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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Relazioni asimmetriche: aspetti teologici e pedagogici

Peter Beer, Angela Rinaldi

IADC – Pontificia Università Gregoriana (Roma)

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Introduzione

Parlare di relazioni asimmetriche in un contesto come quello della Chiesa cattolica richiede un esame delle strutture che essa, come istituzione, ha costruito nel corso della sua storia.

Per comprendere il funzionamento di alcune dinamiche sviluppatesi in tali strutture è fondamentale considerare le relazioni tra persone. Esse, secondo il magistero cattolico, dovrebbero sempre trovare fondamento nella presenza di Dio-Amore e nella dignità di ogni persona umana di fronte a lui, che dovrebbero tradursi nella pratica in quella che chiamiamo fratellanza universale.

La persona umana è per natura dignitosa, in quanto creata a immagine di Dio (Gen ١,٢٦; Sap ٢,٢٣) ed essere sociale (Gaudium et spes, n. 12).

Come unione di anima, corpo e spirito, la persona ha diritto a che la propria integrità sia protetta e rispettata. Quando avviene un uso improprio della relazione tra persone all’interno di un certo contesto, comunità o organizzazione, tale integrità viene compromessa o distrutta e spiana la strada ad abusi di diverso tipo. La dignità della persona viene dunque messa in discussione.

Un altro concetto teologico importante che è bene considerare riguarda la fratellanza universale degli uomini e delle donne del Popolo di Dio. In quanto essere relazionale, la persona umana ha una tensione comunitaria ed è portata a vivere con gli altri che, secondo il magistero, Dio ha voluto essere tutti fratelli (Gaudium et spes, n. 24; Populorum Progressio, nn. 43-44). Secondo l’insegnamento della Chiesa, il fondamento della legge che Dio dà agli uomini è l’amore, per Dio stesso e per il prossimo, ed è nel rapporto – diremmo sano – con i fratelli che la persona esprime la propria dignità e cresce in virtù.

Sembrerebbe non ci sia spazio per relazioni asimmetriche e di potere. Tuttavia sappiamo che nella pratica non è così.

Date tali premesse, l’obiettivo di questo testo è chiarire la presenza di alcune questioni storicamente presenti nelle strutture della Chiesa e che oggi sembrano sfidare il messaggio dell’insegnamento cattolico e della sua relazione con la realtà della fede vissuta.

1. Le relazioni asimmetriche e i risvolti morali

Abbiamo già anticipato che l’essere umano è per natura relazionale, direbbe Aristotele zòon politikòn (Aristotele, Politica, 1253a, 3), ed esprime tale natura nelle quattro relazioni fondamentali: con se stesso, cioè con la propria interiorità, con gli altri – nella comunità –, con la natura/il creato, quindi con l’ambiente in cui vive, e con Dio, «con Qualcuno o Qualcosa più grande di lei o lui» (D’Ambrosio 2011, 13).

Queste relazioni dovrebbero essere considerate in una sorta di armonia: trattandosi di relazioni umane, è necessario far sì che esse siano tutelate e custodite in quanto parti essenziali contribuenti all’integrità della persona umana, al riconoscimento e alla cura della sua dignità, come soggetto che trova il suo compimento nella relazione “io-tu” che si sviluppa in ognuna delle dimensioni citate. In tal modo, nella visione aristotelica, la persona umana è politikòn (essere politico), cioè in relazione.

Tuttavia, quando parliamo di relazioni, dobbiamo anche considerare che esse non sempre si sviluppano in modo “simmetrico”. O forse quasi mai.

Infatti, parlando di “relazioni asimmetriche” ci riferiamo a relazioni tra persone, nelle quali non sussiste un equilibrio di potere. In quanto tale, questa condizione non è altro che un fatto che può verificarsi in vari ambiti della vita di una persona o di un’istituzione, semplicemente in virtù della natura stessa dell’esistenza umana e dei suoi limiti. Le relazioni asimmetriche sono pressoché inevitabili: possiamo citare alcuni esempi come l’assistenza ai malati e agli anziani, la crescita e l’educazione dei figli in famiglia nonché le varie forme nelle quali si sviluppano relazioni di cura (personale, comunitaria e pastorale).

Vediamo dunque che il problema da esaminare attentamente non è tanto lo squilibrio di potere, che sembra tanto frequente quanto la relazionalità stessa della persona, ma il possibile uso improprio del potere da parte di chi lo detiene. Infatti, il quesito è fondamentalmente di natura etica.

Eticamente parlando, il potere è relazione e, sulla base di quanto detto precedentemente, è tale per essere creativo, costruttivo e dunque finalizzato al bene.

Tuttavia, nella vita pratica, le “relazioni asimmetriche”, di potere, possono essere gestite in diversi modi: parliamo di un uso “morale” della relazione, se per una serie di ragioni, la parte più forte può riconoscersi il dovere di proteggere la più debole e tentare di valorizzarla nel suo peculiare modo di essere, in quanto soggetto indipendente e dotato di per se stesso di valore. Risulta altrettanto morale se la parte che esercita il potere si impegna a ridurre progressivamente le differenze all’interno delle “relazioni asimmetriche”, in modo che la parte più debole venga sostenuta e appoggiata da quella più forte.

Parliamo invece di un uso “immorale” riferendoci alle relazioni in cui la parte più forte può trarre un qualche vantaggio a spese della parte più debole: in questo caso possiamo parlare di relazioni abusanti o di sfruttamento.

È dunque necessario che chi esercita un potere risponda responsabilmente a tale quesito etico, e cioè utilizzando tale posizione di “superiorità” nella relazione per il bene della parte più debole e vulnerabile nonché raggiungendo quel grado di consapevolezza per cui è la stessa parte più forte a essere soggetto attivo del potere che detiene. Ciò non significa far passare la persona vulnerabile in secondo piano o renderla un soggetto passivo, ma – al contrario – spostare la centralità della relazione nella stessa parte vulnerabile, facendo emergere però la responsabilità etica di chi esercita il potere: se io esercito un potere, io sono il soggetto responsabile dell’uso o dell’abuso di tale potere.

Specie in ambito ecclesiastico, riconoscere l’importanza della responsabilità è fondamentale. Essa è intesa sia in termini personali (nella relazione “io-tu”) sia comunitari, dunque sociali. In istituzioni millenarie come la Chiesa, sarebbe bene tornare a riflettere su questi argomenti in quanto chi rappresenta la chiesa-istituzione gode di un potere e di privilegi che, se utilizzati per scopi diversi dal bene dell’altro o della comunità, possono mettere a rischio la dignità e la sicurezza delle persone vulnerabili, sia a livello di relazione interpersonale sia comunitario.

Infatti, nella Chiesa, esistono oggi discussioni relative agli abusi di potere che possono svilupparsi in diversi contesti: uno è l’ambito della sessualità – abbiamo visto e vediamo tutt’ora notizie riguardanti abusi sessuali su minori e persone vulnerabili nella Chiesa –, un altro riguarda la spiritualità – basti pensare agli abusi nel campo della spiritualità e della coscienza, che possono avvenire nelle case di formazione per religiosi e nei seminari; vi sono discussioni anche in ambito “politico” e istituzionale, specialmente in riferimento a ciò che oggi chiamiamo clericalismo, cioè quella «concezione del potere – da cercare, trovare, ostentare – contraria a quella evangelica, uno status sociale autocratico e prestigioso che si riferisce al sacerdozio o all’episcopato, che punta sul denaro e su un tenore di vita eccessivamente alto» (Doyle 2003, 211). Citando tutte queste discussioni è bene fare riferimento anche alle mancanze educative e formative dell’istituzione ecclesiastica, che si sono mostrate nel corso degli anni rispetto all’insegnamento evangelico di Cristo: un esempio è dato dalla scarsa tempestività della reazione della Chiesa al fenomeno degli abusi, provata dall’insufficiente attenzione a possibili dinamiche abusanti, a fattori di rischio o ai vari disturbi della personalità sofferti da seminaristi poi diventati sacerdoti.

In tale campo, e andando in profondità, ciò porta ad affermare, come abbiamo già accennato, la necessità di riconoscere la contraddizione tra la fede fin qui costruita e la realtà, cioè tra la fede come risultato dell’insegnamento millenario della Chiesa e la pratica della fede stessa. Dunque, come possiamo interpretare tale contraddizione? Si potrebbe pensare che sia stata sbagliata la dottrina? Oppure dire in modo semplicistico che siamo tutti peccatori? Si ritiene necessario trovare una “terza via” che venga da un nuovo modo di riflettere su tali argomenti e che si ponga domande seriamente costruite sui sistemi e le strutture che hanno facilitato o facilitano gli abusi di potere.

2. Il “modello” e il suo insegnamento

Qualunque sia l’opzione scelta per gestire le relazioni asimmetriche, una decisione consapevole e responsabile richiede un punto di riferimento morale, un modello. In una prospettiva cristiana, tale punto di riferimento è l’annuncio e l’azione di Gesù. Si possono evidenziare tre esempi di come Gesù abbia affrontato le relazioni asimmetriche.

In primo luogo, possiamo osservare il modo in cui egli si rapporta con i bambini. In qualità di adulto, Gesù è chiaramente più forte rispetto ai bambini, ma dedica loro un’attenzione particolare, li mette al sicuro, li pone al centro (Mc 9,36), li benedice (Mc 10,16) e avverte tutti coloro che hanno la possibilità – il potere – di fare loro del male (Mc 9,42) che sarebbe meglio che si leghino una macina da mulino al collo e si gettino in mare. Gesù protegge e, se vogliamo, addirittura favorisce i bambini.

In secondo luogo, il suo modo di trattare i peccatori. Alla luce dell’incarnazione di Dio in Gesù, appare quasi banale parlare di una relazione asimmetrica tra Gesù e i peccatori. Tuttavia, egli non si comporta nei confronti di questi ultimi come vendicatore e giudice, ma li lascia liberi, affinché siano essi stessi a decidere cosa fare, come andare avanti, confidando nelle loro capacità. Salva l’adultera dal giustizialismo moralistico della folla, non la allontana, non si fa supplicare a lungo, non la rende dipendente da lui, ma le dice solo: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

In terzo luogo, la comprensione del regno di Dio. Gesù dà particolare valore al fatto di non allinearsi alle modalità di esercizio del potere tipiche dei forti del suo tempo e di non agire come loro. Uno degli esempi più chiari è quando dice: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). Il Regno dei Cieli appartiene ai piccoli, ai deboli, agli emarginati. Ciò non nega le condizioni e i modelli di relazione esistenti, ma apre un nuovo orizzonte e indica la forza che risiede nei deboli.

Da questi tre esempi, possiamo cogliere alcuni principi seguiti da Gesù nel suo relazionarsi con persone appartenenti alle tre categorie qui citate. È possibile applicare tali principi anche ad altre.

  • La cura dei piccoli: quello che trasmette Gesù è un potere che cura, responsabile, in grado di rispondere alle necessità dei piccoli rispettando le fasi della loro crescita e trattandoli non come “piccoli adulti”, ma come persone in formazione. È necessario tenere presente che i bambini in quanto tali si trovano nelle prime fasi del loro sviluppo – umano e integrale – verso la maturazione della propria agency che contribuisce a renderli empowered, cioè autodeterminati e consapevoli di essere in grado di apportare responsabilmente dei cambiamenti nella società in cui vivono, quindi di maturare una concezione di potere in termini sociali finalizzata al bene comune (Rinaldi 2008).
  • La libertà della persona: quello di Gesù è un potere che libera il peccatore senza costruire una relazione di dipendenza, ma invitandolo a seguirlo nella libertà. Secondo Romano Guardini, libero è colui che rimane fedele a se stesso, che è in grado (ha il potere) di essere se stesso e di essere “uno con se stesso”, cioè con la propria coscienza (Guardini 2008, 115). È una libertà di figli, che in molti passi del Vangelo Gesù annuncia e dona, guarendo gli infermi e liberando dai peccati (Mt 9,1-8). È dunque una libertà che deriva dall’uscita della persona da una condizione di “schiavitù” interiore – il peccato – e le permette di riscoprirsi amata da Dio.
  • La centralità dei vulnerabili: Gesù offre un modello di esercizio del potere che si basa sull’uguale dignità di ogni persona umana, a prescindere dalle contingenze o dalle risorse che detiene. Inoltre, sulla base della fratellanza universale, insegna a utilizzare un potere responsabile e solidale. Il principio di solidarietà, infatti, è uno dei cardini dell’insegnamento sociale della Chiesa e, insieme alla sussidiarietà, garantisce che il cristiano offra o riceva un aiuto sussidiario, dunque non paternalistico, che permetta di intraprendere o proseguire il proprio cammino di sviluppo «da condizioni meno umane a condizioni più umane» (Populorum Progressio, n. 20).

3. Alcune linee guida dalla pedagogia contemporanea

Se in termini morali, il modello di Cristo e i principi da lui trasmessi devono ispirare l’azione di chi detiene il potere rappresentando “la parte più forte” nella relazione, a livello pratico è bene avere delle linee guida. Si deve considerare che generalmente, in ambito ecclesiale, chi detiene un potere è anche responsabile di trasmettere o insegnare il messaggio cristiano a persone (fedeli) di qualunque categoria: bambini, giovani, adulti e anziani, poveri e ricchi, persone più o meno istruite e così via. Potremmo anche aggiungere che quella tra formatore e formando è una delle relazioni dove più si manifestano squilibri di potere.

Se è vero che la formazione cristiana deve aiutare a coltivare, tra l’altro, la responsabilità sociale, la cura per gli altri e la libertà dei figli, è anche vero che in tale ambito la relazione tra chi è nella posizione di insegnare, istruire o formare e chi si sta formando deve poter mantenersi salutare e orientata alla centralità di quest’ultimo e del rispetto della sua integrità. Il formando, infatti, riconosce e accetta l’autorità di colui o colei che è incaricato o incaricata della formazione: ciò dà legittimità al potere del formatore, che deve necessariamente essere consapevole di tale responsabilità. Qualora egli decidesse di utilizzare tale potere non dando priorità al formando ma a se stesso, alla propria gratificazione personale e all’esercizio del controllo sul formando stesso, si spianerebbe la strada ad abusi di diverso tipo: emotivi, psicologici, fisici, sessuali e certamente di potere nell’ambito della spiritualità e della coscienza. Per il formando, già parte di una relazione sbilanciata, si aggraverebbe la propria vulnerabilità e troverebbe svuotata la propria capacità (empowerment) di resistere alle possibili pressioni del formatore, che a questo punto ha già instaurato una relazione rischiosa di dipendenza e possibilmente abusante.

Dunque, il principio personalista per cui «la persona umana […] è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali» (Gaudium et spes, n. 25) è centrale anche se portiamo la discussione sul piano della pedagogia.

Le linee guida per gestire le relazioni asimmetriche che emergono dall’azione e dal discorso di Gesù sono correlate a quanto si può ricavare dalla pedagogia contemporanea e rappresentano la traduzione pratica dei principi etici di cui sopra.

Nelle relazioni tra formatore e formando, asimmetriche per definizione, è importante che il formatore consideri quanto segue:

  1. Nonostante le sue mancanze, peraltro comuni a tutti gli esseri umani, il formando ha anche i suoi punti di forza e i suoi carismi, preziosi per imparare a indirizzare il proprio processo di sviluppo in virtù tanto dei punti di forza quanto di debolezza; il formatore è lì per accompagnare e non è nelle sue prerogative prendere decisioni per l’altro.
  2. Quello del formatore è, sull’esempio di Gesù, un potere che libera. Una buona formazione non rende le persone dipendenti, ma libere; il formatore dovrebbe conoscere la portata del potere di cui dispone nei confronti del formando ed essere in grado di tutelare la libertà di quest’ultimo rifuggendo ogni tipo di dipendenza relazionale.
  3. È parte del ruolo del formatore impegnarsi a non mantenere lo status quo, ma consentire un’evoluzione della persona che accompagna. Quello della formazione è un processo, per ciascuno e per tutti, verso la maturità integrale del formando. Non può essere nulla di statico, ma deve necessariamente mostrare un movimento. Il formatore è lì per innescare processi perché il tempo è superiore allo spazio (cfr. Evangelii Gaudium, n. 223).
  4. Il formatore, nel suo ruolo, è chiamato a non appropriarsi del valore proprio della persona del formando, ma a riconoscere il valore di quest’ultimo in quanto tale, come persona umana, amata da Dio.
  5. Come non è lì per prendere decisioni, il formatore non dovrebbe neanche cercare egoisticamente o narcisisticamente il proprio vantaggio, ma rappresentare, sostenere e tutelare gli interessi dell’altro: come afferma Paolo VI parlando delle missioni di sviluppo e che possiamo anche estendere ai formatori, questi ultimi «non devono comportarsi da padroni, ma da assistenti e da collaboratori» (Populorum Progressio, n. 71) capaci di mettere al centro della relazione il bene di coloro che sono incaricati di formare.

Abbiamo appurato che far fronte alle relazioni asimmetriche e confrontarsi con la necessità di linee guida che si ispirino allo spirito di Gesù è questione che la Chiesa non può esimersi dall’affrontare, per diverse ragioni. E vedremo di seguito che quanto finora detto non può essere applicato solo alla relazione formativa ma a qualsiasi relazione che presupponga una cura personale e/o pastorale, specie nella Chiesa.

4. Affrontare le relazioni asimmetriche nella Chiesa: un nuovo paradigma

A questo punto, è bene concentrarci sulle strutture che finora hanno caratterizzato e ad oggi caratterizzano la vita della Chiesa, nella quale – è stato ripetuto più volte – esistono relazioni asimmetriche.

Come nel caso delle relazioni tra persone, anche nella Chiesa a livello sistemico vi sono modi morali e immorali di concepire e costruire tali relazioni.

Possiamo pensare, per esempio, ad alcune correnti di pensiero teologiche (per esempio relativamente al ruolo dei consacrati) e alla loro trasposizione nella vita concreta della Chiesa: il clericalismo è un problema serio che fa parte della cultura cristiana, specie cattolica, per cui i consacrati – poiché investiti di un certo ruolo – si ritengono essere molto più vicini a Dio di quanto non lo siano altri che non possiedono le stesse prerogative. Si è potuto osservare una sorta di idealizzazione della figura del sacerdote e del religioso, che ha portato i fedeli a pensare a loro come a una quasi-perfezione implicando l’impossibilità pressoché totale di mettere in discussione decisioni prese o parole dette da persone che ricoprono ruoli come questo. Per il Popolo di Dio, accettare – e dunque legittimare – tali posizioni ricoperte da consacrati e religiosi ha significato sottostare alla creazione di strutture istituzionali volte a mantenere il controllo sulla crescita umana delle persone nonché sulle capacità di giudizio e decisionali dei fedeli. Difficilmente un potere come questo, specialmente esercitato da strutture gerarchiche, porta alla libertà.

In questo senso, dando spazio a distorsioni come il clericalismo, si contano alcune conseguenze gravi sulle persone e sul Popolo:

a. La grazia e l’ufficio finiscono per mescolarsi: come diceva sant’Agostino nel Discorso 340, «Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell’incarico ricevuto, questo della grazia; quello è occasione di pericolo, questo di salvezza». Dunque, è necessario per tutti imparare a discernere la grazia e l’ufficio perché contribuiscano a trasmettere un’idea del religioso o del consacrato che eviti l’idealizzazione della persona e la sua elevazione a una dignità superiore, ma nutra una fede reale nella grazia di Dio.

b. Quando avvengono abusi, la tendenza è coprire e porre in secondo piano il bene delle vittime – rinunciando al principio personalistico di cui sopra – dando invece priorità a ciò che chiameremmo “ragion di Stato” o “il buon nome dell’istituzione”. Se il modello da seguire è Gesù, va seguito fino in fondo: di fronte a Pilato, Gesù sapeva di essere Dio e poter sottrarsi alla sua morte. Decide tuttavia di non farlo, in virtù di un “piano superiore”: doveva «rendere testimonianza alla verità» (Gv 18,37); sottrarsi alla morte significava mettere al centro se stesso, invece che il progetto di Dio, dunque la “ragion di stato” invece che il bene di tutti (Maggioni 2011, 63). Anche in questo passo, a modo suo, Gesù insegna come usare il proprio potere in modo costruttivo e creativo.

c. In linea con quanto appena detto, negli anni e specie nelle questioni relative agli abusi su minori e persone vulnerabili nella Chiesa, le strutture ecclesiastiche hanno permesso e incoraggiato il proliferare di una cultura dell’impunità: chi abusa del proprio potere, non viene fermato, continua ad abusare perché non è previsto che vi siano persone nella posizione di “punire” (questo accade specialmente nel caso dei leader); da un parte, gli abusanti sanno che le vittime non denunciano facilmente – o per paura o vergogna, o perché minacciate o per altre ragioni; dall’altra sanno di operare in strutture istituzionali che li proteggeranno, per esempio, dislocandoli tra le varie parrocchie, diocesi, o istituti.

Contrarie al clericalismo esistono però anche strutture istituzionali nella Chiesa che, seppur presupponendo relazioni asimmetriche, rispondono con successo al compito di cura e tutela in maniera particolare delle persone vulnerabili: basti pensare alla sinodalità, chiamata a essere contraltare del clericalismo.

Uno dei principi fondamentali del processo sinodale è la corresponsabilità. Benedetto XVI nel 2012 affermava che «la corresponsabilità esige un cambiamento di mentalità riguardante, in particolare, il ruolo dei laici nella Chiesa, che vanno considerati non come “collaboratori” del clero, ma come persone realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa» (Benedetto XVI 2012). È necessario che tutti i membri del Popolo di Dio si sentano responsabili dello sviluppo della Chiesa, sulla base della pari dignità che li accomuna, e agiscano ognuno secondo il proprio carisma.

Una corresponsabilità funzionante implica alcuni accorgimenti: prima di tutto un ascolto attento che metta al centro la persona, senza pregiudizi o sovrastrutture, e rispetti la diversità delle persone nonché la ricchezza di cui tale diversità è portatrice; una buona formazione – integrale e umana – di religiosi, consacrati e laici sull’importanza di una partecipazione responsabile di tutti alle decisioni e al futuro della chiesa; la capacità di innescare processi e mettere in atto progetti che mettano al centro la persona e valorizzino la collaborazione di tutti dal processo decisionale alla messa in pratica dei progetti stessi.

Anche il modo attuale di vedere la corresponsabilità, intesa in un processo in cui tutti sono chiamati a contribuire ma pochi o uno solo a decidere, può essere rischiosa e dare spazio alle contraddizioni di cui abbiamo parlato all’inizio.

Alla luce di ciò che ha caratterizzato la storia della chiesa e degli errori passati che abbiamo potuto vedere nell’ambito della gestione della crisi degli abusi, dobbiamo approfondire le contraddizioni emerse e proporre un nuovo paradigma che tenga conto della naturale presenza di relazioni asimmetriche e dell’importanza di confrontarsi con esse quando si ha a che fare con questioni che interpellano la responsabilità della Chiesa. Per fare ciò possiamo prendere in considerazione tre elementi. In primo luogo, è necessario essere formati perché sia garantita per tutti una presa di coscienza delle relazioni asimmetriche e le possibilità esistenti di ridurne l’asimmetria. Questo include anche la discussione, a volte molto controversa, sulla connessione tra premesse teologiche, relazioni asimmetriche e gestione abusante delle stesse. Sembra dunque centrale una rivisitazione delle strutture istituzionali della Chiesa, accompagnata da una revisione di certe convinzioni teologiche, come quelle sul ruolo dei sacerdoti e dei religiosi, sul perdono e sulla partecipazione responsabile dei laici nella vita della Chiesa.

Altrettanto difficile è la discussione sull’introduzione di una qualsivoglia forma di controllo delle persone che hanno posizioni istituzionalmente forti nella Chiesa.

Uno degli errori che la Chiesa ha fatto nei decenni precedenti ha riguardato proprio l’incapacità di controllare i leader religiosi (per esempio, vescovi e superiori) e il loro modo di affrontare la crisi degli abusi. Il che ha dato vita a una “crisi nella crisi”, costituita in primis dalla gravità degli abusi di diverso tipo commessi da chierici e religiosi su minori e persone vulnerabili e poi dal comportamento di diversi vescovi e superiori nel coprire i reati dei colpevoli parti del proprio clero o delle proprie comunità nonché dalla superficialità con la quale molti leader hanno affrontato tale crisi. In questo ambito rientra il dibattito sull’attuazione dei principi di trasparenza, compliance e accountability che emergono nella Lettera di papa Francesco al Popolo di Dio (2018).

La trasparenza è uno dei principi cardine su diversi livelli, come l’ascolto delle vittime – la relazione asimmetrica interpersonale – e la garanzia della capacità dell’istituzione di gestire la crisi. La Chiesa, dunque, è chiamata ad assumersi la responsabilità di una trasparenza solidale. Dice il Papa: «Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore».

Dove non possiamo vedere trasparenza c’è ambiguità, e dove c’è ambiguità c’è perversione del potere. Dove non c’è trasparenza la luce non filtra e il contenuto di ciò che si vuole vedere rimane sconosciuto o, meglio, ambiguo. George Ritter nel suo libro, Il volto demoniaco del potere, afferma «Il demoniaco non è la pura semplice negazione del bene, non è la sfera della totale oscurità che si contrappone alla piena luce, ma è quella della mezza luce crepuscolare, dell’ambiguità, dell’incerto» (Ritter 1997, 71). È ambiguità l’abitudine di coprire abusi di diverso tipo in un’istituzione, così come l’applicare certe regole ad alcune persone nell’istituzione e non ad altre, è ambiguità nutrire strutture che generano una contraddizione tra i principi e la prassi o la fede vissuta.

La compliance è tradotta in italiano come “conformità”. Dicendo che le strutture e l’atteggiamento della Chiesa devono essere “conformi” abbiamo in mente l’importanza della coerenza tra messaggio e azione.

Insieme alla trasparenza, questo principio è fondamentale specialmente nella comunicazione istituzionale.

Parafrasando Mary Douglas, è necessario che i principi morali alla base della comunicazione istituzionale vengano interiorizzati e quindi vissuti veramente nella vita quotidiana dell’istituzione, dunque nelle strutture (Douglas 1990, 138). La compliance implica che la persona o l’istituzione metta in atto una delle virtù più importanti: la veracità. Secondo Romano Guardini, essa va intesa come «l’amore per la verità, la volontà [il desiderio] che la verità debba essere conosciuta e accettata» (Guardini 1972, 21). Per poter avere cura delle vittime – e quindi mettere al centro le persone – è necessario rispondere con coerenza e trasparenza alle sfide del tempo anche laddove esse mettano a rischio la “stabilità” istituzionale.

L’accountability è un principio di cui si è iniziato a parlare molto a seguito della crisi degli abusi. Essa è per di più intesa in termini istituzionali e implica la capacità dell’istituzione (la struttura) di rendere conto delle proprie decisioni e azioni. Si potrebbe dire che responsabilità e accountability sono strettamente legate e contribuiscono a che un’istituzione o un’organizzazione sia in grado di rispondere delle proprie azioni e decisioni alle persone nei confronti delle quali tali decisioni vengono prese. Potremmo trovare l’origine filosofica di questo principio nella distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità di cui parlava Max Weber:

Ogni agire orientato eticamente può stare sotto due massime radicalmente contrapposte e fondamentalmente diverse l’una dall’altra: può essere orientato, cioè, secondo l’“etica della convinzione” oppure secondo l’“etica della responsabilità”. […] Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo l’etica della convinzione, la quale – in termini religiosi – suona “il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio”, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni.

Va da sé che l’elemento della responsabilità va legato alla natura del mandato – quindi del potere – che si esercita. Se si è responsabili, specialmente nel caso dei religiosi/consacrati e di chi lavora e opera nella chiesa, si deve essere in grado di rispondere del potere che si detiene, a Dio (che lo ha elargito) e alle persone su cui gli effetti di tale potere si diffondono (Rinaldi 2018, 111-112). Come afferma Linda Ghisoni, «non basta, quindi, prendere coscienza di quanto è accaduto [riguardo agli abusi su minori nella chiesa], occorre farci carico, lasciarci interpellare, come comunità ecclesiale e civile, del dolore delle vittime e dei sopravvissuti» (Ghisoni 2022, 35) e – potremmo aggiungere – agire in modo proattivo per una buona prevenzione.

Insieme a quanto detto finora, riteniamo necessario considerare un altro elemento che si riferisce primariamente a coloro che detengono un ruolo nelle strutture istituzionali: conoscendo i gap educativi e dottrinali, nonché teologici e pastorali, che hanno dato vita alle contraddizioni oggetto del presente articolo, è bene focalizzare l’attenzione sulle attitudini e capacità personali di riconoscere le tentazioni che possono emergere nel caso di relazioni asimmetriche. In tale contesto, parliamo specialmente delle problematiche relative allo sviluppo della personalità, questione che dovrebbe essere presa in considerazione già nella formazione dei candidati all’ufficio ministeriale e alla vita religiosa. Il clericalismo è certamente un facilitatore di tali tentazioni: l’intendere il proprio ministero e la propria vocazione come terreno dal quale ricevere e amplificare i propri privilegi – derivati da un riconoscimento sociale e culturale del ruolo che si ricopre – porta a essere tentati a usare il proprio potere in modo non salutare. Come afferma papa Francesco, la riduzione del Popolo di Dio a élites spinge a costruire comunità senza radici, senza memoria, senza corpo, quindi senza vita (cfr. Papa Francesco, Lettera al Popolo di Dio): questo è il risultato di una concezione della Chiesa che si costruisce sul clericalismo e che ha come risultato la divisione interna di un Popolo-corpo-Chiesa che non è stato creato o concepito per essere tale. Afferma Hans Zollner:

se la connessione tra la leadership nella chiesa e il ministero sacramentale implica che il sacerdote sia un ente autonomo e si senta sempre più onnipotente, risulta ovvio che prima o poi ne verrà compromesso anche il piano spirituale. A questo punto è evidentemente grave la tentazione di non dirigersi verso Cristo […] ma di presentarsi come qualcuno che partecipa della sua “onnipotenza” e ne fa uso. Certamente questo ha portato a un’auto-percezione esagerata, anche da parte di terzi, creando così un sentimento di inviolabilità (Zollner 2020, 317, traduzione degli autori).

Possiamo interrogarci su diversi argomenti:

a. La formazione umana dei candidati alla vita religiosa/consacrata e la formazione permanente di coloro che già esercitano: la formazione umana è tale perché ha come fondamento e fine la persona, che è posta sempre al centro, e ha come obiettivo il raggiungimento della maturità relazionale e affettiva della persona stessa nonché la sua disposizione ad agire in modo virtuoso. Avendo come base una formazione umana buona e solida, la persona può maturare (anche se sempre in cammino) e sviluppare anche spirito e intelletto in modo armonico.

Quello che accade è primariamente ciò che Romano Guardini chiamava autoformazione, grazie alla quale la persona trova e fa emergere la forma originale che Dio ha scritto nella sua anima (Guardini 2008, 189). In sintesi, la formazione umana promuove la crescita integrale della persona, ne forgia la totalità delle dimensioni (Congregazione per il clero 2016, 94) e ne sviluppa i carismi.

La formazione umana è anche parte del processo di formazione permanente dei consacrati e dei religiosi (così come di tutti i componenti del Popolo di Dio) e implica un cammino di sviluppo e di conformazione al modello di Cristo che continui nel corso della vita. È necessario, dunque, essere sempre in grado di entrare in sé stessi e accettarsi nel “qui e ora” per conoscersi sempre di più. Secondo Guardini: «Ho il dovere di voler essere quello che sono […]. Devo collocarmi nel mio me stesso e assumendomi il compito che mi è assegnato nel mondo. È la forma fondamentale di tutto ciò che si chiama “vocazione”; poiché a partire da ciò mi rivolgo alle cose, e dentro ciò le accolgo» (Guardini 2011, 14).

Accettare sé stessi significa anche riconoscere e affrontare le proprie debolezze e vulnerabilità, vuol dire prendere atto – in modo proattivo – degli ostacoli che si possono incontrare durante la formazione (iniziale o permanente) nonché scegliere liberamente di impegnarsi per lavorare, opportunamente accompagnati, sulle proprie carenze ed eventuali atteggiamenti tendenti al narcisismo che si potrebbero scoprire.

b. Sulla base di quanto detto precedentemente, è bene interrogarsi anche sul futuro del ruolo dei sacerdoti: cosa significa essere sacerdoti oggi? Cosa dovrebbe fare un sacerdote per rispondere alla sua vocazione, in una Chiesa dove ci sono sempre meno sacerdoti e sempre più compiti che inevitabilmente finiscono in mano ai laici? È forse a un cambiamento delle strutture che dovremmo pensare. Infatti, sulla base dei carismi di ognuno e partendo dalla visione conciliare della Chiesa come Popolo di Dio, sarebbe bene tornare a dare precedenza al popolo stesso rispetto all’istituzione, affinché una partecipazione reale e responsabile di tutti e ciascuno sia finalmente possibile. Quando parliamo di partecipazione, dobbiamo riferirci a due direttrici:

i. Il determinare insieme: nella struttura attuale della Chiesa, le decisioni si concentrano nelle mani di pochi o di uno solo. Secondo la lezione conciliare, «Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (Lumen Gentium, n. 32). Su tali fondamenti e in base alla dignità che accomuna laici e consacrati, si potrebbero scegliere vie più morali di concepire le strutture ecclesiastiche che mettano veramente al centro la persona e siano nella posizione di monitorare possibili comportamenti immorali dell’istituzione o un esercizio non sano del potere. Perciò, il determinare insieme è fondamentale: attuando il loro compito di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (Lumen Gentium, n. 31), è necessario che anche i laici abbiano un ruolo attivo nella crescita spirituale e materiale del Popolo di Dio. A riguardo, il Concilio afferma: «Grava quindi su tutti i laici il glorioso peso di lavorare, perché il disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi, anch’essi attivamente partecipino all’opera salvifica della Chiesa» (Lumen Gentium, n. 33). Ciò deve necessariamente riferirsi anche all’ambito decisionale.

ii. Il Safeguarding: non più inteso come protezione dei minori e delle persone vulnerabili da ogni tipo di abuso, come per intendere un voler reagire a qualcosa o qualcuno che vuole “minacciare” il buon nome dell’istituzione, ma come impegno per la creazione di spazi e strutture sicuri per tutti, dove sia possibile sia intervenire in modo corretto in caso di abusi già avvenuti, sia costruire le condizioni per prevenirne di futuri.

Si tratta di proporre un cambio radicale della cultura attuale, tesa più verso il silenzio e le coperture che al bene delle vittime. Tale passaggio prevede una demolizione dell’idealizzazione del sacerdote e del religioso, una buona selezione dei candidati alla vita religiosa, una supervisione salutare dei consacrati finalizzata al loro benessere integrale, e la necessaria formazione dei membri del Popolo di Dio ad agire per la costruzione di strutture più sicure sulla base della responsabilità di tutti e ciascuno. Tutto ciò implica un’inculturazione delle norme e delle pratiche virtuose (Zollner 2020, 320), cioè un penetrare di tali principi, norme e pratiche nella quotidianità del Popolo di Dio.

Infine, per una gestione adeguata delle relazioni asimmetriche esistenti, è necessario pensare a delle strategie di azione che siano più ampie e lungimiranti. Sulla base dei principi di responsabilità, accountability e partecipazione al bene del Popolo di Dio, riteniamo fondamentale muoversi su alcuni fronti: (a) guardare indietro per prendere coscienza degli errori passati, elaborare cosa è successo, conoscere i fatti e analizzarli; (b) avere cura delle persone e porsi in un ascolto attento di chi ha subito abusi di diverso tipo.

Dare spazio almeno a questi due elementi può aiutare a contribuire allo sviluppo di dinamiche che mettano le persone vulnerabili nella condizione di avere un potere reale (empowerment) nella comunità, senza continuare a fissarle – o imprigionarle – nelle strutture immorali (persone e istituzioni) di cui abbiamo parlato. Da qui partono i presupposti per un impegno serio di tutti e ciascuno, un cambiamento sistemico nella cura delle persone vulnerabili, affinché esse tornino a sentirsi veramente libere e protette nella Chiesa.

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