Ror Studies Series | Autorità e mediazione
Il corpo che appella: mediazioni ed escatologia
Ilaria Vigorelli
Pontificia Università della Santa Croce (Roma)
Introduzione
Le questioni che qui vogliamo introdurre all’attenzione dell’indagine teologica e della cura evangelizzatrice, sono tre dimensioni umane che emergono dall’interazione: (1) il problema della sintonizzazione emozionale nel contesto sociale, (2) la dimensione del segreto della coscienza e (3) l’attitudine dell’attenzione come condizione antropologica fondamentale perché possano darsi atti relazionali orientati al bene dell’altro.
Data la crisi antropologica attuale, che risuona nella Chiesa e fuori di essa – nelle relazioni umane e professionali e a volte anche in quelle ecclesiali, ovvero nei rapporti connotati direttamente dall’appartenenza al medesimo popolo di Dio, che è gerarchicamente strutturato sulla base della diversità dei ministeri (LG 18) –, è proprio la realtà delle asimmetrie che connotano le relazioni in genere a indicarci l’importanza di tenere in conto con rinnovata cura queste tre dimensioni dell’umano interagire.
Autorità e mediazioni, infatti, sono modalità relazionali che sempre si esprimono in azioni umane che suppongono esercizio di libertà, ma la libertà non è un concetto, bensì un modo di stare nelle relazioni, un modo di essere in rapporto con le cose e con le persone, ma anzitutto con se stessi. La libertà che stiamo cercando è il modo concreto in cui possiamo giungere a vivere l’auto-determinazione come dono di sé.
Sintonizzazione, segreto e attenzione sono qui offerte perché si possa acquisire maggior consapevolezza riguardo alle circostanze in cui si dà l’incontro di mediazione o trasmissione di Cristo, quale può essere l’incontro sacramentale della confessione, o l’incontro catechetico, ovvero le condizioni attive ogniqualvolta si voglia promuovere un incontro tra due o più soggetti liberi, specialmente se tale incontro vuole essere all’insegna della missione della Chiesa di trasmettere la vita divina donata da Gesù.
Vedremo che esse sono dimensioni antropologiche da sottoporre a studio, dunque, per porgerle alla cura della grazia divina, ma anche per sviluppare un pensiero che possa farsi carico delle ambivalenze del mondo che abitiamo e affinché la teologia le prenda in considerazione e metta mano a un giudizio da offrire alle altre discipline.
Le tre dimensioni qui scelte sono tre luoghi antropologici che pre-mettiamo all’amore e al servizio e dunque anche, e maggiormente, a qualsiasi ministero che voglia mettersi a disposizione della trasmissione della vita di Cristo.
La sintesi qui presentata vorrebbe essere un arricchimento alla riflessione sulla coscienza, troppo spesso considerata espressione di un giudizio morale, talvolta inteso come terzo rispetto alla persona, a cui la stessa coscienza attingerebbe sotto forma di imperativo e che in ambito cristiano verrebbe a coincidere con la forma dell’autorità di Dio. Qui argomenteremo che la coscienza è molto di più, è uno stato di vita, una disposizione, intimamente dialogica e aperta, è l’apertura alla voce di Dio in noi e nelle altre persone, dovuto al nostro essere-in-relazione, che può determinarsi in un giudizio ma che non è riducibile all’esercizio di una facoltà, essendo altresì espressione di una condizione intimamente relazionale e segreta del soggetto. Ben lontani dalla concezione dell’autonomia Kantiana, la concezione della coscienza che vorremmo qui proporre si scosta pure da una visione canonistica della stessa come mero foro interno, depositario della legge e del peccato.
Vogliamo terminare col riproporre al centro della riflessione teologica sull’autorità e la mediazione nella Chiesa un’eredità antica, forse una delle parole di Cristo più amate dalla primitiva cristianità, che è la VI: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). In fondo tutta la trasmissione nella Chiesa è proprio finalizzata alla visio Dei. Ci sembra infatti importante ricordare alla riflessione teologica che la verità dell’uomo è quella dell’eschaton, che assume ed eleva quella del principio: e la differenza sta proprio nel modo di vedere Dio, “da fuori” o “da dentro” la Trinità. Al contempo, per vedere Dio bisogna amarlo, essere uniti con Cristo nel desiderio e nella volontà, cioè arrivare a volere come vuole Lui, non tanto conoscere sempre nel dettaglio che cosa voglia e come lo produca, giacché la sua Volontà si fa per opera Sua, sia quando la capiamo, sia quando non la capiamo.
Ecco di seguito, allora, per ciascuna dimensione, le questioni che ci appaiono più stringenti.
1. Sintonizzazione
Se è vero che la condizione umana è stata sempre in crisi – nel senso etimologico del termine, ossia nella possibilità di esercitare un giudizio su ciò che vive e su come lo vive, giacché la condizione del mondo si offre al giudizio come condizione ontologica tragicamente ambigua – pare che l’attuale contesto storico-sociale si presenti come una sorta di limbo, dagli esiti incerti per quelli che giudicavamo i maggiori guadagni della modernità, ossia la scoperta del soggetto e l’allargamento del potere del suo arbitrio grazie alle scienze empiriche e alle tecnologie.
C’è chi considera il tempo che stiamo vivendo come un periodo di decadenza più che di crisi (Pera 2023; Delsol 2022), a motivo del fatto che non si vedono chiaramente le trame di un giudizio concreto che possa transitare l’umanità dal malessere del presente verso condizioni politiche e sociali feconde di idealità decisamente “dopo-moderne” (Donati e Maspero 2021); altri invece, considerano la crisi attuale come un momento di transizione verso riproposizioni maggiormente evolute di modernità, cioè verso istanze “neo-moderne” (Mordacci, 2017), che condurranno ad un post-umanesimo tecnocratico e forse nuovamente autocratico (come reazioni o estensioni del post-moderno).
Un lettore dei segni della corruzione del moderno “sistema” occidentale è sicuramente il filosofo Byung-Chul Han, coreano, naturalizzato tedesco. Egli propone ormai da più di un decennio una interpretazione della società occidentale come “società della prestazione” (Han 2012), di fatto applicabile al tardo capitalismo già annunciato dalla letteratura marxiana degli anni Novanta (Jameson 1992).
Coerentemente con le dinamiche proprie della società della prestazione – il cui imperativo categorico è lo slogan “yes, you can”, che potremmo tradurre come “puoi, dunque devi”, con un ribaltamento dell’imperativo categorico Kantiano che consisteva nel “tu devi, dunque puoi” dunque sei libero – l’ingaggio ad “essere oltre”, “fare oltre”, “vivere oltre” ogni limite si sviluppa secondo una comunicazione intersoggettiva guidata da processi tecnologici mediati, quindi assoggettabili alla legge della trasparenza (Han 2014), che a loro volta impongono processi di continuo scambio economico. Se per Kant il “puoi” è semplicemente l’evidenza della libertà, oggi il “puoi” è percepito per lo più come una coazione – come si vede, ad esempio, nelle biotecnologie: se qualcosa si può fare allora si deve fare perché altrimenti sembrerebbe di andare contro il progresso/benessere dell’Umanità.
Questa evoluzione sociale è giudicata da Han come inevitabilmente intrecciata a due fenomeni apparentemente molto diversi; la smaterializzazione del mondo e la scomparsa dei riti (Han 2021). Se prendiamo per buona la descrizione di tale dinamismo economico e sociale non si può non registrare un impatto immediato e amplificato sulla capacità di vivere e praticare i legami sociali, dai più basici, intra-familiari, ai più organizzati, societari fino ad ecclesiali.
Come già abbiamo avuto modo di mostrare, l’identità nasce, si sviluppa e diviene generativa solo in e per le relazioni (Vigorelli 2022), ma essere in relazione significa essere sempre latore di una storia e oggi è proprio la relazione originante ad essere troppo spesso in crisi, connotando così la storia della libertà del soggetto fin dal suo inizio.
Nelle società capitalistiche, si è invertita la tendenza che giustificava l’osservazione di Winnicott secondo la quale la stragrande maggioranza delle madri si sintonizza abbastanza bene con i propri bambini, ovvero la convinzione che per lo più ci siano madri “sufficientemente buone” (van der Kolk 2015, 132).
Qui vogliamo solo osservare che la sintonizzazione emozionale soffre dei tempi sempre più ristretti e “invasi” dalla tecnologia, fin dal primo maternaggio, momento privilegiato per la sintonizzazione che avviene prioritariamente attraverso il corpo e che stabilisce la base dell’attaccamento sicuro (van der Kolk 2015, 130). Gli studi di psicologia evolutiva danno per acquisito che se l’attaccamento sicuro non si stabilisce, l’esercizio di tutte le facoltà e dunque anche delle competenze, nonché l’esercizio della libertà, sarà condizionato. Dove ancorare quindi la libertà personale, quando è la propria percezione di-sé-in-sé ad essere problematica?
Che cosa si intenda per sintonizzazione emozionale è presto detto. Un accudimento affidabile e responsivo, dove le interazioni, a partire da quelle fisiche, sono buone, permette al bambino di sincronizzarsi inizialmente con il corpo della madre, e poi sempre più con le risposte della madre, con il gioco delle emozioni della madre, e dunque di costruire un “locus of control” interno: i bambini imparano che cosa li fa stare bene e che cosa li fa stare male, acquisiscono un senso di potere, scoprono che le proprie azioni possono modificare il proprio sentire e le risposte degli altri, imparano a distinguere e a differenziare le situazioni che possono gestire da soli da quelle per cui devono chiedere aiuto. Imparano che possono avere un ruolo attivo e risolvere situazioni difficili. In generale un accudimento che promuove una sintonizzazione buona fa maturare nel bambino «la capacità di sentire il corpo come un posto dove vive la psiche» e la sensazione viscerale e cinestesica di come i nostri corpi si incontrano getta le fondamenta di ciò che sperimentiamo come “reale” (Winnicott, 1971).
In ordine al tema che ci sta a cuore, ovvero quello della mediazione nella trasmissione della vita di Cristo, dobbiamo considerare che la regolazione emotiva che permette di limitare l’esposizione ad alcuni eventi di vita travolgenti (traumi) è possibile esercitarla in modo sano se si è potuta maturare la sintonizzazione con il caregiver principale (B. van der Kolk 2015, 133). E come è noto, soltanto se si sa riconoscere il proprio stato emotivo si è in grado di agirlo o di non agirlo, responsabilmente. Solo quando si può dare un nome agli stati emozionali e quindi renderli pensabili e discernibili, ci si può differenziare da essi e viverne le conseguenze oppure no, esercitando la libertà di scelta e la libertà di dono.
Come possiamo fare riferimento a rapporti tra soggetti liberi se manca, anche solo in uno dei due poli della relazione, la consapevolezza del proprio stato emozionale e la domanda sulla adeguatezza di esso con la realtà circostante e con la propria identità? La vulnerabilità dei soggetti, posti in relazioni asimmetriche in rapporti di autorità, aumenta esponenzialmente se la consapevolezza dei propri stati emozionali è inibita o immatura. Se il corpo non ha avuto una casa, neanche la mente può averla. Può lo spirito sostituire corpo e mente?
In fondo la sintonizzazione con il corpo della madre è il primo rito cui l’essere umano è affidato per trovarsi a casa nel mondo. La de-ritualizzazione della vita consumista e prestazionale sembra procedere di pari passo alla perdita dell’attaccamento sicuro e della capacità di sintonizzazione emotiva. Riprendiamo il pensiero profondissimo di Saint-Exupéry, raccolto nel libro postumo Cittadella: «E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione». L’elemento antropologico dei riti è proprio la creazione di una struttura temporale di compartecipazione che oggi sembra minata dalla moltiplicazione di spinte culturali ed economiche puntuali e narcisistiche dove si sviluppano gravi conseguenze emotive, tra le quali il senso ormai patogeno di una solitudine sconfinata.
Come nella sintonizzazione, i riti, oggettivando il mondo e riconnettendo ciascuno all’Altro, “creano una comunità anche senza comunicazione”, ma nella società dei consumi imperversa una incessante “comunicazione senza comunità”. Il recupero dei riti invece permette il senso di una vera connessione con l’Altro con l’effetto di stabilire legami e dettare i tempi per la comunione; in tal modo stabilizzano la vita. Ma quali riti confermano il soggetto nella propria casa? Come recuperare il senso della dimora senza incorrere in dissociazioni, se le dissociazioni possibili non vengono neppure considerate dai promotori dei riti?
Dunque, per concludere questa prima parte, sintonizzazione emotiva e ritualizzazione della vita sembrano caratteri necessari, anche se non sufficienti, allo sviluppo di relazioni vere tra persone libere, e forse non ne avevamo ancora preso tanta contezza. Oltre alla stabilizzazione ci vuole la scoperta e la tutela del proprio mondo al segreto.
2. Segreto
Intendiamo con “mondo al segreto” quello stato del soggetto che non può essere noto se non mediante un’auto-rivelazione; la scoperta del proprio essere “mondo al di dentro” avviene anch’esso su base relazionale: l’altro agisce come elemento di scoperta di sé quando prossimità e distanza siano ben dosate, quando dentro e fuori sono ben distinti, quando la coscienza è percepita grazie alle sue soglie, circoscritta, con varchi ben marcati che si aprono solo dal di dentro verso il fuori: il contrario sarebbe rapina o dispersione.
Anche qui viene in soccorso quella dimensione rituale che passa dalla lettura e dalla scrittura, o dall’ascolto interiore; lo vedremo stavolta attraverso la letteratura autobiografica di un testimone affascinante della vita “al segreto” che è Etty Hillesum, una donna. Ebrea, letterata, traduttrice curiosa e giovanissima, a 26 anni si trova nell’Olanda occupata dai nazisti; morirà ad Auschwitz il 30 novembre del 1945 e rimarrà nota nella letteratura universale per il suo Diario e per le sue Lettere, pubblicati a distanza di vari anni dalla sua morte e ancora tutti da studiare se si volesse fare una attenta fenomenologia della coscienza. Non è secondario che questo studio della coscienza venga da una fonte femminile, ma non bisogna incorrere nell’errore che allora si tratti di “pensiero della differenza”, utile soltanto per la metà del cielo.
Qui ci limiteremo a due aspetti che la condizione di “trasmissori” o mediatori della vita di Gesù devono assumere come pressanti e di cui Etty è stata veridica e universale testimone: (a) la necessità che l’anima trovi il modo di “assumere” la propria forma e (b) la grandiosa possibilità di tendere alla presenza di Dio nella propria coscienza.
(a) Bisogno di trovare la propria forma. È il processo che Etty indica per divenire esseri umani maturi, e lo descrive così: «Se non cerco e scopro la mia forma congeniale, finirò a vagare nel buio e nel caos, è qualcosa di cui anche adesso avverto forte il rischio. E trovare quella «forma» non deve essere un’impresa: una storia breve, o un articolo su un giornale anche se poco prestigioso. In ogni caso, c’è qualcosa in me, qualcosa che desidera essere trascinata fuori da me con tutte le forze, ma non so dire che aspetto avrà, una volta emersa» (5 agosto 1941).
Una studiosa degli scritti di Hillesum ha commentato: «Forma interiore e forma di scrittura [per Etty] si equivalgono. È attraverso la seconda che cerca il modo di costruire e restituire la prima e insieme ad essa, la realtà. È determinata a scavare dentro di sé e trovarsi perché è convinta che l’incomprensibilità di ciò che accade all’esterno – la guerra, le persecuzioni – è dovuta in parte all’incapacità di fare luce in sé stessi. Etty non si fa illusioni circa la difficoltà del compito; parla di un “blocco di granito” interiore da dover modellare per non esserne schiacciata, e l’espressione è rivelatrice del tipo di lavoro che ha intrapreso: il granito infatti non lo si può «modellare» se non con uno strumento acuminato, uno scalpello, che batte e ribatte, ossessivo e spietato. Lo scalpello della sua scrittura, che in lei funziona come da specchio, di fronte al quale Etty si pone in un giornaliero de-costruirsi e costruirsi, e che la riflette nella sua interezza. Un’interezza, però, che per darsi come tale deve prima venire separata, distinta. Dai pensieri, dalle emozioni, dal mondo» (Consolo 2022, 62).
Come la Hillesum descriva il suo modo di fare questo lavoro è forse paradigmatico dell’umano, proprio perché la grande letteratura sa essere espressione dell’esistentivo (existenziell), ovvero del rapporto tra l’esserci e il suo essere. Per lei tale ricerca si sviluppa sulle righe azzurre del diario, ma il risultato è un procedimento che interessa tutti. Così lo descrive sapientemente la Consolo: «È un trovarsi che ha bisogno della quiete per realizzarsi, di un silenzio libero da ciò che dell’esterno la distrae e la distoglie; un guardarsi dentro che pone a distanza il di fuori e la preserva dal rimanerne sommersa. Ha bisogno di accoccolarsi «in un angolino» e raccogliersi, in una pratica che ha tutto dell’ascolto e nulla del pensiero, perché non ci si può tirare «fuori da uno stato d’animo pietoso col pensiero». Usando una parola tedesca che non ha corrispondenti in olandese, Etty lo definisce hineinhorchen. In realtà, neppure in italiano il termine trova una fedele traduzione. Non si tratta infatti solo di “ascoltare” (horchen, versione ricercata del più comune zuhören), ma di un ascoltare dentro. Un prestare attenzione con tutto il proprio essere, tendendo «l’orecchio fin nel cuore delle cose». In effetti, c’è una bella differenza. Alla ricerca di «una verità profonda», di «un fine determinato», Etty scandaglia la propria anima con la stessa tensione con cui studia i propri libri, spesso concentrandosi su una sola frase, o una sola parola, quasi volesse incamerarla e custodirla per il futuro, per quando avrà trovato la giusta sintesi fra espressione interiore e espressione scritta» (Consolo 2022, 63).
Tale ricerca della forma, così bene espressa da diventare universale, è nei suoi diari parola scritta che diviene testimone della condizione umana. In tal modo la scrittrice olandese ci consegna due elementi fondamentali per considerare affinché un incontro avvenga davvero tra due libertà: da una parte c’è il bisogno dell’anima di diventare narrazione e la sua ricerca di senso deve potersi esprimere; dall’altra serve il riconoscimento, ovvero tale narrazione porta in sé il bisogno di essere consegnata, di diventare dialogica.
Quell’atto tutto suo, descritto come un “rifugiarsi in un paio di parole” è forse l’atto più proprio, più segreto dell’esperienza umana, il più sacro che possa darsi in un rapporto tra esseri umani. Se si prende consapevolezza di ciò si vorrà proseguire, nella disciplina che regola la validità della relazione umana, seguendo la traccia dell’attenzione, ma ci torneremo in seguito.
(b) Una volta ricavata la questione della “forma” dell’anima mediante quel raccoglimento che può essere comunicato, Etty ci consegna anche un’altra espressione maestosa, che forse va tenuta più presente nell’incontro di mediazione nell’opera di trasmissione della vita di fede. Si tratta del riconoscimento dell’immanenza del divino nell’umano, per imparare ad esserne, come sottolinea Goulding, riconoscenti.
Il riferimento a Dio appare 367 volte nei suoi diari ma qui ci soffermiamo soltanto su uno, che appare negli appunti del 26 agosto 1941: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo. M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé».
Quando si pensa all’autorità del mediatore, all’accompagnatore spirituale, alla guida, si ha presente che il Padre è la Sorgente della Vita eterna e che aspira ad essere scoperto dentro la persona che lo cerca? Se è vero che la fede viene dall’annuncio (Rm 10,13-15) l’annuncio stesso deve poter liberare il cammino all’ascolto di una Parola che è anzitutto Creatrice e all’accoglienza di uno Spirito che è vivificante, dal di dentro.
La condizione del “Dio sepolto”, spesso così tanto condivisa, fa sì che la fede di colui che trasmette il Vangelo non si spenga ma intervenga come un appassionato rabdomante in cerca dell’acqua viva dentro il cuore e la storia di chi si è rivolto alla guida? L’intervento “rabdomantico” sarà capace di rivolgere l’ascolto del portatore del Dio sepolto verso la propria forma e lo spazio vivificato da un Altro che è la propria dimora, o coscienza?
In tal senso l’immanenza di Dio nella coscienza non sarà confusa con il super-io, né con la voce dell’omino che ripete i dettami dei giudizi ricevuti dalle relazioni interiorizzate lungo il percorso, ma potrà divenire davvero esperienza di Bene, di Vita sempre nuova che muove a ricerca e a dono.
Mi pare che un approfondimento della esperienza umana fornita dall’abilità letteraria di Etty Hillesum di perimetrare il “mondo al segreto”, fornirebbe chiarissimi correttivi a qualsiasi deriva narcisistica che possa intralciare l’opera pastorale e ministeriale nella Chiesa, come pure alle illecite trasgressioni del limite imposto dal segreto, e dunque dal perimetro destinato all’opera della mediazione, che in quanto tale deve rimanere “in mezzo” e non subentrare né a Dio né all’uomo.
La verità della relazione tra le libertà in gioco nella mediazione del mistero di Dio è necessaria alla trasmissione della Fede e del Vangelo, e quando viene offesa la coscienza del proprio mondo interiore, la vita di Fede viene logorata o addirittura spenta.
3. Attenzione
Forse non bisogna allora tornare ad educarci all’attenzione? Questo elemento della mediazione non è secondario all’avvenimento di un incontro che possa dirsi cristiano. L’opera della mediazione/trasmissione non deve essere superficiale e neppure distratta.
Simone Weil, un’altra donna, un’altra ebrea, contemporanea alla Hillesum, ma francese, in un breve saggio raccolto nel volume postumo Attente de Dieu, sostiene che soltanto la parte più elevata dell’attenzione entra in contatto con Dio (Weil 1949). Sembra interessante capire di che cosa si tratti, quando se ne parla in questi termini.
La filosofa parigina la descrive così: «C’è nella nostra anima qualcosa che rifugge dalla vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto più vicino al male che non la carne. Ecco perché ogni volta che facciamo veramente attenzione distruggiamo una parte di male in noi stessi. Se impegniamo l’attenzione con questo scopo, un quarto d’ora di essa vale molte opere buone. L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero ma a un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare. Il pensiero, rispetto a tutti i pensieri particolari preesistenti, deve essere come un uomo su una montagna, che fissando lontano scorge al tempo stesso sotto di sé, pur senza guardarle, molte foreste e pianure. E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi».
La dimensione dell’attenzione è molto collegata alla disposizione del ricevere, ad impegnare le facoltà non in una attitudine di produzione, ma di ricezione. Paradossalmente tale attitudine non è affatto passiva ma si dà secondo la forma del desiderare, che deve essere raggiunta superando quella del fare. La Weil lo mostra molto bene attraverso le considerazioni che svolge sul lavoro intellettuale dello studio, sia esso risolvere problemi matematici o tradurre dal greco o dal latino: «La volontà, quella che all’occorrenza fa serrare i denti e sopportare la sofferenza fisica, è lo strumento principale dell’apprendista nel lavoro manuale, ma, contrariamente all’opinione corrente, non ha quasi alcuna parte nello studio. L’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio dev’esserci anche piacere e gioia. L’intelligenza si accresce e dà frutti solo nella gioia. La gioia di imparare è indispensabile agli studi, quanto lo è la respirazione per i corridori. Là dove manca, non vi sono studenti ma povere caricature di apprendisti, che alla fine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere. Questa funzione del desiderio permette di trasformare lo studio in una preparazione alla vita spirituale, poiché il desiderio orientato verso Dio è la sola forza capace di elevare l’anima. Certo, è soltanto Dio che discende ad afferrare l’anima e ad elevarla, ma soltanto il desiderio costringe Dio a discendere. Egli viene soltanto per quelli che gli chiedono di venire; a quelli che glielo chiedono spesso, a lungo, ardentemente, egli non può rifiutarsi».
Ecco allora che l’attenzione viaggia di pari passo con il desiderio ma al contempo deve sapersi spogliare di tutto ciò che diverge dall’oggetto cui si rivolge. Potremmo dire che l’attenzione è quella disposizione umana che più si rassomiglia alla disposizione trinitaria del Figlio verso il Padre, così come viene presentata dal Prologo giovanneo (Gv 1, 1): Egli è generato dal e insieme è tutto rivolto al Padre,
Azzardo qui a dire che la relazione indicata dal pros del Prologo del IV Vangelo consiste per l’essere umano nella disposizione dell’attenzione. Essa è suscitata dall’oggetto che la genera ed è posta come soggetto che lo attende.
Non è difficile farne esperienza: l’incontro con la persona che attende suscita l’autorivelazione e il dono di sé quando l’attesa non è finalizzata ad altro che alla ricezione della libertà di chi è atteso. In tal senso si può certamente riscontrare, dal punto di vista antropologico, il bene voluto in quanto bene, e dunque in modo pienamente libero: così sembra operare Dio nella sua natura tripersonale, così Egli si riflette nel desiderio dell’uomo fatto a Sua immagine.
Allora, chi è posto dalla Chiesa come ministro della missione evangelizzatrice, dovrà essere anzitutto educato all’attenzione, nel suo rapporto intrinseco con il desiderio, e alla mediazione come una posizione che non può mai permettersi di ignorare lo spazio della coscienza, che anche se ingombra di ostacoli e di detriti, ospita sempre la sorgente divina.
È a questo punto che forse si può riproporre la dottrina antica e sempre nuova della VI beatitudine. Beati i puri di cuore.
Il giovane J. Ratzinger, che lavorava al suo corso di Escatologia (Ratzinger 1977) già negli anni Cinquanta, fondava l’indagine sull’immortalità cristiana su questa parola di Gesù, facendosi attento discepolo di un’omelia di Gregorio di Nissa, quella appunto che commenta la VI Beatitudine (Gregorio di Nissa 2011).
Chi volesse dominare la propria mortalità sarebbe come il greco che voleva raggiungere la contemplazione del divino con il solo esercizio delle proprie facoltà ma che alla fine si trova nella disperazione di sé, come Pietro sul lago di Genezaret. Tutta la logica sull’immortalità – sintetizzava Ratzinger – non è sufficiente per tenersi in piedi. Di fronte all’ambiguità ontologica del mondo e della volontà quando cerca il bene e non riesce a compierlo (Rm 7,18-19), si offre la mano tesa del Cristo: «il sapere filosofico rimane un camminare sulle acque; esso non può darci stabilità. Soltanto colui che, essendo Dio incarnato, ci sostiene con la sua forza, può darci stabilità sul mare della precarietà. Ma la sua promessa è questa: alla visione di Dio, che è la vita, non possiamo giungere con la speculazione della ragione, bensì unicamente attraverso la purezza del cuore semplice, la fede e l’amore con cui ci abbandoniamo alla mano del Signore».
Si tratta di passare da una concezione antropologica incentrata sul potere delle facoltà umane ad una concezione dialogico-relazionale della vita umana (Malo 2013), che indica il cammino sulla via dell’immortalità tramutando la teoria apparentemente speculativa in indicazione pratica: la purificazione del cuore si compie attraverso la fede e l’attesa paziente dell’amore che da essa sgorga. La fede, come l’attenzione, non esclude l’esercizio delle facoltà, anzi lo suppone per accedere alla forma della virtù, ma la beatitudine non consiste nel giungere a vedere l’essenza divina, o nel saper agire come Dio agisce, bensì nell’avere Dio in sé mediante la sequela dei suoi insegnamenti, della sua volontà che coincide col suo amore, che danno piacere e gioia secondo la forma delle Sue virtù (Gregorio di Nissa 2011). Stiamo affermando una cosa molto importante, ma forse troppo poco comunicata: la connaturalità con il divino non suppone per l’essere umano la capacità di agire secondo il modo di essere divino – che in noi è soltanto partecipato – ma consiste nell’ “appropriarsi” della relazione che il Figlio ha con il Padre: «Voi dunque pregate così: Padre nostro» (Mt 6,9). Tale appropriazione non può che avere la forma del Santificatore, ossia del Dono, dell’Amore di Dio. Il mediatore può “soltanto” indicare questa relazione che dovrà essere unica e personale.
Attenzione, purezza del desiderio, in-abitazione trinitaria rappresentano quindi la trama divino-umana che intesse l’opera di mediazione dei ministri della Chiesa nell’opera evangelizzatrice. Se si considerasse maggiormente che ogni mediazione nella Chiesa è finalizzata alla vita eterna, come libera e perciò mutua immanenza delle Persone divine e della persona umana, forse l’esercizio della mediazione, come anche dell’autorità, sarebbe molto attento al Bene da trasmettere.
Conclusioni
1. Rispetto alla sintonizzazione emotiva: si tratta di una questione sempre più emergente, giacché l’attuale de-ritualizzazione della vita sembra che stia progressivamente inficiando i luoghi naturali dell’apprendimento relazionale della regolazione emotiva a cui erano stati dedicati, fino al secolo passato, grandi parti della vita della donna dedita alla prole. Oggi la scarsità della risorsa tempo e la complessità della conciliazione tra il lavoro e la famiglia, fanno sì che la società post-liberale sia sempre più incapace di trasmettere, mediante le piccole comunità originarie che sono le famiglie, la cura dell’infante, soprattutto nelle sue prime fasi di sviluppo (Speranza 2022). Lo sviluppo della violenza giovanile e delle tendenze al suicidio pongono nuovi interrogativi su quanto sia necessario quello che Bowlby e Winnicott hanno chiamato apprendimento della “sintonizzazione”, affinché si possano dare scambi relazionali pienamente umani (van der Kolk 2015) grazie allo sviluppo dell’attaccamento sicuro. Quanto è probabile che in condizioni di mancata capacità di regolazione emozionale si tuteli e si promuovano efficacemente la libertà intersoggettiva, l’identità nelle relazioni e dunque anche la verità dell’evangelizzazione? Quanto deve essere la stessa opera evangelizzatrice primariamente un’opera di umanizzazione, ossia di cura delle condizioni di possibilità affinché l’umano possa vivere le relazioni nella consapevolezza di sé non disincarnata, e quindi nel pieno esercizio della sua libertà?
2. La dimensione umana del segreto, o della intimità, come perimetro del proprio e inalienabile, eppure fragile, spazio educativo ed educante, riconoscibile dentro se stessi e, in vero, sviluppato mediante le relazioni, è il secondo aspetto che esige una riflessione approfondita nel contesto dell’esercizio dell’autorità e della mediazione nella Chiesa.
Da una lato gli obbrobri degli abusi psichici e fisici e anche spirituali, dall’altra, come reazione ad essi, la spinta verso la sorveglianza per la sicurezza – che sembra richiedere una sorta di “trasparentizzazione” dei processi comunicativi e dei discorsi educativi, fino a rassomigliarli a protocolli certificati – rischia di sottoporre oggi ad una certa trascuratezza lo spazio dell’intimità, del segreto, del sacro immanente al soggetto, e aggredisce in altro modo l’umano, conducendolo a vivere secondo una grammatica pienamente ascrivibile alle logiche della prestazione codificata e degli scambi equivalenti. Le procedure alle quali sono sottoposti i rapporti educativi, anche quando intese come “buone pratiche”, se si pretende di sostituirle all’artigianale creatività della relazione unica che segue i dinamismi propri delle libertà in gioco, e dunque anche delle asimmetrie, rischiano di mancare del tutto la coltivazione della vita al “segreto”. Silenzi, riflessione, dialoghi personali, invito all’adorazione, permettono il raccoglimento e la relazione nel proprio mondo interiore solo quando esso è presentato quale nucleo vitale e inalienabile della persona.
Che cosa insegniamo oggi del bisogno esistenziale della vita “al segreto”, anche quando essa deve essere sgombrata da macerie relazionali, peccati e dipendenze? Se il segreto diviene luogo abusante, come recuperarne invece la insostituibile bellezza?
La descrizione della coscienza in termini puramente cognitivi o moralistici non riduce forse ad unum (alla facoltà di giudizio) i molteplici dinamismi relazionali, anzitutto con se stessi, rispetto ai quali possiamo indagare l’umanità di cui siamo depositari? Riconoscerli e distinguerli permette di priorizzare la cura della “dimora”, che è l’immagine adottata da Gesù (Gv 14,23) per rappresentare l’intimità della coscienza, nella quale soltanto si può permanere nella comunione con Dio.
3. La condizione antropologica attiva e passiva della “attenzione”, che precede e trascende quella della “cura” e della “comunicazione”, viene messa in evidenza come terzo elemento che sembra essere carente, deficitario, nelle strutture sociali di stampo consumista, le quali dis-educano al riconoscimento della realtà laboriosa e ostruiscono in tal modo l’emergere della caratteristica umana che più di ogni altra permette di intercettare il mistero del “di dentro” dell’altro e che promuove la creatività e l’amore, ossia la capacità di attendere; l’attesa è spazio di libertà, per il venire all’incontro dell’identità e della differenza dell’altro nella relazione, dei suoi autentici bisogni e dei suoi doni.
L’attenzione – lo ha insegnato Simone Weil – non è una disciplina; la consideriamo invece come un effetto emergente dall’interazione nella quale l’umano è vivificato dall’umano, ovvero come un bene relazionale che promuove modi sempre nuovi di stare nella vita propria e degli altri, gli uni per gli altri, gli uni negli altri. Apprendere a procrastinare la pretesa di risposte immediate nell’interesse per l’attesa dell’autorivelazione dell’altro, evita con decisione il rischio di fare di alcuno un oggetto di consumo. Solo tale apprendimento può fornire il contesto giusto perché accada un incontro, e quindi una mediazione, dalle caratteristiche cristiane.
Dunque, per concludere il motivo di un titolo. Il corpo che appella: mediazioni ed escatologia.
Il corpo, primo sofferente, è l’incoercibile dell’umano. La mente vaga, il corpo resta; la psiche rimuove, il corpo non dimentica, è il testimone di tutta la nostra storia, di ogni limite e di ogni atto di libertà. Il corpo è dove lo spirito si manifesta come amore, cura e dinamismo. Laddove qualcosa di questo manca al corpo, la vita si affievolisce, tende a spegnersi. Per questo in ogni percorso di discernimento, in ogni relazione di accompagnamento, ascoltare il corpo che appella è fondamentale, perché non sia trascurata la linea pneumatologica nel rapporto di mediazione. Lo Spirito non trascura mai il corpo, né il proprio né quello dell’altro, ma vivifica da dentro. Se il corpo si dissocia, in una relazione, non possiamo pensare che di lì passi lo Spirito, tanto meno se il corpo viene manomesso.
La profondità e la relazione con Dio dell’altro che appella si manifesta nel corpo ed esso ne tiene memoria. Anche per il corpo di Cristo è così. Primo luogo di mediazione salvifica e ultimo luogo di ricapitolazione. Tutta la Gloria della fine dei tempi passerà attraverso il Corpo di Cristo, per tutta la sua Chiesa, per l’umanità che Lo incarna.
Forse se fossimo orientati, attenti, al Corpo di Cristo della fine dei tempi, autorità e mediazione non sarebbero mai esercitate al di fuori della ri-presentazione della sua Carne e del suo Sangue offerti per molti e, mediante quei molti, per tutti.
Autorità e mediazione nella Chiesa non hanno alcun senso se non in ordine alla salvezza di tutti gli esseri umani, nei corpi propri.
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