del Dio trino. Quindi, secondo la spiritualità trinitaria, il dono è il vero e più profondo significato della vita e del mondo». Maspero (2022), 81.

10 Come scrive Balthasar: «Infatti, l’atto redentore consiste in un’assunzione del tutto unica del peccato totale del mondo da parte del Figlio del Padre, del tutto unico, la cui divinità-uomo (che è più del “caso più alto” di un’antropologia trascendentale) è la sola capace di un tale ufficio». Balthasar (1993), 137-138.

11 È chiaro che l’attenzione si concentra sulla tradizione trinitaria occidentale basata sulla comprensione del “filioque”, secondo cui lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio.

12 I tre volumi della Teo-logica di Hans Urs von Balthasar costituiscono gli ultimi tre volumi della sua Trilogia e si concentrano sulla Verità. C’è anche un ultimo volume sottile, un epilogo.

13 Sara prosegue: «Cristo non parla mai in prima istanza di se stesso, ma del Padre. E parlando del Padre, non sottolinea la propria autorità di esegeta del Padre, ma lascia la sua esegesi in essere e in atto nelle mani dello Spirito Santo, affinché lo Spirito ne faccia ciò che vuole (e lo Spirito vuole agire solo in perfetta fedeltà creativa, vuole “soffiare” solo nell’amore del Padre e del Figlio)».

14 Scrive Balthasar: «L’analogia trinitaria permette al Figlio, senza abolire l’analogia entis, di fare simultaneamente due cose: rappresenta Dio al mondo – ma nel modo del Figlio che considera il Padre come “più grande” e al quale deve eternamente tutto ciò che è – e rappresenta il mondo a Dio, essendo, come uomo (o meglio come Dio-uomo), “umile, basso, modesto, docile di cuore” (Mt 11,29). È sulla base di questi due aspetti, uniti in una costante analogia, che il Figlio può assumere la sua unica e unitaria missione». Balthasar (1993), 68.

15 Il documento prosegue: «Pertanto, nel giungere a formulare le proprie decisioni, i Pastori devono ascoltare attentamente i desideri dei fedeli. Il diritto canonico stabilisce che, in alcuni casi, essi devono agire solo dopo aver chiesto e ottenuto i vari pareri secondo le procedure giuridicamente stabilite» (Ibidem).

16 Nell’Instrumentum Laboris per la Prima Sessione (ottobre 2023) una delle domande per il discernimento è indicata così: «Come intendiamo la vocazione e la missione del Vescovo in una prospettiva missionaria sinodale? Quale rinnovamento della visione e dell’esercizio del ministero episcopale è necessario per una Chiesa sinodale caratterizzata dalla corresponsabilità?».

17 Qui torniamo ancora una volta al processo sinodale. «La sinodalità è un percorso privilegiato di conversione, perché ricostituisce la Chiesa nell’unità: ne cura le ferite e ne riconcilia la memoria, accoglie le differenze che porta e la riscatta dalle divisioni incancrenite, permettendole così di incarnare più pienamente la sua vocazione a essere “in Cristo come un sacramento o come un segno e uno strumento sia di un’unio strettissima con Dio, sia dell’unità di tutto il genere umano”» (Lumen Gentium, 1). XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (2023).

18 «La voce del lamento richiama la parola creativa originaria di Dio pronunciata all’alba dei tempi come parola d’ordine per tutta la creazione. Di fronte alla parola amorevole e creativa di Dio, la voce del lamento riconosce la rottura del presente. La voce del lamento è primordiale come il bisogno di piangere di un bambino. È un modo di sopportare l’insopportabile. È essenzialmente estremamente umano, perché rifiuta di accettare le cose così come sono. La voce del lamento non è fine a se stessa, ma è sostenuta dalla speranza che Dio agisca con misericordia e compassione». Goulding (2023), 138.

19 Anche in questo modo si può rispondere alla domanda posta nell’Instrumentum Laboris: “Come possiamo essere più pienamente segno e strumento dell’unione con Dio e dell’unità di tutta l’umanità?”.