Ror Studies Series | Autorità e mediazione
La rappresentazione di Dio che parla nella Bibbia
Carlos Jódar Estrella
Pontificia Università della Santa Croce (Roma)
Se cominciamo a leggere la Bibbia dall’inizio, la prima azione che troveremo nel primo piano narrativo è quella di Dio che parla. Il fatto è ben noto ma, siccome resta nascosto in molte traduzioni, forse è conveniente riportare qua una traduzione letterale:
1 Nel periodo iniziale in cui Dio creava il cielo e la terra, 2 la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3 E Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu (Gn 1,1-3). [Si osservi il passaggio dall’imperfetto del secondo piano, al passato remoto del primo narrativo]
A partire da quel momento, il Dio che parla si ripropone continuamente nei racconti biblici. Risulta difficile, pertanto, esagerare l’importanza dello studio della rappresentazione di Dio che parla nella Bibbia. E il materiale è talmente profuso da meritare indubbiamente una trattazione assai corposa1. Entro i limiti di ciò che ci viene chiesto, qua soltanto proporremo un progetto di approccio, che è qualcosa in ogni caso importante in vista di un’analisi più completa dell’argomento. A quello scopo cercheremo prima di individuare un criterio di classificazione applicabile ai passi biblici rilevanti, per poi fare una prima raccolta dei tratti là contenuti riguardanti l’immagine del Dio che parla.
Il fatto che la divinità rivolga la sua parola all’uomo è un elemento integrante della religione del Mediterraneo Antico (Mesopotamia, Egitto, mondo greco-romano…). Ciò avviene solitamente tramite la mediazione di determinati soggetti che o sono addestrati in tecniche divinatorie o vengono impossessati dalla divinità (divinazione tecnica e divinazione intuitiva)2. Si tratterebbe di un processo di comunicazione mediata che potrebbe essere rappresentato così:
Sarebbero due transazioni comunicative successive, miranti alla trasmissione di un unico messaggio. L’asterisco nel secondo messaggio sta a segnalare la tipica difficoltà di qualunque comunicazione mediata, vale a dire, la fatica di mantenere l’integrità del messaggio originale tramite il messaggio emesso dal mediatore3.
Lo schema può essere un punto di partenza valido per il nostro scopo. A continuazione tenteremo di fare una panoramica della rappresentazione di Dio che parla nella Bibbia soffermandoci a riflettere sulle quattro azioni rappresentate nel grafico (le freccette): (1) Dio che parla, (2) l’ascolto del mediatore, (3) il mediatore che parla e (4) l’ascolto dei destinatari finali. Per assisterci nelle delimitazioni degli argomenti, cominceremo ognuna delle quattro sezioni esplicitando una singola questione, fra tutte quelle che potrebbero sorgere.
1. Dio che parla
◊ Questione: Come è che Dio parla nella Bibbia?
Sia per la Bibbia che per il suo contesto, risulta scontato che la divinità si comunichi verbalmente4. Il fatto stesso di un Dio che parla potrebbe dar luogo ad alcune riflessioni di interesse, ma ci concentreremo specificamente sulla questione della modalità: come è che ciò viene descritto?
È anche comune nella Bibbia e nel suo contesto che la divinità parli tramite mediatori. Non sembra difficile proporre spiegazioni di questo fatto: la verbalizzazione sarebbe qualcosa di umano e, pertanto, la divinità deve prendere possesso di una “bocca” per far sentire la propria voce; la mediazione è richiesta dalla distanza ontologica tra i poli della comunicazione…
Tuttavia, il parlare divino nella Bibbia presenta alcune caratteristiche che, pur conservando legami con la religione naturale, dipingono il fenomeno con tratti singolari. Fra tutte le caratteristiche possibili, vogliamo metterne in evidenza tre: il parlare divino è caratterizzato nella Bibbia come [a] libero, [b] dialogico e [c] letale.
[a] Libero. Il parlare divino in contesto politeista non è tutto sommato libero, ma necessario in rapporto al destino (il fato) al quale rimangono sottomesse tutte le divinità. In tale contesto, la religione e la divinazione sono tecniche di controllo e manipolazione del divino. La Bibbia conosce e “gioca” ogni tanto con una concezione di questo tipo (per esempio, le azioni miranti a “placare” Dio: 2Sam 24,25), ma i numerosi interventi divini nelle Scritture ebraico-cristiane danno luogo a una caratterizzazione in contrasto con quella del contesto culturale5.
La libertà del parlare divino nella Bibbia riguarda anche le modalità concrete in cui si realizza. Dio parla come e quando vuole. Non sembra un problema che si serva di tecniche divinatorie (le sorti, per esempio) o, addirittura, di procedure esplicitamente condannate come la negromanzia (1Sam 28). E, se così vuole, può praticamente fare a meno di una mediazione fisica, facendo sentire la sua voce sospesa in aria (battesimo o trasfigurazione di Gesù). Solo colpisce la totale assenza di riferimenti nella Bibbia alla ricerca della parola di Dio nei sacrifici, pratica comune nel Mediterraneo Antico (gli aruspici, ad esempio).
La libertà con cui Dio parla nella Bibbia limita in certo modo il concetto stesso di mediazione. La mediazione profetico-carismatica della parola di Dio è molto prevalente nella Bibbia, fino al punto di apparire praticamente come normativa. Ma, benché declassi addirittura la mediazione sacerdotale, non sembra capace affatto di condizionare la libertà e l’iniziativa divine.
[b] Dialogico. Le procedure divinatorie non sono un vero dialogo. Al limite c’è una domanda e la corrispondente risposta. Nella Bibbia invece, il parlare divino si racconta come dialogico, dando luogo ad alcuni effetti rilevanti. Ci soffermiamo su tre.
Il senso degli oracoli si cerca tramite procedure di interpretazione testuale, e non interpellando l’emittente, che non risulta solitamente disponibile. Invece, nel dialogo, il processo di discernimento del senso si sviluppa tramite una successione costruita sull’alternanza dei ruoli fra emittente e ricevente. Mentre nel primo caso si scorge un senso di ineluttabilità, nel secondo ciò che prevale è proprio l’opposto, e cioè, un sapore di lotta per farsi capire e capire l’altro e sé stesso. La rappresentazione estrema di questa dinamica nella Bibbia si trova nell’ardita rappresentazione di Dio che si pente convinto dall’argomentazione umana (cfr. Es 32,14; Ger 26,19; si ricordi anche il famoso dialogo di Abramo con Dio su Sodoma e Gomorra in Gen 18,23-33).
Il silenzio della divinità in contesto divinatorio risulta angosciante, giacché uno trova chiuso l’accesso a una realtà prestabilita la cui conoscenza è essenziale per poter prendere la decisione giusta (esempio biblico di questa situazione è l’angoscia di Saul quando non ottiene risultati servendosi delle procedure abituali in 1Sam 28,6). Invece, il silenzio di Dio nella Bibbia, benché non manchi di essere presentato come causa di sofferenza, sprona paradossalmente il dialogo (Giobbe), testa e rinforza la speranza, e accentua il protagonismo della creatura libera.
L’immagine di un Dio che dialoga potrebbe avere come effetto secondario il fatto che Dio non sia preso sul serio. Qualcosa del genere capita nel dialogo fra YHWH e Mosè in Es 3-4. Le continue repliche di Mosè finiscono per far arrabbiare YHWH (Es 4,14). La descrizione di una reazione divina del genere non fa apparire Dio come terribile, ma tutto il contrario, giacché una creatura riesce a fargli perdere le staffe. Ma, dopo la conclusione della scena del dialogo, Dio irrompe, questa volta sì terribile, minaccioso e incomprensibile in Es 4,24-26. L’effetto di quel passo (tipica crux interpretum) è quello di controbilanciare un possibile malinteso derivato dalla condiscendenza divina. Dio si avvicina, e si avvicina molto alla creatura, ma senza smettere di essere Dio.
[c] Letale. La scelta di questo aggettivo non è una mera provocazione. Il mondo concettuale della Bibbia reitera come scontato che una percezione sensoriale di Dio non mediata causa la morte dell’essere umano. Diciamo percezione sensoriale, perché i contatti potenzialmente letali possono essere auditivi (Es 20,19), visivi (Is 6,5) o tattili (2Sam 6,6-7).
La concezione biblica della parola mortale di Dio potrebbe annoverarsi fra gli elementi dell’AT che dipingono quel Dio severo o anche crudele che mise così a disagio Marcione. In realtà, crediamo che esista un paradosso precedente a quello di un eventuale immagine di un Dio non benevolo. Dappertutto nella Scrittura si dice che Dio vuole parlare e parla con le creature umane. Allora, perché mai impiega uno strumento che distrugge l’ascoltatore? È come dire, e in modo assai complicato, che Dio vuole e non vuole comunicare allo stesso tempo.
La tensione concettuale può essere collegata al progetto biblico – tutto sommato molto ben riuscito – di spiegare come sia possibile la libertà umana essendoci allo stesso tempo un Dio infinito, onnipotente, onnisciente ed eterno. È possibile perché Dio è il garante della libertà umana. Ed è l’unico possibile garante.
In Gen 1, ciò che Dio dice, si compie. Si potrebbe ipotizzare che tale presentazione del potere della parola di Dio non fa altro che servirsi dell’immagine dei potenti della terra, i cui ordini vengono prontamente eseguiti per il loro prestigio, sia per la loro capacità coercitiva. Ma, anche se così fosse, il racconto della creazione va assai oltre l’eventuale immagine. Il potere della parola divina appare assoluto, in quanto viene obbedito da entità per le quali l’obbedienza non è affatto un’opzione: il caos primigenio, gli astri, la luce… Se una potenza assoluta di questo genere si rivolge alla creatura razionale e libera, è prevedibile che la libertà stessa risulti travolta. L’essere umano viene annientato (muore). D’accordo con questa logica, la parola di Dio viene descritta come un’arma letale in un famoso asserto delle Lettera agli Ebrei:
Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4,12).
Una menzione importante di questo presupposto si trova in Dt 18,15-17:
15 «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me [parla Mosè]. A lui darete ascolto. 16 Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. 17 Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene”».
La conclusione del passo attira l’attenzione. Dio stesso afferma che la paura degli israeliti «va bene» e la propone come ragione dell’esistenza della mediazione profetica della parola di Dio. Quindi, al posto di una ragione strumentale (a Dio serve uno mezzo di comunicazione), la mediazione si raffigura come una sorta di filtro, una procedura a protezione della creatura.
2. Il mediatore che ascolta
◊ Questione: Se l’ascolto diretto della Parola di Dio causa la
morte della creatura umana, come è possibile
una mediazione umana?
Se il contatto diretto con la parola di Dio uccide l’essere umano, una possibile via per stabilire una comunicazione sarebbe l’intervento di una mediazione non umana. L’idea di un essere intermedio fra Dio e l’uomo, spirito come Dio e creatura come l’uomo, servirebbe anche a ridurre in qualche modo la distanza ontologica fra entrambi gli estremi. Infatti, la possibilità di una tale mediazione è contemplata nella Bibbia e riceve un nome molto adatto alla situazione che si contempla: “angelo”, dal greco ángelos “messaggero”, traduzione dell’ebraico malˀåk. Tuttavia, anche se non mancano racconti di mediazione angelica nell’ordine della parola (alcuni dei quali così significativi come l’annuncio a Maria), lo standard biblico non è quello, ma si ritorna costantemente a riproporre la mediazione umana di tipo profetico come norma della comunicazione divina, d’accordo con ciò che leggevamo in Dt 18.
Va sottolineato che la precedenza va alla mediazione di tipo profetico (carismatica), perché chiaramente si colloca nel discorso biblico come preferita a una mediazione di tipo sacerdotale (istituzionale ereditaria). Il fatto che il sacerdozio eserciti una mediazione con la divinità anche di tipo comunicativo è un dato di fatto nei dintorni del mondo biblico (Mesopotamia, Egitto, Grecia, Roma). La Bibbia sembra accettare il presupposto e i sacerdoti israeliti sono equipaggiati con strumenti per svolgere tali mansioni (urim e tummim: Es 28,30; Nm 27,21). Nonostante ciò, oltre alla già menzionata assenza di collegamento fra parola di Dio e sacrifici, i racconti biblici in cui si vedono i sacerdoti esercitare la mediazione della parola di Dio sono molto scarsi e praticamente marginali (Gdc 20; 1Sam 22-23). Quindi, sembra che, pur ammettendo che il sacerdozio possa essere mediatore della parola, la Scrittura dipinge una logica secondo la quale, quando Dio vuole dire qualcosa di rilevante, solitamente si serve del profetismo carismatico. Ma si deve aggiungere che, anche se ci sono indizi di tensione fra profetismo e sacerdozio, non mancano nemmeno i punti di contatto: dei tre profeti maggiori della Bibbia Ebraica, due sono sicuramente sacerdoti (Geremia e Ezechiele) e pure molto probabilmente anche il terzo (Isaia).
Tornando alla questione della possibilità di una mediazione umana, troviamo un passo nel Libro dei Numeri che sembra contenere la risposta al quesito:
5 Il Signore scese in una colonna di nube, si fermò all’ingresso della tenda e chiamò Aronne e Maria. I due si fecero avanti. 6 Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione [marˀâ] a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. 7 Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. 8 Bocca a bocca parlo con lui, in visione [marˀê] e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?» (Nm 12,5-8).
Dobbiamo ammettere che il testo risulta un po’ deludente. Sembra che stia per dare la formula della possibilità della mediazione umana della parola di Dio, ma alla fine l’ambiguità del detto non permette di chiarire le idee. Le due parole ebraiche tradotte in italiano come “visione” soltanto si distinguono nella vocalizzazione. Prima dell’introduzione delle vocali, i due termini erano identici (mrˀh), dando luogo a una dichiarazione divina strana: “Con Mosè non parlo in mrˀh, ma in mrˀh”. Non sembra possibile risolvere l’ambiguità, anche perché non c’è modo di sapere con ragionevole certezza perché si scelse a suo tempo una vocalizzazione o un’altra, sia qui che nelle altre occasioni in cui appare quella catena di consonanti. E chiaro che entrambi i termini si riferiscono a quello che si vede, ma non è possibile identificare sfumature6. Allora, invece di rimpiangere ciò che il testo non dice, prendiamo atto di quello che infatti dice:
(1) Ci pensa Dio a “filtrare” in qualche modo il suo parlare in modo che possa essere ricevuto dal mediatore. Dunque, la risposta alla domanda sulla possibilità di una mediazione umana della parola di Dio è che Dio stesso la rende possibile. Pensandoci bene, una risposta di questo genere era praticamente l’unica via di uscita per una struttura di mediazione così particolare, nella quale il polo più debole (di gran lunga) è allo stesso tempo mediatore e destinatario. Le obiezioni alla procedura scelta potrebbero essere molteplici. Almeno tante quante si sono fatte lungo la storia alla convenienza e al realismo dell’Incarnazione.
(2) L’affermazione che Mosè sia un caso unico di comunicazione non mediata con Dio (cfr. anche Dt 34,10) implica che il processo di mediazione nella trasmissione della parola di Dio è un fatto normativo. L’esistenza di un’eccezione ribadisce la libertà divina. Il concetto stesso di eccezione non regge se non nei confronti di una norma, collegabile all’importante concetto biblico di fedeltà divina: Dio cerca positivamente di farsi capire dall’uomo.
Gli elementi menzionati fin qui, servono anche a illustrare il modo in cui Cristo porta a pienezza il concetto di mediazione: salva veramente la distanza ontologica (perfetto Dio, uomo perfetto) e non come potrebbero farlo le creature angeliche (cfr. Eb 1-2); e fa convergere in sé i ruoli di sacerdote e profeta, dirimendo la tensione fra la mediazione istituzionale e quella carismatica.
3. Il mediatore che parla
◊ Questione: È capace un mediatore umano di trasmettere un
messaggio divino senza travisarlo o corromperlo
in qualche modo?
A ciò che ci risulta, nella Bibbia non si contempla la possibilità di un travisamento della parola di Dio da parte del profeta o mediatore che sia, né per incompetenza, né per infedeltà. Si registrano casi di una pretesa infondata di trasmettere un messaggio da parte di Dio, ma si tratterebbe di un processo falso, non di un processo fallito. La stessa cosa si potrebbe dire delle comunicazioni divine nel contesto religioso del mondo biblico. Sembra esserci un principio generalizzato, secondo il quale, se la divinità vuole dire qualcosa, sicuramente riesce.
È relativamente frequente nel Mediterraneo Antico che la non interferenza del mediatore nella consegna del messaggio sia raffigurata tramite un’immagine estatica del profetismo. Il profeta dice ciò che la divinità vuole, perché la capacità del mediatore di dire la sua è stata disabilitata. In questo caso, sicuramente va modificato il grafico di comunicazione riportato all’inizio. Non ci sarebbero due transazioni comunicative, ma soltanto una, nella quale il mediatore non è che il canale:
Dato che nemmeno i mediatori biblici sono in grado di storpiare il messaggio divino, non sarebbe preferibile questo grafico per rappresentare anche il profetismo della Bibbia? Nella nostra opinione, lo schema unitario è in certo modo accettabile, ma non preferibile a quello duale, perché ciò che troviamo nella Bibbia ha delle peculiarità rispetto a ciò che occorre nei suoi dintorni.
La Bibbia conosce e non esclude un profetismo di tipo estatico, ma chiaramente non lo predilige. Perfino, in un racconto come quello di Balaam (Num 22-24), dove un riferimento all’estasi avrebbe trovato uno spazio ragionevole, il profeta è caratterizzato lucido, anche se, per intervento divino, fa l’opposto di quello per cui è stato commissionato. Infatti, l’immagine del profeta consapevole e padrone delle proprie potenze è assolutamente prevalente da un punto di vista quantitativo e qualitativo nella Bibbia. Ciò significa che, quando si dà per scontato che il mediatore sempre riesce a trasmettere fedelmente il messaggio, non si intende che Dio annulla la libertà e le (in)competenze del mediatore, ma che in qualche modo le integra nel suo disegno di comunicazione.
Due racconti di vocazione molto noti servono a illustrare questo punto:
10 Mosè disse al Signore: «Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua» 11 Il Signore gli disse: «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore?» (Es 4,10-11).
6 Risposi [parla Geremia]: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane» 7 Ma il Signore mi disse: «Non dire: Sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. 8 Non temerli, perché io sono con te per proteggerti». Oracolo del Signore. 9 Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e il Signore mi disse: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca» (Ger 1,6-9).
In entrambi i casi, il protagonista resiste alla chiamata dichiarando la propria incompetenza in vista della missione di mediatore della parola. Anche nei due casi, la risposta divina, invece di contradire l’obiezione, la fa diventare irrilevante annunciando che sarà Dio a parlare per mezzo del soggetto scelto. Ma poi, nei racconti su come Mosè e Geremia portano avanti il loro compito, i due profeti vengono caratterizzati pienamente attivi e, addirittura, in discussione con Dio su condizioni ed esito della propria missione (cfr., per esempio, Es 5,22-23 o le famose “confessioni” di Geremia in Ger 11,18-23; 12,1-6; 15,10-21; 17,14-18; 18,18-23; 20,7-18).
L’immagine biblica della mediazione della parola di Dio trova corrispondenza con lo sviluppo della riflessione teologica sull’ispirazione scritturistica. L’idea che la divinità comunichi anche tramite uno scritto non è ovviamente qualcosa di esclusivo del cristianesimo. E anche in questo caso si riscontra una deriva praticamente naturale verso l’esclusione delle potenze del mediatore, in forma di annullamento (estasi) o di inibizione (una sorta di postino che si limita a consegnare la lettera). Un processo del genere sembra avvenuto nel giudaismo rabbinico e nell’Islam. Nel cristianesimo però, l’ispirazione estatica o meccanica è stata sempre respinta, se vogliamo con una certa fatica, ma decisa e ripetutamente. Il seguente passo della Dei Verbum può essere considerato un punto di arrivo per la dottrina cristiana dell’ispirazione biblica:
Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte (Dei Verbum, n. 11).
Spicca in questa affermazione il sintagma «come veri autori», perché, quando si descrive il concorso di Dio e l’uomo nella produzione di un effetto, non è raro che si ritenga che la libertà umana venga, se non annullata, menomata in qualche modo nel processo. Si dubita, per esempio, che san Paolo possa essere chiamato autore della Lettera ai Romani, allo stesso modo che si dice che Dante sia l’autore de La Divina Commedia. È infatti evidente – si argomenta – che la Lettera ai Romani produce senso al di là di ciò che san Paolo poteva ragionevolmente prevedere. Riteniamo vera l’affermazione, ma è altrettanto vera se viene applicata a Dante e a La Divina Commedia. L’ispirazione biblica non distrugge il perfetto controllo dell’opera da parte del suo autore, perché tale controllo non esiste tanto per cominciare. Ciò che implica l’ispirazione è l’assunzione che il senso emanato da un testo biblico nel processo di allontanamento dal suo autore umano non sfugge però alla volontà divina di comunicarsi.
Servendoci ancora del paragone con l’ispirazione biblica, potremmo dire che lo schema unitario sarebbe applicabile al parlare biblico di Dio, ma spiegando che il mediatore fungerebbe da canale secondo la propria natura libera, diversa da quella di un foglio di carta o delle onde sonore. È la stessa cosa che si fa quando si impiega il concetto di “strumento” per descrivere il ruolo dell’agiografo nella stesura dei libri biblici, cioè, si deve aggiungere che è uno strumento con il pieno possesso delle proprie potenze, secondo la sua natura umana. A questo punto, riteniamo più conveniente lo schema duale che, evidenziando efficacemente la presenza dell’agire libero dell’uomo, favorisce un approccio più organico all’argomento.
4. Il destinatario che ascolta
◊ Questione: Come discernere se qualcuno parla veramente da parte di Dio?
Con tutto quello che è stato detto fin qui, forse si comincia a sospettare che, malgrado Dio abbia deciso di parlare e difatti parli, colui che vuole o deve ricevere il messaggio non avrà davanti a sé un compito facile, visto che la stessa libertà umana trasparirà nel vero e nel falso profeta. Poi, le voci che lungo la storia hanno preteso di trasmettere un messaggio divino sono così tante da rendere inutile esemplificare. Come si fa, secondo la Bibbia, a districarsi in tale giungla di parole? Di nuovo, come ci è capitato con Nm 12, il Pentateuco contiene una risposta diretta alla domanda:
18 «Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. 19 Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. 20 Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire». 21 Forse potresti dire nel tuo cuore: «Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detto?». 22 Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione. Non devi aver paura di lui (Dt 18,18-22).
Siamo tornati a Dt 18, luogo importante nella descrizione teorica del profetismo biblico. Il passo si apre ribadendo l’efficacia del progetto di comunicazione divina, ma subito esplicita la domanda naturale: come distinguere che infatti Dio sta parlando in un caso specifico? La risposta offre come criterio di discernimento il valore dello stesso messaggio nell’ordine della verità e – ci permettiamo di sottintendere – il bene. Qualcosa del genere si troverà poi nel NT, associato alla memoria di Gesù, tramite un detto come «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16-20) o il tema giovanneo della testimonianza delle opere (cfr. Gv 5,36; 7,3-4; 10,25; 14,11; 15,24).
Tuttavia, pur attribuendo al criterio una certa validità, non sembra che basti a dissipare ogni dubbio. Per cominciare, solo sarebbe applicabile nel caso di un ministero profetico che si prolunga nel tempo. Immaginiamo, ad esempio, due profeti, l’uno che dice che la distruzione incombe se non si fa certa cosa, e l’altro che dice che la distruzione succederà proprio se la si fa (è il caso di Ger 27-28). Una volta capitata la distruzione sarà una magra consolazione avere finalmente i dati per sapere di aver fatto la scelta sbagliata.
Inoltre, siccome si tratta di valutare, c’è sempre la possibilità che la valutazione sia erronea. Proprio il Quarto Vangelo, che come dicevamo accoglie il criterio, mostra quanto sia complicata la sua applicazione:
Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui» (Gv 3,2).
29 Gli dicono i suoi discepoli: «Ecco, ora parli apertamente e non più in modo velato. 30 Ora sappiamo che tu sai tutto e non hai bisogno che alcuno t’interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio». 31 Rispose loro Gesù: «Adesso credete? 32 Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo» (Gv 16,29-32).
52 Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno”. 53 Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?» (Gv 8,52-53).
Nel primo passo, Nicodemo accetta Gesù proprio perché è stato testimone delle sue azioni precedenti. Nel secondo, i discepoli di Gesù dicono di aver fatto la stessa operazione, e Gesù invece presume che non hanno capito o, se hanno capito, a poco li giova. Nel terzo, gli stessi dati di partenza servono per arrivare a una conclusione in aperta contraddizione con le precedenti. Il discernimento davanti a Gesù stesso sembra essere stato molto difficile:
Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi (Mc 1,22; cfr. Mt 7,28-29).
È logico che gli scribi non parlino come uno che ha autorità, evidentemente parlano appellandosi all’autorità di Dio o della Torà. Invece Gesù dice cose come «il Figlio dell’uomo è signore del sabato» (Mt 12,8; Lc 6,5). Come accettare una pretesa del genere?
32 Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». 33 Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,32-33).
L’insufficienza dell’analisi del contenuto obbliga a cercare altre modalità di conferma. Un’alternativa sarebbe il giudizio sulla validità o legittimità del canale. Nei vangeli ci sono indizi che puntano a un processo del genere nell’accettazione di Gesù. Nei racconti, il contatto con la sua persona antecede spesso l’esposizione degli aderenti a contenuti (parole e azioni) valutabili. Il perentorio “seguimi” di Gesù sembra sufficiente. Addirittura, il mero incontro con Gesù appare in grado di dileguare obiezioni di contenuto:
Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi» (Gv 1,46).
In questa via di discernimento, rivestono particolare rilievo i canali di mediazione istituzionalizzati. Abbiamo affermato previamente che, almeno per quello che riguarda l’AT, la preferenza va chiaramente alla mediazione profetico-carismatica della parola. Tuttavia, gli altri due ambiti di mediazione fra Dio e l’antico popolo di Israele sono di carattere istituzionale (ed ereditari), cioè, la leadership del re e il culto sacerdotale. Dal punto di vista del ricevente umano, la seconda tipologia ha l’importante vantaggio della visibilità. La fatica del discernimento viene praticamente risparmiata in partenza: se è il consacrato del Signore, va accolto come tale nell’ambito corrispondente, leadership, culto o parola che sia, al di là di qualsiasi altra considerazione (è il ripetuto atteggiamento di Davide nei confronti di un Saul ormai con le ore contate in 1Sam 24,7.11; 26,9.11.16.23).
Come anche ricordavamo prima, la convergenza in Cristo della triplice mediazione regale, sacerdotale e profetica risolve la tensione fra istituzione e parola. Allora, problema risolto? Si sa che Dio parla solo se la parola arriva tramite un canale prestabilito? La risposta deve essere negativa per due motivi. Primo, perché la condiscendenza divina manifestata nell’esistenza di strutture comunicative non annulla la libertà di Dio, che continua a poter parlare come e quando vuole. Secondo, perché la ricezione fisica del messaggio non è garanzia di comunicazione riuscita, come mette in evidenza un passo giovanneo tanto noto quanto interessante per il nostro argomento:
47 Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. 48 Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione».49 Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla 50 e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». 51 Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione 52 e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53 Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo (Gv 11,47-53).
Il narratore del vangelo prende la parola e glossa quello che ha appena narrato dando luogo a delle implicazioni estremamente interessanti:
- Dà per scontato che il ruolo di sommo sacerdote abilita a mediatore della parola divina. Non entriamo qui a ragionare perché fa così, ci basta prendere atto che ritiene il canale garantito.
- Ciò che il mediatore intende e ciò che il narratore attribuisce al disegno divino coincidono nel dire che la morte di Gesù beneficherà tante persone ma, a seconda della cornice di comprensione, la portata dell’affermazione e le conseguenze nel piano dell’azione divergono assai. Così tanto che si può dire che il mediatore non capisce in realtà ciò che sta dicendo, risultando palese l’ironia del «non capite nulla» del v. 49. Ma, allo stesso tempo, non ci sono elementi per negare la responsabilità oggettiva del mediatore nel promuovere un’azione ingiusta (la condanna di un innocente).
- Gli ascoltatori immediati ricevono il messaggio come autorevole da un punto di vista politico-religioso. Il narratore conferma che il messaggio merita la autorevolezza religiosa, ma il risultato nella ricezione è negativo, nel momento in cui spinge ai riceventi a collaborare in un’ingiustizia («decisero di ucciderlo»: v. 53), che si presuppone che Dio – mittente originale nello schema della mediazione – non vuole.
- Quindi, tirando le somme, sembra si descriva un processo di mediazione frustrato. La prima transazione comunicativa è significata dal «non lo disse da se stesso» del v. 51. La seconda è in sé riuscita (i riceventi colgono ciò che l’emittente intende), ma sembra chiaramente difforme dalla prima. Se così fosse, dovremmo correggere là dove dicevamo che la Bibbia non contempla la possibilità di una mediazione fallita. Tuttavia, proprio la glossa giovannea recupera il tutto, proponendo una comprensione del processo che oltrepassa i limiti della prima ricezione. A questo punto i riceventi del detto divino diventano i lettori del Vangelo di Giovanni e non i partecipanti al raduno del sinedrio. Ma anche a costoro – potenziali lettori del vangelo – resta aperta la possibilità di aggiungersi al numero dei riceventi ultimi, rivedere l’accaduto, esaminare le proprie scelte, correggere pregiudizi e proporsi un nuovo corso di azione.
Tornando dunque alla domanda che apre questa ultima sezione, troviamo nella Scrittura un percorso di identificazione della parola di Dio mediata nell’interazione fra il valore del messaggio e la qualità del mediatore. I due indici faticano a essere sufficienti se isolati. Se l’esame del contenuto si usa come unico criterio, la presunta comunicazione tenderà verso la mera conferma dei pregiudizi del ricevente (è il problema del fallito tentativo di Lutero di discriminare il canone del NT tramite un’analisi del contenuto dei testi). Se si assolutizza il ruolo del mediatore autorevole, escludendo la ragionevole mediazione interpretativa, si può finire per compiere misfatti in nome di Dio. Perché ci sono cose che, con tipico paradosso biblico, Dio non può fare: «se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tim 2,13).
5. Note conclusive
Se dovessimo sottolineare qualcosa alla fine del nostro percorso sintetico sulla caratterizzazione biblica del parlare divino, sceglieremmo il concetto di libertà. Libertà di Dio, da una parte, nel contenuto dei suoi messaggi e nel modo in cui sceglie di comunicare. E, dall’altra, la libertà dei mediatori umani che, pur incapace di intaccare la comunicazione stessa (se Dio vuole comunicare, riesce sempre a farlo), resta pienamente attiva, dando luogo a un atto, la mediazione, sul quale sarebbe possibile e ragionevole chiedere responsabilità.
Tutto sommato, la sottolineatura proposta non sembra richiedere troppa giustificazione. Stiamo puntando a quello che, da un certo punto di vista, è l’argomento per eccellenza della teologia, cioè, il rapporto fra il naturale e il soprannaturale. Va notato, tuttavia, che stiamo richiamando l’attenzione su un’intersezione di piani che solo la presunzione di un sistema divino può rendere accettabile. Se ciò che diciamo ha l’importanza che gli attribuiamo, sarebbe interessante sapere come viene trattata la convergenza delle libertà a cui si fa riferimento da un punto di vista storico o giuridico. In particolare:
— Quale ruolo viene attribuito all’elemento soprannaturale da un punto di vista storico o giuridico, senza snaturare queste scienze o distorcere il fenomeno oggetto di studio?
— Quali strumenti, criteri o procedure vengono proposti per valutare la responsabilità dei mediatori della Parola?
— Quanto spazio potrebbe essere dato all’idea di “mediazione fallita” in un giudizio sul passato o in un progetto di controllo per il futuro?
Bibliografia
Buccellati, Giorgio. “Quando in alto i cieli”. La spiritualità mesopotamica a confronto con quella biblica. Milano: Jaca Book, 2012.
—, “Ethics and Piety in the Ancient Near East.” In Civilizations of the Ancient Near East, Jack M. Sasson (ed.). New York: Charles Scribner’s Sons, 1995.
Schökel, L. Alonso, Sicre Díaz, José Luis. I profeti. Roma: Borla, 1996.
Wolterstorff, Nicholas. Divine Discourse. Philosophical Reflections on the Claim that God Speaks. New York: Cambridge University Press, 1995.
1 Un tentativo interessante è quello che si trova in Wolterstorff 1995. Si tratta di una raccolta di prolusioni sull’argomento, con un fondamento linguistico di rilievo. Forse potrebbe giudicarsi un po’ limitante la decisa difesa dell’intentio auctoris dell’ermeneutica romantica che fa nei confronti del relativismo interpretativo (Derrida) e anche di posizioni più articolate (Ricœur).
2 Le considerazioni introduttive (16-93) dell’opera Schökel e Sicre Díaz (1996), contengono molti spunti interessanti per il nostro argomento. Similmente all’opera prima menzionata, la competenza linguistica del p. Luis Alonso rinforza la consistenza dell’approccio che propone.
3 Anticipiamo che, sarebbe possibile rappresentare il processo divinatorio come un’unica transazione comunicativa nella quale il mediatore non è un secondo emittente, ma il canale. Più avanti ci soffermeremo su questa possibilità.
4 Sulle questioni del contesto culturale della Bibbia, si veda Buccellati 2012.
5 «Religious culture is, in Israel, acceptance of communicated unpredictability; in polytheism, it is discovery of a predictability that carries its own self-declaration in its patterning and in the rational scrutiny it invites» (Buccellati 1995, 1688).
6 Detto al margine, in questo passo Dio afferma che non parla direttamente che con Mosè e lo fa parlando direttamente con Aronne e Maria. Il paradosso serve a ricordare che per studiare la modalità del parlare di Dio nella Bibbia servono allusioni dirette all’argomento. I numerosi passi in cui Dio parla direttamente con qualcuno non servono di fondamento per l’idea di una comunicazione divina non mediata. Semplicemente focalizzano totalmente nel contenuto del messaggio, omettendo qualsiasi indizio riguardo le circostanze in cui avviene la comunicazione.