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Ror Studies Series | Autorità e mediazione

Coscienza, mediazione e abuso

Paul O’Callaghan

Pontificia Università della Santa Croce (Roma)

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Durante l’incontro celebrato nel mese di febbraio del 2023 su Autorità e mediazione: le relazioni asimmetriche nella Chiesa è stata adoperata una grande varietà di termini: autorità, mediazione, abuso, potere, coscienza, vergogna, colpa, affettività, relazioni, asimmetrie, ecc. Volevo soffermarmi su due di essi che ritengo siano profondamente legati tra loro nel contesto della riflessione cristiana sulla sfida degli abusi: coscienza e mediazione. Le chiamerei, proprio nel loro legame, delle “polarità omologhe”. Con questo intendo che ciascuno dei due poli spiega e completa l’altro. Nessuna delle due polarità può essere compresa o spiegata da sola. Spero che questo diventi chiaro lungo questo capitolo. Altri esempi di “polarità omologhe” in campo teologico ed antropologico potrebbero essere: fede e cultura, grazia e libertà, società e individuo1.

1. La coscienza

La nozione di “coscienza” è diventata centrale nel corso del XX secolo, specialmente nell’area della teologia morale (cfr. Levering 2021). Con questo termine si designa il giudizio intorno alla moralità dell’azione che si sta per fare o che si è compiuta. Si può parlare certamente di coscienza in senso collettivo, però normalmente si fa riferimento all’ambito individuale: si tratta infatti di un giudizio morale fatto dall’individuo umano, che percepisce nel fondo del suo essere che questa o quella linea d’azione sta bene o sta male, è da fare, oppure è da evitare (cfr. Moschetti, Semerari, Galeazzi 2010, 2332-2337). Elementi della dottrina della coscienza si trovano già in Platone e negli scritti degli Stoici. Con il cristianesimo si mette in risalto in un modo particolare l’interiorità umana, perché i valori del Regno, del “Regno dei cieli”, diventano personali e spirituali, e non solo collettivi e materiali.

Le decisioni e l’intenzionalità del soggetto sono di importanza decisiva per l’insegnamento di Gesù. Ciò che diventa rilevante e permanente nella vita cristiana sono i “tesori accumulati nel cielo” (Mt 6,19-20). San Paolo in modo particolare esalta la coscienza come norma immediata del comportamento umano, iscritta nel cuore di ciascuno (Rm 2,14-15). Il termine adoperato è synderesis (Gundry-Volf 1993, 153-6). Però anche per le questioni particolari e le decisioni concrete e contingenti, la coscienza è secondo lui l’ultimo legislatore. Quando si chiede se i pagani e gli ebrei convertiti devono o meno mangiare le carni dell’animale immolato agli idoli, risponde che possono agire “in coscienza”, tenendo conto del possibile scandalo che le loro azioni possono causare (1 Cor 8,1-13).

È vero che nella modernità, a partire da Hobbes, Rousseau e Vico, e specialmente con Kant e Schopenhauer, la nozione di coscienza morale diventa prodotto ed espressione del singolo soggetto umano, nella sua individualità e autonomia; così, ciascuno deve fare ciò che detta la sua coscienza. Secondo Schopenhauer, erede di Kant in questo campo, la coscienza è «la consapevolezza del proprio volere individuale» (Schopenhauer 1859, 403). Alla coscienza morale Kant attribuisce l’apriorità e l’autonomia da ogni condizionamento conoscitivo previo. Non è l’esperienza né la conoscenza morale oppure il fine percepito dall’uomo ciò che determina il contenuto della coscienza, ma piuttosto la volontà personale, autonoma.

Dal punto di vista della fede cristiana, però, l’individualità dell’uomo e la sua pretesa autonomia non possono essere impostati senza l’argomento teologico. L’individualità umana è frutto diretto dell’atto creativo con cui Dio ha costituito la persona (O’Callaghan 2013, 685-703). La vita umana quindi, e l’agire morale che sorge da essa, sono vissuti per forza nei confronti di Dio, coram Deo. Anche se la persona tenta di vivere come se Dio non ci fosse, il ruolo della coscienza sta lì per ricordare che non agisce puramente per sé stesso e a partire da sé stesso. La Scrittura dice che «Lo stolto pensa: “Dio non c’è”». E, come conseguenza, «Sono corrotti, fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene» (Ps 14,1; 53,2).

Secondo lo stoico Socrate la legge della coscienza è la rivelazione di un mondo trascendente (cfr. Martinetti 1944, 427-429). Prope est a te Deus, tecum est, intus est… Sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos: «Dio ti è vicino, è con te, è dentro di te… Risiede dentro di noi uno spirito sacro, che è l’osservatore e il custode dei nostri malanni e beni» (Seneca, Ad Lucilium epistulae morales IV, 12,41). Quando diciamo quindi che qualcuno agisce secondo coscienza, significa che si sforza di agire secondo la volontà di Dio. Secondo Agostino, la coscienza dei buoni è sedes Dei, “la sede di Dio” (Agostino, Enn. in Ps. 45, 9). Tommaso d’Aquino dice: conscientiae dictamen nihil est aliud quam perventio praecepti Dei ad eum qui conscientiam habet: «il dettato della coscienza non è altro che il pervenire del precetto di Dio a colui che ha la coscienza» (Tommaso d’Aquino, De Veritate, 17, 4 ad 2). La coscienza quindi non solo dà espressione alla dignità dell’uomo nella sua individualità e personalità proprie, ma anche ha la sua origine in Dio. In questo senso, la coscienza non è il semplice prodotto o riflesso della singola soggettività, ma si situa piuttosto allo strato più profondo dell’anima umana nel quale ciascuno si trova davanti a Dio, coram Deo, che lo ha creato. Perciò quando insistiamo, come dovremmo, sulla necessità di rispettare la coscienza di ognuno, stiamo facendo un’affermazione di tipo religioso, di fede, e cioè che a Dio, quando si manifesta, bisogna sempre obbedire. Rispettiamo la coscienza degli altri in fin dei conti non solo per rispetto al loro pensiero che realisticamente non riusciamo a cambiare, ma piuttosto per timore di Dio, che parla nell’intimità di ogni persona. Questa relazione a tu per tu tra Dio e l’uomo è essenziale per l’antropologia cristiana e si esprime teologicamente e spiritualmente in questa vita nella creazione (ogni uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, Gn 1,26-28), nella vocazione personale, nella vita di preghiera, e nella vita escatologica, ovvero nel giudizio personale e nella visione beatifica di Dio, “faccia a faccia” (1 Cor 13,12). Il card. Newman lo ha detto con una bella formula sintetica: cor ad cor loquitur: «il cuore di Dio parla con il cuore dell’uomo».

2. Le mediazioni

Però qui si presenta un problema concreto: l’uomo sa ciò che pensa, si rende conto di ciò che desidera, comprende come vuole indirizzare la sua vita. Però non sa del tutto ciò che Dio vuole da lui. La frase di Tommaso che descrive la dinamica della coscienza, già citata, perventio praecepti Dei ad hominem, è impegnativa, perché fa riferimento alla conoscenza umana della volontà di Colui che non è l’uomo, che non è creatura, che è il Totalmente Altro. Infatti per la maggior parte delle persone e circostanze la conoscenza della volontà di Dio nelle sue diverse forme non ci è nota direttamente. Rimane coinvolto nel mistero. Generalmente le persone faticano per sapere ciò che Dio vuole per loro. Dio non si rivela con chiarezza a ciascuno in tutte le circostanze (cfr. O’Callaghan 2013, 459-461). Tuttavia è vero che abbiamo diversi modi di conoscere la divina volontà: attraverso la legge naturale, che può essere descritta come «le istruzioni operative dell’universo» creato da Dio (cfr. Commissione Teologica Internazionale 2022, 117-196); il Decalogo e la rivelazione divina tramite la parola di Dio comunicata per la fede, la quale deriva principalmente dalle parole, dalla vita, dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo, e da Lui trasmessa nella Chiesa, suo corpo; e infine nel contesto della vita personale di ciascuno, la vocazione personale, il progetto che Dio ha per la vita di ciascuno.

Tutti questi elementi hanno una cosa in comune: implicano delle mediazioni. La luce e la vita di Dio arrivano a noi attraverso realtà intermedie che chiamiamo mediazioni: la natura creata, la religione, le parole, i riti, i rapporti con gli altri, l’esperienza spirituale interiore, e via dicendo. Noi raggiungiamo Dio attraverso le mediazioni, e Dio a sua volta ci raggiunge attraverso dei mediatori. Una comprensione puramente autonoma della coscienza umana non richiederebbe nessuna mediazione. Anzi, la mediazione sarebbe un ostacolo per l’autonomia. Però quando si tratta di fare ciò che Dio vuole da noi, le mediazioni si fanno presenti necessariamente.

Allora, perché esistono le mediazioni? Perché Dio vuole comunicare la sua vita, la sua luce, la sua volontà attraverso elementi esterni a sé? In realtà lo potrebbe fare direttamente, senza intermediari. In ogni caso si possono suggerire tre possibili modi di intendere la mediazione in un contesto religioso (cfr. O’Callaghan 2023).

Il primo è secondo il modello greco, cosmico, per il quale le mediazioni sono necessarie all’interno dell’intera struttura della realtà: la divinità suprema ha bisogno di mediatori (il Logos, il demiurgo, ecc.) per comunicare con gli strati inferiori della realtà, per comunicare intelligibilità ed esistenza. In questo caso, ovviamente, le mediazioni sono semi-divine, sono divinità inferiori. Questa posizione è esclusa però dalla tradizione ebraica e cristiana, perché porta direttamente all’idolatria. Nel contesto biblico, invece, le mediazioni sono sempre e solo creature, o associate alle creature: angeli, uomini, animali, oggetti materiali. L’idolatria va evitata a tutti i costi. La ragione fondamentale di ciò è che Dio non ha bisogno di mediazioni. Dio ha un contatto diretto con ogni essere creato, lo tocca con le sue stesse mani, l’ha creato in persona. Ma se è così, perché esistono le mediazioni in un contesto cristiano?

Un secondo modo di intendere le mediazioni è quello della teologia protestante, che ha riconosciuto l’ambivalenza delle strutture cristiane di mediazione religiosa in modo consistente. La Riforma di Lutero e Calvino costituiva una battaglia contro tutte le realtà intermedie che, a loro dire, i cattolici avevano costruito e accumulato nel corso dei secoli: sacramenti, sacramentali, parole, liturgie, devozioni, indulgenze, sacerdozio, statue, rappresentazioni artistiche, pratiche di pietà religiosa, ecc. La Riforma protestante ha di fatto consacrato il termine solo/sola (O’Callaghan 2017) per mettere in risalto la posizione imparagonabile di Dio e di Cristo. Ad esempio, nel luteranesimo si parla della sola fides (escludendo il confronto vivo con la ragione e con la cultura), la sola gratia (prescindendo della libera accoglienza del dono di Dio), la sola Scriptura (in modo tale che la parola non venga considerata secondo i suoi passaggi attraverso le diverse generazioni, con la Tradizione), e il solus Christus (Cristo nostro Salvatore che non richiede la Chiesa suo corpo).

Nel contesto della Riforma protestante, non è che le mediazioni siano evitate, ma fino ad un certo punto vengono limitate e talvolta demonizzate. In questa direzione si capisce che un teologo ha recentemente affermato che «l’abuso è nel DNA stesso della Chiesa». Una frase problematica senz’altro. Appunto perché Dio stesso ha voluto che ci fossero delle mediazioni (Wilmer 2018; sulla questione, O’Callaghan 2013, 463-469).

Poi bisogna non dimenticare che l’ecclesiologia luterana (e più ancora la calvinista) si basa sul concetto della Chiesa come un insieme volontario di coloro che credono in Cristo, cioè fondamentalmente un fenomeno associativo. Coloro che credono in Dio personalmente si mettono d’accordo, fondano una chiesa, una comunità, ed eleggono il ministro o moderatore. L’ecclesiologia cattolica insegna sì che la Chiesa è il Popolo di Dio, frutto dell’incontro tra i credenti, con le conseguenti dinamiche sociologiche. Ma è anche la nostra Madre, che ci genera alla vita della grazia. In altre parole, la Chiesa partecipa direttamente alla mediazione che Cristo svolge rispetto ai doni di Dio. Si è cristiani non solo perché si crede in Dio ma anche, inseparabilmente, perché si appartiene, sin dal battesimo, alla Chiesa, presenza sacramentale della vita divina nel mondo (cfr. O’Callaghan 1996, 147-211). Anche si può osservare che la centralità del solo/sola in area protestante ha facilitato l’apparizione in tempi moderni dell’essere umano spiritualmente solitario2. E questo ci porta alla terza impostazione di “mediazione”.

Tra l’affermazione ed onnipresenza di mediazioni e mediatori dei greci, da una parte, e il tentativo di eliminare o limitare la loro presenza nel pensiero protestante dall’altra, ci rimane l’idea che solo possono essere le creature, e specialmente gli uomini, a svolgere il compito di mediazione dei doni divini. Possono essere sacerdoti o vescovi o santi o martiri, uomini e donne, giovani e anziani, ma sono umani… Riconosciamo che il termine “umano” è vicino al termine humus, alla terra, all’“umiltà”, e ad altre parole affini. Si tratta quindi di qualcosa di modesto, di limitato. E naturalmente questa mediazione umana incide su coloro che agiscono secondo coscienza per fare la volontà di Dio.

3. L’abuso

Le mediazioni umane tra Dio e le creature accompagnano quindi la coscienza dell’uomo e la conseguente azione morale. Ed è proprio qui, nella dinamica della mediazione, dove possono nascere gli abusi3. Qualche mese fa mi sono imbattuto in un libro di Matthew Levering intitolato L’abuso di coscienza (cfr. Levering 2021). Pensai che fosse quello che stavo cercando per affrontare questo studio. Mi aspettavo che trattasse la questione della necessità di rispettare la coscienza dei fedeli, la loro vita, la loro affettività, per evitare le diverse forme di abuso. In realtà l’opera, che forniva un resoconto completo della teologia morale cattolica nel corso del XX secolo in ambito anglosassone, sosteneva che la stessa nozione di coscienza è stata molto abusata negli ultimi tempi, perché è stata presentata come se fosse un punto di riferimento autonomo, indipendente da Dio, dagli altri, dalla realtà creata, che appunto non ha bisogno di mediazioni. Importanti autori lungo il secolo scorso hanno infatti spezzato il legame essenziale tra coscienza personale e mediazione tra Dio e l’uomo, volgendo l’attenzione soltanto sulla sua autonomia, secondo una prospettiva fortemente kantiana.

Non intendo fare troppe distinzioni tra i diversi modi in cui la voce della coscienza possa essere mediata a ciascuno a partire dalle altre persone, sia attraverso l’esercizio dell’autorità e del governo della Chiesa, sia attraverso l’esercizio generale dell’autorità nella famiglia e nella società civile, sia attraverso l’accompagnamento spirituale dei fedeli, ecc. Ma è sempre chiaro dal punto di vista cristiano che chi decide, chi esercita l’autorità, chi accompagna, non è Dio. Il mediatore è sempre e solo una creatura. Perché in fin dei conti, come ricorda san Pietro, «dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Chi guida può essere più preparato di chi è guidato, può essere più prudente ed esperto, ma tutto sommato è umano come lui e può sbagliare. Questo non significa che Dio non voglia l’obbedienza alle autorità umane, Gesù stesso era sottomesso a Maria e Giuseppe a Betlemme (Lc 2,51). Ma «non c’è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono state istituite da Dio» (Rm 13,1). Con tutto, abusus non tollit usum, l’abuso non toglie l’uso, il gestire normale, ordinato, ordinario. Il fatto che ci siano degli abusi non vuole dire che l’esercizio dell’autorità sia cancellato. Quindi il mediatore o consigliere o direttore accompagna la persona nel suo cammino verso Dio, ma non può mai prendere il posto di Dio. Deve assumere le parole di Giovanni il Battista quando disse: «Lui [il Cristo] deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30).

Allora, come può nascere l’abuso all’interno di questo processo di comunicazione, accompagnamento e mediazione? Da un lato, possiamo riflettere su colui che accompagna, la guida, l’autorità. E dall’altro lato su colui che riceve aiuto, consiglio e guida, la persona. Rispondiamo brevemente.

La guida: la persona che guida ed accompagna gli altri e comanda. Può darsi che cada facilmente nel seguente circolo vizioso: avvicinamento seguito dall’adulazione, per stabilire una relazione apparentemente forte ma che in realtà è precaria e manipolatrice con la persona; questo viene seguito presto dal rimprovero e dall’allontanamento (quando la persona non risponde, non obbedisce, si ritira l’affetto e l’interesse); e poi si verifica il tentativo di stabilire di nuovo le “buone relazioni” di prima, sia da parte della guida che della persona4. Infatti la guida può subire la tentazione di svolgere il suo compito in modo eccessivamente personale e, invece di indirizzare le persone a Cristo, a Dio, le fa dipendere da se stesso, forse volendo fare della persona un clone della propria vita (o meglio, sarebbe più preciso dire che fa di se stesso un clown). Per questa ragione, chi guida ha bisogno di essere guidato e accompagnato, consigliato e corretto, anche comandato.

Giovenale poneva la domanda: quis custodit custodes? Chi custodisce i custodi? In particolare, la persona che guida deve stare molto attenta a non proiettarsi sulla persona guidata. Dovrebbe invece scoprire nella preghiera e nello studio ciò che Dio vuole da essa, fin dove questo sia possibile. E il fatto è che nella guida delle persone siamo tentati di puntare sul sicuro, a partire dalla propria esperienza e cultura e professione, dalle proprie inclinazioni e talenti. Ma la convinzione più profonda della guida deve essere diversa: solo Dio è Dio e, come dice un vecchio adagio proveniente della spiritualità spagnola: las almas son de Dios, le anime appartengono solo a Dio.

Poi per quanto riguarda la persona guidata: in primo luogo, forse si può dire che la persona guidata ha bisogno di una grande libertà interiore, e la guida deve suscitarlo e rafforzarlo in tutto ciò che fa. Inoltre, la persona guidata ha bisogno di contare su altri punti di riferimento per la propria vita (amici, famiglia, studi, hobby, interessi) all’infuori dell’accompagnamento spirituale e dell’esercizio dell’autorità. Ha bisogno di saper stare sulle proprie gambe, di pensare autonomamente, deve dedicare molto tempo a Dio nella preghiera. È un vero e proprio paradosso… la persona ha bisogno dell’aiuto della guida, ma non deve mai esserne schiava, bensì maturare rispetto alla stessa guida una condizione personale sempre più libera.

Bibliografia

Commissione Teologica Internazionale. “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale” (2009). In Documenti 2005-2021, ed. Piero Coda, 117-196. Bologna: ESD, Bologna 2022.

Gundry-Volf, Judith M. “Conscience.” In Dictionary of Paul and his Letters, a cura di Gerald F. Hawthorne, Ralph Ph. Martin, Daniel G. Reid, 153-156. Downers Grove (IL): Intervarsity Press, 1993.

Hall, Julie L. The Narcissist in Your Life: Recognizing the Patterns and Learning to Break Free. Boston: De Capo Lifelong Books, 2019.

Han, Byung-Chul. Che cos’è il potere? Milano: Nottetempo, 2019.

Levering, Matthew. The Abuse of Conscience. A Century of Catholic Moral Theology. Grand Rapids (MI): W. B. Eerdmans, 2021.

Martinetti, P. “Socrate.” In Idem, Ragione e fede, 427-429. Torino: G. Einaudi, 1944.

Menke, Karl-Heinz. La verità rende liberi o la libertà rende veri? Uno scritto polemico. Brescia: Queriniana, 2020.

Moschetti, Andrea Maria, Semerari, Giuseppe, Galeazzi, Umberto. “Coscienza morale.” In Enciclopedia filosofica, diretta da Virgilio Melchiorre. Milano: Bompiani, 2010, 2332-2337.

O’Callaghan, Paul. Il dono divino dell’universo. Introduzione alla teologia della creazione. Roma: Edusc, 2023.

—, Faith Challenges Culture. Lanham: Lexington Books, 2021.

—, God and Mediation. A Retrospective Appraisal of Luther the Reformer. Minneapolis: Fortress Press, 2017.

—, Figli di Dio nel mondo. Trattato di antropologia teologica. Roma: Edusc, 2013.

—, “The Mediation of Justification and the justification of Mediation. Report of the Lutheran/Catholic Dialogue: ‘Church and Justification: Understanding the Church in the Light of the Doctrine of Justification’ (1993).” Annales Theologici 10 (1996): 147-211.

Schopenhauer, Arthur. Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. 1. Leipzig: A. Kröner, 1859.

Striet, Magnum. Libertà ovverosia il caso serio: lavorare per Abbattere i bastioni. Brescia: Queriniana, 2020.

Wilmer, Heiner. “Intervista rilasciata al Kölner Stadt-Anzeiger.” 13 dicembre 2018.


1 Sulla dinamica delle polarità omologhe, cfr. O’Callaghan (2013), 16, 40 e O’Callaghan (2021), 7-9.

2 Secondo Menke (2020) esiste una forte relazione tra la teologia di Lutero e la posizione di Kant per quanto riguarda la coscienza morale autonoma. Questa posizione non è accettata da Striet (2020), che critica quella di Menke.

3 Si veda il libro del sociologo e filosofo coreano Han (2019), che traccia magistralmente la dinamica interattiva e potere/autorità e mediazione.

4 Sulla dinamica del narcisismo e della manipolazione delle persone, cfr. Hall (2019).