Vai al contenuto

Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Salute relazionale e culture della colpa e della vergogna. Prospettiva psicoterapeutica

Cesare Maria Cornaggia, Federica Peroni

Università di Milano Bicocca

Scarica l’articolo in pdf

In questo capitolo non intendiamo entrare nel merito filosofico o teologico delle culture della colpa e della vergogna, ma desideriamo incentrarci su ciò che osserviamo a partire dalla prospettiva della nostra professione, che è quella dello psicoterapeuta, dove, in modo prepotente, colpa e vergogna entrano molto spesso nella pratica quotidiana. Esse, infatti, si trovano anche all’origine di molti disagi psicologici, di molti dolori, e permeano molto spesso il nostro modo di essere nel mondo e le nostre posizioni o capacità relazionali.

Nel pensare a colpa e vergogna, però, avvertiamo anche come un altro termine debba essere chiamato in causa, ed è quello di peccato (inteso come reato o violazione di una norma).

Infatti, colpa e vergogna sembrano seguire, una dopo l’altra, proprio il peccato. Non a caso, alla lettura del libro della Genesi cap. 3, proprio dopo il peccato originale e la colpa che ne segue, nasce la vergogna: «Allora si apersero gli occhi ad ambedue e s’accorsero che erano ignudi … ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura perché ero ignudo».

Peccato, colpa e successiva vergogna sembrano costituirci sin dall’origine: «Ecco nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre» (Salmo 51,7). Pensando a questo salmo, appare interessante osservare come peccato e colpa, oltre a trovarsi all’origine del nostro stesso essere-nel-mondo, sembrano embricarsi al punto che provocatoriamente potremmo chiederci se esista prima il peccato e poi la colpa oppure viceversa. A nostro parere, soltanto il perdono annullerà questa questione.

A questo riguardo, viene alla mente Amos Oz, nel suo libro più celebre (Oz 2002), dove scriveva: «Forse provavo la sola, vera e unica passione che io conosca … quella per il senso di colpa che cerca sempre un peccato a cui accoppiarsi».

Sembra inoltre essenziale, a questo punto, richiamarci come, nella lingua tedesca, vi siano due termini per definire la colpa: Schlectesgewissen e Schuldgefuehle. Il primo propriamente significa consapevolezza del male, il secondo senso di colpa. Il primo è legato ad un peccato esistente o che si crede esistente, è una consapevolezza razionale; il secondo non ha bisogno necessariamente di un peccato, che può anche non esserci, ma nasce da un sentimento spesso confuso di essere, in qualche modo, colpevole di qualcosa che ben non si conosce. Credo che Amos Oz si riferisse proprio a questo, che è anche quello di cui noi psicoterapeuti spesso ci occupiamo.

La colpa appartiene molto spesso ad un vissuto di non riconoscimento, che sappiamo essere il più grande trauma che oggi riscontriamo nelle esperienze che ci portano i nostri pazienti o le persone con disagio. È il trauma descritto magistralmente da Stanghellini nel suo libro sull’uomo come dialogo (Stanghellini 2017), allorché riporta come il nostro maggior trauma nasca dal non essere stati guardati o non esserci sentiti accolti nella totalità del nostro essere (valore e non-valore) allorquando, da piccoli, ne abbiamo avuto il bisogno, per costituire, non soltanto la nostra autostima, ma anche la nostra medesima identità. Lo sguardo dell’altro, infatti, ci costituisce nell’esperienza dell’accoglimento di noi come siamo, e non di noi come dovremmo essere. La nostra totalità, pertanto, comprende anche le parti deboli o le parti brutte ed esclude in questo modo il giudizio. Come nella parabola del seminatore «lasciate che l’una e l’altro (zizzania e grano) crescano insieme fino alla mietitura» (Mt 13,24-30), il riconoscimento permette di assumerci per come siamo sino al disvelamento finale di noi, non giudicandoci ora.

Parlando di senso di colpa (Schuldgefuehle) ci troviamo dinanzi a persone tormentate dalla sensazione (in forma spesso all’inizio di un sentimento di base diffuso e senza oggetto, sino ad arrivare ad una vera e propria distorsione cognitiva) di essere colpevole o deteriorata, cioè di non avere consapevolezza se essere zizzania o grano, con il bisogno continuo di conferma. La confusione è quella che si correla al senso di colpa, in quanto non vi è la percezione dei propri contorni e, quindi, si attiva, paradossalmente la paura dell’errore e della colpa, meccanismo questo che risulta abbastanza arcaico e che è ontologicamente dell’essere umano. Il non conoscersi, invece, di generare curiosità, genera di default angoscia.

A questo riguardo, vengono alla mente tre conseguenze immediate di questo sentimento di colpa.

  • La prima è quella che forse maggiormente ci condiziona: ci sentiamo indegni per qualcosa di forse mai commesso, ma ogni nostro movimento è al fondo connesso con un bisogno di riparazione che continuamente viviamo nei confronti dell’altro. Ciò accade sostanzialmente in quanto il non avere respirato il riconoscimento costitutivo di noi stessi come “buoni” ci pone nel mondo privi della certezza morale che le cose sono buone e che noi siamo buoni. L’ignoto od il non conosciuto non ci introduce, come detto, nel registro dell’attesa, ma nel registro della paura: non avendo la percezione di una realtà buona, abbiamo il timore dell’avversità della medesima realtà.Questa avversità, però, è accompagnata dalla fantasia secondo la quale essa stessa ha come origine la nostra colpa. Non comprenderemmo, senza avere nella mente questo, la ragione per la quale un figlio abbandonato spesso pensa che la ragione dell’abbandono sia da riferire ad una sua indegnità oppure come una bimba abusata senta dentro di lei la colpa di essere stata lei all’origine del misfatto di cui è stata vittima. Questo accade proprio per il non avere bevuto, assieme al latte del seno, la certezza morale che la realtà è buona e che noi siamo buoni. Per questa ragione, questo sentimento nasce in età assai precoce ed esordisce nella prima o seconda decade di vita.
  • La seconda conseguenza è quella che sentirsi in colpa ci pone, in tal modo, in una posizione di dipendenza nel e dal contesto relazionale. Il sentimento di colpa, legato peraltro molto strettamente, come visto, al sentimento di indegnità e di mancanza, produce in colui che lo vive il bisogno di sentirsi accettato, sollevato ed approvato dall’altro. La relazione con l’altro diviene, pertanto, il luogo ove ricercare la conferma di sé e quindi del fatto di non essere sbagliato (di non avere dentro a sé qualcosa di sbagliato). La relazione e l’essere in dialogo, come direbbe ancora Stanghellini (2017), non è più una ricerca di sé e dell’altro, ma la ricerca di una conferma finalizzata a spegnere il sentimento di colpa o di inadeguatezza: un ripiegamento su di sé, che ha il solo significato difensivo rispetto al trauma di riconoscersi mancante. L’oggetto della relazione, pertanto, non è più la scoperta di sé, dell’altro e del mondo, ma soltanto di ciò che può permetterci di non sentirci in colpa. È una posizione estremamente angosciante, perché nasce dalla posizione di essere costantemente sul limite di un precipizio. In altri termini, è come il passaggio dal trauma originario (del non-riconoscimento) vissuto nell’infanzia al trauma costantemente reiterato nell’oggi del proteggersi disperatamente dal rivivere o dal riconoscere come vivo ancora quel trauma. L’altro diventa lo strumento per illudersi di essere riconosciuto e pertanto l’oggetto più potente della dipendenza medesima da lui. L’altro diviene, in tal guisa, un dio. Questa è, a nostro parere, la trasformazione della relazione intersoggettiva in relazione idolatrica. Con questo intendiamo dire che la ricerca del nostro soddisfacimento si ferma allo spasmodico bisogno di consolare o giustificare la nostra stessa colpa. A questo punto, il nostro relazionarci all’altro si trasforma, come visto, nella dipendenza relazionale ed oscura qualsiasi desiderio. Così, si cerca la propria gratificazione soltanto nell’assoluzione, vera o falsa che sia, che l’altro può (o deve) darci, azione, questa, assolutamente deleteria in quanto perpetra il circolo della colpa dell’uno e dell’altro. Perdoniamoci il termine “idolatria”, ma questo appare assolutamente il più idoneo e centrato in questo contesto. L’idolatria altro non è che l’attribuzione di contenuti divini o salvifici ad oggetti che nulla hanno a che fare con il salvifico. Così accade proprio in questa dipendenza relazionale, dove l’oggetto della relazione diviene indiscutibilmente (a volte inconsapevolmente, a volte scelleratamente consapevolmente) portatore della salvezza propria. Questa evenienza appare molto importante quando si ha a che fare con ragazzi giovani, spesso fragili, perché, se non adeguatamente individuata ed affrontata, può produrre posizioni o relazioni, come detto, spesso inconsapevoli, di violenza, o comunque essere origine di asimmetrie relazionali decisamente pericolose, in quanto la persona fragile potrebbe trovarsi nella condizione di “soggiacere” all’altra. Pensiamo a molti contesti educativi o ricreativi, dalle Parrocchie, ai centri educativi, alle scuole, eccetera, dove molti ragazzi, od anche fanciulli, si ritrovano e ricercare un riconoscimento nell’adulto che li accompagna. Nelle persone fragili, con questo grande bisogno di riconoscimento e con questa tendenza, appunto, a quella che abbiamo definito la dipendenza idolatrica, siamo dinanzi, non ad una delega della genitorialità, ma ad una sostituzione di questa (dove un eventuale o presunto carisma diviene idolo). Il ragazzo può trovarsi esposto a questo rischio idolatrico e divenire conseguentemente soggetto di due comportamenti sostanziali. Il primo, quello di seguire pedissequamente il riferimento adulto, perdendone una distanza critica (vedasi in questo anche tutto ciò che può accadere sino ad arrivare al rischio di abuso). Il secondo è quello di confondere l’adesione all’altro con il proprio desiderio. Nella nostra esperienza clinica abbiamo tante volte osservato giovani che aderivano quasi analiticamente all’altro (l’insegnante oppure l’educatore), proprio per ottenere la sua approvazione ed il suo riconoscimento, confondendo questo con il proprio desiderio. In realtà, questo processo di adesione allontana il giovane dalla scoperta di sé e dalla identificazione del proprio desiderio. A tal proposito ci viene alla mente Francesca che, durante una seduta, ha raccontato: «Il mio preside mi ha detto che sono disordinata, questo mi ha fatto venire un attacco di panico perché ho pensato alla mia insegnate delle medie che mi disse che non avrei fatto nulla nella vita e a mia madre che mi guarda con disprezzo se canto in casa». Entrano più elementi: un contesto verosimilmente fondato sulla rigidità e sulla regola non compresa, un’insegnante svalutante nel passato ed un episodio, di poco conto in realtà, nel presente. Quest’ultimo, però, fa esplodere tutta una serie di connessioni che portano Francesca ad esperire un episodio di panico per il fatto di sentirsi, indiscutibilmente, sbagliata ed incapace di fare cose nella vita.
  • La terza conseguenza immediata del senso di colpa è che questo conduce alla convinzione che vi è, dentro a noi, qualcosa di “brutto” che deve essere nascosto o addirittura negato, certamente da non fare vedere agli altri (quella che noi abbiamo chiamato giustamente vergogna). La vergogna conduce al doversi, come Adamo, nascondere, perché se ci presentiamo così come siamo agli altri, questi scoprirebbero qualcosa di indicibile e di “brutto” che è in noi. Noi non abbiamo dentro di noi qualcosa di “brutto”, ma siamo “brutti”. In questo caso, la mia relazione con l’altro si riduce, in quanto non sono più io che mi relaziono, ma è soltanto una parte di me che si relaziona con l’altro, quella che consapevolmente o inconsapevolmente io mi permetto di fare vedere all’altro (quella che non è compresa nell’alveo della vergogna). L’emozione della vergogna appare molto rilevante nella capacità relazionale anche perché è quella che inchioda la persona alla inferiorità e, ancora una volta, alla colpa. L’inferiorità è data dalla incapacità di discernere dentro di sé ciò che può essere visto da ciò che deve essere tenuto nascosto. È un segreto con sé stesso, non soltanto con l’altro (e questa è la cosa più grave). Non a caso, il soggetto che vive la vergogna si allontana, non riesce a stare davanti alla realtà, la rifugge (si nasconde tra gli alberi come Adamo). Ancora una volta, la debolezza dell’Io impedisce lo stare dinanzi alla realtà e, ancora una volta, lo scoprire il proprio desiderio. Perché questo nasce dall’incontro tra un Io capace di definirsi (costituito) ed una realtà come data. Questo incontro produce una corrispondenza, come affermava Julian Carron (2020), che consente dentro a sé stesso di avvertire il desiderio, desiderio che origina in particolare dalla relazione con l’altro-da-sé.

Le nostre capacità relazionali sono poi strettamente legate alla nostra autocoscienza, cioè a quell’intima attività riflessiva con cui noi diveniamo coscienti di noi stessi. Ciò avviene attraverso la nostra capacità di metterci in relazione con le due alterità con le quali siamo in continuo rapporto: l’altro-da-noi (relazioni intersoggettive e realtà esterna) e la nostra alterità interna (le nostre emozioni, i nostri pensieri).

Più specificamente, considerando il senso di colpa, appare evidente come sia necessario chiederci se noi siamo liberi nel nostro rapporto di realtà e nella nostra relazione con la nostra propria alterità, ovvero se ci stiamo relazionando con la verità profonda di noi oppure con una immagine (magari ancora una volta idolatrica) di noi, od ancora se siamo in grado di rapportarci con una realtà data e non con una immagine che noi possiamo avere (o che ci siamo costruiti) della realtà. Nel primo caso siamo liberi, nel secondo caso siamo idolatri.

Di idolatria parlava un libro di appunti di un giovane studente (Calzone 2012) tragicamente scomparso a poco più di vent’anni in un incidente stradale. Egli concepiva proprio l’idolatria come il centro generativo dell’ansia e della riduzione del desiderio. Questo perché nell’ansia vi è un legame molto forte con la vergona, che si somma a quanto in precedenza definito e cioè alla difficoltà di costruire una identità senza il ricorso al limite (oppure escludendo parti di sé). Ad occuparci del limite è stata la concezione post-moderna nella quale siamo totalmente immersi, ove tra gli elementi fondamentali troviamo il tentativo reiterato ed illusorio di abolire limite e differenze, in fondo esitando nella società fluida teorizzata da Baumann (2011). Questa ansia non può che rifluire in un vuoto che inevitabilmente si stigmatizza nel narcisismo e nel nichilismo.

Tornando ora alla definizione di colpa, facciamo un esempio semplice. Prima di una confessione dovremmo teoricamente fare quello che chiamiamo “esame di coscienza”, cioè una intima disamina di ciò che è stato “bene” e di ciò che è stato “male” nei nostri comportamenti od omissioni. Verrebbe da chiederci: noi andiamo ad analizzare, e poi a confessare, i nostri peccati oppure le nostre colpe? Andiamo, cioè, a definire razionalmente cosa è stato il “bene” ed il “male” del nostro agire, oppure la sensazione di essere un “di meno” o di “non avere corrisposto” ad un ideale (idolatrico) di quello che avremmo dovuto essere? (se noi siamo intimamente convinti di essere colpevoli, troveremo sempre, anche dove non c’è, materia grave e piena avvertenza).

In termini diversi, siamo dinanzi ad una Schlectesgewissen oppure ad un Schuldgefuhele, ad una consapevolezza del male oppure un senso di colpa?

Sicuramente, sappiamo che siamo più pieni di colpe piuttosto che di peccati. Ma allora, come possiamo muoverci per fare sì che la nostra coscienza possa rapportarsi all’altro in modo libero? Noi crediamo anzitutto differenziando dentro a noi sentimento da consapevolezza di colpa, in particolare quando questi sono strumenti per restare legati al peccato. Questo avviene allorquando il nostro macerarci nella colpa non è finalizzato alla consapevolezza ed alla liberazione dal peccato, ma paradossalmente al desiderio di restare attaccato a questo, in quanto, molto spesso preferiamo il male a cui siamo abituati, od il male che siamo, piuttosto che il nuovo che può accadere attorno a noi. È proprio per questo che diviene comprensibile la difficoltà che a volte avvertiamo di non accettare il perdono ed anche il fatto che il perdono non può non accompagnarsi al dolore.

Ancora una volta, l’ansia è l’esempio più evidente di come noi difficilmente riusciamo a staccarci dal nostro male, se non attraverso una relazione sana (salvifica) od una consapevolezza profonda.

Francesca riuscì a liberarsi dalla sua corazza di ansia ed autosvalutazione solo quando, all’interno della terapia, riuscì a percepire su di sé quello sguardo di tenerezza che la portò a sentirsi libera come essere “rannicchiata nel letto”, in un misto di sicurezza e protezione.

Desideriamo, a questo punto, introdurre un ulteriore esempio, che riteniamo molto significativo per aiutarci a comprendere di quali dinamismi interiori stiamo parlando e di come spesso rimangano “nascosti” fino a sviluppare una patologia.

Elisa è una giovane trentenne, ha spesso manifestazioni ansiose, a volte violente, che la pervadono tanto da farle sembrare a volte insopportabile il vivere. Incontrandola, è evidente una forte dipendenza, mista ad una forte rabbia, rispetto ai propri genitori (lei è secondogenita di quattro germani). Il contesto famigliare è tutto arroccato sulla rabbia che deriva da un “incastramento” reciproco: la madre, incapace di fare da filtro, incastra i figli (Elisa in particolare), perché necessita di compagnia e non riesce a trovarla nel marito; quest’ultimo si isola nel lavoro (nonostante sia in pensione) ed accusa la moglie di avergli messo contro i figli; la primogenita si è trasferita molto lontano dall’Italia; la terzogenita, nata con una malformazione (che non le ha impedito di costruirsi una vita) accusa la famiglia di essere la causa dei suoi mali e l’ultimogenito è quello che cerca di costruirsi una vita facendo però molta fatica.

Elisa difende molto il suo contesto originario e lo giustifica per via della presenza di un padre violento ed aggressivo che non è mai riuscito a cogliere il bene che fa la madre. In seguito, però, emerge una forte colpa da parte di Elisa per il fatto di non capire bene chi difendere e da cosa.

Emerge, già qui, come il punto essenziale al centro della relazione sia dato dal fatto che il senso di colpa toglie lucidità ai pensieri e rende lo scenario una sorta di teatro dove ci sono carnefici e vittime, ruoli tutti agiti da ognuno senza distinzioni e da nessuno sostanzialmente elaborati. Non vi è infatti consapevolezza di questo, ma la colpa dell’altro permette ad ognuno di assumere un ruolo che ovviamente non è espressione di una libertà.

Unito a questo vi è una forte diffidenza e sofferenza nei rapporti interpersonali, che vengono ricercati, ed allo stesso tempo, allontanati per il fatto che Elisa, ad esempio, si sente sempre delusa dallo sguardo vissuto come poco attento dell’altro. Da qui si genera una colpa per il fatto di non riuscire a capire cosa fa l’altro effettivamente e che ruolo può avere nella sua vita.

Vi è un notevole incastro dato dal fatto che non resta altro che reiterare dei vissuti violenti respirati nel contesto di origine e, unito a questo, l’emergere di una ambivalenza che è quella che pone le basi per le proprie parti distorte e sentite come negative. Avviene, in sostanza, quanto detto precedentemente, non si riesce a distinguere quanto è si sia persecutore e quanto si sia vittima, dal momento che la modalità di relazione appresa è quella della attribuzione del ruolo all’altro, non di una definizione di sé.

La colpa, poi, pervade anche il lavoro che Elisa vive in maniera molto discordante: da un lato come fonte di sostentamento, ma dall’altro come una prigione dalla quale non può uscire (nel momento in cui si inizia a parlare della possibilità di cambiare lavoro, gli attacchi di ansia aumentano notevolmente).

Ecco un esempio di come l’ansia diviene, non un sintomo che traduce una domanda, ma un sintomo che traduce una paura, con il tentativo di fare restare tutto fermo. Di fatto nessun ambito può funzionare. Nel momento in cui siamo chiamati a mostrare il nostro “valore” (nel caso il lavoro), ecco che arriva la colpa e il non potercela fare. Non si può essere “vincenti”. Per Elisa “vincere” avrebbe avuto il significato terribile di salvarsi dal suo contesto ingabbiato originario e, pertanto, lei avrebbe “tradito” gli altri famigliari. Meglio restare nel suo auto-attribuitosi destino, quello di “soffrire” nella gabbia famigliare.

Elisa sviluppa anche sentimenti di morte, pensa che sia l’unica soluzione, ma allo stesso tempo sente la colpa per il fatto stesso di pensare di farla finita.

Non c’è nessuna possibilità di cambiamento. Non va bene se vivo e non va bene se muoio, allora si abbraccia la via di mezzo “vivo da morta” (nel senso che spengo qualsiasi fonte di godimento e ritengo il desiderio al di fuori di qualsivoglia orizzonte).

Anche il poter star bene genera una colpa: ella sente di non poter abbandonare una madre fragile, di non poter riabilitare il padre e di non potere godere delle proprie relazioni che, comunque, continuano ad essere presenti.

Come ben si evince, la colpa si snoda su quattro livelli: 1. Personale: non sono degna di nulla; 2. Famigliare: nessuno può essere felice; 3. Sociale: non posso realizzarmi; 4. Relazionale: non posso avere relazioni felici.

La colpa, inoltre, si dirama su tre direttrici: 1. Infantile: nasco con una colpa e me ne faccio carico, ma non so bene da dove arrivi. Sento di dover sottostare a dei patti di lealtà con le mie figure di riferimento e sono continuamente ricattata ed arrabbiata, ma lo svincolo non è pensabile. La colpa è qualcosa di informe, ma potente, che incastra e mi pervade senza soluzione di fuga. 2. Corporea: il corpo è il teatro dell’angoscia che diventa anche angoscia di morte perché è l’unico modo per lavare le mie colpe. Lei stessa ammette che la morte sarebbe una liberazione e smetterebbe così di essere in difetto e l’ansia quotidianamente abita e muove il suo corpo. 3. Sociale: l’altro è il giudice di me stesso anche se non è vero. Di fatto l’altro diventa una proiezione delle mie parti negative, del mio sguardo negativo e diventa impossibile creare delle relazioni significative e positive.

Sostanzialmente Elisa deve sempre pagare qualcosa. Elisa si sente indegna e sente di avere dentro di sé delle parti brutte che non possono trovare salvezza.

Il tutto all’interno di una autocoscienza assolutamente carente perché Elisa non sa che cosa è, non ha una identità (o non la può esprimere) e, quindi, è continuamente dipendente dalla famiglia e dal contesto che, suo malgrado, elicita questi vissuti negativi.

Il dazio da pagare è questo: se non riesco a “superare” la mia storia, ne resto incastrata in un gorgo che non mi consente una evoluzione, ma solo il mettere in scena ciò che c’è già e che mi fa male. Da qui si genera la rabbia.

Il poter pensare di lavorare su di sé per “prendere le distanze” da tutto questo è una operazione fortemente dolorosa che implica un lavoro costante e continuamente basato sulla rassicurazione di poter star di fronte al cambiamento senza venirne travolti.

La colpa uccide il cambiamento perché va a devitalizzare tutte le istanze vitali e incastra la persona ad un tempo zero che non può trovare altra manifestazione.

Da questo semplice esempio, si evince in modo piuttosto chiaro come la colpa rappresenti un legame molto forte, attorno al quale ruota tutta la relazione che Elisa ha con le figure a lei attorno. Le sue relazioni sono invischiate ed assumono significati tutti distorti rispetto alla realtà. La sua autocoscienza non appare affatto libera, ma deviata dalle distorsioni cognitive, che la fanno concepire come inadeguata e bloccata rispetto a tutto. Elisa, in realtà, si rapporta non con le figure reali a lei intorno, ma con l’immagine che lei si è fatta di esse, tanto che, ad un certo punto, lei stessa entra in confusione, si sente abitata da personaggi o fantasmi di personaggi con i quali non può avere un rapporto duale. Ad esse, comunque, resta strettamente legata e dipendente.

La colpa, al pari del rancore, risulta il legame più forte e determinante della sua esistenza. La sua relazione pertanto diventa idolatrica, perché si attende una salvezza dalla sua parzialità e non si può spalancare lo sguardo. La colpa diviene, in questo modo, l’elemento sul quale si fonda l’ulteriore attaccamento al peccato, proprio perché lo trattiene.

Come nella confessione, invece, l’unica possibilità di svincolo rispetto a questa condizione è il perdono. Non a caso, il perdono è proprio la capacità di lasciare andare l’altro e poterlo vedere nella sua interezza e nella sua forma, per come è, senza giudizio.

Nel caso di Elisa si vede bene come la sua rabbia sia anche “banale”, nel senso che è resta emozione non esperita in modo da dare adito ad altra forma di manifestazione emotiva.

In ultimo, circa la questione della coscienza della colpa e della coscienza del peccato, mi viene in mente Ricoeur (2021), quando affermava: il senso di colpa è «una imputazione senza accusatore, un tribunale senza giudice e un verdetto senza autore. Essere maledetto senza esserlo da parte di qualcuno, è l’ultimo grado della maledizione».

Qui si potrebbe porre un nesso molto interessante: la coscienza del peccato libera dal senso di colpa, perché stabilisce un dialogo con un soggetto che libera, perché è al tempo stesso giudice e avvocato.

Su questo Ratzinger il 6 febbraio 2021 diceva: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte».

Si potrebbe ancora dire che la coscienza del peccato libera la coscienza della colpa, perché permette al soggetto caduto di rialzarsi, al vaso infranto in cocci di ricomporsi, e quindi a noi di dire nuovamente io. L’orizzonte del peccato è quindi liberatorio. Nella esperienza cristiana, la coscienza della colpa non può darsi senza coscienza della liberazione.

In termini laici, la coscienza della colpa è la coscienza dell’essere venuti meno a un bene che c’è: la coscienza della colpa non può che avere inizio dall’esperienza del bene che uno è e dall’esperienza di una realtà strutturalmente buona. Credo sia questo primato ontologico del bene a suscitare il senso di sproporzione tra il proprio agire e un ordine ideale. A prescindere dal primato ontologico del bene è l’uomo stesso a diventare una colpa, come dice Heidegger (2015) «per esser-colpevole l’Esserci non ha bisogno di accollarsi una colpa mediante azioni o omissioni, esso non deve che essere autenticamente quel colpevole che, essendo, esso è».

Ciò che appare oggi fondamentale è riprendere il concetto di responsabilità e aprirsi all’incontro con l’altro con la curiosità di trovare un altro con il nostro stesso limite. L’uomo è ontologicamente mancante e questo non può essere una condanna, ma deve essere un rilancio, una sfida, una provocazione buona, una spinta. Verrebbe da dire, prima di tutto, a guardarsi con tenerezza e amore per il fatto di provare ad allargare il proprio orizzonte nonostante la paura.

Probabilmente in questo l’esperienza delle fede e della Chiesa è fondamentale: ad oggi diventa sempre più indispensabile trovare uno sguardo di cura e di accoglienza che vada oltre al peccato, ma che veda attraverso il peccato il fatto di poter riconoscere nell’uomo il suo limite e il suo bisogno di essere guidato su di altre prospettive.

La prospettiva attuale sta modellando la patologia nel senso del vuoto, del distacco, della paura e dell’angoscia. Si crea un “nulla”, un senza senso che, come un buco nero attrae soprattutto i giovani che si ritrovano sempre più rifugiati in realtà virtuali dove manca lo sguardo, ma esiste solo la prestazione.

Ad oggi diventa fondamentale l’“esser-ci”, nella sfida della vita, interfacciarsi con l’altro sempre più ed offrire, come spesso la Chiesa fa, esperienze di vita, di relazione, condivisione dentro ad uno sguardo amorevole e gratuitamente di riconoscimento. Come ci ricorda Papa Francesco (Centofanti 2013) «lo sguardo di Gesù ci alza sempre. Uno sguardo che ci porta su, mai ti lascia lì. Mai ti abbassa, mai ti umilia. Ti invita ad alzarti. Uno sguardo che ti porta a crescere, ad andare avanti, che ti incoraggia, perché ti vuole bene». Ben si badi, è uno sguardo che invita e che ha la pazienza di aspettare, che si apre sempre al bene e mai al giudizio o alla umiliazione, è uno sguardo che ti porta su non perché ti spinge, ma perché crea l’esperienza totale dell’accoglienza e della possibilità.

Bibliografia

Baumann, Zygmunt. Modernità liquida. Roma-Bari: Laterza, 2011.

Calzone, Giovanni Marco. Si prospettano giorni felici. Bologna: Marietti, 2012.

Carron, Julian. Il brillio degli occhi. Pescara: Editrice Nuovo Mondo, 2020.

Centofanti, Sergio. “Lo sguardo di Gesù cambia la vita”. Avvenire. 21 settembre 2013. https://www.avvenire.it/papa/pagine/sguardo-gesu-cambia-vita.

Heidegger, Martin. Essere e Tempo. Milano: Longanesi, 2005.

Oz, Amos. Una storia di amore e di tenebra. Milano: Feltrinelli, 2002.

Ricoeur, Paul. Finitudine e colpa. Brescia: Morcelliana, 2021.

Stanghellini, Giovanni. Noi siamo un dialogo. Milano: Raffaello Cortina, 2017.