Ror Studies Series | Autorità e mediazione
Le relazioni asimmetriche nella Chiesa tra narcisismo e ontologia relazionale
Giulio Maspero
Pontificia Università della Santa Croce (Roma)
Per nascita io sono di confessione ebraica,
poi mi sono convertito al narcisismo.
(Woody Allen, Scoop)
1. Introduzione (teologica)
La relazioni nella Chiesa non possono non essere asimmetriche, per il semplice fatto che essa è «un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4), come insegna la Lumen Gentium, riprendendo l’insegnamento patristico. Ciò implica che il principio di unità che costituisce la Chiesa stessa è radicalmente trascendente. La sua vita è, dunque, dono che viene dall’alto e tale dono è ridonato in una dinamica relazionale e generativa destinata a durare fino alla fine dei tempi (cfr. Mt 16,17-19) e oltre. Quindi la Chiesa è Madre perché Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo. E come la relazione con la propria madre è costitutivamente asimmetrica nella sua origine, così nella vita della Chiesa, in questo continuo ridonare il dono ricevuto dall’alto, la dimensione asimmetrica è ineludibile.
Ma nello stesso tempo, l’origine trinitaria dell’unità che costituisce la Chiesa (cfr. Gv 17) aggiunge un elemento assolutamente fondamentale. Infatti, l’ordine intratrinitario, che vede il Padre come principio e fonte di tutta la Trinità (Denzinger 2018, 525), è costituito da relazioni mutue, cioè simmetriche. La prima Persona divina, in quanto Padre, genera la seconda donandoLe non solo qualcosa, ma tutta Se stessa, cioè la propria infinita, eterna ed assoluta divinità. E la seconda Persona divina, in quanto Figlio, è immagine del Padre stesso ridonando Se stesso a Lui, cioè “restituendo” tale Dono infinito, eterno ed assoluto, che è lo Spirito Santo, terza Persona divina, Dono eternamente e attualmente ridonato (Maspero 2011). Teologicamente, dunque, la simmetria di tali relazioni consiste nella reciprocità del mutuo dono di sé ridonato in modo perfetto ed assoluto, in quella dinamica eterna che il pensiero cristiano ha imparato a chiamare pericoresi.
Il punto è fondamentale, perché le Persone divine si identificano con le relazioni sussistenti, secondo una dottrina insegnata da Tommaso fin dai suoi primi scritti, ma radicata nella teologia patristica sia greca sia latina (Maspero 2023). Quindi la partecipazione all’unità trinitaria che costituisce la Chiesa ha una dimensione asimmetrica legata alla sua natura processionale, che nella storia della salvezza è tradotta in termini di missioni, ma anche una dimensione “simmetrica”, non binaria o meramente speculare, che esprime nella reciprocità del dono la mutua relazionalità trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito.
Ciò corrisponde anche alla doppia dimensione del sacerdozio cristiano, ministeriale e regale, nella loro correlatività. Allo stesso modo la coessenzialità di doni gerarchici e carismatici, citata nello stesso punto della Lumen Gentium e recentemente ricordata dalla Iuvenescit Ecclesia, ha qui la sua radice. La Chiesa è popolo, laos, non dêmos o ethnos, quindi non semplice etnia, comunità chiusa da confini razziali o rituali, né realtà meramente sociologica. Laici e chierici non possono essere in dialettica, per il semplice fatto che i primi sono i destinatari del servizio svolto dai secondi, in modo tale che l’identità di ciascuno è relazionale. I doni sacramentali, infatti, sono finalizzati esclusivamente alla trasmissione di questa vita divina, che “fa” la Chiesa. Quindi l’unico fondamento dell’asimmetria delle relazioni ecclesiali è il loro servizio alla simmetria delle stesse.
Ciò può sembrare paradossale, ma Joseph Ratzinger, nel commentare come Agostino legge Gv 7,16, osserva che l’espressione di Gesù “la mia dottrina non è mia”, in apparenza paradossale e contraria alla logica, in verità non lo è proprio perché Gesù è il Figlio e il Figlio è pura relazione sussistente al Padre. Gesù, dunque, può dire che Lui non è soltanto Lui, proprio perché Lui appartiene alla prima Persona divina, così come Questa appartiene a Lui. Quindi, riprendendo la domanda tanto cruciale, quanto sconvolgente di Agostino «Che cosa è più tuo di te stesso, e che cosa è meno tuo di te stesso?» (Agostino, Commento sul vangelo di Giovanni, 29,3), Ratzinger scrive:
L’elemento più intimamente soggettivo, ciò che in ultima analisi è realmente nostra unica ed esclusiva proprietà, ossia il nostro ‘io’, è al contempo il meno nostro di tutti, perché il nostro ‘io’ non l’abbiamo ricevuto da noi stessi né per noi stessi. L’’io’, il fattore più spiccatamente soggettivo, è il mio possesso più totale, ma al contempo anche la proprietà che meno mi appartiene. Sicché qui, il concetto di mera sostanza (della cosa sussistente a sé!) viene ancora una volta sbrecciato, in quanto ci vien fatto vedere come un essere veramente consapevole di se stesso comprenda, al contempo, di non appartenere a se stesso proprio nel sussistere autonomo; ci vien fatto toccar con mano come tale essere giunga a prender coscienza di sé unicamente staccandosi da se stesso, ritrovando la sua vera originalità proprio nella correlazione (Ratzinger 1969, 146).
Tale appartenenza divina non è, dunque, kenotica, ma relazionale. Il Figlio è Se stesso nella relazione al Padre, e viceversa. Il passo è straordinariamente profondo, soprattutto quando lo si guarda sullo sfondo della situazione culturale nella quale la Chiesa è chiamata ad evangelizzare nell’epoca post-moderna.
La dimensione relazionale, di origine trinitaria, alla quale esso punta, è fondamentale per la tesi del presente capitolo. Infatti, le relazioni asimmetriche, che abbiamo visto essere essenziali nella chiesa, sono anche all’origine del fenomeno profondamente complesso degli abusi, in tutti le sue forme, da quelli sessuali al livello più profondo degli abusi di autorità e di coscienza. Qui si cercherà di mostrare come un elemento culturale e psicologico che ostacola il passaggio dalle relazioni asimmetriche a quelle simmetriche e reciproche, secondo la dinamica accennata, è il narcisismo e come questo è legato ad una matrice culturale che sta perdendo sempre più la connessione con l’ontologia relazionale sviluppata a partire dalla rivelazione trinitaria.
La scansione del percorso qui proposto sarà, dunque, in quattro passi: (i) il primo consisterà nel rileggere a partire da questa introduzione teologica e dalle fonti del mito di Narciso la diffusione del narcisismo nella società attuale; (ii) ciò permetterà di evidenziare a livello più fenomenologico la connessione di tale fenomeno con gli abusi con la presenza di relazioni asimmetriche che non sono a servizio della generatività; (iii) quindi, si rileggerà tutto ciò alla luce di alcuni esempi letterari di abusi paradigmatici rispetto alla loro epoca, per evidenziarne il ruolo che il narcisismo può aver svolto in essi; (iv) si concluderà, dunque, proponendo in positivo alcune soluzioni che, a partire dal contributo della teologia, mediata dalla comunicazione istituzionale, si possono offrire per contribuire a prevenire il fenomeno. Essenzialmente la proposta ha come suo centro la filiazione divina come chiave di lettura delle dinamiche relazionali nella chiesa. Tale elemento di origine cristologico-trinitaria può proteggere da un’erronea comprensione della dimensione kenotica, oggi estremamente esposta al rischio di una lettura dialettica, secondo una dinamica che impedisce, di fatti, che le relazioni asimmetriche si pongano a servizio della loro simmetrizzazione nella reciprocità del dono. Per questo si proporrà l’ontologia trinitaria come elemento che la tradizione in primo luogo patristica ci offre per plasmare una cultura ecclesiale che serva a prevenire gli abusi. Infatti, per quanto le soluzioni giuridiche siano fondamentali ed abbiano una dimensione educativa, non possono essere l’ultima parola per il semplice fatto che giungono troppo tardi, cioè quando già le vittime hanno sofferto.
Le conclusioni tenteranno, così, di mettere in evidenza l’identità relazionale come elemento fondamentale sia per comprendere, in negativo, il fenomeno degli abusi, sia, in positivo, per elaborare un percorso preventivo, fondato su una comprensione della Chiesa più trinitaria, come ha spinto a fare il Concilio Vaticano II, ma senza cadute in ingenuità che non rispettino la differenza infinita tra il Creatore e la creatura e, quindi, che possano dare spazio a manipolazioni in nome di Dio.
2. Il triplice Narciso
Il mito di Narciso è molto antico e la sua stratificazione rivela una profondità antropologica che non riguarda solo l’epoca che stiamo vivendo. Infatti, la prima versione di cui abbiamo traccia risale a Conone, mitografo vissuto tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I d.C., le cui opere sono compendiate nella Biblioteca di Fozio. Qui si narra:
A Tespie, in Beozia, (città non lontana dall’Helicon), nacque un ragazzo, Narciso, di una bellezza senza confronti, ma che disprezzava l’amore (Eros) e gli amanti. Gli altri suoi amanti smisero di amarlo, ma Aminia era molto perseverante e pressante. Siccome Narciso non voleva dargli retta e gli aveva perfino inviato una spada, egli si uccise di fronte alla porta di Narciso dopo aver a lungo supplicato la divinità di vendicarlo. Narciso vide in una fontana la propria immagine (opsis) e la propria bellezza riflessa nell’acqua. Così egli fu il solo e il primo a concepire un amore innaturale (atopos) per sé stesso. Alla fine disperato, ritenendo di subire un giusto castigo per aver disprezzato l’amore di Aminia, anche lui si uccise. Da allora, gli abitanti di Tespie decisero di onorare maggiormente Eros e di venerarlo offrendogli, oltre al culto pubblico, anche sacrifici privati. E gli abitanti del luogo ritengono che il fiore di narciso è spuntato dalla terra per la prima volta proprio dove il sangue di Narciso era stato sparso (Fozio, Biblioteca 186, 24, ed. R. Henry: 134b.28-135b.3).
Come è immediatamente evidente, si tratta di un racconto moraleggiante il cui fine è indurre il lettore a non disprezzare gli amanti. Questa versione greca e più antica è declinata in termini omosessuali. Dal punto di vista degli abusi, il testo risulta estremamente inquietante, perché sostanzialmente invita i giovinetti educati nella paideia a non rifiutare il desiderio degli adulti che si innamoravano di loro. Dopo secoli di cristianesimo ciò può apparire aberrante, come la schiavitù, superata proprio grazie alla riflessione sulla dignità della persona, elaborata a partire dalla riflessione trinitaria (Ramelli, 2016). Di sicuro l’orgoglio, che qui è espresso in termini di hubris, è l’elemento centrale dell’ammonimento greco. L’innamoramento di sé, anch’esso omosessuale di per sé, è presentato come vendetta divina, che spinge gli abitanti della città a reagire onorando maggiormente Eros, anche a livello personale, e non solo pubblico. Rispetto alla fenomenologia psicologica attuale, l’elemento centrale che il mito riesce ad esprimere è la mancanza di empatia e di sentimenti da parte di Narciso, mancanza che, come si vedrà più oltre, rende possibile gli abusi stessi e la costruzione manipolativa di relazioni asimmetriche non generative.
Se la lettura alla luce dell’attualità è inquietante, nello stesso tempo occorre riconoscere la forza del pensiero greco nel prendere coscienza della complessità di questi elementi antropologici (e prima ancora ontologici), nonostante la soluzione proposta non possa essere riconosciuta oggi come adeguata. Infatti tale filone mitologico si colloca nella linea dionisiaca, che compensava l’elemento apollineo nella cultura greca. L’ideale era sempre quello della misura razionale, ma il caricarsi del meccanismo del desiderio, mimetico, nella lettura di Girard (2019), esigeva di pagare il tributo alla divinità orientale. Da questa impostazione si era distaccato Platone, che nel Simposio aveva affermato che Eros non era un vero dio, ma un demone mediatore, il cui ruolo era essenzialmente filosofico. Così la soluzione dell’alternanza tra l’apollineo e il dionisiaco era stata superata dall’affermazione della superiorità del pensiero sul desiderio, illustrata dall’omaggio finale di Alcibiade a Socrate. Questi aveva rifiutato le avances del politico, perché, dice il testo, al filosofo non importava se uno era bello esteriormente, ma solo tendeva alla bellezza più vera (cfr. Platone, Simposio 216d-e).
A tale rifiuto di seguire le apparenze corporee si riferisce anche l’interpretazione del mito da parte di Plotino nel III sec. d.C., secondo il quale Narciso finisce per morire e diventare cieco compagno delle ombre (skiais) negli abissi odiosi all’intelletto, proprio perché ha cercato di afferrare l’immagine dei corpi, confondendola con la vera bellezza che, invece, è ideale (cfr. Plotino, Enneadi, I, 6, 8). La soluzione greca al narcisismo è, dunque, la metafisica, cioè la ricerca con il pensiero della vera bellezza. Ma la dimensione relazionale e quella inconscia rimangono in ombra, con la loro profonda connessione.
Eppure il riferimento a Platone offre quella distanza necessaria per riconoscere che il mito di Narciso riguarda l’elemento tragico del pensiero greco. Nelle tragedie, infatti, la morte è frutto della perdita delle distinzioni relazionali, come nel caso paradigmatico di Edipo, che uccide il proprio padre e sposa sua madre (Sofocle, Edipo Re), o Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone che così suscita la vendetta della moglie Clitennestra (Euripide, Ifigenia in Aulide). Il punto è terribilmente attuale, perché l’amore di sé posto dalla cultura contemporanea al centro del meccanismo consumista si fonda proprio su una sistematica negazione della distinzione relazionale, che non può non portare alla tragedia. Invece il pensiero cristiano ribadisce, per il suo fondamento trinitario, che non c’è amore se non c’è alterità, quindi distinzione e identità insieme.
La dimensione relazionale emerge maggiormente nelle altre versioni del mito. In particolare in quella di Pausania risalente al II secolo d.C. Nella sua descrizione della Grecia, infatti, egli critica la versione più antica del mito, per proporne una riformulazione che dal versante omosessuale si sposta su quello bisessuale:
Nel territorio degli abitanti di Tespie si trova un luogo chiamato Donakon (cioè canneto). Qui c’è la sorgente di Narciso. Si dice che Narciso guardò in quest’acqua e, non capendo di vedere il proprio riflesso, si innamorò inconsciamente di se stesso e morì d’amore presso la sorgente. Ma è una vera e propria stupidità immaginare che un uomo abbastanza cresciuto da innamorarsi fosse incapace di distinguere un uomo dal suo riflesso (skia). C’è un’altra storia su Narciso, meno popolare dell’altra, ma non per questo priva di sostegno. Si dice che Narciso avesse una sorella gemella; erano esattamente uguali nell’aspetto, i capelli erano uguali, indossavano abiti simili e andavano a caccia insieme. Si racconta che Narciso si innamorò della sorella e, quando la ragazza morì, si recò alla fonte, sapendo di vedere il suo riflesso (skia), ma nonostante questa consapevolezza trovò un po’ di sollievo per il suo amore nell’immaginare di vedere non il proprio riflesso, ma le sembianze della sorella. Il fiore del narciso è nato, a mio avviso, prima di questo, se dobbiamo giudicare dai versi di Pamfo. Questo poeta nacque molti anni prima di Narciso di Tespie, e racconta che Kore, figlia di Demetra, fu rapita mentre giocava e raccoglieva fiori, e che i fiori con i quali fu portata via con l’inganno non erano viole, ma narcisi (Pausania, Guida della Grecia, IX, 31,7-9).
Si nota la critica apollinea tesa a rifiutare l’ipotesi che un uomo possa innamorarsi del proprio riflesso, qui detto “ombra” (skia) e non più “immagine” (opsis). La nuova lettura cerca di recuperare una distanza relazionale nella coscienza di Narciso e ciò avviene sul versante della conoscenza, perché non si ammette che un essere senziente possa confondere la realtà e l’immagine. Ma gli sviluppi successivi ci hanno mostrato quanto tale soluzione ignori razionalisticamente la forza dell’inconscio relazionale. Infatti, nella versione alternativa proposta da Pausania la dimensione relazionale è recuperata con il ricorso ai due gemelli di sessi diversi. Il rispecchiamento diventa una tecnica di gestione del lutto per la perdita della sorella. La dimensione tragica è, così, allentata, il racconto si umanizza, e l’elemento critico passa dall’innamoramento di sé al tabù dell’amore tra fratello e sorella.
Ma è nella tradizione latina dove la dimensione drammaturgica del mito viene espressa da Ovidio in massimo grado, negli stessi anni in cui scriveva Conone. Qui gli elementi antropologici risultano estremamente potenti ed attuali. Nelle Metamorfosi, infatti, nel III libro, si parla di Tiresia, elogiandone le capacità come indovino, perché egli aveva predetto che Narciso sarebbe vissuto solo se non si fosse conosciuto (si se non noverit: Ovidio, Metamorfosi, III, 346). Si noti che questa condizione è specularmente contraria al “conosci te stesso” (gnôthi sauton) scritto sul tempio di Apollo a Delfi. La vita di Narciso appare, così, opposta a quella situata sotto il segno del dio della filosofia e del pensiero. Il punto è interessante perché la versione latina del mito si gioca sulla ferita relazionale tra Narciso, che essendo bello cerca la propria immagine, e la ninfa Eco, che era stata ridotta a pura voce da Giunone perché con la sua favella la distraeva, coprendo i tradimenti di Giove. Si noti, nel presente contesto, che, analogamente al suo equivalente greco, il primo degli dèi era rappresentato come un abusatore seriale, perché l’asimmetria della relazione con lui era sottoposta alla necessità e all’arbitrio.
La condanna di Eco consisteva nel poter ripetere solo le ultime parole pronunciate da chi le stava di fronte. Ovidio narra, così, del nodo creato dalla specularità dell’immagine nell’incontro con la specularità della parola:
In quel momento il giovane [Narciso], per caso diviso dai suoi amici fidati, grida a gran voce: “Chi è qui?” ed Eco risponde: “Qui!”. Stupito lui getta gli occhi intorno, e chiama con voce più forte: “Vieni qui!”. “Vieni qui!” lei chiama il giovane che la chiama. Lui si gira per vedere chi lo chiama, ma, non vedendo nessuno, esclama: “Perché mi eviti!”. E lo stesso gli viene risposto. Tenta di nuovo, ma viene ingannato dal riflesso della voce (imagine vocis) che si alterna alla sua. Chiama con forza: “Oh, incontriamoci!”. Ed Eco grida, “Oh, incontriamoci!” Mai suono sarebbe sembrato più dolce alla ninfa, che dal bosco si affretta ad eseguire quelle sue parole e si protende per gettare le braccia intorno al collo di lui tanto desiderato. Ma lui si allontana da lei e mentre la rifiuta le dice: “Togli le mani! Non devi stringere le braccia intorno a me. Meglio sarebbe la morte piuttosto che stare con te!”. Lei non risponde altro che “Stare con te!”. Così respinta, si nasconde nei fitti boschi, celando il suo viso arrossito con le foglie verdi; e da allora vive nascosta in caverne solitarie sulle colline. Ma il suo grande amore aumenta per l’abbandono; il suo misero corpo si consuma, per le veglie e il dolore; la magrezza raggrinzisce la sua pelle e tutti i suoi bei lineamenti si dissolvono, come se volassero via al soffio del vento. Così non rimane null’altro se non le sue ossa e la sua voce. Questa sua voce continua, nel deserto; mentre le sue ossa sono diventate di pietra. Perciò si nasconde nei boschi selvaggi, e non si vede sui monti anche se tutti la sentono. Solo la voce sopravvive di lei (sonus est, qui vivit in illa) (Ovidio, Metamorfosi, III, 379-401).
Eco, nella drammatica narrazione di Ovidio, attraverso la sua maledizione legata al parlare fa da specchio all’incapacità relazionale di Narciso legata all’immagine. Lui diventerà ombra proprio per l’incapacità di accogliere l’altro, lei è già diventata mera voce, riflesso sonoro dell’ombra. Si tratta del paradosso di un incontro che non è e non può essere incontro. Dal punto di vista contemporaneo, l’avvizzire di Eco non può non ricordare l’anoressia, malattia del desiderio, mimetico direbbe ancora Girard che l’ha collegata proprio alla cultura dell’immagine oggi imperante (Girard 2017). Senza un vero dialogo, senza la capacità di stare con la parola nella differenza, il corpo viene sacrificato sull’altare del senso e si consuma per dire il proprio disagio, estremo grido che chiede differenza1. Viene da domandarsi quanto l’epidemia di anoressia dei tempi recenti non sia connessa psicologicamente proprio al narcisismo sempre più diffuso, anche a livello genitoriale.
Ma, per quanto riguarda l’analisi delle relazioni asimmetriche nella Chiesa, ciò che più interessa è l’insensibilità di Narciso, che pensa se stesso non a partire da altri, ma da una mera immagine e, per questo, finisce per amare la propria immagine stessa. Pausania non riesce a cogliere questo paradosso, perché legge il mito dalla prospettiva razionale. Ma noi ormai sappiamo che, contrariamente a quanto la modernità insegna a partire da Cartesio, si pensa sempre in relazione e per questo abbiamo bisogno della parola degli altri.
Il punto è che senza l’alterità, non possiamo vivere, come dimostra il proseguo della storia, nella quale si compie la predizione di Tiresia. Infatti, Narciso si era preso gioco della ninfa Eco come prima aveva fatto con molti amanti. Per questo la dea della vendetta ascoltò la preghiera innalzata da qualcuno che era stato irriso in modo analogo: «che lui stesso possa amare così, senza godere della persona amata» (Sic amet ipse licet, sic non potiatur amato: Ovidio, Metamorfosi, III, 405). Tale amore senza oggetto, perché l’identità tenta di fondarsi senza passare dall’alterità e, quindi, dalla relazione, compie il suo percorso tragico presso una bucolica sorgente:
Qui Narciso, stanco della caccia e per il caldo, si sdraiò, attratto dalla tranquilla solitudine e dalla sorgente. Ma mentre cerca di dissetarsi, un’altra sete cresce (dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit). Mentre beve, vede se stesso riflesso nello specchio d’acqua e si innamora; ama un corpo che non è, perché ritiene corpo ciò che è onda. Non può muoversi, perché così si stupisce di se stesso, e giace con il volto immutato, come se fosse una statua scolpita nel marmo pario. A lungo, supino sulla sponda, il suo sguardo è fisso sui propri occhi, stelle gemelle (geminum); i suoi capelli fluenti, degni di Bacco e simili a quelli di Apollo, e le sue guance giovani e lisce; il suo collo d’avorio, la sua bocca sognante di dolcezza, la sua carnagione chiara che arrossisce come su neve. Ama tutto ciò che di bello c’è in sé, e in modo insensato desidera se stesso: chi apprezza è ugualmente apprezzato; chi cerca, viene cercato; chi brucia, viene bruciato. E come bacia la fonte ingannevole; e come protende le sue braccia per afferrare il collo che è raffigurato in mezzo al ruscello! Ma non potrà mai intrecciare le sue braccia intorno a quell’immagine di se stesso. Non sa cosa è, ma ciò che vede accende il suo desiderio, e l’errore che l’inganna alletta i suoi occhi. Ma perché, o ingenuo, perché cerchi di stringere così vanamente questa forma fugace? Quel che cerchi non è. Distogli lo sguardo e perderai il tuo amore, perché ciò che attira i tuoi occhi non è altro che l’ombra della tua immagine (imaginis umbra). Non ha nulla di proprio. Viene e rimane finché tu rimani; non ha vita; se ne andrà solo se te ne andrai. Né il cibo, né il riposo possono schiodare Narciso da lì. Sulla verde ombra, gli occhi fissi nell’immagine riflessa non potranno mai vedere il loro desiderio soddisfatto, e lui viene meno a causa dei suoi stessi occhi (perque oculos perit ipse suos) (Ovidio, Metamorfosi, III, 413-440).
Si noti come è la sete del corpo che porta Narciso alla fonte, bisogno che in quanto tale punta verso la dimensione finita e chiede reiterazione, ma di fronte alla propria immagine riflessa la psiche del giovane si ripiega su se stessa e non rinvia alla dimensione infinita che è quella che propriamente caratterizza il desiderio2. La psiche qui chiude alla dimensione propriamente spirituale. Per questo terribile è la condanna degli occhi qui descritta da Ovidio, terribile e profondamente attuale, in un contesto in cui l’immagine perde la sua profondità metafisica e viene ridotta a pura apparenza. Contrariamente a quanto la modernità pensa a partire da Cartesio, il primo a fare le spese di tale decadenza è proprio il soggetto, le cui possibilità di sussistenza vengono meno. Dal punto di vista teologico, è proprio l’identità relazionale ad essere messa in crisi da una cultura dell’immagine e dell’identità. Ancora in termini greci, il principio apollineo viene soppiantato da quello dionisiaco, innescando la tragedia.
Questa nel mito si compie con la morte del protagonista che ha conosciuto sé stesso, ma solo nell’immagine, perché ha rifiutato la parola, quindi la relazione:
Ma questo sono io (Iste ego sum)! Comprendo e la mia immagine (imago) non mi inganna. Brucio di amore per me stesso. Le fiamme nascono da me e io le porto. Cosa devo fare? Devo implorare subito? O devo aspettare che il mio amore sia cercato? Che cosa imploro? Ciò che desidero è in me: l’abbondanza mi rende povero (Quod cupio mecum est; inopem me copia fecit). Oh, potessi separarmi dal mio corpo. Sono afflitto da un desiderio inaudito prima d’ora in un amante, poiché vorrei allontanare l’oggetto del mio amore. Il dolore mi consuma le forze, corre il tempo della vita, e muoio nel fiore degli anni. Ma la morte non è la mia rovina, è la fine del mio dolore. Ma vorrei che non morisse questi che amo. E ora come due concordi in un’anima sola moriremo come una cosa sola (Nunc duo concordes anima moriemur in una) (Ovidio, Metamorfosi, III, 463-473).
Qui si ha la chiara percezione che la conoscenza non può soppiantare la distinzione relazionale, nonostante quanto poi dirà Pausania. La subitanea presa di coscienza da parte di Narciso della propria tragedia è un tratto molto importante anche per comprendere il fenomeno dei suicidi degli abusatori quando improvvisamente si rendono conto della dimensione relazionale che prima ignoravano totalmente3. Come vedremo di seguito, il mito offre elementi interpretativi della realtà attuale molto efficaci.
Infatti, l’espressione inopem me copia fecit potrebbe essere considerata una descrizione ferocemente esatta della situazione culturale nella quale siamo immersi. Il dominio dell’identità porta ad una matrice culturale e psichica nella quale non si riescono più a sopportare le differenze e, quindi, le frustrazioni. Ma ciò riduce lo spazio nel quale è possibile la vita, perché il confronto con la realtà è sempre confronto con una differenza. E senza relazione con l’alterità il soggetto muore. Non basta il cogito per essere. In primo luogo serve l’esser generati, cioè l’aver ricevuto se stessi da altri. Come Ratzinger notava nel commento di Agostino a Gv 7,16: nulla è più mio del mio io e nulla meno mio.
Quindi, a conclusione di questo percorso nella triplice versione del mito di Narciso si può proporre un’interpretazione che vede in esso una denuncia (forse profetica) di come la vita è impossibile senza l’identità relazionale, cioè senza il contemporaneo darsi di relazioni asimmetriche che costituiscono l’io attraverso il dono fino al punto di farlo crescere per entrare in una relazione simmetrica con il donante. Solo così i figli possono diventare padri e le figlie madri. Solo così si può sfuggire al nichilismo realizzato nel quale siamo immersi.
3. La struttura d’abuso
Ciò è estremamente urgente. Infatti, l’epoca contemporanea nella quale siamo immersi, pur riconoscendo la crisi della modernità e del riduzionismo cartesiano, cerca di eliminare i conflitti, che le differenze possono causare, negando le differenze stesse. In tal modo si ha un dominio culturale assoluto dell’identità. Le parole e i simboli per dire le differenze vengono sistematicamente cancellati. Il mito ci ammonisce sulla tragedia che da ciò può derivare. Infatti, posto che le differenze ci sono, le persone vengono private di un bagaglio culturale che permetta di riconoscere le differenze stesse come luogo delle relazioni. Così diventiamo un po’ tutti Narciso.
Basti pensare all’educazione: ai bimbi è sottratta ogni possibilità di scontro con il reale e, quindi, di esperienza della frustrazione. In tal modo diventa impossibile per loro uscire da quella posizione che giustamente devono avere all’inizio della loro esistenza, quando sono al centro dell’attenzione delle figure di accudimento. Ma a tale primo periodo nel quale la fragilità richiede questa posizione di cura, che va a costituire il nucleo centrale dell’identità psicologica, deve fare seguito nello sviluppo psichico l’introduzione al reale, quindi all’alterità.
Il narcisismo iniziale è profondamente positivo ed essenziale, perché un bimbo ha bisogno di sentirsi amato per vivere. Il problema è quanto questo narcisismo primario non si misura con l’esplorazione del reale. E ancor più complesso è quando si dà l’assenza di quel passaggio all’età adulta attraverso quella prova di capacità di confronto con l’alterità che è l’iniziazione. Oggi questa è praticamente scomparsa e la cultura è strutturata attorno all’identità. Lo stesso sistema consumista continua a proporci immagini di realtà finite, in apparenza perfette, che in modo manipolativo vengono proposte come risposte al nostro desiderio, che di per sé è infinito perché siamo stati creati ad immagine e somiglianza del Dio unitrino. Da qui deriva un humus culturale e comunicativo che favorisce il narcisismo, creando le condizioni per una struttura di abuso.
Vale qui la pena introdurre una nomenclatura che può risultare utile nell’analisi del fenomeno. La semantica è la scienza che studia la corrispondenza tra i segni e le realtà significate dai segni stessi. Ad esempio, la semantica studia la nota la, che quando è scritta sul pentagramma nell’ottava centrale in chiave di sol corrisponde al suono del diapason, cioè 440 Hz. Ma pur essendo un segno che corrisponde a un suono, tale nota non è ancora musica, perché questa ha origine dalla posta in relazione di diversi suoni. Ebbene, quando si entra in tale dimensione si ha bisogno non solo della semantica, ma anche della sintassi, cioè di quella scienza che studia le relazioni dei segni (e quindi anche dei significati) tra di loro. Ad esempio, se si intona una melodia più in alto o più in basso, tutti i suoni cambiano con tutti i segni che li indicano, cioè le note, ma la musica è la stessa. Quindi la semantica non basta. Ad esempio, i tre colori di un semaforo sono sempre gli stessi e sono legati anche fisiologicamente alla risposta del cervello umano alle frequenze che corrispondono al rosso, al giallo e al verde. Ma è anche essenziale sapere quale è la sintassi di tali colori. Infatti, non solo il giallo può seguire il verde, ma lo può anche precede, qualora si voglia ottimizzare la velocità di ripartenza. Inoltre, in certi contesti geografici, occorre anche sapere se le indicazioni cromatiche sono considerate vincolanti o solo facoltative. Passando invece all’abuso, l’effetto che esso lascia nella persona è una ferita relazionale che si manifesterà a livello sintattico. Ad esempio, la differenza a livello fisico tra una carezza e una sberla è essenzialmente la velocità, in modo tale che, se una persona è abituata a prendere sberle, appena vede l’inizio del movimento si proteggerà, senza attendere la verifica sulla velocità del gesto. Così il rischio concreto è che non arrivi mai a ricevere una carezza perché la percezione sintattica è stata ferita dalle sberle.
Per questo la distinzione può risultare estremamente utile anche a livello antropologico e teologico. Infatti, la concezione metafisica greca identificava l’essere più vero con il concetto o l’idea. In tal modo la realtà risultava essenzialmente semantica. La stessa idolatria biblicamente può essere riformulata come riduzione semantica di Dio, nel senso che il creatore trascendente viene abbassato ad un’immagine concreta, come nella crisi del vitello d’oro al Sinai (cfr. Es 32). Invece, dal punto di vista della teologia cristiana la dimensione sintattica è essenziale perché Dio non può essere conosciuto dal basso, attraverso un’esplorazione concettuale dell’uomo senza l’ausilio della grazia. Tutte le parole che usiamo sono infatti plasmate dal nostro rapporto con il mondo finito e temporale, mentre Dio è infinito ed eterno. Per questo possiamo arrivare a conoscere il Padre, il Figlio e lo spirito Santo solo attraverso l’incarnazione del Logos che si è fatto carne (cfr. Gv 1,14). Giovanni nel prologo al suo vangelo afferma in modo netto che Dio nessuno lo ha mai visto, ma solo l’Unigenito che è nel seno del Padre ce l’ha rivelato (Gv 1,18), dove quest’ultimo verbo è in greco exêgêsato, che letteralmente significa narrare, spiegare. L’accesso al Dio unitrino, dunque, deve essere eminentemente sintattico. Le stesse parole che il dogma ha elaborato lungo i secoli sono frutto di questa dimensione relazionale della verità cristiana e costituiscono una trama nella quale ciascun termine vale solo in relazione con gli altri e con la storia di cui sono frutto (Ratzinger 1969, 129-130). Si tratta di un punto fondamentale che la Chiesa ha guadagnato dal sec. IV nel confronto con i seguaci di Ario. Questi sosteneva che Dio è non generato, in quanto è il primo e l’assoluto, mentre il Figlio è, per definizione, generato. Quindi, la differenza semantica avrebbe dovuto implicare una differenza ontologica e il Logos non sarebbe potuto essere Dio. Il punto fondamentale era che, da tale prospettiva, Dio poteva essere tradotto in parole. I Padri della Chiesa, invece, mostrarono che solo le relazioni personali possono guidarci nel rapporto con il Dio di Gesù Cristo, che è Figlio del Padre, cioè Relaziona eterna.
Teologicamente, dunque, la Trinità è irriducibile per via semantica, per cui la via sintattica è sempre necessaria. Ciò ha conseguenze immediate per l’antropologia perché questo Dio ha creato il cielo e la terra e l’uomo a propria immagine e somiglianza (Gn 1,26-27). Ciò significa che anche l’accesso alla realtà e alla propria identità ha un’essenziale e irriducibile dimensione sintattica.
Questo proprio è ciò che manca al narcisista, il quale, come il protagonista del mito, vuole essere da solo. Anzi, si potrebbe riformulare il senso delle narrazioni mitologiche dicendo che il narcisista persegue l’impossibile e contraddittorio tentativo di non essere solo messo in atto da solo. Tale linea di azione è coerente con la modernità, che impone di essere liberi da soli, riducendo la libertà stessa a mera possibilità di scelta. In tal modo, l’esercizio della libertà contraddice la libertà stessa, perché scegliere vuol dire rinunciare a tutto ciò che non si sceglie. Da qui derivano le crisi di panico sempre più diffuse, che hanno in comune con il narcisismo l’origine in un contesto socio-culturale che ha perso la profondità relazionale dell’umano.
Le stesse analisi psicologiche, a partire dal primo tentativo di Freud che, per quanto in parte superato, mantiene una certa utilità (Freud 1976), evidenziano come il narcisista soffre di una patologia che consiste in una riduzione semantica dell’io per un grave deficit sintattico. Egli ha troppa identità e troppo poca differenza, finendo per rimanere intrappolato in un vero e proprio inferno semantico. Questo, teologicamente, può essere letto come prigione idolatrica.
Il punto che si vuole qui evidenziare è che la cultura nella quale siamo immersi in questo passaggio tra la modernità e la post-modernità ha permesso il costituirsi di una vera e propria struttura di abuso, con la quale non ci si può confrontare solo per via giudiziaria. Infatti, se è vero che siamo immersi in una società patoplastica, che genera patologie psichiche, ogni attacco a quello che è un meccanismo difensivo, lo rafforza. La malattia psichica sorge come difesa di fronte ad una ferita relazionale, particolarmente nei primi anni. Ciò che economicamente è vantaggioso per la psiche in quella prima fase, diventa, però, una prigione quando si cresce, generando sofferenza. È come un vestito diventato stretto o come un’armatura che impedisce di percepire l’altro ed evolvere. Ad esempio, un bimbo che non è curato dai genitori reagisce sviluppando una teoria del mondo nella quale lui non è amabile, perché è più rassicurante pensare che la colpa è propria, piuttosto che accettare la realtà dell’essere solo, senza nemmeno le cure essenziali per la propria fragilità. Ma con la crescita tale difesa cessa di essere economicamente profittevole, diventando una trappola che impedisce le relazioni. Il depresso, infatti, vive in una profezia che si autoavvera. È un meccanismo analogo alla sindrome di Stoccolma, nella quale una donna rapita si innamora del rapitore, perché è più conveniente per la psiche pensare che il carceriere cura perché ama, piuttosto che accettare che si può essere uccisi in qualsiasi momento. Il senso di colpa che sperimentano le vittime degli abusi segue lo stesso meccanismo.
Nella terminologia appena introdotta si può dire che la psicopatologia è causata da uno sbilanciamento tra la semantica e la sintassi, a favore della prima. Ciò è particolarmente evidente nel narcisista, che ora si trova non solo a livello di nevrosi, ma anche di psicosi, come nel caso del pedofilo seriale. Analogamente a quanto narrato nel mito, il narcisista è ridotto alla dimensione dell’immagine e, quindi, non sente l’altro. Così può arrivare ad usare l’altro in nome di quel bene che identifica con la propria immagine. Non dimenticare che ciò è frutto di una ferita è essenziale per non perdere di vista che ogni carnefice è stato vittima e, quindi, per essere in grado di sviluppare una possibilità di cura attraverso la compassione e la misericordia. Altrimenti si rischia di cercare di dare una soluzione narcisista al narcisismo, come oggi avviene nella cancel culture e in alcuni estremismi ecologici.
Il narcisista, infatti, si è convertito nel suo proprio mondo, per una fusione dell’io ideale e dell’io reale, avvenuta per reggere un serio trauma relazionale nella prima infanzia4. Ciò giunge fino all’estremo di negare l’esistenza del proprio corpo, perché esso appartiene all’io reale. Infatti, in termini freudiani, il bimbo ha due oggetti erotici principali: se stesso e l’altro che lo cura. Se manca la sintassi, cioè una relazionalità autentica, l’altro è ridotto ad ideale e si finisce nella trappola semantica. In termini di identità e differenza, si è tutti schiacciati sulla prima e non si ha spazio (interiore) per quelle dimensioni che dicono necessariamente alterità, come il corpo reale e i sentimenti. Questi si differenziano dalle mere emozioni, perché sono rivolti verso qualcuno di reale, cioè sono relazionali e sintattici, non solo soggettivi e semantici. Qui può essere utile anche un riferimento al cognitivismo, perché se i due oggetti erotici non sono differenziati (dalla funzione simbolico-relazionale del padre) la relazione con la madre non può essere interiorizzata, creando il bisogno di una conferma costante esterna che crea il narcisismo secondario5.
Se partiamo da una concezione antropologica tripartita, nella quale l’uomo è considerato essenzialmente come soma, psiche e spirito, le emozioni si giocano nell’ambito del corpo, mentre i sentimenti toccano anche la dimensione propriamente psichica, cioè simbolica, permettendo il contatto con la dimensione spirituale nella quale risiedono le relazioni interiorizzate che costituiscono l’identità della persona (Maspero 2022). La salute psichica è data da una dinamica nella quale la psiche riesce a fare da ponte tra il soma e lo spirito, rendendo significative le emozioni. Ad esempio, nell’isteria, comune secondo Freud nell’epoca vittoriana, si aveva amore senza sesso, perché la psiche bloccava il soma. Nell’epoca contemporanea il narcisismo è caratterizzato proprio dall’opposto, perché si ha sesso senza amore, in quanto la psiche blocca lo spirito, per incompetenza relazionale. Ciò induce una struttura nella quale si hanno emozioni senza sentimenti. Tutto rimane interno al soggetto a livello puramente semantico, mentale, e non sintattico-relazionale. Per questo il grado di narcisismo è inversamente proporzionale alla capacità di provare sentimenti. E proprio su questa caratteristica si innesta la connessione con la possibilità degli abusi.
Dal punto di vista evolutivo ciò ha origine dall’unità con la madre, che dà al bimbo l’identità, il quale però deve poi essere introdotto alla differenza dal confronto con il limite, che simbolicamente, fin dalle percezioni nel grembo materno, è rappresentato dal padre. Tale grammatica relazionale, oggi grandemente compromessa, è essenziale, perché solo attraverso la sintassi è possibile scoprire che si può fare profitto anche nel limite, cioè che la via a quell’infinito che il cuore umano desidera passa per la frustrazione nel confronto con il finito.
Dal punto di vista teologico è significativo come il Logos, infinito ed eterno, si sia fatto carne, ed abbia condotto gli uomini a suo Padre, cioè all’unica Sorgente di vita infinita, proprio attraverso la croce. La Pasqua ha così liberato l’uomo dalla schiavitù degli idoli che assimilano a sé coloro che li adorano. I salmi sono molto duri quando affermano che gli idoli hanno orecchi e non sentono, hanno occhi e non vedono, hanno bocca e non parlano, in modo tale che coloro che li seguono finiranno per diventare come loro, cioè cose e non persone (Sal 115).
Nel narcisista questo si realizza in modo quasi letterale, creando un inferno di solitudine verso il quale, nel caso degli abusi, vengono attratte anche le vittime. E la direzione di sviluppo del post-moderno nella linea del post-umano rischia di incrementare la drammaticità di tale situazione per via tecnologica, come le varie dipendenze dalla pornografia e dai social già stanno mostrando.
4. Un confronto letterario
Può essere utile, dopo aver presentato il narcisismo dal punto di vista della struttura di abuso, cercare di coglierne la dinamica, per poter offrire non solo una diagnosi, ma anche alcuni elementi nella linea di una proposta di cura. Per questo si propongono due narrazioni che si possono considerare paradigmatiche rispetto alle epoche nelle quali sono state composte: Il ritratto di Dorian Gray, scritto da Oscar Wilde nel 1890, alla fine dell’epoca vittoriana, e Purity, di Jonathan Franzen del 2015. Qui non si intende discutere il valore artistico dei due romanzi, né metterli sullo stesso piano letterario, ma ci si limita a confrontare la rappresentazione del narcisismo, dell’abuso e del loro legame che essi offrono.
Dorian è il bellissimo protagonista del romanzo vittoriano il quale riceve in dono un proprio ritratto dall’amico pittore Basil Hallward. Sotto l’influsso di Lord Henry Wotton, il quale tesse le lodi della sua bellezza, Dorian Gray inizia a provare invidia per la propria immagine, che non conoscerà la decadenza alla quale, invece, il suo corpo è condannato. Dopo aver desiderato di poter rimanere giovane anche a prezzo della propria anima, il protagonista si accorge che il quadro inizia ad invecchiare mentre lui rimane giovane. Non solo, il ritratto porta anche le tracce della decadenza morale, come si vede dopo che Dorian spinge al suicidio la diciassettenne attrice Sybil Vane con la quale doveva sposarsi, ma che alla fine narcisisticamente rifiuta perché non recitava abbastanza bene. Il quadro è, così, nascosto in soffitta, lasciando libero il protagonista di vivere in modo dissoluto ed immorale. Ciò dura fino a quando Dorian non rivela a Basil Hallward, autore del dipinto, il segreto, finendo poi per ucciderlo in preda alla follia. Alla fine il protagonista non regge più e lacera il quadro con lo stesso coltello con cui ha ucciso l’amico. Nel finale la servitù trova Dorian morto con il coltello conficcato nel cuore e brutalmente invecchiato, mentre la sua immagine è tornata alla giovinezza originale.
Nel nono capitolo del romanzo Oscar Wilde inserisce un dialogo che descrive alla perfezione il narcisismo. Nel capitolo precedente si racconta come Dorian Gray fosse giunto perfino a baciare la propria immagine dipinta «imitando fanciullescamente Narciso» (Wilde 1989, 126). Ma questa immagine, a poco a poco, sarebbe diventata per lui una vera e propria coscienza esteriorizzata ed espulsa, perché imbruttiva nel momento in cui il protagonista compiva gesti crudeli. Per questo il protagonista era giunto a pregare affinché finisse questa «orribile simpatia esistente tra lui stesso e il ritratto» (Wilde 1989, 126). L’espressione è molto profonda, se tradotta nei termini dell’analisi proposta nella sezione precedente: Dorian, infatti, è in relazione con un’immagine e non con le persone reali, in modo tale che la sua simpatia semantica diventa causa della sua mancanza di simpatia sintattica che causa la morte della promessa sposa. Egli, infatti, aveva abbandonato Sybil, proprio dopo una sua rappresentazione teatrale nella quale non si era rivelata alle altezze delle aspettative di lui. Dorian era, allora, entrato nel camerino di lei le aveva detto che lei aveva ucciso il suo amore («you have killed my love»: Wilde 1989, 112), deludendolo. Estremamente significativa è la formula usata: «Hai rovinato il romanzo della mia vita» («You have spoiled the romance of my life»: Wilde 1989, 113), come se la vita non fosse altro che rappresentazione. Ancora si vede come la vita è ridotta nella mente di Dorian alla semantica del romance, per quella fusione tra io ideale e io reale di cui si è detto. Alla fine della scena, il cui esito sarà poi il suicidio della donna, lei «si gettò ai suoi piedi e vi rimase, simile a un fiore calpestato» (Wilde 1989, 113), in linea con la riduzione della persona a fiore, cioè a mero oggetto estetico, che caratterizza Narciso fin dagli strati più antichi del mito. La mattina dopo, l’amico Basilio, autore del ritratto, va a trovare Dorian, e gli dice:
Sono molto contento di averti trovato, Dorian, disse, con tono grave. Ho chiamato ieri sera, e mi hanno detto che eri all’Opera. Naturalmente sapevo che era impossibile. Ma vorrei che avesti lasciato detto dove eri veramente andato. Ho passato una serata terribile, con la paura che a una tragedia ne seguisse un’altra. Penso che avresti potuto telegrafarmi appena l’hai saputo. L’ho letto per caso in un’edizione serale del Globe, che ho preso al circolo. Sono venuto subito qui e mi è dispiaciuto molto per non averti trovato. Non so dirti quanto mi addolora tutta questa storia. So cosa devi soffrire. Ma dov’eri? Sei andato a trovare la madre della ragazza? Per un attimo ho pensato di seguirti lì. Hanno dato l’indirizzo sul giornale. Vicino a Euston Road, vero? Ma avevo paura di intromettermi in un dolore che non potevo alleviare. Povera donna! In che stato deve essere! Ed era la sua unica figlia? Che cosa ha detto di tutto questo?
Mio caro Basil, come faccio a saperlo? mormorò Dorian Gray, sorseggiando un po’ di vino giallo pallido da un delicato bicchiere veneziano bordato d’oro, e sembrava con un’aria terribilmente annoiata. Ero all’Opera. Saresti dovuto venire. Ho incontrato Lady Gwendolen, la sorella di Harry, per la prima volta. Eravamo nel suo palco. È davvero affascinante e Patti ha cantato divinamente. Non parlare di argomenti orribili. Se non si parla di una cosa, vuol dire che non è mai mai accaduta. È semplicemente l’espressione, come dice Harry, che dà realtà alle cose. Posso dire che non era l’unica figlia della donna. C’è un figlio, un tipo affascinante, credo. Ma non è un attore. È un marinaio, o qualcosa del genere. E ora, parlami di te e di ciò che dipingi.
Sei andato all’Opera? disse Hallward, parlando molto lentamente e con un tocco di dolore nella voce. Sei andato all’Opera mentre Sibyl giaceva morta nel suo miserabile alloggio? Come puoi parlarmi di altre donne affascinanti, e di Patti che canta divinamente, prima che la ragazza che hai amato abbia trovato pace nel sepolcro? Perché, amico, ci sono orrori in serbo per quel suo piccolo corpo bianco!
Fermati, Basil! Non ascolterò! Gridò Dorian, balzando in piedi. Tu non devi parlarmi di queste cose. Ciò che è fatto è fatto. Ciò che è passato è passato.
E tu chiami passato il giorno di ieri?
Cosa c’entra il tempo trascorso? Sono solo le persone superficiali che hanno bisogno di anni per liberarsi di un’emozione. Un uomo che è padrone di se stesso può porre fine a un dolore con la stessa facilità con cui può inventare un piacere. Non voglio essere in balia delle mie emozioni. Voglio usarle, goderle e dominarle.
Dorian, è orribile! Qualcosa ti ha cambiato completamente. Tu sembri esattamente lo stesso meraviglioso ragazzo che, giorno dopo giorno, veniva nel mio studio per farsi ritrarre. Ma allora eri semplice, naturale e affettuoso. Eri la creatura più intatta al mondo. Ora, non so cosa ti sia preso. Parli come se non avessi cuore, come se non ci fosse pietà in te (Wilde 1989, 127-128).
Nell’epoca vittoriana, quando la psiche poteva giungere a contraddire la propria funzione relazionale, bloccando il corpo, si nota che l’abuso ha un’origine estetica e romantica, però non meno pericolosa e mortale delle forme attuali. La separazione tra res cogitans e res extensa di origine cartesiana è qui al cuore della patologia, come mostra la reazione di Dorian di fronte ai riferimenti al corpo della defunta. Il brano mostra l’evoluzione di Basil che dalla paura che Dorian si suicidi per il rimorso di aver, di fatto, spinto al suicidio Sybil giunge alla presa di coscienza dell’assenza di compassione dell’amico. Grande pregio del brano di Oscar Wilde è l’acuta, e quasi feroce, descrizione dell’inferno semantico nel quale il meccanismo narcisista ha portato il protagonista e l’innesco che tale struttura può dare all’abuso. Egli rifiuta il confronto con i limiti del corpo, sia il proprio sia quello della defunta, alla quale non vuole nemmeno pensare, perché ciò lo porterebbe a stare nelle relazioni, le quali gli farebbero percepire i sentimenti e, quindi, le emozioni negative, “brutte” si potrebbe dire, che lui radicalmente rifiuta. Il confronto con il limite proprio e altrui è qui assolutamente negato. Non si ha dunque sintassi, mentre il reale è identificato con ciò che si esprime, quindi con la semantica.
Rispetto al mito antico siamo evidentemente in un contesto moderno, che ha punti in comune con il Faust. Nello stesso tempo, l’implicito patto con il demonio di Dorian Gray si gioca in un contesto che può essere definito cristiano, perché il meccanismo nascosto del Narciso greco è qui svelato. Il protagonista delle narrazioni di Conone e Ovidio è esecrato perché non riama chi lo ama, commettendo un atto di hybris. L’abuso non è percepito. Qui, invece, il protagonista è visto da dentro e non solo da fuori, perché la rivelazione cristiana ha permesso di riconoscere l’immanenza della persona umana alla luce dell’immanenza del Dio unitrino. Ciò permette a Oscar Wilde di poter rappresentare la dinamica della trappola narcisista. Così, Dorian vuole dominare le emozioni, per servirsene e goderne. La formulazione non può essere più moderna. Si tratta della praxis che prende il posto della natura e della cultura. L’uomo cerca di farsi da solo. Ma la contraddittorietà di questa posizione, già evidenziata, non perdona. L’esito è tragico, come nel mito antico. Dorian è un novello Narciso, mentre Sybil svolge la funzione di novella Eco, con la sua incapacità di rappresentare come il suo amante vorrebbe.
Ma la declinazione moderna permette anche, seppur in negativo, di scorgere una via possibile alla cura. Infatti, l’inversione tra percezione e realtà che caratterizza Dorian punta direttamente alla sofferenza psichica che sempre più è comune nella società contemporanea. Così l’esternalizzazione della coscienza e della propria storia, che nel racconto di Wilde passa dal protagonista al quadro, ci suggerisce un lavoro per riportare “dentro” al soggetto la storia e la capacità critica del proprio agire. L’atto stesso di narrare rivela la sua efficacia anche in senso terapeutico. Ma ciò richiede la cura della dimensione sintattica, per controbilanciare la spinta semantica che la cultura dell’immagine e della prestazione attuale ipertrofizza. In tal senso, la necessità di una cultura delle relazioni, che renda competenti a livello sintattico e non solo semantico, è molto ben evidenziata dal grande romanzo di fine Ottocento. Esso ci rivela che quando le persone si sentono inadeguate rispetto alle attese di chi sta di fronte a loro, il problema va risolto sul versante delle relazioni e, in concreto, nell’ambito delle relazioni asimmetriche che non riescono a mettersi a servizio della propria simmetrizzazione. Facendo un esempio forse scontato: quando una persona soffre di un handicap, non basta cambiare le parole agendo solo a livello semantico perché questa persona si santa amata e accettata, ma bisogna saper stare in relazione con lei ed aiutarla, a livello sintattico. L’inclusività non è solo un problema di linguaggio, ma di competenza relazionale, cioè di capacità di stare nella differenza, senza negarla, per poter generare da essa un bene relazionale6.
Queste osservazioni ci aiutano nel passaggio alla nostra contemporaneità post-moderna. Nella narrazione di seguito proposta si nota subito che le coordinate culturali sono diverse rispetto all’epoca vittoriana, meno idealizzate o romantiche: il corpo è evidentemente in primo piano. Infatti, qui la psiche nega la propria identità relazionale bloccando la connessione antropologica fondamentale con lo spirito. Ciò è molto ben descritto nel romanzo Purity (Franzen 2015), pubblicato nel 2015 dal romanziere americano di successo Jonathan Franzen. Il libro può essere considerato un grande percorso generazionale sugli abusi nel post-moderno. Il titolo del libro coincide con il nome della protagonista, detta Pip, figlia ventitreenne di una donna che significativamente si chiama Penelope e che non ha mai rivelato alla protagonista chi sia suo padre. Tutto il viaggio descritto dal romanzo è una ricerca della risposta a questa domanda, in una sorte di versione femminile (e dialettica) della storia di Telemaco. Qui non si tratta di ritrovare il padre perduto, ma di conoscerlo per la prima volta. Da questo punto di vista la narrazione è profondamente post-moderna, in quanto post-nietzschiana. La relazione con il padre non è ferita, per il semplice fatto che non c’è mai stata. Tutto ciò che rimane di essa è la madre, la quale, però, non vuole dire nulla. La ferita relazionale è, così, evidente e tale ferita non è solo semantica, ma anche profondamente sintattica.
In questo percorso Pip incontra Andreas Wolf, cresciuto nella Germania orientale prima della caduta del muro. Anche lui, privilegiato per intelligenza e bellezza, ha un problema con il padre, perché i genitori, potenti nell’apparato del regime, in verità avevano serie difficoltà coniugali, tanto che il suo vero padre è un ex studente della madre, professoressa universitaria. L’interesse di questo personaggio per il tema in esame è che egli lavora come consigliere giovanile per una chiesa protestante ed abitualmente, sfruttando la relazione asimmetrica di cui è origine, abusa delle minorenni che vanno da lui in cerca di consiglio. Tra queste c’è Annagret, una bella ragazza, figlia di una infermiera che è dipendente dalle sostanze stupefacenti che ruba sul lavoro. La giovane si rifugia da Andreas perché è abusata dal patrigno. Egli si offre di uccidere l’abusatore, come di fatti avviene senza che nulla accada all’omicida per le protezioni della sua famiglia.
Vale la pena di leggere la descrizione dell’abuso. Per prima cosa Horst, il patrigno rivela ad Annagret di essere un informatore (di basso livello, in verità) della Stasi, spigandole che il lavoro e l’appartamento di cui dispongono dipende proprio dal fatto che il segreto della dipendenza della madre non è stato svelato. La parola fondamentale qui è proprio “segreto”, perché la relazione asimmetrica tra il patrigno e la vittima viene posta su un livello di simmetria improprio perché non generativo. L’accezione di tale termine qui è sfigurata, come già avveniva con il “segreto” del ritratto di Dorian Gray, perché esso non dice l’intimità inviolabile della persona,7 ma sottrae la relazione dallo spazio delle altre relazioni, portandolo in un ambito dove regna la necessità8:
– Ma potresti dirgli la verità sulla mamma. Non è colpa tua.
– Se glielo dico, tua madre perderà il lavoro. Probabilmente finirà in prigione. È questo che vuoi?
– Ovviamente no.
– Perciò dobbiamo tenere tutto segreto.
– Ma ora vorrei che non me lo avessi mai detto! Dovevo proprio saperlo?
– Sì, perché devi aiutarmi a tenere il segreto. Tua madre, infrangendo la legge, ci ha traditi. Ora la famiglia siamo noi due. E lei è diventata una minaccia per la nostra famiglia. Bisogna fare in modo che non la distrugga.
– Dobbiamo cercare di aiutarla.
– Ora tu per me sei più importante di lei. Sei tu la donna della mia vita. Guarda qui –. Le mise una mano sulla pancia, divaricando le dita. – Sei diventata una donna.
La mano sulla pancia la spaventò, ma non quanto ciò che le aveva detto.
– Una donna bellissima, – aggiunse Horst, con voce roca.
– Mi fai il solletico.
Lui chiuse gli occhi senza togliere la mano. – Dobbiamo tenere tutto segreto, – le disse. – Io posso proteggerti, ma tu devi fidarti di me.
L’inferno semantico a cui si alludeva è qui ricondotto al passaggio dalla struttura ternaria della madre, del patrigno e della figlia, ad una binaria, violentemente speculare. La rottura della dimensione sintattica è qui evidente. Così si crea il nodo tragico, perché Annagret per difendersi da questa invasione abusante dovrebbe mettere in pericolo la madre e la propria casa, cioè lo spazio delle proprie relazioni più profonde. La coscienza della ragazza reagisce con forza, ma la manipolazione è più forte proprio per l’asimmetria della relazione e la falsità della simmetrizzazione che crea lo spazio del “segreto” puramente semantico e, quindi, antirelazionale:
Le veniva da piangere; respirava sempre più in fretta.
– Non dovresti toccarmi, – gli disse. – Mi sembra sbagliato.
– Forse sì, è sbagliato, un pochino, considerando la differenza d’età – Horst annuì con la sua testona. – Ma guarda quanto mi fido di te. Possiamo fare una cosa che forse è un pochino sbagliata, perché so che non la dirai a nessuno.
– Potrei dirla a qualcuno.
– No. Dovresti svelare i nostri segreti, e non puoi farlo.
– Oh, vorrei che non mi avessi detto niente.
– Invece te l’ho detto. Dovevo dirtelo. E adesso condividiamo dei segreti. Solo noi due. Posso fidarmi di te?
Le salirono le lacrime agli occhi. – Non lo so.
– Raccontami un tuo segreto. Allora saprò che posso fidarmi.
– Io non ho segreti.
– Allora mostrami qualcosa di segreto. Qual è la cosa più segreta che puoi mostrarmi?
Si nota come il corpo della ragazza ha valore in quanto “segreto”, cioè ridotto semanticamente per essere imprigionato nell’io ideale dell’abusatore. Questi sfrutta perfino la percezione del male relazionale per rilanciare la dinamica della violenza, che si conclude con un contatto che di intimo ha solo l’aspetto fisico, ma che in sé è solo “segreto” appunto. In tale spazio le relazioni non sono libere proprio perché non possono essere aperte ad altre relazioni. Così, dopo quel primo momento, Horst dice ad Annagret: «Ora mi fido di te». La cosa peggiore è che tale ferita relazionale turba la percezione stessa della vittima, che proprio per la differenza di età non ha gli strumenti (e relazioni) per leggere la realtà di quello che è successo:
Per Annagret, la cosa terribile era che quanto era successo dopo le era piaciuto, almeno per un po’. Per un po’, era stata solo una forma più intima di amicizia. Scherzavano ancora insieme, lei gli raccontava ancora la sua giornata a scuola, andavano ancora in moto e si allenavano al circolo sportivo. Era una vita normale ma con un segreto, una cosa segretissima da adulti che succedeva dopo che Annagret aveva messo il pigiama ed era andata a letto. Mentre la toccava, Horst le ripeteva che era bellissima, che era perfetta. E visto che per un po’ lui aveva continuato a toccarla solo con la mano, Annagret si era convinta che fosse colpa sua, che quella storia fosse stata una sua idea, che avesse combinato tutto lei con la sua bellezza e che l’unico modo per chiudere la faccenda fosse arrendersi e lasciarsi andare. Quel desiderio di lasciarsi andare le faceva odiare il suo corpo ancora più di quanto lo odiasse per la sua presunta bellezza, ma per qualche motivo l’odio rendeva più impellente il desiderio. Voleva che Horst la baciasse. Voleva che la desiderasse. Era molto cattiva. E forse era logico che fosse molto cattiva, visto che era figlia di una tossicodipendente.
Il finale del brano citato mostra come l’abuso produce in Annagret la riduzione di se stessa a una categoria, ad una rappresentazione. Lei si percepisce come mero elemento semantico, cioè cattiva perché figlia di una drogata9. La relazione fondante con la madre passa dalla dimensione sintattica a quella puramente semantica, perché la ragazza è prigioniera del narcisismo di Horst, in quanto intrappolata in quella rappresentazione mentale che in lui ha preso il posto del mondo reale. Questa è una dinamica tipica degli abusi, nei quali entra in gioco un’asimmetria relazionale che viene simmetrizzata non nella realtà, ma nella virtualità di una vera e propria prigione psichica. L’elemento di tragedia post-moderna del romanzo può essere individuato nel fatto che Andreas Wolf, il quale a sua volta è un abusatore, uccide il patrigno e inizia una relazione con Annagret, che poi, però, terminerà male. Alla fine Andreas stesso si suiciderà, in una risoluzione narrativa nichilista, che non lascia spazio ad alcuna speranza.
Ancora una volta, come per Narciso, il suicidio può essere un esito per coloro che perpetrano abusi quando la loro chiusura al sentire della vittima cade o il loro meccanismo difensivo rispetto ai sentimenti si rivela insostenibile. Di fatti, il riduzionismo semantico che caratterizza il narcisismo stesso è di per sé quella prigione nella quale vengono attirate le vittime. E qui la solitudine e la disperazione, consciamente o inconsciamente, regnano sovrane. Nello stesso tempo, anche se ancora solo in negativo, la narrazione di Franzen rivela come l’approccio dialettico non può mai liberare dalle prigioni semantiche, poiché si fonda sulla stessa riduzione dell’altro a categoria che è alla base del fenomeno che si vuole combattere.
Due elementi emergono chiaramente da entrambe queste narrazioni. In primo luogo, sia ne Il ritratto di Dorian Gray sia in Purity l’abuso è fondato su una chiusura semantica che pretende di sostituire l’essere umano con una sua rappresentazione imposta dall’abusatore. Ciò è ottenuto rompendo le relazioni fondanti dell’abusato e rinchiudendolo mediante una narrazione, prima che mediante atti fisici. Quindi il punto di partenza è sempre un abuso di autorità e di coscienza, che contraddice il rapporto con la realtà. Da questo punto di vista Dorian e Horst sono molto vicini, pur dando origine a tipi di abusi in apparenza molto distanti. Infatti, il narcisimo è il comun denominatore che chiude la rappresentazione ed opera la sostituzione tra l’io pensato e l’io reale nella coscienza della vittima. Ma ciò avviene perché, come si è visto, il narcisista non ha accesso al proprio io reale, quindi nemmeno al corpo reale, sia proprio sia della vittima.
Questo suggerisce che una prima e fondamentale strategia culturale per prevenire tali derive è quella di evidenziare l’eccedenza del reale rispetto all’ideale, come raccomanda Papa Francesco.10 Sybil viene rinchiusa nella rappresentazione che Dorian ha di lei, nella quale si sente radicalmente inadeguata. Si ha così, un circolo vizioso di idealizzazione, nel quale la bellezza del protagonista diventa il fondamento presunto della sua autorevolezza in ambito di bellezza, favorendo l’idealizzazione di lui da parte di lei. Nel caso di Annagret, la strategia dell’abusatore è più profonda, perché crea lo spazio del “segreto” manipolando la rappresentazione della relazione della vittima con la madre. Lui in questo si rivela davvero patrigno e non padre. Entrambi gli atti sono profondamente violenti. Ed è interessante notare come entrambi costruiscono la prigione a partire da questo riduzionismo semantico, che rinchiude entrambe le vittime in uno spazio di significati che non corrisponde alla realtà. Entrambi gli abusatori manipolano tale spazio tagliando le relazioni, cioè negando la dimensione sintattica.
5. Chiesa e ontologia delle relazioni
Come si è cercato di evidenziare, la dialettica con il conseguente riduzionismo semantico è alla base di entrambe le narrazioni. Il riferimento teologico alla teologia trinitaria, da cui si è partiti, può risultare utile a comprendere la profondità dei fenomeni descritti e, quindi, a individuare linee di sviluppo utili per superare le analoghe situazioni reali che si danno fuori e dentro la chiesa con la crisi degli abusi.
Per prima cosa è necessario premettere che il fenomeno stesso è molto complesso e non può essere ridotto a partire da semplici categorie sociologiche, psicologiche e, nemmeno, teologiche. Un sacerdote pedofilo e predatore seriale non è la stessa cosa di un sacerdote avanti negli anni che cade nella pratica della pederastia, così come gli abusi di coscienza e di autorità che non sfociano in abusi sessuali hanno una loro peculiare dinamica rispetto agli abusi di autorità in genere. Eppure il riferimento alla possibile corruzione narcisistica delle relazioni asimmetriche nella chiesa può fornire un quadro per elaborare proposte positive, proprio perché la radice di tutti questi fenomeni trova parallelismi al di fuori della chiesa, per la cultura dell’identità nella quale siamo immersi in questa epoca post-moderna.
La prospettiva ecclesiale, però, aggiunge una particolare profondità all’analisi del fenomeno, non per l’entità numerica degli abusi, che percentualmente sono inferiori ad altri ambiti, ma per l’evidenza che l’abuso di coscienza e di autorità sono la radice di ogni altro abuso. Ciò è legato al potenziamento della dinamica narcisistica che la dimensione spirituale può indurre. Infatti, nella chiesa non si tratta solo di avere autorevolezza perché si è belli, ma è lo stesso rapporto con Dio e, in un certo senso, la possibilità di rappresentarlo che sono in gioco. Per questo la risposta deve essere anche teologica. E tale risposta teologica può offrire spunti anche per rimodulare la cultura contemporanea, come già accaduto in altre epoche della storia, proteggendo l’umano dagli inferni che di volta in volta ci siamo costruiti.
Così può essere utile applicare a quanto descritto finora la triplice scansione dell’identità descritta da Pierpaolo Donati nel suo La matrice teologica della società (Donati 2010). Qui egli individua una prima forma di identità, tipica dell’antichità, e del mondo greco in particolare, nella quale si è se stessi, perché si appartiene ad una categoria sotto la quale si sta. Si pensi al mondo delle idee nella filosofia di Platone. Un cavallo è un cavallo perché è la realizzazione dell’idea di Cavallo, con la maiuscola, che è perfetto. Ciò implica che ogni realtà concreta esistente e materiale sarà sempre inferiore rispetto all’archetipo e, perciò, almeno in parte, inadeguata.
Questa formulazione rivela l’attualità di tale impostazione dell’identità, che ha una sua validità, ma anche i suoi limiti. Per dire chi è l’autore di questo capitolo serve di sicuro sapere che è un essere umano (e non un’IA), che è maschio, italiano, brianzolo, sacerdote e varie altre caratteristiche. Ma tutte insieme queste categorie non possono esprimere chi è veramente la persona che stiamo cercando di descrivere. C’è sempre una dimensione irriducibile che sfugge ad ogni categorizzazione, perché la persona è ontologicamente eccedente.
Quando ciò non è tenuto presente, cioè quando si opera una riduzione semantica, scatta una reazione, che tipicamente punta verso una seconda forma di identità, che è quella dialettica. Se la prima può essere rappresentata con lo schema logico A=A, ora si passa ad A= -(-A), cioè l’identità del soggetto è data dalla negazione di quello che il soggetto non è. Nei termini dell’esempio dell’autore di questo capitolo, si tratta di non fermarsi all’affermazione che è italiano e sacerdote, ma di dire anche che non è spagnolo e non è un laico e così via. Si tratta di un passaggio che significativamente è sentito in modo molto acuto nell’adolescenza, quando il figlio non accetta più di essere definito dalle caratteristiche della propria famiglia, ma ricerca anche una propria identità attraverso la negazione, protestando perché percepisce della propria eccedenza. L’identità non basta e si invoca la differenza. Allora, se i genitori tifano una squadra, il figlio sceglie l’antagonista diretta; se vanno in chiesa, il figlio invece si allontana, e così via. Anche in questa forma di identità c’è una componente estremamente positiva, come si vede ad esempio pensando che è essenziale riconoscere che l’essere sposati implica in negativo l’essere indisponibili ad altri rapporti di tipo sponsale. Ma di nuovo questa forma di identità, che ha caratterizzato in modo particolare la modernità, non basta.
L’identità e la differenza, infatti, possono e debbono essere riconciliate nella relazione. Questa fonda un’ulteriore forma di identità che può essere espressa come A = R(A,-A), cioè come frutto della relazione tra il sé e l’altro da sé. Storicamente la percezione del ruolo fondamentale di questa forma di identità è frutto della rivelazione cristiana. Infatti, le eresie trinitarie possono essere riformulate in termini di riduzione del mistero dell’unità e della distinzione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in termini di identità platonica o dialettica. Invece, le tre Persone divine sono un’unica sostanza, nella quale la distinzione di Ciascuna sta nella relazione eterna e infinita che Questa ha con le altre due Persone divine. Così, come si è detto, il Padre è Se stesso perché genera il Figlio donando in un puro atto assoluto tutto Se stesso, in modo tale che la prima Persona è Se stessa nella relazione con il Figlio che genera e con lo Spirito che è l’Amore del Padre e del Figlio. E il Figlio è immagine del Padre ridonando Se stesso a Lui con questo stesso Amore assoluto, in modo tale che per esprimere Chi è la seconda Persona divina è necessario introdurre la relazione alla prima e alla terza Persona, per la quale vale analogamente lo stesso.
È fondamentale notare che tutto ciò non si declina in termini meramente logici, ma è espressione della realtà ontologica del Dio unitrino che noi abbiamo conosciuto solo grazie alla Rivelazione. Nella terminologia introdotta, il Dio cristiano non può essere ridotto semanticamente, ma la sua identità è sempre sintattica. Ciò significa che la conoscenza del Dio di Gesù Cristo si può dare solo in relazione, proprio perché Lui è Relazione; anzi è tre Relazioni sussistenti: la Paternità, la Filiazione e l’Amore.
Un ultimo passaggio ci può aiutare a riconoscere il valore di tutto ciò per la questione in esame: questo Dio unitrino, sostanziale e relazionale insieme, è lo stesso Essere, da cui ogni creatura esistente deriva ed in particolare l’uomo, creato a Sua immagine e somiglianza. Ciò implica che il ricorso alla terza forma di identità, cioè quella relazionale, è necessario per cogliere il senso del mondo e della storia, quindi, in particolare, per conoscere (e proteggere) l’umano.
Allora, se si torna alla descrizione fenomenologica del narcisismo e alle narrazioni proposte per illustralo, si può notare che esso oscilla tra l’identità di tipo idealista e quella dialettica. Dorian e Horst si pongono al posto dell’archetipo e attirano le loro vittime sotto il loro segno. Ciò avviene perché l’io stesso dei due è ridotto alla dimensione semantica. Quando la relazione con la concretezza dell’altro minaccia la perfezione ideale e semantica dell’io narcisista, questo reagisce dialetticamente, come nel mito di Narciso e nel racconto di Oscar Wilde.
Eppure l’esito stesso di tali narrazioni svela che la dimensione sintattica è ineludibile. Il suicido da cui ha origine il fiore con la sua bellezza può essere considerato espressione estrema dell’inaccettabilità della riduzione narcisista. Nel caso dell’abuso la ferita all’identità della persona che crea il narcisista è ancora più evidente, perché la vittima viene posta nella condizione di esistere, cioè essere se stessa, solo se accetta di vivere nell’invivibile inferno semantico dell’abusatore. Ma il sintomo ancora rivelerà la ferita, indicando come tale condizione sia disumana e vada superata.
Si noti che la violenza ha come radice l’imposizione del passaggio da un’identità relazionale, quindi trina (evidente nel caso narrato da Franzen) a una binaria. Questa è puramente semantica. Infatti è solo nella logica dove un ente può o essere identico a se stesso o essere definito dalla negazione di se stesso. Nella realtà, invece, c’è sempre il terzo. Come mostra la narrazione genesiaca, ogni essere è creato in coppia, ad esempio il cielo e la terra, il giorno e la notte, l’uomo e la donna, ma l’identità orizzontale ciascuna di queste coppie è radicata nella relazione verticale con il Creatore (cfr. Gn 1). Nella terminologia anteriormente introdotta, la teologia cristiana ci aiuta a riconoscere che la realtà ha una dimensione sintattica irriducibile, che è alla base dell’ontologia relazionale che i primi pensatori cristiani hanno sviluppato a partire dalla rivelazione trinitaria (Donati e Maspero 2021).
Applicando quanto visto al caso delle relazioni asimmetriche nella chiesa, ciò suggerisce che, come già visto, esse siano ineludibili. Ma, alla luce del percorso proposto, ciò permette anche di vedere come il riduzionismo semantico che caratterizza il meccanismo narcisista dovrebbe proprio essere escluso da uno sguardo sul mondo illuminato dell’amicizia con il Cristo. È vero, come si è detto, che la tentazione narcisista è più forte in ambito cristiano perché il Verbo si è fatto carne ed ha voluto mediazioni che si dispiegano in relazioni asimmetriche. Ma nello stesso tempo il sincero lavoro perché esse siano generative e, quindi, portino a relazioni che diventino simmetriche, porta a riconoscere che solo il Dio unitrino può essere all’origine di tale trasformazione. Il mistero della chiesa brilla proprio nell’inadeguatezza dei suoi membri che, se sono sinceri nel tentativo di compiere la volontà di Dio, devono riconoscere di non essere capaci di ciò. Ma questo apparente insuccesso, come nel caso di Simone di Giovanni e di Saulo, è il passaggio fondamentale che permette loro di diventare Pietro e Paolo, cioè di accogliere Cristo e la Sua misericordia come elemento definitorio della loro identità.
Il Vangelo ci mostra, infatti, che il cammino verso la trinitarizzazione dell’umanità non può non passare dal Mistero Pasquale, cioè dalla carne crocifissa del Figlio di Dio che si è offerto per i nostri peccati. Se il dogma trinitario-cristologico è vero, allora l’identità di ciascuno è radicalmente fondata nella relazione con tutti gli altri esseri umani, in ogni tempo e in ogni luogo. Ciò implica un cambiamento profondo anche a livello di concezione della santità, che non può più essere modellata sull’eroismo e sulle prestazioni dell’individuo, ma deve essere ripensata a livello relazionale, in conformità anche con gli insegnamenti della Chiesa per combattere l’eresia pelagiana e semi-pelagiana. L’essere umano non può assolutamente fare il bene da solo, ma ogni suo dono è dono ricevuto e ridonato.
In modo estremamente concreto, si pensi all’esempio di un fondatore, che scopre nella sua vita l’efficacia e la fecondità di una relazione assolutamente immeritata con il Cristo da cui discende una vita così intensa da richiedere un cammino di istituzionalizzazione, come una sorgente che dà origine ad un fiume che a poco a poco scava il proprio alveo. Oppure, con un’immagine ancor più prossima al reale, si pensi all’amore fecondo di una coppia che, generando, ha bisogno di una casa per accogliere e crescere la propria prole. Ora è normale che l’istituzione venga costruita a partire dalla forza generatrice del carisma, quindi a partire dall’alto, cioè dalla sorgente o dalla coppia di sposi. Ma quando il fondatore muore, allora si corre un rischio molto serio, perché nessuno può sostituirlo nel suo ruolo relazionale. Allora l’istituzione rischia un riduzionismo semantico, identificando il dono che le ha dato origine solo con una serie di comportamenti legati alla forma assunta dall’istituzione all’inizio11. Quando questo si accompagna all’autoreferenzialità, allora si corre il rischio di una forma di “narcisismo” istituzionale, che può generare sofferenze ed esporre al rischio di veri e propri abusi di autorità e di coscienza.
Per questo è essenziale la teologia e la vigilanza anti-idolatrica che essa svolge. Nello stesso lavoro per affrontare la crisi degli abusi non ci si può limitare al (preziosissimo) sforzo giuridico e giudiziario, che rischia di rimanere a livello delle prime due forme di identità, cioè limitarsi a dire come dovremmo essere e come non dovremmo. Occorre, invece, anche un lavoro sull’identità relazionale che generi una cultura ecclesiale prima, e sociale dopo, la quale possa riconoscere il valore ontologico delle relazioni e l’eccedenza di Dio rispetto alle nostre rappresentazioni di Lui. Solo se ci si muove a livello sintattico, cioè relazionale, si può custodire il dono ricevuto, proprio perché le relazioni asimmetriche che l’hanno generato si compiono nel diventare relazioni simmetriche.
Per questo è necessario agire su più livelli, a partire dalla formazione spirituale che deve tendere a favorire la seconda conversione, evitando quei modelli di perfezione che rischiano di selezionare persone narcisiste, addirittura poi rinforzando questo loro tratto12. Infatti, se la prima chiamata, a partire dagli apostoli, per tutti è consistita nel lasciare ogni cosa per seguire Gesù diventando pescatori di uomini, non si può dimenticare che il compimento del cammino di chi segue il Maestro si ha nel Mistero Pasquale, quando la scoperta della propria insufficienza porta a cercare di stare nell’opera di Dio, cioè nell’opera (sempre di misericordia) che fa Dio in noi e attraverso di noi. La differenza tra Pietro e Giuda corre proprio sul filo di questa seconda conversione, alla quale, paradossalmente, il Buon Ladrone accede direttamente perché non ha alcuna virtù da presentare al Re dei giudei, suo compagno di crocifissione (Lc 23,39-43). È evidente che l’idealizzazione è utile sul piano didattico per offrire esempi che incoraggino. Ma occorre evitare, soprattutto oggi, di presentare la santità nella linea di prestazioni eccezionali.
Ciò è connesso anche al superamento di modello dialettico nella presentazione della kenosi e dell’obbedienza nella vita di Cristo e, quindi, in quella del cristiano. Dio è semplicemente fedele alla propria Parola, anche quando il destinatario di essa viene meno, come tutta la Scrittura dimostra. Egli non ha bisogno dell’obbedienza di coloro cui si rivolge. Ma nel momento in cui chi Lo ha incontrato si sforza di compiere la Sua volontà, compie un atto di lode alla verità su Dio che è puro e infinito Bene. Il Figlio non muore in croce perché è costretto, ma liberamente, perché Figlio, si affida al Padre rivelando che quella Vita che nel dono della generazione costituisce la Sua Persona è più forte della morte, perché è eterna e infinita. La croce è, così, glorificazione trinitaria perché è assunta liberamente e filialmente. In Dio non c’è negazione né dialettica alcuna. Invece, la croce, lo spogliamento e l’obbedienza hanno un senso relazionale, che si rivela quando sono letti nella prospettiva dell’affidamento. Per questo la filiazione divina è il miglior antidoto contro il narcisismo, come le frasi di Agostino e Ratzinger a commento di Gv 7,16, citate nell’introduzione, chiaramente indicano.
Da qui anche la formazione sacerdotale potrà svilupparsi come aiuto alla crescita nella competenza relazionale, che renda i presbiteri di domani consci dei propri limiti, e nello stesso tempo e per lo stesso motivo, sicuri di non essere soli, ma di potersi appoggiare l’un l’altro e di poter contare sulla comunione delle famiglie e degli amici13. I movimenti e le nuove comunità sorte dalla pentecoste carismatica del secolo passato hanno offerto meravigliosi esempi di questo. E si tratta di un tesoro che non può andare perduto, anche per la sua capacità di rivitalizzare il tessuto ecclesiale. Ciò suggerisce che la presa di coscienza del ruolo dei laici, con la loro capacità e responsabilità relazionale, può essere il miglior cammino per prevenire narcisismo e gli abusi.
Infine, la comunicazione istituzionale della chiesa deve svolgere un ruolo fondamentale in questo cambiamento, perché essa, insieme alla teologia, è il luogo dove la chiesa pensa la propria identità. Per questo, quanto scrive Jordi Pujol nel capitolo 4 del presente volume risulta particolarmente prezioso dal punto di vista qui presentato.
In tal modo la vita e il pensiero della chiesa potranno offrire spunti anche alla società post-moderna per aiutarla a non finire in una deriva nichilista post-umana, verso la quale la tecnologia e il consumismo spingono. In particolare, il fatto che le relazioni asimmetriche sono nella chiesa ineludibili, ma nello stesso tempo destinate a simmetrizzarsi, può indicare a livello culturale una chiave per uscire dall’aporia dell’autorità e della libertà moderne. Infatti, se quest’ultima è intesa solo come libertà di scelta, allora ogni scelta priverà il soggetto contemporaneo della propria libertà, inducendo un paradosso che è alla radice delle crisi di panico e del fatto che molti giovani si scompensano poco prima di passi definitivi nella loro esistenza.
Teologicamente, infatti, la vera libertà è relazionale. Se così non fosse, infatti, Dio non sarebbe libero, perché non può non amare. Invece, quando dico sì liberamente a quello che mi viene chiesto da Lui, anche in una relazione asimmetrica con chi lo rappresenta, sorge una relazione personale autentica che è una vera e propria novità di essere. Ciò si spiega dal punto di vista trinitario in termini di ontologia relazionale: se Dio è l’Essere e Dio è le tre Relazioni sussistenti di Paternità, Filiazione ed Amore, allora ogni nuova relazione segnata dalla libertà filiale dell’uomo sarà caratterizzata dall’emergere di una novità di essere, come da una sorgente. Chi obbedisce liberamente è di più, perché è in relazione14.
Ciò ha una conseguenza immediata sulla concezione dell’autorità che non è fondata su una dimensione ideale e di principio, cioè nell’identità greca che poi spinge alla reazione dialettica tipica della modernità, ma sull’identità relazionale. L’autorità, in particolare nella chiesa, è autorevolezza relazionale, come rivela Gesù a Pietro dopo la confessione di Cesarea (Mt 16,13-20 e parallei). Il Padre non fulmina i peccatori, come i figli di Zebedeo avevano pensato di fare (Lc 9,51-56), né li obbliga a compiere la Sua volontà. Anzi, li rispetta perfino quando Gli crocifiggono il Figlio, il quale non scende dalla croce, anche se viene sfidato a farlo, proprio perché vuole rivelare (e donare) la relazione più forte della morte con il Suo Abba.
Per questo la chiesa non può rinunciare alle relazioni asimmetriche, né al potere, che Gesù stesso le ha affidato (Mt 18,18). Ma deve mettere tale potere a servizio della salvezza, come Giovanni afferma al centro del prologo del suo vangelo: «a quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12)
6. Conclusione: l’ontologia trinitaria
Tutto questo richiede che non ci si fermi a curare solo il sintomo costituito dagli abusi, ma si risalga alle cause, riconoscendo nel narcisismo imperante una vera e propria minaccia per la vita della chiesa e dell’umanità. Il pensiero sorto dalla rivelazione cristiana offre una risposta sicura proprio nella teologia trinitaria e nella rilettura del mondo e dell’uomo a partire da questa luce che viene dall’alto. E ciò porta il nome di ontologia trinitaria (Coda 2012), la quale rende possibile, poi, lo sviluppo di un’antropologia trinitaria (Vigorelli 2021).
Infatti, la modernità ha prodotto un’atmosfera culturale polarizzata totalmente sull’identità, che ha causato, come reazione, la dialettica, la quale conosce solo la differenza e conduce al nichilismo. Invece il reale è fondato sul darsi contemporaneo di identità e differenza nella relazione. Il post-moderno sta fuggendo dalle differenze per paura del conflitto che la dialettica, frutto della modernità, ha fatto emergere da esse. Ma tale soluzione porta proprio al narcisismo e all’universalizzazione della solitudine, nonostante tutte le pretese e intenzioni social della cultura attuale.
La conversione15 ad un modo di vivere le relazioni asimmetriche conforme al vangelo, quindi trinitario, filiale e relazionale, può offrire una luce potente alla cultura contemporanea. La soluzione semantica al narcisismo proposta dal mondo metafisico greco, infatti, non basta. Di sicuro, evidenziare che la bellezza è sempre più grande di quanto noi possiamo attingere è un primo passo liberante. Ma il desiderio infinito dell’uomo tende verso un’altezza che deve essere anche una sorgente per corrispondere davvero al nostro cuore. Così è necessario affiancare alla soluzione semantica anche la dimensione sintattica. La Bellezza e la Verità sono irriducibili e trascendenti, proteggendoci in tal modo dal narcisismo a livello di pensiero, ma sono anche in una relazione autentica e personale con noi, proteggendoci del narcisismo anche nella vita concreta.
L’immagine vera, dunque, è sempre fondata nella relazione ontologica con il suo archetipo. Per il Figlio questi è il Padre, con il quale Egli è in una relazione di muto dono assoluto, infinito ed eterno. L’essere umano è radicato in questo stesso rapporto intratrinitario, pur essendo finito e ricevendo tale partecipazione per grazia. Il punto è che, come il Figlio è Se stesso rinviando relazionalemente al Padre, così l’uomo si compie e trova compimento al proprio desiderio non chiudendosi binariamente in una mera immagine, ma aprendosi alla sorgente relazionale del proprio essere.
Chi ama, infatti, si scopre definito nella libertà di questo stesso dono dalla persona amata, la quale a sua volta si scopre definita da tale amore e dalla persona da cui è amata. Qui tutto è sintassi, tutto è in relazione. Qui tutto è intimità, cioè vero segreto sintattico che apre alla relazionalità della Chiesa, della storia e del mondo, mentre nulla è “segreto”, nel senso che nulla è chiusura in un ideale semantico e astratto.
La pretesa del narcisismo è quella di tradurre l’amore in termini rappresentabili, perdendo l’eccedenza del dono. Ma se questo viene idealizzato, e così privato a livello cognitivo della propria origine, perde anche la sua destinazione relazionale, come le versioni del mito e gli esempi letterari presentati hanno mostrato. Da qui discende la possibilità dell’abuso, che richiede l’intervento anche della teologia per la propria struttura eminentemente idolatrica.
Infatti, filiazione divina e identità relazionale ci indicano nell’ontologia trinitaria il cammino per vivere come Maria, Madre della chiesa. Lei è tutta figlia di Dio Padre, madre di Dio Figlio e sposa dello Spirito Santo, come i santi hanno ripetuto a partire da San Francesco d’Assisi. Tutto in lei è relazione a ciascuna delle Persone divine, in modo tale che la relazione asimmetrica che lei ha con il Verbo che si è fatto carne, sua carne, è libera risposta di dono alla relazione asimmetrica che Dio ha con lei come suo creatore e suo redentore (LG 53). Balthasar ha descritto con slancio poetico proprio il parallelismo tra l’iniziativa della madre che sorride al figlio rendendolo così, a poco a poco, capace di rispondere a tale sorriso, e l’iniziativa assoluta di Dio che sempre sorride all’uomo fino a renderlo capace di rispondere (Balthasar 2002, 61-62). Proprio in tale relazione asimmetrica che suscita la reciprocità della risposta simmetrica si ha la protezione più grande contro il narcisismo e contro gli abusi, i quali, come un terribile sintomo, rivelano il pericolo mortale che corre il mondo di oggi che, perdendo il riferimento teologico, rischia di cadere nel nulla causato dalla schiavitù di un’identità vuota, perché puramente semantica e non sintattica.
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1 Sul grido del corpo che protesta anche quando il livello cognitivo viene meno, si veda il contributo di Ilaria Vigorelli al presente volume.
2 Sul ruolo fondamentale del desiderio e come prendersi cura di esso, si veda il contributo di Cornaggia nel presente volume.
3 Si coglie qui l’occasione per ringraziare Cesare Maria Cornaggia, Giorgio Omodeo Sale, Wally Capuzzo e Paola Beffa Negrini per le preziose discussioni insieme sul tema del narcisismo, del suicidio e della depressione.
4 Su questo si veda Lowen (2013), da cui sono tratte alcune delle interpretazioni psicologiche presentate. Sul narcisismo infantile, si veda Capuzzo – Gatti (1995).
5 Sulla relazione interiorizzata si veda Liotti (2007), 269-274.
6 Sui beni relazionali, si veda Donati (2019).
7 Si veda il contributo di Ilaria Vigorelli nel presente volume.
8 I brani citati sono pubblicati come estratto anche in Franzen, La Repubblica del Cattivo Gusto, Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2015. Ed è significativo che, al momento di decidere quale parte del libro proporre ai lettori italiani per attirare all’acquisto del volume appena uscito si sia scelta proprio questa.
9 Sul ruolo della colpa e della vergogna in questo processo si veda il contributo di Cornaggia nel presente volume.
10 Più delicato è il principio della priorità del tutto sulla parte, che può essere interpretato in senso dialettico, esigendo il “sacrificio” della vittima per il bene della comunità idealmente rappresentata dall’abusatore.
11 Su questo si vedano le opere di Luigino Bruni, in particolare Bruni (2015) e Bruni (2018).
12 Su questo si veda Cencini (2005).
13 Si veda il contributo di Francisco Insa nel presente volume.
14 Qui si innesta il valore fondamentale della coscienza e della differenza tra coscienza e peccato. Si veda il capitolo di Angel Rodríguez Luño nel presente volume.
15 Termine evidenziato da Gill Gouldin nel suo intervento nel presente volume.