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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

L’esercizio del potere come mediazione nella Chiesa. Riflessioni dall’ambito della comunicazione

Jordi Pujol

Pontificia Università della Santa Croce (Roma)

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Introduzione

In sintonia con molti dei miei colleghi della Facoltà di comunicazione della Santa Croce, intendo la comunicazione istituzionale della Chiesa come l’autoriflessione sull’identità dell’organizzazione. L’identità della Chiesa è il punto di partenza e il punto d’arrivo del processo di comunicazione (cfr. La Porte 2009; Contreras 1998; Mora, Contreras, Carroggio 2007; Arasa e Milán 2010; Bailly-Bailliere e Milán 2014). In questo senso, la teologia fondamentale e l’ecclesiologia saranno parte essenziale nello sviluppo della riflessione e dell’autocomprensione di cui si nutrirà anche la comunicazione.

La Chiesa, nella sua dimensione visibile, è una società e come tale esige una sua propria autorità e gerarchia. Questa autorità si fonda sull’identità di essere Corpo di Cristo e Popolo di Dio, cioè un’istituzione umana e divina al contempo. La legittimità dell’autorità la conferisce Gesù Cristo a Pietro e ai suoi successori. Da questa autorità suprema, quella petrina – che poi è declinata localmente ai vescovi e ai superiori religiosi – scaturiscono relazioni e mediazioni. La Chiesa è mediatrice della grazia, esercitando la funzione sacramentale, che alcuni hanno suddiviso in regale, sacerdotale e profetica. Nella Chiesa esercitano l’azione di governo, guida, formazione, o accompagnamento soggetti diversi: ministri ordinati e laici, uomini e donne. Noi distingueremo due dinamiche: l’azione di governo (di chi ha potestas sacra), e quella di guida o di accompagnamento spirituale.

Mediante questo contributo vorrei guardare all’esercizio dell’autorità di governo e all’accompagnamento spirituale dall’ottica della comunicazione, mettendola a confronto con la prospettiva teologica, con l’obbiettivo di trovare spunti di riflessione sull’esercizio del potere come mediazione. Comincerò presentando le potenzialità che offre la riflessione comunicativa per affrontare le relazioni e mediazioni nella Chiesa. In secondo luogo, introdurrò il problema della crisi di fiducia nelle istituzioni che colpisce anche la Chiesa. Per ultimo, tornerò alla comunicazione per proporre spunti sulle mediazioni nella Chiesa come atti comunicativi, sia come “azioni individuali” della leadership della Chiesa, sia come “cultura” (comportamento di gruppo) nella Chiesa.

1. La comunicazione istituzionale della Chiesa

In queste pagine, la comunicazione istituzionale della Chiesa viene impostata come l’autoriflessione sull’identità dell’organizzazione: ovvero quell’insieme di caratteristiche che costituiscono la personalità di un’istituzione e la distinguono dalle altre: la sua origine, la sua storia, la sua missione, i suoi valori. La natura della Chiesa è il punto di partenza e il punto d’arrivo del processo di comunicazione. Come spiega Carroggio, l’identità viene ricevuta, non è generata come prodotto. Perciò, il processo di comunicazione che ha sempre l’identità al centro evita il pericolo di trasformare la comunicazione in una sorta di “guardaroba per l’istituzione” da adattare al dress code di ogni occasione (come se la chiave fosse il consenso, o essere accettato a qualsiasi prezzo) o, in un’altra linea, si evita il pericolo di ridurre la comunicazione ad aspetti tecnici, quando il focus è sulle radici (cfr. Carroggio 2021, 61).

Nell’ambito secolare, la riflessione sull’identità delle organizzazioni è stata abbondantemente sviluppata (cfr. Pratt, Schultz, Ashforth, Ravasi 2018; Van Riel e Fombrun 2007), fra gli altri, da Wallace Olins (1930-2014), noto academico e consulente sull’identità corporativa. Egli legava la personalità dell’organizzazione (intangibile) alla sua manifestazione come identità corporativa, e affermava nel 1978: «La personalità aziendale è l’anima, la persona, lo spirito, la cultura dell’organizzazione che si manifesta in qualche modo. La personalità aziendale non è necessariamente qualcosa di tangibile che si può vedere, sentire o toccare, anche se può esserlo. La manifestazione tangibile della personalità aziendale è l’identità aziendale. È l’identità che proietta e riflette la realtà della personalità aziendale» (Olins 1978, 212).

L’autoriflessione sull’identità e la sua manifestazione collettiva diventano “cultura” nell’organizzazione, perché quell’identità è vissuta e porta a comportamenti e modi di fare (norme di stile, politiche interne, protocolli, ecc.) all’interno dell’istituzione. Questa cultura organizzativa poi diventa “discorso”, cioè si sviluppa una narrativa – interna ed esterna – sulle proprie motivazioni e la propria organizzazione, che è anche giuridica, dotandosi di un mission statement, regolamenti e leggi (cfr. Mora 2015, 62).

Come segnala il prof. Mora, c’è una prima fase del processo comunicativo all’interno dell’organizzazione, dove l’identità si fa cultura e si dota di un discorso che dà consistenza e coerenza all’organizzazione (cfr. Mora 2015, 62). Poi, distingue una seconda fase (esterna), dove l’organizzazione si mette in rapporto con i suoi pubblici ed emergono relazioni, conversazioni, percezioni (cfr. Mora 2007, 37-38).


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Da questa prospettiva, il processo della comunicazione è il catalizzatore di una riflessione sull’organizzazione sia verso dentro (Identità-Cultura-Discorso), che verso fuori (Relazioni-Conversazioni-Percezioni). Questo paper segue tale modello, sia per l’autoriflessione sull’identità, che per l’approfondimento sulle relazioni e le mediazioni della Chiesa, come organizzazione visibile.

Le organizzazioni sono una conseguenza necessaria della sociabilità umana, perciò vengono spesso definite non tanto come “strutture” ma come «insieme di rapporti personali strutturati attorno a una finalità o missione» (cfr. De la Cierva 2014, 20).

Lo scopo dell’istituzione è stabilire relazioni per entrare in dialogo con i pubblici interni ed esterni. In questo senso, la comunicazione istituzionale è una “comunicazione organizzata”, cioè programmata e pianificata dai responsabili dell’organizzazione o a nome suo, in modo professionale (La Porte 2002, 292-294). La comunicazione aiuta ai governanti all’obbiettivo di stabilire relazioni di qualità con i pubblici (interni ed esterni)1, in modo adeguato, tramite un discorso proprio che segue lo stile informativo, non un tono esortativo (cfr. Contreras 2007, 123), e scegliendo i canali giusti.

Come frutto di questa comunicazione (interna ed esterna) l’organizzazione acquisisce un’immagine pubblica ed una reputazione. Nel caso della Chiesa, questi elementi intangibili non puntano sulla logica della “popolarità” o del “successo”, ma sull’autorevolezza morale (cfr. Pujol 2023, 259-277).

Come si può vedere, la comunicazione istituzionale della Chiesa non consiste in un’operazione di marketing o di pubbliche relazioni, per cui si imparano delle tecniche per avere più successo o da tirare fuori quando ci sono dei problemi. La comunicazione istituzionale – da questa prospettiva – è un’autoriflessione organica che parte dall’identità di cos’è la Chiesa, che va intimamente legata alla sua finalità missionaria universale. Questa identità fatta di valori, storia e principi, va assimilata e comunicata in storie personali. Si fa “cultura” all’interno dell’organizzazione, perché le persone stesse la incarnino nelle loro vite, nelle loro storie. Certamente, si comunica anche attraverso dei discorsi o mediante una specifica narrativa istituzionale, formando un insieme organico di contenuti. Come afferma La Porte, la natura della Chiesa determina: «il tipo di messaggio, le varie audience, i mezzi e fini più appropriati» (La Porte 2009, 233). Si devono armonizzare l’identità e il modo di comunicare, sia nel contenuto, che nel modo e nella finalità con la quale si comunica.

Quale è l’identità della Chiesa? Ce lo dice Lumen Gentium n. 8 (d’ora in avanti LG), il documento teologico del Vaticano II sull’organizzazione della Chiesa: «Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa» che è ad un tempo umana e divina, cioè, «la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo; l’assemblea visibile e la comunità spirituale; la Chiesa della terra e la Chiesa arricchita di beni celesti». Queste dimensioni «formano una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino» (LG, 8). Torneremo più avanti su questa descrizione. Intanto, conviene aggiungere che, come Corpo Mistico di Gesù, la Chiesa è mediatrice della grazia salvifica esercitando tre funzioni: governare, santificare, insegnare.

I ministri, a nome della Chiesa, esercitano un potere di governo e molti altri esercitano un’autorità di tipo spirituale (p. es. come guida o accompagnatori). In questo contesto di mediazione salvifica e di relazioni asimmetriche, la comunicazione – intesa come abbiamo accennato prima – non è un optional, ma un forte catalizzatore per sviluppare relazioni sane ed un forte alleato per essere fedele alla propria identità e missione.

2. La fiducia nelle istituzioni come “mediatori” è fortemente messa in dubbio

Prima di affrontare l’argomento dell’autorità e dell’esercizio del potere bisogna aprire gli occhi sulla realtà. In questo momento storico siamo davanti ad un forte declino della fiducia nelle istituzioni, e di indebolimento del tessuto sociale2. Nel contesto delle grandi organizzazioni, la fiducia è stata messa in discussione a seguito di una serie di scandali (Panama Papers, Cambridge Analytica, emissioni Volkswagen, Petrobas o abusi sessuali nella Chiesa cattolica), che hanno generato un crescente malcontento sociale nei confronti dei quadri dirigenti (cfr. Narbona, Pujol, Gregory 2020, 294). Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, alcuni autori dicono che, in Italia, la fiducia nella Chiesa negli ultimi 10 anni è passata da un 53% nel 2009, ad un 42% nel 2020 (Statista Research Department 2021).

La necessità di istituzioni pubbliche e private di tipo politico, culturale, religioso, ecc. è legata al carattere relazionale dell’essere umano; ossia, sono necessarie. La storia ci insegna che l’esistenza e la legittimità delle istituzioni vengono ripudiate soltanto dalle ideologie anarchiche.

La componente di apparato organizzativo istituzionale è presente in qualsiasi struttura, sia civile che religiosa. La Chiesa, per compiere la sua missione, è strutturata con degli organismi di governo. Non basta affidarsi allo Spirito Santo. La contrapposizione “Gesù Cristo sì, Chiesa no” rappresenta un falso dilemma, perché il mistero della Chiesa ha il suo fondamento su Gesù. In ambito cristiano si ritiene che Gesù Cristo sia venuto non soltanto a salvare “individui” ma a crearsi un “popolo”, un “nuovo popolo di Dio”, come spiega il documento sull’organizzazione della Chiesa (LG, cap. 2). Inoltre, «Cristo stesso costituì un primo nucleo di governo strutturato nel collegio apostolico e l’ufficio petrino» (Miñambres 2014, 273).

L’istituzione Chiesa come “struttura visibile e sociale” (LG, 8), con le sue norme e regole definite dal diritto canonico, è necessaria affinché le decisioni da prendere siano ragionevoli e giuste, e non dipendano unicamente dalle relazioni personali, dove potrebbe imporsi la legge del più forte: dove il più forte è colui con più risorse umane (istruzione, talenti, contatti, ecc.), o con più mezzi materiali (De Lassus 2021, 62-63).

La Chiesa porta in sé il potere di Cristo, che è “unico mediatore” (LG, 8) e nel suo nome può insegnare, santificare e governare, con la finalità istituzionale di proporre la Salvezza alla comunità. A questo fine, la Chiesa predispone e distribuisce i mezzi di salvezza: organizza l’attività dei ministri, la vita sacramentale e pastorale (Baura 2022, 153 ss.). Questa “organizzazione e amministrazione dei beni salvifici” è adoperata con atti di governo che sono “costitutivi di diritto” per i singoli e per la comunità (Baura 2022, 154). Come spiegano Baura e Sol, l’attività di governo non si riduce ad organizzare e disporre le cose. Bisognerà «condurre l’agire libero dei membri della comunità. Per fare ciò, l’attività di governo non potrà limitarsi a prendere delle decisioni, ma dovrà motivarle, spiegarle e corredarle dalle opportune informazioni ed esortazioni» (Baura 2022, 155). In questa linea, la Chiesa osserva il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, dove riassume le caratteristiche che deve avere una decisione di governo: a) che il responsabile abbia giurisdizione; b) dovuta ricerca e documentazione; c) la decisione dev’essere sempre motivata; e) è conveniente che sia in forma scritta; f) comunicazione della decisione all’interessato (Congregazione per i Vescovi, 2004, n. 69).

L’istituzione e l’autorità che la guida, quando ben costituite e con rapporti sani, danno stabilità e continuità a quella società. La solidità dell’organizzazione previene l’arbitrarietà che accompagna modi di fare e dirigere troppo autoritari o centrati sul fascino del leader. Come è noto, le istituzioni stanno al di sopra dei dirigenti. Ci sono molti esempi di uomini e donne di stato (statesperson), con un forte senso istituzionale. Per esempio, la Regina Elisabetta d’Inghilterra ha difeso con zelo la dignità istituzionale e il servizio all’istituzione, promuovendo un grande senso del dovere. In modo simile, succede nella barca della Chiesa.

Seguendo la logica teologica, giuridica e comunicativa che ispira queste pagine, la Chiesa vive nel cuore del mondo ancorata al principio non-negoziabile di essere nel mondo, ma non mondani (cfr. Gv 15,19). Riflettendo sulla fiducia nella Chiesa in ambito pubblico, Carroggio sosteneva che «nella sua dimensione più visibile, umana e istituzionale, [la Chiesa] condivide perfettibilità e fallibilità con ogni altra organizzazione impegnata nell’azione sociale» (Carroggio 2021, 62). Per la Chiesa, accettare la propria vulnerabilità – come organizzazione visibile –, è una condizione necessaria per superarla in futuro. Nessun miglioramento è possibile senza questa accettazione (Carroggio 2021, 59).

Come segnala Ratzinger, la figura di Pietro è dominata dal paradosso di essere allo stesso tempo “roccia” e “pietra di scandalo”. La cosa veramente importante è che Pietro è strumento di Dio. La denominazione di “pietra” designa un ufficio, non la sua natura. Questa si caratterizza dalla debolezza. La Chiesa vive con questa coscienza, ovvero sa di tendere fra la pietra e lo skandalon. «La fede non vive di merito, ma di grazia» (Ratzinger 1992, 281).

Davanti a questa Chiesa vulnerabile che vive nella storia, Ratzinger si domandava: come deve comportarsi il cristiano? Quale spazio per l’obbedienza e quale per la critica? «Non esiste una semplice regola, ma solo l’appello ad una decisione di ubbidienza che nasce da un’interiorizzazione di fede» (Ratzinger 1992, 287)3. Cioè, per Ratzinger, sia l’ubbidienza che la critica all’interno della Chiesa si fondano sulla verità e sull’amore (ad essa).

3. Mediazioni nella Chiesa

Come è stato ribadito, le mediazioni si fondano e si sviluppano nella dimensione sacramentale della Chiesa e i suoi membri (laici e ordinati) vivono in unione con Gesù Cristo, unico mediatore. Tuttavia, a questa uguaglianza di vocazione battesimale avvalorata dal CIC (can. 208), si aggiunge l’esercizio della potestà sacra, esercitata dai vescovi (come successori degli apostoli) a livello locale, e dal Santo Padre a livello universale.

In questa ultima parte vedremo aspetti specifici delle mediazioni nella Chiesa come originate dall’azione di governo, e frutto dell’attività di guida spirituale. Allo stesso tempo, queste due dinamiche saranno declinate come azione personale della leadership nella Chiesa, oppure come comportamento collettivo (cultura della Chiesa). Per esaminare le mediazioni nella Chiesa dal punto di vista comunicativo, bisogna iniziare da una breve premessa.

A. Mediazione come “atto di comunicazione”

La Rivelazione di Dio agli uomini si presenta nella storia come autocomunicazione di Dio e arriva al culmine con l’incarnazione e la Pasqua del Verbo. Il paradigma della comunicazione si trova al centro del mistero di Dio: «Il mistero trinitario ci viene rivelato come la Communio Personarum di un Dio la cui natura si comunica dal Padre al Figlio e che il Padre e il Figlio comunicano allo Spirito. La persona umana, creata come interlocutrice di Dio, è costitutivamente capace di ascoltarne la Parola ed è invitata a partecipare a quella eterna comunicazione di vita trinitaria. La Chiesa, infine, nasce dalle missioni del Figlio e dello Spirito e si manifesta storicamente come comunicazione dei credenti in un unico popolo, comunione ad un unico Corpo e compartecipazione di un medesimo Spirito» (Tanzella-Nitti 1998, 28).

La comunicazione è un fattore decisivo per un Dio che si vuole rivelare e stabilire una relazione con le sue creature: questo ci conferma nell’opportunità di aderire al paradigma della comunicazione per riflettere sulle mediazioni che svolge la Chiesa a nome di Gesù Cristo.

La funzione di mediazione va legata ad un “contenuto di salvezza” 4, che però, come la fede, non si può ridurre a un “sistema di idee” ma consiste nella sequela di una persona viva: il Risorto, Gesù di Nazareth. La mediazione nella Chiesa, perciò, è performativa e interpella il comportamento in modo radicale. La Chiesa custodisce un deposito di fede, una tradizione, e allo stesso tempo propone, offre: in questo senso fa da “mediatrice”.

Poiché si tratta di un organismo vivificato dalla Parola e dallo Spirito di Dio, si presenta come un sistema aperto. Propone un messaggio sempre nuovo ed eminentemente relazionale, in dialogo con l’umanità di ogni periodo storico. Questa apertura si vede anche nella doppia valenza della Chiesa: da un lato ha una struttura gerarchica, dall’altro carismatica. Entrambe sono originate e fecondate da Dio stesso.

Le mediazioni nella Chiesa a nome di Cristo “unico mediatore” (LG, 8) di insegnare, santificare e governare hanno la finalità istituzionale di guidare la comunità alla salvezza. Queste mediazioni hanno due dinamiche: atti di governo, dove la Chiesa comanda, e azioni di guida, accompagnamento, formazione, dove la Chiesa consiglia spiritualmente. Queste due dinamiche possono essere azioni individuali oppure comportamenti collettivi. In questo senso, analizzeremo le mediazioni come atti individuali della leadership della Chiesa (sia di governo che di guida spirituale), e poi come condotta collettiva culturale-istituzionale (di governo o guida spirituale).

B. Dimensione individuale: Esercizio della leadership nella Chiesa

a) Preparazione e idoneità

L’autorità e l’ufficio che vengono conferiti tramite il sacramento dell’Ordine non garantiscono automaticamente che una persona sia dotata e capace di esercitare quel potere. I leader investiti dell’Ordine per poter esercitare l’ufficio con la sacra potestà devono acquisire competenze per governare bene. La grazia presuppone la natura, non la sostituisce. Troppo spesso si è dato per scontato questo nella Chiesa. Invece, garantire l’“idoneità” e la “competenza” dei leader della Chiesa è una forma di responsabilità e sarà sempre più richiesta.

Giraldina Boni sostiene che i fedeli della Chiesa hanno diritto ad essere ben governati, e da qui seguono delle conseguenze come per esempio: «strumenti per reagire all’insediamento in uffici ecclesiastici di persone inidonee, non fornite delle qualità necessarie o inette» (Boni 2019, 17). La necessità di formazione per esercitare l’ufficio e ministero episcopale è un bisogno che sarà sempre più urgente.

Questa esigenza di competenza fa parte di una cultura della verifica delle responsabilità, che ci porta all’argomento dell’accountability che auspichiamo incorporare per il governo della Chiesa5.

b) Accountability

È crescente l’esigenza di uno stile di governo aperto e responsabile, dove l’autorità è pronta a condividere informazioni, valutare, accettare critiche e rendere conto degli obiettivi individuati e delle scelte fatte (Ghisoni 2019). L’autorità, nel rendere conto delle sue decisioni è esposta a un sano confronto che, se ben gestito, non toglie autorità né genera confusione, anzi può trasmettere più solidità e coinvolgimento.

In questo senso, l’arcivescovo Mons. Scicluna affermava: «Se la sinodalità non deve essere una torta nel cielo [pie in the sky], dobbiamo arrivare a queste realtà concrete che mettono il popolo in condizione di guardare alla leadership come amministrazione responsabile [stewardship], come vuole Gesù. E questo significa chiedere conto alle persone che comandano. È qualcosa che deve essere fatto» (McElwee e White 2023). Dal punto di vista canonico, il can. 1287 stabilisce che «gli amministratori rendano conto ai fedeli dei beni da questi stessi offerti alla Chiesa». Il richiamo canonico, come dice Scicluna, deve concretizzarsi, ed espandersi ad altri ambiti oltre quello finanziario-economico. Le nozioni di accountability e stewardship ci riportano al termine della corresponsabilità6, uno dei punti nevralgici del Concilio Vaticano II (cfr. Lumen gentium, Decreto sull’apostolato dei Laici Apostolicam Actuositatem). 

In questa linea, propongo una accountability che non dia per scontata un’ecclesiologia secondo la quale l’autorità scorre solo verso il basso. Cioè, una “visione piramidale” della Chiesa, dove alla base stanno i fedeli, che giocano un ruolo passivo e in una posizione inferiore, e al vertice i ministri ordinati (principalmente i vescovi). Occorre un sistema di rendicontazione più coinvolgente e partecipativo, che arricchisce il processo decisionale e lo purifica di altri interessi non salutari per l’organizzazione (cfr. Pujol e Montes de Oca 2022, 164 ss).

La chiamata ad una corresponsabilità di tutti i fedeli (ministri ordinati e laici) rifletterebbe meglio l’identità della Chiesa che è comunione e gerarchia, in termini di servizio. «Se l’apertura e la responsabilità nelle vicende umane è generalmente un punto di forza, vivere secondo questi valori nella Chiesa cattolica è un punto di forza anche maggiore. Si basa sul fatto che la Chiesa è una communio, una comunità divino-umana peculiare, i cui membri umani sono anche legati tra loro attraverso l’“essere membri” in Gesù Cristo per l’azione dello Spirito Santo. In questa comunità, tutti devono essere e devono agire come membri che contribuiscono in modo maturo. Perché ciò accada, tutti devono sapere ciò che hanno bisogno di sapere» (Shaw 2008, 119, traduzione propria).

L’obbligo di essere sottoposto a rendere conto è la migliore prevenzione di vizi o corruzione nello stile di esercitare la leadership: manipolazione, narcisismo, autoritarismo.

c) Allenarsi ad ascoltare meglio

C’è un principio condiviso da molti: prima le persone, poi i dossier (il lavoro di ufficio). Tutti conosciamo la teoria, che ci dice di anteporre le persone alle procedure, alle tecnologie, agli strumenti e ai ruoli. Nei posti di leadership ascoltare diventa parte essenziale del lavoro, e dovrebbe migliorare man mano che si ascende nei gradini di responsabilità.

Privilegiare le persone significa soprattutto ascoltare come abitudine, e questo implica dedizione. Ascoltare non deve solo permettere di ricavare o dare informazioni. Si tratta di un atteggiamento che permea nel profondo il modo di relazionarsi.

Non si ascolta come tattica, ma per convinzione: l’ascolto attento è la caratteristica chiave della buona comunicazione interna. Bisogna imparare ad ascoltare durante il processo di decisione (non quando questa è già stata presa).

Un collega mi spiegò come nella sua famiglia religiosa circolava un’espressione, proveniente dai superiori: “Abbiamo deciso… cosa ne pensi?” Questa concezione molto verticistica del governo, non contemplava ascoltare ex ante nella fase decisionale, ma sempre dopo. Così è stato fatto in molte istituzioni della Chiesa. In un sistema così, si modifica solo la decisione già presa, se questa scatena una violenta opposizione. Ascoltare durante il processo aumenta il coinvolgimento e la responsabilità, sia nel presente che nel futuro.

Come rivelano gli studi fatti da Carter e Hougaard, quasi tutti diamo per scontato che sappiamo ascoltare, mentre gli altri non pensano lo stesso di noi: il 77% dei leader ritiene di fare un buon lavoro nel coinvolgimento dei propri collaboratori, ma l’88% dei dipendenti afferma che i propri leader non ascoltano abbastanza (Carter 2018). Un recente studio nella Chiesa degli Stati Uniti rivela come la fiducia dei sacerdoti diocesani nei superiori è diminuita: soltanto il 24% ha fiducia nei vescovi in generale, il 49% ha fiducia nel suo vescovo, e tra i sacerdoti religiosi il 67% ha fiducia nel suo Superiore Maggiore (cfr. Vaidyanathan, Jacobi, Kelly, et al. 2022).

L’ascolto attento e significativo richiede di riconoscere i propri limiti, implica allenamento e disciplina in diversi ambiti: occorre sviluppare la capacità di prestare attenzione, il desiderio di capire e l’apertura a cambiare idea. Ascoltare non è semplicemente stare in silenzio davanti ad una persona e saper ripetere quello che ha detto. Ascoltare bene mette sempre alla prova le capacità caratteriale, sviluppare l’autocontrollo della impulsività – che mi porta a interrompere l’altro. Richiede di mettere un filtro alle mie emozioni, che mi suggeriscono di replicare con frasi perentorie come “ho già sentito quello che mi stai dicendo” o “basta, smettila di parlare!”. Implica mettere da parte i preconcetti nella nostra mente e zittire la voce interiore che ci porta a sminuire l’altro (“Già so cosa sta per dire…”).

Ascoltare bene richiede di dare tutta l’attenzione e di concentrarsi per comprendere le ragioni, senza giudicare (questo viene dopo!) (cfr. Jalics 2022, 93-96.). Potrebbero sembrare tutte semplicemente delle “belle idee”, ma gli studi confermano che esiste una correlazione diretta fra l’ascolto di qualità e la prestazione dei dipendenti (cfr. Reb, Narayanan, Chaturvedi 2014, 36-45).

Bisogna dire che l’ascolto come stile di governo genera sempre aspettative. Alcune situazioni richiedono di essere ascoltate e basta: l’attenzione e il sostegno sono sufficienti. In molti altri casi però, se l’ascolto è veritiero e profondo, deve portare a prendere decisioni tangibili di governo. Quando l’ascolto di problemi non porta a decidere, rischia fortemente di deludere e ciò si ritorce contro. Le persone si sentono tradite da chi mostra indulgenza finta o falsità. L’effetto boomerang che ne scaturisce genera un clima che può essere peggiore di prima.

Nelle organizzazioni guidate da fini spirituali, ascoltare dovrebbe essere uno stile di governo ovvio: spesso nei regolamenti e nelle leggi della Chiesa è specificato che i superiori devono ascoltare. Alcuni esempi li troviamo nella regola di san Benedetto: «Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno» (San Benedetto, La Santa Regola, capitolo 3). Nel Direttorio sul lavoro pastorale dei vescovi, si esplicita tra le qualità necessarie: «una sana propensione al dialogo e all’ascolto, un’abituale disposizione al servizio» (Congregazione per i Vescovi 2004, nn. 47, 50, 53, 54). Nell’esercizio della sacra potestà li si esorta ad ascoltare prima di decidere o di giudicare (Congregazione per i Vescovi 2004, n. 29)7. In alcuni casi questo ascolto è precettivo (Congregazione per i Vescovi 2004, n. 192).8

Comunque, il fatto che ascoltare sia obbligatorio è importante, ma non è qualcosa di risolutivo perché, come abbiamo mostrato, ascoltare in modo significativo è più una decisione di chi governa, cioè richiede voler disporre tempo, un buon allenamento ed una determinazione dei leader.

C. Dimensione istituzionale: “cultura” della Chiesa

Riprendendo il paradigma teorico di mediazione come atto di comunicazione – che inizia e si alimenta grazie alla riflessione sull’identità – quel proposito diventa “cultura dell’organizzazione” nelle azioni e nei comportamenti di coloro che vi lavorano. La “cultura della Chiesa” si apprezza con particolare autenticità “in azione”, cioè, “show, don’t tell!”, mostrami che sei rilevante e fai cose per gli altri, non me lo dire! Questa autenticità e bellezza si vede particolarmente nella dedicazione generosa e disinteressata di tanti missionari e volontari nei posti più isolati – e a volte pericolosi – del mondo. Le vite di queste persone parlano da sole. Questa bellezza e solidarietà si vedono anche nella liturgia, nella comunione e nella preghiera.

La cultura istituzionale che porta con sé la Chiesa è permeata dai valori evangelici, ed è confermata dalla realtà storica di tante opere di misericordia sociali, educative, in tutto il mondo, e rinsaldata dalla testimonianza di vita di migliaia di santi di tutti i tempi, anche nei tempi più bui. La Chiesa vive nella storia trafitta da questo paradosso, sul quale abbiamo riflettuto abbastanza. Adesso è bene individuare quello che smentisce la sua identità.

Dicevamo che la Chiesa conserva e propone un tesoro di valore per l’umanità, che è sempre attuale. Occorre, però, fare i conti con ciò che contraddice i suoi valori nell’esercizio della potestà di governo e della guida spirituale, perché la Chiesa non è immune alla corruzione.

I comportamenti che annebbiano l’identità non sono soltanto gli errori individuali degli uomini e delle donne di Chiesa. Si può parlare anche di malfunzionamenti e corruzione nella cultura dell’istituzione. Ci si riferisce ai modi di fare sbagliati, che sono diventati cattive abitudini nell’organizzazione. Nel messaggio di Natale alla Curia del 2014, Papa Francesco fece un elenco dei “mali curiali”9.

Nel paradigma comunicativo e relazionale della Chiesa, parlare di problemi “culturali” è più consono che usare il termine “sistemico”. Spesso si può leggere nei mezzi di comunicazione l’accusa alla Chiesa di “corruzione sistemica” in qualche aspetto. Ho difficoltà, tuttavia, ad accettare come adeguato l’aggettivo “sistemico”, perché spesso vedo che si vuole far passare il messaggio che la Chiesa sia un “sistema di corruzione”, o una “struttura corrotta per natura” da sopprimere, quando questa non è la realtà.

Tuttavia, occorre avere il coraggio di individuare i punti di corruzione e le “malattie” che sono diventate “cultura” (Fernández Aguado 2008)10. I motivi possono essere molti. I più ricorrenti potrebbero essere descritti così: un eccessivo funzionalismo o pragmatismo, la propagazione della falsità o della doppiezza (doppio discorso e fratture nella coerenza di vita secondo il Vangelo), una finta indulgenza, il declino della lealtà che porta alla mormorazione e alla sfiducia.

Un esempio di cultura abusatrice lo vediamo quando formalmente si dichiara e si promuove un principio, ma in pratica si fa l’opposto. Per esempio:

  • Si promuove la libertà, ma lo stile di vita nella comunità diventa oppressivo, fa sentire soggiogati o sottomessi. Si percepisce un controllo esagerato e una grande pressione psicologica dovuta all’ambiente nella vita della comunità.
  • Si dichiara la distinzione fra il foro esterno e quello interno, lasciando la scelta del confessore, ma in pratica si mette pressione a chi si confessa con qualcuno che sia parte della comunità.
  • Si parla di carità e misericordia, e si rimprovera di “non essere fedeli” coloro non riescono a tenere il passo nella vita spirituale di comunità, o si condanna chi abbandona la vocazione come se stesse facendo “un tradimento a Dio”.

Un altro ambito di abuso riguarda la segretezza istituzionale. A volte si arriva non solo a nascondere informazioni (il che sarebbe giustificabile in alcuni casi, perché il diritto a sapere non è assoluto), ma anche a coprire crimini. In questo senso, «l’abuso della segretezza danneggia l’autorità e indebolisce i rapporti all’interno della Chiesa» (Pujol, Montes de Oca 2022, 31 ss.).

In ambito spirituale un “rapporto abusante” può darsi in diversi modi: in relazioni di subordinazione gerarchica o spirituale, soprattutto di adulti vulnerabili come seminaristi o novizie; in rapporti di amicizia spirituale o di accompagnamento spirituale fra persone adulte (consacrate e non). Sarebbero abusanti i modi impositivi e tassativi di consigliare che sostituiscono la volontà: “tu hai vocazione”, “non sei sincera”, “se non ubbidisci meglio che te ne vai”. Come mostra l’esperienza e confermano gli esperti, questi rapporti possono diventare di “dominio” emozionale o affettivo, quando sacerdote, suora, laico o laica, sfruttano il tipo di rapporto spirituale e abusano della fiducia della vittima. Non bisogna sottovalutare che chi viene sfruttato da questi abusi spirituali è principalmente la vittima, ma anche la Chiesa stessa, come “Corpo di Cristo”. Al contrario, un “rapporto sano” dovrebbe favorire la crescita spirituale e umana tramite la libertà interiore che porta ad un’identificazione più grande con Gesù Cristo.

Il processo della comunicazione è un grande alleato contro alcuni mali nella cultura istituzionale: l’opacità, l’omertà, il doppio discorso. La comunicazione favorisce l’apertura, la corresponsabilità, la trasparenza e l’accountability. La comunicazione come autoriflessione sulla propria identità può aiutare a far sì che l’organizzazione non si ammali gravemente: «Il peggior errore è non riconoscere l’errore» (Mora 2021, 83).

La giustizia e la tutela del rispetto ad ogni persona (persona intesa nel senso più ampio del termine: anima e corpo, personalità e coscienza) sono le prime misure da adottare davanti ai potenziali abusi nelle mediazioni di governo o nella guida spirituale nella Chiesa. Un buon rimedio per evitare la deriva della cultura istituzionale è ascoltare sul serio. L’ascolto permette di identificare e affrontare i problemi subito, appena si presentano. Puntiamo a un ascolto che non sia cosmetico e che favorisca l’azione di governo.

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1 Prendo la nozione di “pubblico” che usa La Porte: «gruppo omogeneo di persone con cui un’istituzione entra in contatto nello svolgimento della propria attività» (La Porte 2009, 212). Da un lato, non è un rapporto con un “cliente” o “consumatore” di un prodotto, ma una relazione al livello più profondo e trascendente. Dall’altro, il rapporto con le entità pubbliche va anche al di là del mero interesse prammatico, e si fonda sul rispetto e l’onestà (cfr. ibidem, 213-214).

2 Il 65% ritiene che la mancanza di civiltà e di rispetto reciproco oggi sia la peggiore che abbia mai visto. Il 62% ritiene che il tessuto sociale che un tempo teneva unito il Paese sia diventato troppo debole per fungere da base per l’unità e l’obiettivo comune (cfr. Edelman Trust Barometer 2023, 22, disponibile su: https://www.edelman.com/sites/g/files/aatuss191/files/2023-03/2023%20Edelman%20Trust%20Barometer%20Global%20Report%20FINAL.pdf.).

3 Ratzinger dice che «La Chiesa ha bisogno di uno spirito di libertà e di franchezza proprio in riferimento alla parola: “Non spegnete lo Spirito” (1 Tess 5,19)», con la stessa libertà e onestà che portò Paolo a correggere faccia a faccia Pietro. Fu anche grande Pietro che superando la cerchia di paura di Giacomo, accettò la correzione di Paolo. La Chiesa vive di questa libertà di parola, circondata di verità e grande amore alla Chiesa.

4 Come spiega Tanzella-Nitti: «La credibilità di un contenuto come quello evangelico è indissociabile dalla testimonianza e dalla sincerità del comunicatore: ciò che si trasmette nell’annuncio cristiano non è un’informazione, ma una situazione vitale, un’esperienza che deve essere accessibile e verificabile. Nei media il messaggio viene proposto generalmente attraverso modelli e personaggi “costruiti”: anche quando il comunicatore volesse trasmettere con sincerità una certa dimensione vitale, questa resterebbe inevitabilmente “mediata”. La parola evangelica interpella in ordine ad una risposta personale, mentre i moderni messaggi “mediati”, sebbene presentino certamente una dimensione interattiva, privilegiano la “disponibilità” del messaggio e la “flessibilità” del mezzo rispetto all’attesa e alla valutazione della loro ricaduta» (Tanzella-Nitti 1998, 41).

5 L’accountability dei vescovi è affrontata particolarmente nel capitolo 8: «Non dirmi che sei responsabile, dimostramelo!». Cfr. Pujol e Montes de Oca (2022), 157-178.

6 «Dal punto di vista tecnico manageriale, la corresponsabilità comporta la trasparenza nella gestione delle risorse comuni e la capacità di rendere conto in ogni momento della loro amministrazione da parte dei responsabili». Miñambres (2021).

7 «(…) nelle riunioni, manifesti la sua opinione con fraterna franchezza: senza timore quando è necessario pronunciarsi differentemente dal parere di altri, ma disposto ad ascoltare e comprendere le ragioni contrarie». Oppure, n. 65: «(…) quando il bene comune dei fedeli richieda una comune linea di azione, il Vescovo sarà pronto a seguire il parere della maggioranza, senza ostinarsi nelle sue posizioni». Come giudice prudente «sarà sempre al di sopra degli interessi personali e, alieno da ogni precipitazione o spirito di parte, attenderà di ascoltare gli interessati prima di giudicarne i comportamenti». N. 66: «il Vescovo eviti le maniere autoritarie nell’esercizio della sua potestà e sia pronto ad ascoltare i fedeli e a cercarne la collaborazione e il consiglio, attraverso i canali e gli organi stabiliti dalla disciplina canonica». N. 160: «Egli deve anche compiere le opportune consultazioni di persone competenti ed ascoltare, secondo le prescrizioni del diritto, i vari organismi di cui la diocesi dispone per far fronte ai problemi (…)».

8 «(…) il Consiglio diocesano per gli affari economici, unitamente al Collegio dei Consultori deve essere ascoltato per gli atti di amministrazione di maggiore importanza (…) e di amministrazione straordinaria (stabiliti dalla Conferenza Episcopale) il Vescovo necessita del consenso del Collegio dei Consultori e del Consiglio diocesano per gli affari economici»; n. 214, per la pianificazione dell’erezione di parrocchie deve ascoltare il Consiglio Presbiterale.

9 Papa Francesco individuò quindici patologie: Sentirsi immortali; l’eccessiva operosità e pragmatismo; il cuore di pietra; l’eccessivo funzionalismo e controllo; il mal coordinamento; l’alzheimer spirituale; la vanità, il narcisismo e la vanagloria; la schizofrenia esistenziale; le chiacchiere, mormorazioni e pettegolezzi; divinizzare i capi; l’indifferenza; la faccia funerea; l’eccesso di attacco ai beni materiali; i gruppi e circoli chiusi. Cfr. Francesco (2014).

10 Fernández parla di come le organizzazioni si ammalano per: 1) Miopia: mancanza di visione e di anticipazione. Avere big data senza big thinking è come avere un’enorme farmacia senza una diagnosi e una prescrizione adeguate. La miopia dei manager impedisce di guardare le cose in modo corretto (negatività, eccessivo drammatismo), o impedisce la normale prudenza necessaria per anticipare. Questa miopia si estende alla comunicazione: non si informano su ciò che interessa agli altri, o viceversa (76-78). 2) Sordità: mancanza di capacità di ascolto. Blocca la capacità di apprendimento e di miglioramento. Minaccia la fiducia. Favorisce l’egoismo e le percezioni casuali, scoraggia il talento. Ascolto selettivo: escludere è inevitabile, ma i manager devono conoscere questo punto cieco. Aprire canali di ascolto, per sentire chi mi farà vedere ciò che non vedo (79-82). 3) Schizofrenia: discrepanza tra ciò che si dice e ciò che si fa; doppio discorso. L’incoerenza che porta a negare o a persuadersi che il proprio atteggiamento va bene (69-70). 4) Depressione: scoraggiamento generalizzato frutto dell’accumulo di fattori di rischio o delle patologie precedenti. Lo scoraggiamento in un’istituzione è frequente quando le persone non si sentono ascoltate e vedono ripetutamente doppi discorsi o mancanza di coerenza (100-113).