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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Salute relazionale e culture della colpa e della vergogna. Prospettiva psicoterapeutica

Marta Rodríguez

Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Roma)

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Introduzione

Il mio intervento si colloca in una prospettiva filosofica che ritiene la relazione come qualcosa di essenziale e costitutivo dell’essere persona1. L’Università Santa Croce è nota per la sua ricerca in questo senso, promossa soprattutto dal gruppo di Ricerche di Ontologia Relazionale (ROR). Non mi dilungherò quindi nello spiegare o argomentare questa prospettiva, che prendo semplicemente come un punto di partenza. Polo parla della persona non come essere ma come essere-con: coesistenza. Co-esistere è, secondo lui, il modo proprio di esistere della persona, che è incompatibile con l’isolamento e la separazione2. Affermare che la persona abbia una identità relazionale significa che proviene dalla relazione, si riconosce e si sviluppa nella relazione, e raggiunge la propria pienezza nella relazione3. Ci riconosciamo e configuriamo come persone nell’esperienza del volto dell’altro.

La Gaudium et Spes afferma poi che l’uomo è l’unica creatura che Dio abbia voluto per sé stessa, e che non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso il dono sincero di sé (Gaudium et Spes, 22). Pertanto, potremmo aggiungere questa sfumatura come parte fondamentale della relazionalità costitutiva della persona umana: la chiamata alla comunione4. Giovanni Paolo II lo esprime in un modo contundente:

Quando Dio Yahweh dice che «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18), afferma che l’uomo «da solo» non realizza pienamente questa essenza. Lo realizza solo esistendo «con qualcuno», e in modo ancora più profondo e completo: esistendo «per qualcuno». Questa norma di esistere come persona è dimostrata nel libro della Genesi come caratteristica della creazione proprio attraverso il significato di queste due parole: «solo» e «aiuto». Esse indicano con precisione quanto sia fondamentale e costitutiva per l’uomo la relazione e la comunione delle persone. Comunione di persone significa esistere in un «per» reciproco, in una relazione di dono reciproco. E questa relazione è proprio il complemento della solitudine originaria dell’«uomo» (Giovanni Paolo II, Udienza generale. 7 novembre 1979, il corsivo nella citazione è mio).

Avendo specificato la prospettiva antropologica dalla quale parto, secondo la quale la relazione e la comunione sono costitutive dell’essere persona, vorrei anche chiarire che la mia riflessione non è filosofica nel senso stretto. Nel mio contributo prendo spunti dalla fenomenologia, dalla psicologia e dalla Scrittura, così come dalla mia esperienza in quanto donna consacrata laica, membro di una comunità che ha dovuto affrontare – e continua a farlo ancora — un lungo cammino di purificazione e rinnovamento5. Il mio è un ragionamento in qualche modo transdisciplinare, e lo propongo in due momenti: nel primo, descrivo come si può esprimere la salute relazionale della persona, chiamata alla comunione. Nel secondo momento, descrivo come si manifesta la malattia relazionale, propria di certe culture che abbiamo chiamato «culture della colpa e della vergogna». Finisco con un breve epilogo con alcune piste da percorrere.

1. Salute relazionale

Il presupposto e fondamento della salute relazionale è che la persona si scopra guardata con amore. Kohut afferma che la sicurezza interna della persona si sviluppa a partire dalla consapevolezza di esistere nella mente e nel cuore di un altro (cfr. Kohut 1982). Lo stupore nello sguardo dell’altro è quindi la condizione per sapersi validi. I genitori sono i primi a segnare l’identità del bambino con il loro sguardo, a fargli scoprire che è figlio6. L’esperienza della figliolanza dovrebbe essere accompagnata del messaggio che lui è: 1) desiderato, 2) accolto, 3) amato, 4) custodito. Perché è desiderato, non è prodotto del caso né dell’errore, ma atteso, risposta ad un desiderio d’amore dei suoi genitori. Ha bisogno di capire anche che è accolto: con tutto quello che è e che comporta, con la sua bellezza e la sua povertà. Deve sentirsi anche amato, e quindi sapere che è degno e capace di portare gioia e compiacenza nel cuore di chi lo guarda. Finalmente, è custodito, protetto, e per questo, non è da solo a battersi nelle sfide della vita. Può non controllare tutto, perché c’è chi lo ama e gli copre le spalle.

Ma la mediazione dei genitori è sempre limitata, segnata da interferenze. La necessaria esperienza di sapersi desiderato, accolto, amato e custodito è eclissata da condizionamenti, limiti e assenze. L’amore mancato lascia una impronta nell’identità del figlio, che interiorizza in modo inconsapevole l’idea di essere in qualche modo insufficiente e inadeguato. Percepisce la propria identità in modo distorto, appropriandosi inconsciamente di menzogne che si possono esprimere in diversi modi: «sono sporco», «sono un peso», «non c’è soluzione per me», «sono un problema», «sono cattivo». Queste ombre nella percezione della propria identità oscurano i rapporti con gli altri, che risentono immediatamente di questa affermazione mancata7.

La radice profonda di questa ferita non sta solo nella psiche, né si spiega pienamente con la psicologia. Il peccato originale è la causa ultima di questo «veleno» che tutte le persone portano dentro, e che le conduce a non contare sull’amore perché non sembra affidabile, ma preferisce puntare sul proprio potere che permette di prendere in mano in modo autonomo la propria vita (cfr. Benedetto XVI 2005). Per questo motivo tutte le persone, ed in modo particolare coloro che sono chiamati a vivere nel celibato, hanno bisogno di scoprire la fonte ultima della propria identità nello sguardo del Padre celeste: a fare sperienza del compiacimento e la gioia del suo Cuore davanti al bene della propria esistenza. Solo in questo sguardo si trova il fondamento saldo della propria identità.

Nell’esperienza di sentire lo sguardo del Padre che si compiace della propria persona, si è convinti del fatto che la sua esistenza sia qualcosa di buono. «È bene che io esista», «sono una buona notizia». Questo significa sapersi dono e accogliersi come tale: ogni persona umana è un messaggio, una parola unica del Signore per il mondo (Francesco, Gaudete ed exsultate, 21-22). Da questa consapevolezza scaturisce la gioia propria dell’essere figlio. Se sa di essere un dono, può farsi dono per gli altri. «L’uomo può accettare sé stesso, può riconciliarsi con la natura e il mondo solo quando riconosce l’amore originario che gli ha dato la vita» (Benedetto XVI 2011). La cosiddetta Teologia del corpo di San Giovanni Paolo II sviluppa in modo trasversale l’itinerario teologico-esistenziale perché la persona possa riscoprirsi come dono e ristabilita nella sua capacità di diventare dono per gli altri.

In termini psicologici, l’apertura a farsi dono si chiama libertà affettiva. Cucci la definisce come la capacità di dare e ricevere amore secondo la propria identità (cfr. Cucci 2018). Sottolineo il secondo verbo: ricevere, spesso oscurato da una comprensione distorta di cosa significhi l’amore disinteressato, che lo identifica con una sorta di disinteresse o impermeabilità nei confronti delle relazioni8. L’amore di Gesù è disinteressato e totalmente puro: Lui ha amato gli uomini ed è morto per loro quando erano ancora peccatori (Rm 5,8), e continua a darsi anche se non trova risposta. Gli offre sempre il suo Cuore, anche quando loro lo incoronano di spine. Ma il Cuore di Gesù non è indifferente alla risposta che riceve: desidera l’amicizia, comprensione e compagnia dei suoi. Si è fatto vulnerabile e anche bisognoso dell’affetto degli uomini, bussa alla loro porta come un mendicante e aspetta che gli aprano per entrare. Nello stesso modo, l’amore disinteressato dei celibi non deve implicare indifferenza alla corrispondenza né all’affetto. Il celibe non si dà per essere amato, ma quando è corrisposto, è legittimo che accolga l’amore con un cuore aperto e ne gioisca di esso. La corrispondenza e le esperienze di comunione sono anche un dono con cui il Signore sostiene i celibi e dà loro il cento per uno promesso. Chiudersi totalmente alle mediazioni porta chiudersi anche alla fonte ultima di ogni vero amore, che è Dio.

La libertà affettiva è quindi in stretto rapporto con l’affermazione della propria identità, e la soddisfazione delle necessità fondamentali della persona: necessità di essere amato, di essere valido, di essere autonomo, di appartenere. Se l’identità non è sufficientemente affermata e queste necessità non sono colmate, si tende a cercare compensazioni. Secondo Cencini, la «compensazione è un meccanismo difensivo con il quale uno tenta di bilanciare le componenti negative di una qualche situazione di vita […] cercando in altre situazioni esistenziali una certa gratificazione, in modo più o meno incontrollato» (Cencini, “Celibato e compensazione”, 2011, 43-52). La necessità di applauso e affermazione, l’intolleranza alla frustrazione, le dipendenze affettive… sono spesso forme di compensare la mancata soddisfazione della necessità di sapersi amato. Ma siccome le compensazioni sono traditrici e non bastano, spesso le persone cercano calmanti: modi di fuggire dall’angoscia del momento presente, e affogare quel retrogusto sgradevole che lasciano le compensazioni. Sono calmanti classici le adizioni (dipendenze), che purtroppo sono molto presenti nella vita dei sacerdoti e consacrati: alcool, internet, pornografia, e altri. Perfino il lavoro frenetico può diventare un modo di non essere in contatto con il proprio vuoto, ed essere vissuto per tanto come un calmante.

La libertà affettiva permette di vivere sia l’universalità della donazione che la preferenza propria dei rapporti di amicizia. L’universalità dice apertura a tutti, disponibilità per riconoscere che l’altro è sempre un dono, una mediazione dell’amore di Cristo, manifestazione unica dell’amore di Dio. L’universalità è l’apertura totale, che per il consacrato significa sapere di appartenere in qualche modo a tutti. La preferenza è riconoscere che ci sono persone che ci sono affidate da Dio in modo particolare come dono: sono state affidati a noi e noi ad esse, come «aiuto adeguato» per camminare insieme. Anzi: solo se accogliamo il dono dei vincoli di preferenza possiamo aprirci all’universalità dei rapporti. L’amore non si impara nella teoria, ma nel darlo e riceverlo. La reciprocità nei rapporti è un riflesso dell’amore di Cristo: tramite gli occhi che ci amano noi scopriamo di essere amabili e amati da Cristo, fonte di ogni amore. Ogni rapporto d’amore vero è un’icona del vero Amore, e a questo amore ci rimanda. Non si deve temere mai di «amare troppo»: si può amare male, in modo non concorde con la propria identità, ma non è possibile l’eccesso di amore, perché Gesù ci ha amato sino alla fine.

Nella sua meditazione sul dono (Giovanni Paolo II 2021), San Giovanni Paolo II racconta che durante la sua vita scoprì che alcune persone gli erano state date come dono, fino a poter affermare: «Dio ti ha dato a me». Non invano la Scrittura afferma che chi trova un amico trova un tesoro. Anche Gesù si procurava i suoi momenti di Betania, per riposare il cuore e recuperare le forze. La libertà affettiva propria della persona matura gli permette di stabilire rapporti di intimità, fino al punto che la capacità di entrare in intimità diventa un indicatore della sua maturità. In certe mentalità, l’intimità è stata giudicata con sospetto, perché associata a quello che si conosceva come «amicizie particolari» o all’intimità fisica, tutte e due temute9. Nuovamente, ci troviamo di fronte ad una distorsione. Gesù è venuto per stabilire vincoli significativi, rapporti di amicizia e intimità. La persona che non condivide la propria intimità con nessuno non è capace di farsi vulnerabile, di lasciarsi guardare dentro, di esporsi. Invece, chi crede di poterla condividere con tutti non ha neanche intimità.

Le persone che hanno una buona salute relazionale non hanno paura di esprimere l’affetto, anche con il corpo. Il corpo è manifestazione della persona, linguaggio d’amore. L’amore si esprime con i gesti: lo sguardo, il sorriso, le mani che si toccano, l’abbraccio, una pacca sulla spalla e anche una carezza. È sintomo di maturità e salute la capacità di esprimere l’affetto con le parole e con i gesti.

Salute relazionale significa anche l’apertura ad accogliere la complementarità dell’altro sesso. I celibi non rinunciano ai rapporti complementari, ma solo ai rapporti di esclusività e possessione dell’altro. Anche i celibi possono essere arricchiti e completati dalla alterità dell’altro sesso, non solo nell’ordine dell’agire, ma anche nell’ordine dell’essere: nella loro dimensione umana e spirituale.

Un uomo normale, una donna normale, devono avere rapporti affettivi e sessuati – non sessuali – con l’altro sesso. […] Il celibe solo può essere una persona equilibrata se non è mutilata nell’amore, se, rinunciando alle relazioni genitali, mette tutta la propria virilità e femminilità piena e totalmente al servizio degli altri, in uno sviluppo della propria sessualità superiore a ciò che permette l’erotismo. […] Rinunciare ad essere virile e paternale, o femminile e materna, è una mutilazione squilibrante e inaccettabile. Nel vero celibato si tratta, invece, di essere più sessuati in tutto il proprio essere (Chauchard 1972, la traduzione dallo spagnolo è mia).

Rinunciare alla complementarità con l’altro sesso significa stroncare il cammino per il quale la propria identità sessuale è compresa e modulata esistenzialmente. Viladrich parla della complementarità come un «generarsi reciprocamente», intendendo con ciò che ci sono aspetti della mascolinità che solo si esprimono e raggiungono la pienezza nell’incontro con la femminilità, e aspetti della femminilità che hanno ugualmente bisogno della mascolinità per esprimersi e fiorire.

Poi, si può notare che ci sono delle potenzialità della donna che solo l’uomo può fare emergere e spiegarsi, e altre che hanno gli uomini che soltanto germogliano e si sviluppano grazie all’influsso della femminilità. Non si tratta soltanto, anche se ne è una conseguenza, della cosiddetta empatia psicologica, per la quale la comunicazione migliora tra due persone se tutte e due si dispongono a vedere con gli occhi dell’altro, capendo il suo punto di vista. Questo fatto si dà anche tra gli amici e tra coloro che si aprono a “comprendere” l’altro dall’altro. Qua si vuole sottolineare qualcosa di può profondo, cioè, che la struttura e dinamica relazionale dell’uomo e della donna sono disposte in modo tale che non soltanto la conoscenza di sé, ma anche l’emergere e fioritura della propria diversità personale, in modo maturo ed equilibrato, dipendono da una apertura per la quale l’uomo si trova e si spiega come tale grazie alla donna, e viceversa (Castilla de Cortázar e Viladrich, 2018, 198; la traduzione dall’originale spagnolo è mia).

Giovanni Paolo II affermava che ogni uomo, senza importare se celibe, sposato o in qualunque stato di vita, deve ascoltare le parole che il Signore disse a Giuseppe: «non temere di accogliere Maria», intendendo che Maria significa la donna. E nella sua lettera ai sacerdoti nel 1995 insistette nell’importanza per i sacerdoti (e per i celibi in generale) di imparare a guardare le donne come sorelle. Lo stesso vale per le donne rispetto agli uomini.

Abbiamo appena descritto alcuni tratti della salute relazionale: persone che amano in pieno, che mettono in gioco tutte le risorse della propria affettività ed emotività, che esprimono l’affetto anche con i gesti e con il corpo, che sono libere per dare e ricevere l’amore secondo la propria identità. Adesso vediamo la controparte: cosa succede nelle culture della colpa e della vergogna.

2. Culture della colpa e della vergogna

I modelli pedagogici nella Chiesa non sempre hanno dato la centralità necessaria alle relazioni. Spesso partivano da una antropologia piuttosto individualista, incentrata sull’individuo autosufficiente, che non aveva bisogno dell’altro (cfr. Cencini, “La soledad en la vida virginal-celibataria. ¿Sacrificio o riqueza?”, 2011, 121-139). Per quanto riguarda le amicizie e soprattutto il rapporto con l’altro sesso, è prevalso anche un modello improntato sulla paura, sullo sforzo per evitare gli attaccamenti, le dipendenze e la sfiducia nei confronti del proprio cuore e della propria dimensione sessuale. Tutto questo ha avuto evidenti conseguenze nella formazione affettiva dei consacrati10. Non mi riferirò adesso a queste mancanze più o meno estese, ma alle caratteristiche proprie degli ambienti malati, che abbiamo chiamato culture della colpa e della vergogna. Non darò una definizione precisa di queste culture, ma solo una descrizione di alcuni dei suoi tratti. Nella descrizione seguirò più o meno lo stesso schema che ho utilizzato nella descrizione della salute relazionale, vedendo come i singoli tratti ci si presentino in modo distorto.

Ritengo che il veleno più letale nelle culture della colpa sia il dubbio riguardo la propria bontà. La pedagogia propria di questi ambienti presenta la santità come una cima di perfezione e sottolinea la distanza che la persona ha nei confronti dell’ideale. Tale ideale non è certamente quello della carità, ma un insieme di virtù proposte in modo sublime e anche disincarnato, che sembra irraggiungibile ai destinatari di questo messaggio. Il risultato è che le persone si sentono sempre inadeguate, non alla altezza della loro vocazione. Perdono di vista lo sguardo misericordioso del Padre, e con esso la fonte della loro identità di figli. Il problema è che l’insistenza negli obiettivi – sempre troppo lontani – di santità da raggiungere fa perdere di vista che il Signore è contento della piccola offerta che i poveri possono fare oggi, e che sorride davanti alle due monetine che la vedova ha da donare. Dio è sempre contento con i nostri piccoli passi, perché vede soprattutto l’amore del nostro cuore. Invece, queste culture insistono nell’esaminare le proprie intenzioni in modo scrupoloso e anche ossessivo, dando un forte peso morale pure ai sentimenti e alle emozioni più involontarie, confondendo la concupiscenza e la fragilità con il peccato volontario e il disordine. Purtroppo, non è strano sentire nelle persone vittime di queste culture malate affermazioni come: «sono cattivo», «sono un fallimento», «Dio non è contento con me», o addirittura «meriterei di essere condannato». Non si riconoscono più, e certamente non si amano.

È comune in queste culture che i «formatori» (dovrebbero essere chiamati «deformatori») pensino che l’umiltà si raggiunge a forza di umiliazioni: schiacciano quindi le personalità forti, le fanno dubitare delle proprie intenzioni, danno un peso morale molto forte anche ai semplici tratti caratteriali (che devono essere sempre modulati, ma mai soppressi). Se una persona è molto estroversa sarà giudicata come egocentrica e incapace di connettersi con l’altro. Se una persona è allegra ed espansiva, le si dirà che è superficiale e vanitosa. Se è intraprendente, la si guarderà come impositiva, superba. Se ha buone doti d’intelligenza, la si accuserà di superbia intellettuale o le si impedirà di studiare. E così via. I talenti e doni di Dio non sono quindi coltivati per la sua gloria, ma utilizzati semmai solo in modo strategico per i fini utilitaristici dei superiori, facendo sentire le persone colpevoli o addirittura pericolose, a tal punto da arrivare a pensare che tutto quello che è in loro è in qualche modo sbagliato, e anche cattivo. Il dubbio sulla propria bontà si trasforma in vergogna: «sono sporco, sono superbo, sono egoista, sono cattivo», che lo porta a nascondersi del volto del Padre. Non si vede davanti ai suoi occhi, e quindi non si riconosce più come figlio amato, come dono. Questo veleno arriva così fino alla stessa radice dell’identità, e da lì avvelena tutte le relazioni.

Il dubbio sulla propria bontà fa sì che la persona non si fidi più del proprio discernimento e della propria coscienza. La volontà di Dio è veicolata esclusivamente da colui che governa, e dalle proprie regole11, che arrivano ai dettagli più piccoli. Si abolisce così il diritto al pensiero critico e la capacità di distinguere tra le cose essenziali e quelle accidentali o addirittura arbitrarie. Si arriva a confessarsi per non essersi tagliate le unghie nel modo adeguato, per essere andato in bagno o per aver mangiato una gomma senza chiedere permesso e altre cose simili. La persona viene così radicalmente minata nella propria autonomia, e si sente incapace di prendere decisioni proprie. Una volta crollato il fondamento dell’amore e del compiacimento del Padre, le persone si sentono smarrite e in balia dei capricci del santone o carismatico di turno, che diventa l’idolo che sostituisce la voce del Padre. Inevitabilmente è a questo punto che a seconda della follia del superiore, ci saranno delle conseguenze nei membri.

La perdita del pensiero critico merita una riflessione in più. Bonhoeffer ha uno straordinario commento sulla stupidità, che illumina in parte ciò che succede nelle culture malate e settarie. Il tedesco si stupisce del fatto che si tratti di una debolezza non dell’intelletto, ma dell’umanità della persona. Infatti, colpisce costatare che anche persone molto intelligenti possono cadere nelle reti dei manipolatori, e diventare una sorta di loro burattino. Bonhoeffer tentò di capire la mancata reazione del popolo tedesco di fronte al nazismo, e ritenne che la stupidità «non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate circostanze gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali». Considera che la stupidità non sia in primis un problema psicologico, quanto sociologico, e scopre una sorta di legge sociopsicologica: «si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una grande parte degli uomini», e continua:

(…) La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane – ad esempio quelle intellettuali – ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dalla ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno inconsapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano (Bonhoeffer 2015).

Quindi, secondo l’autore, l’esaltazione ostentata del leader provoca un calo di intelligenza nei seguaci, che vengono resi stupidi. E segnala quale sia la chiave per distinguere una leadership sana da una malata: se il capo punta sulla autonomia e maturità delle persone si tratta di una forma sana, ma se punta sulla stupidità è sicuramente inferma. Senza arrivare alle follie del nazismo o delle sette vere e proprie, non è strano osservare nel modo di esercitare l’autorità negli ambienti religiosi che i superiori si sentono più sicuri quando controllano tutto, e vogliano quindi regolamentare i più piccoli aspetti della vita dei loro sudditi. L’immaginazione di certi soggetti per stabilire i motivi per cui si deve chiedere permesso non ha limiti. Questo tipo di esercizio di autorità non giova alla crescita dei consacrati, che si vedono minati nella loro autonomia e inclinati verso la strada di ciò che Bonhoeffer chiama stupidità.

Quando le persone sono limitate nella loro autonomia e non sanno più di essere un dono, diventano anche incapaci di riconoscere il dono negli altri. Se teniamo in conto che «per amare gli altri è necessario amare sé stessi» (Francesco, Amoris Laetitia, 101) e che l’amore per sé stessi diventa una priorità psicologica con rispetto all’amore per gli altri, si capisce l’effetto isolante dello schiacciamento dell’identità. La realtà è che guardiamo agli altri nello stesso modo in cui guardiamo noi stessi, e come ci sentiamo guardati. Se non scopriamo niente di buono in noi, si ammala pure il nostro sguardo verso gli altri. Se le persone sono private dell’esperienza della benevolenza dello sguardo del Padre, non possono non indurirsi nei confronti degli altri. Vedranno in primo luogo pure in loro i difetti e le mancanze. Nelle culture della colpa questo si manifesta principalmente nell’alzare muri contro gli altri per difendersi o per isolarsi. L’altro non è più visto come colui che permette di essere più me stesso, colui che fa fiorire ciò che io sono, ma come il pericolo da evitare o concorrente con cui competere.

Le culture malate isolano le persone dalle proprie famiglie. La perdita dei punti di riferimento e dei rapporti più naturali porta alla perdita dei punti di riferimento anche cognitivi, emozionali e spirituali. Si insegna che la persona deve preoccuparsi solo di dare, e che non deve desiderare di ricevere nulla dagli altri. I rapporti diventano superficiali: la carità vuole essere universale ma è in realtà un’astrazione, una disincarnazione: significa in definitiva non amare nessuno e soprattutto non lasciarsi amare da nessuno. La persona non è più capace di intimità. L’intimità è giudicata in un senso sempre negativo. I rapporti si fanno formali, utilitaristi, anaffettivi. Non c’è vera condivisione né vincoli. Le persone cadono in una solitudine cattiva e triste, isolate da Dio e dagli altri. Questo le indebolisce ancora. La dipendenza ossessiva dell’altro è l’altro lato della stessa medaglia.

Si ha una particolare paura ad esprimere l’affetto con il corpo e con i gesti. Questo va accompagnato da una sconnessione del proprio corpo e di tutta la dimensione sessuale, che rimane in qualche modo castrata. Le risorse della propria mascolinità e femminilità (del corpo e della psiche) rimangono inespresse, sublimate o spiritualizzate, ma mai integrate nella propria identità in modo armonioso. Il mondo delle emozioni di tipo sessuale (reazioni corporee, sensazioni, desideri, sogni) rimangono un tema tabù, affrontato solo in sede di confessionale, ma non accolto come risorsa preziosa che può essere messa in gioco nell’identità celibe. Il sospetto su di sé pervade in modo particolare tutta la sfera sessuale.

Particolarmente malato è il rapporto con l’altro sesso, che è sempre caratterizzato dalla paura e dal controllo. Di nuovo, le espressioni concrete di questa paura eccedono i limiti dell’immaginazione, e vanno dal vietare di stare nella stessa stanza con una persona dell’altro sesso della propria famiglia religiosa, ad un tratto eccessivamente formale e fuori ogni normalità. Questo isolamento non dà alle persone l’opportunità di guarire dalle ferite con la femminilità o con la mascolinità che si potrebbero portare dietro quando entrano in comunità (per madri o padri castranti, per rapporti sessuali non digeriti, per figure tossiche). La non adeguata integrazione di queste esperienze toglie libertà relazionale, perché introduce il dubbio sulla possibilità di vivere rapporti redenti. Questo è particolarmente pericoloso perché aumenta il dubbio sulla propria bontà, e distoglie ancora dallo sguardo del Padre.

Inoltre, la mancanza di un contatto sereno con l’altro fa sì che la mascolinità e la femminilità non si sviluppino in modo adeguato, e che diventino ipertrofiche. Così, gli uomini diventano più aggressivi, più incapaci di connettersi con il proprio mondo emotivo, diventano più individualisti. Le donne, da parte loro, saranno più suscettibili, complicate, instabili, controllatici. Sono personalità che non si sono lasciate educare dall’altro sesso, e quindi impoverite nella propria identità e capacità relazionale. Le femminilità affamate di mascolinità e le mascolinità affamate di femminilità sono poi terreno fertile per innamoramenti illusori, e non è strano trovarsi con persone che ai quaranta o ai cinquanta anni si innamorano con l’ingenuità e la follia proprie degli adolescenti (con le successive delusioni).

Tutto questo porta ad una sorta di annichilimento affettivo, che indebolisce ancora di più il rapporto con Dio. Giovanni dice che chi dice di amare Dio che non vede e non ama il fratello che vede, è un mentitore. Forse è vero anche il passivo: chi dice di lasciarsi amare da Dio che non vede e non si lascia amare dal fratello che vede, non dice la verità. La persona si fa estranea a sé stessa, sconnessa del proprio cuore, e quindi non si può fare trovare lì da Dio. Ha perso di vista lo sguardo del Padre, la gioia di sapere che tutto quello che è suo le appartiene, e vive come un servo che non è mai in grado di compiacere il padrone. La tristezza e l’amarezza prendono ogni giorno più spazio nell’intimo della persona, spesso con conseguenze anche somatiche: mal di testa, problemi di stomaco, di spalla, fino a malattie nervose e di diverso tipo.

In definitiva, le necessità basilari dell’essere umano: quella di essere amati, di essere validi, di essere autonomi, vengono sistematicamente schiacciate, e le persone sono nullificate. Isolate, le persone diventano più vulnerabili e mendicano l’affermazione delle uniche figure alle quali è permesso loro di denudare l’anima e aprire il cuore. Diventano quindi succubi delle personalità manipolatrici. Più sono stati tagliati gli altri rapporti, più pericoloso è l’influsso di queste personalità.

3. Alcune piste da percorrere: verso una cultura dell’incontro

Offro alcuni spunti brevi, con strade da percorrere e sviluppare. Questi punti sono da tenere in conto per chi ha la funzione di sorvegliare lo stato delle comunità (pastori, superiori), e come termometro perché le stesse membra possano valutare lo stato di salute della propria comunità.

  1. Promuovere il rinnovamento e la formazione delle comunità, a partire da un’antropologia e teologia rinnovate. Procurare l’assimilazione dei principi che hanno guidato il rinnovamento della vita consacrata dopo il Concilio Vaticano II, in particolare in ciò che si riferisce all’esercizio dell’autorità e della vita fraterna.
  2. Favorire e coltivare la vicinanza delle persone con la propria famiglia. Anche se ci sono momenti che richiedono un certo stacco (come il noviziato), la persona deve avere sempre la possibilità di mantenere vivi i rapporti con i propri parenti, tramite telefono, mezzi digitali e visite. La comunità dovrebbe garantire che i suoi membri possano visitare i propri parenti senza gravarli economicamente, e quindi, la comunità deve tentare di assumere le spese di queste visite. La comunicazione con i propri parenti dovrebbe essere libera e confidenziale, non sottomessa a controllo da parte dei superiori.
  3. Favorire le amicizie e i vincoli. Dare spazio a che ci siano rapporti di amicizia e affetto tra le persone all’interno della comunità e fuori della comunità. Per permettere questo, è necessario concedere che i membri della comunità possano gestire il proprio tempo con una certa autonomia, e dedicare spazio a coltivare buone amicizie. Bisogna inoltre favorire culture comunitarie che non vedano questi rapporti con sospetto, in modo che le persone si sentano libere per farne sperienza.
  4. Accogliere ed educare all’espressione dell’affetto, la comunicazione, l’intimità. Questo richiede una educazione affettiva all’interno delle comunità, per affrontare le dinamiche tossiche e sviluppare competenze proprie di persone sane a livello relazionale.
  5. Favorire gli ambienti misti e anche le amicizie con persone dell’altro sesso. La Ratio Formationis del 2016 e il Documento finale del Sinodo dei giovani, tra altri documenti recenti, incoraggiano fortemente la frequentazione di ambienti misti, per favorire la maturazione affettiva e la crescita integrale dei celibi e dei consacrati (Francesco, Amoris Laetitia, 203).
  6. Procurare che gli ambienti formativi, sia di uomini che donne, abbiano figure di riferimento dei due sessi, tenendo in conto che: «la costituzione di queste équipe formative in cui interagiscono vocazioni diverse è una piccola ma preziosa forma di sinodalità, che incide sulla mentalità dei giovani nella formazione iniziale» (Sinodo dei Vescovi 2018, 163).
  7. Evitare i mondi autoreferenziali: apertura alla Chiesa locale, alle famiglie, agli altri carismi. Fare in modo che le comunità siano ambienti aperti e permanentemente ossigenati, nelle quali si favorisca l’apprezzamento per le altre vocazioni nella Chiesa, e che si dia spazio alle esperienze di formazione o missione fuori dal proprio contesto di appartenenza.

Gesù ci ricorda che lui chiama i suoi perché abbiano vita in abbondanza, e la loro gioia sia piena (Gv 16). Le comunità dovrebbero essere spazi dove fioriscono tutte le potenzialità delle persone che ne fanno parte, e irradino nel mondo la bellezza di seguire Cristo. Le umanità veramente trasfigurate dei sacerdoti e consacrati sono la migliore testimonianza di un Cristo vivo, che è fedele alle sue promesse. Che questo momento di crisi in tanti contesti sia anche una opportunità perché le comunità tornino a Gesù e al Vangelo, e si lascino convertire da esso.

Domande per le altre discipline:

  • La psicologia ha chiaramente un ruolo centrale nell’assicurare la salute delle comunità, ma allo stesso tempo si rischia di «psicologizzare» tutto, e non illuminare sufficientemente i presupposti teologici, antropologici e pedagogici che soggiacciono a certe pratiche malate. Come dare lo spazio giusto a ciascuna scienza senza perdere di vista l’insieme?
  • Come promuovere i rapporti sani in comunità malate? Come iniziare un processo di guarigione e rinnovamento? Con quali limiti e condizioni?

Bibliografia

Benedetto XVI. Udienza Generale. 13 maggio 2011. https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2011/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20110513_istituto_gpii.html.

—, Omelia Solennità della Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. 8 dicembre 2005. https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20051208_anniv-vat-council.html.

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1 Ritengo che questa affermazione non sia in contraddizione con l’ontologia della sostanza propria della metafisica aristotelica, ma piuttosto la completa, intendendo l’essere a partire della relazione essenziale. Ratzinger afferma che il dialogo e la relazione sono, insieme alla sostanza, una forma primordiale dell’essere. Cfr. Ratzinger (2002), 155-156. Lucas Lucas presenta sinteticamente a cosa ci riferiamo con «relazione essenziale» o costitutiva, in Lucas Lucas (2008), 265-271.

2 Tra i testi dello stesso autore, si può consultare: Polo (2016), 231-240.

3 Martin Buber dimostra che l’io non esiste mai per sé stesso, ma si trova sempre in relazione. La relazione costituisce la persona umana. Cfr. Buber (1995).

4 Il mistero della persona umana si illumina a partire della Trinità, di cui è immagine e somiglianza. La perfezione della persona sta nella comunione, che è dove si manifesta pienamente l’immagine e somiglianza di Dio. A questo riguardo, San Giovanni Paolo II afferma: «L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto in quello della comunione. Infatti, egli è “fin dall’inizio” non solo l’immagine in cui si riflette la solitudine di una Persona che governa il mondo, ma anche ed essenzialmente l’immagine di una imperscrutabile comunione divina di Persone». Giovanni Paolo II, Udienza generale. 14 novembre 1979. Sulle relazioni costitutive e la famiglia come imago trinitatis si può vedere: Rodríguez (2023), 43-78. Tra i diversi autori che sono tornati alle fonti della nozione di «persona» per rinnovarla, può consultarsi: Castilla de Cortázar e Viladrich (2018); Castilla de Cortázar (2017); Castilla de Cortázar (2020).

5 Da settembre 1997 faccio parte della comunità consacrate del Regnum Christi, che nel 2018 è stata costituita come Società di Vita Apostolica. Quando sono entrata, non avevamo una figura canonica autonoma, distinta della congregazione religiosa della Legione di Cristo.

6 Gli studi di Bowlby e di Erikson aiutano a capire meglio questa realtà. Le teorie dell’attaccamento di Bowlby dimostrano come gli stili relazionali del bambino segnano il modo in cui lui si proietta verso gli altri e verso il mondo, cfr. Bowlby (1982). Da parte sua, Erikson scoprì che nei primi due anni di vita si sviluppano due atteggiamenti fondamentali nel bambino: quello della fiducia, che porta ad aprirsi agli altri e alla realtà, e quello della sfiducia, che si rinchiude in sé come un modo di difesa. Cfr. Erikson (1963).

7 Papa Francesco ricorda alle coppie che tante difficoltà nei loro rapporti provengono da ferite dell’infanzia, che rendono difficile alle persone donarsi con gratuità nell’amore, cfr. Francesco, Amoris Laetitia, 239-240.

8 E quindi, allontanandosi dalla prospettiva antropologica secondo la quale la persona si sviluppa e trova la propria pienezza nella relazione.

9 Su questo punto, può essere utile distinguere tra le vere «Betania», dono del Signore, e i «rifugi» malsani. Gli incontri e i rapporti Betania confermano alla persona nella sua identità, e le danno forza per andare a Gerusalemme e dare la vita. Sono relazioni che la unificano dentro, e la fanno essere più pienamente sé stessa. Invece, i rifugi affettivi hanno come conseguenza la perdita di entusiasmo per andare a Gerusalemme. Non si vuole più dare la vita, ma rimanere in quel posto dove uno esperimenta compensazione. Il rifugio polarizza e toglie energia affettiva per dare la vita, divide alla persona, e mina la sua identità.

10 Amedeo Cencini dedica una ampia descrizione a questo contesto, analizzando le cause e le conseguenze di questo paradigma formativo, nel capitolo intitolato: «Il celibato tra passato e presente», in Cencini, Per amore, con amore, nell’amore (2011).

11 Non entro qui nella distorsione che si fa della mediazione in questi casi, perché sarà affrontata da altri.