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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Introduzione

Angela Maria Mazzanti

Università di Bologna

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L’indagine sulla crisi nel mondo tardoantico, indotta da domande suscitate dalla situazione attuale, a cui, fra l’altro, il Tardoantico è spesso paragonato,1 si svolge nella consapevole cognizione della lontananza temporale e della complessità di eventuali riferimenti. La problematicità di connessioni concettuali è chiara già dal rilevamento della valenza semantica del termine stesso. L’interesse è attualmente centrato su krisis o su crisi? Il focus concerne il giudizio a fronte di una circostanza drammatica e “ultima” o è limitato alla constatazione del manifestarsi di una situazione negativa?2 La polivocità della “crisi” sembra avere privato il lemma di una caratterizzazione specifica consequenziale all’accertamento di avvenimenti avversi e, nel contempo, proprio per la sua estensione e applicazione a vari ambiti, il vocabolo è diventato emblematico come qualificazione dell’epoca contemporanea.3

R. Koselleck ha dedicato in proposito notevoli studi. All’origine di tali analisi c’è la formalizzazione di un metodo di ricerca storica che si oppone allo storicismo ed afferma l’idea della concretezza dei concetti espressi tramite il linguaggio, in quanto capaci di interpretare gli eventi veicolando esperienze e cogliendone le prospettive.4 Le trasformazioni dei concetti nel tempo rivelano elementi inerenti ai mutamenti storici. Il linguaggio è ricettivo e produttivo, sottolinea lo studioso che focalizza la connessione fra la semasiologia che ricerca i significati di un lemma nel tempo e la onomasiologia che considera tutte le denominazioni identificanti un determinato stato di cose. È necessario tenere presente comunque che il dato storico non esaurisce la propria realtà nel concetto espresso a parole, permane infatti sempre uno scarto che dimostra il limite conoscitivo.5

Indicativo in questo senso è il saggio redatto in questo volume da Marcello La Matina6 che esplicita elementi pertinenti proprio a tale limite. L’enunciato, il prodotto dell’atto di giudicare infatti nella forma assertoria, nella sententia, occulta il soggetto e si pone come luogo della divisione secondo categorie codificate. La filosofia francese del novecento, influenzata dal pensiero heideggeriano, ha stigmatizzato la certezza della proposizione di cui Kant era stato assertore, così come il positivismo scientista in cui le cose sono guardate solo in funzione dell’elaborazione di modelli e i cui esiti sono riscontrabili nel nichilismo volto solo ai termini e non alla realtà. Seguendo Sartre e Merleau-Ponty, M. La Matina afferma la valenza dello sguardo. Lo sguardo è proposto da Lacan come giudizio: nello sguardo non il soggetto proposizionale ma l’immagine è il luogo in cui nasce una relazione fra significanti. La dimensione ottica è una via per determinare la krisis. La cosa non è ridotta allora ad oggetto, ma il logos delle cose è in relazione con colui che vede secondo il mistero dell’emergere dell’Altro. Si afferma in questo modo il potere delle icone. Qualcosa di analogo avviene nel cristianesimo: il vangelo funziona come un’icona. Lo sguardo è rivolto all’altro non nella sua fenomenicità ma nella verità dell’essere, inerente al Giudizio che rivela l’essenza.

La non esclusività della formulazione linguistica la cui valenza, secondo determinate modalità, permane indiscutibile, non elimina l’attenzione al percorso espressivo reperibile nel tempo, di cui particolarmente indicativa è l’origine semantica del vocabolo κρίσις constatabile a partire dalle prime menzioni nelle fonti greche. Κρίνω, scrive F. Büchsel7, assume significati concernenti il “separare”, “vagliare”. Il senso di “decidere”, “giudicare”, “criticare” è attestato diffusamente in Omero. Sviluppi successivi, al medio, affermano le accezioni di “interpretare”, “spiegare” e, come ulteriore ampliamento, quelle di “sentenziare”, “pensare”, “considerare”, “decidere”. I LXX usano κρίνω in particolare in ambito giuridico; è opportuno notare che la designazione di “giudicare” si discosta dalle definizioni presenti in altre culture, comporta infatti in sé l’elemento salvifico, redentivo. Nel Nuovo Testamento prevale ancora il contenuto connesso al giudizio, anche se si possono rilevare altre accezioni quali “decidere”, “determinare”, “stimare”, “pensare” e “governare”.

Facendo nuovamente riferimento alle analisi di R. Koselleck, si constata l’accentuazione, per quanto concerne gli scritti apostolici, del termine come designazione del giudizio universale, evento cosmico, preannunciato dalla certezza della grazia della liberazione nella prospettiva della vita eterna: «L’apocalisse era, per così dire, anticipata nella fede ed esperita nel presente».8 Nel considerare i mutamenti semantici esaminati nel procedere del tempo lo studioso notava che il concetto giuridico si era formalizzato da sviluppi teologici. Il senso moderno di crisi deriva invece in modo particolare dall’uso nel corpus ippocratico. Trasferito infatti in ambito politico-sociale, introdotto nelle lingue nazionali, il vocabolo indica alternative vitali decisive. L’accezione economica compare tardi. Interessante, sempre seguendo le indagini dello storico, le differenti nozioni riferite alla filosofia della storia in varie teorie inerenti alla “crisi”: dalla constatazione della presenza di vari eventi che conducono ad un punto risolutivo, secondo il modello medico, politico e militare, si passa all’indicazione, collegabile alla caratterizzazione dell’avvenimento escatologico, di una decisione “ultima”, irripetibile, che trasforma la storia stessa, all’affermazione di situazioni problematiche che si riproducono continuamente, secondo la categoria di durata, al rilievo di una trasformazione la cui soluzione dipende dalla capacità di formulare una diagnosi adeguata.9 Queste categorie interpretative sono significative, identificano il termine con differenti dinamiche relative a modalità di soluzioni.

La comparabilità dell’evento, in qualche modo ipotizzato in apertura fra mondo tardoantico e contesto contemporaneo, comporta l’accentuazione del fenomeno “crisi” come configurazione di accadimenti “analoghi” riscontrabili nello svolgimento storico. Negli anni ’50 del secolo scorso J. Daniélou, pur sottolineando la particolare gravità del momento, riteneva che una situazione similare fosse già stata sperimentata nel passato («Ora, oggi, il mondo attraversa une crise di civiltà come poche ne ha conosciute nel corso della storia»10) e proseguiva precisando che la civiltà borghese, “une certaine civilisation”, fosse in fase di affossamento o di “agonie” ma chiarendo, nel contempo, quali fossero i fondamenti persistenti in un mutamento pur rilevante e inevitabile, che comportava il superamento del vecchio mondo.11 E la crisi di un soggetto culturale, scrive J Ratzinger nel tentativo di comprendere le cause dell’accadere del fenomeno,12 avviene quando non si riesce più a rapportare un patrimonio già sedimentato con nuove conoscenze: la tradizione in tali situazioni non è più riconosciuta come vera e si identifica con una certa consuetudine.

Focalizzare il termine “crisi” richiede un implicito riferimento a krisis o la radice semantica si deve ritenere elusa, come sembra accadere perlopiù nel contesto attuale a causa della presupposta impossibilità di ipotizzare una diagnosi? Nella definizione di crisi una qualche cognizione di cause originanti è comunque sottesa: le valenze individuabili non sono del tutto indistinte e generiche, prive di qualsiasi dato che ne espliciti elementi genetici. Considerata inoltre come un elemento destabilizzante in una cultura o riconosciuta come l’elemento che sovverte la cultura nella sua totalità, la crisi implica il riferimento, seppure implicito, ad un giudizio. Il passaggio, fra l’altro, dalla constatazione della destabilizzazione come fenomeno particolare all’accertamento di un evento di più ampio riferimento, comporta il rinvio all’esigenza di tentare di acquisire elementi di comprensione. È significativo, a questo proposito, il contributo che I. Colozzi ha presentato al Seminario di Studi che ha preceduto questo Convegno e ne ha avviato ulteriori indagini.13 In relazione alla situazione contemporanea è stato messo a tema il complesso tentativo della sociologia di trovare soluzioni per le problematiche esistenti. Sintomatiche le constatazioni conclusive sul predominio attuale del relativismo, per la perdita di fiducia della ragione come strumento di conoscenza della realtà, e sull’impossibilità dell’uso del modello organicistico applicato alla società, sostituito dalla teoria sistemica della differenziazione funzionale, con conseguente esigenza di ricerca di un nuovo paradigma per la stessa sociologia.

Esaminare le relazioni del Convegno, che hanno approfondito il tema con diversi approcci, in ambito antico e tardoantico, dà adito a riflessioni rilevanti. Sono analizzati processi linguistici, concettuali ed esistenziali, politici, religiosi. Eventi problematici rompono uno status quo provocando mutamenti che, pur innestati su realtà che mantengono una qualche continuità, costituiscono fattori notevoli di criticità. Si rilevano questioni sulla possibilità di individuazione, di formulazione di contenuti, di modalità di attuazione, di eventuali prospettive inerenti alla krisis? Quali soggetti sono identificati in tali svolgimenti?

L’attenzione volta a E.R. Dodds in Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia è opportuna in sede di una serie di contributi sulla “crisi” nei primi secoli cristiani non solo, come è ovvio, per l’argomento trattato ma anche per la risonanza avuta dall’opera negli studi sul periodo storico, oggetto di attenzione. Ysabel De Andia14 ne presta la dovuta considerazione e valuta gli assunti. E.R. Dodds parlava – e la constatazione non è insignificante – di ansietà e non di crisi soffermandosi in primis sulle esperienze religiose di personalità singole, in particolare, nel contesto del III secolo d.C. Il tentativo di porre in parallelo l’orizzonte cognitivo ed esistenziale di pagani e cristiani incentrato sulla fondamentale concezione della “non realtà delle cose” e della profonda dicotomia fra mondo spirituale e materiale, fra corpo e spirito, manifesta elementi che appaiono conformarsi, ma segnano invece differenziazioni radicali. L’incarnazione di Cristo è il focus discriminante. Significativa la questione dell’affermazione della contraddittorietà fra il logos considerato proprio della cultura antica e la pistis cristiana: l’esigenza di rifondare la religio pagana muta tali presupposti e richiede il ricorso alla fede in ambito di elaborazione filosofica. La contemporaneità vede il presentarsi di presupposti analoghi? Y. De Andia pone l’interrogativo. La domanda è pertinente: può interpellare l’uomo nella situazione attuale anche e proprio su tematiche inerenti al rapporto fra fede e ragione e sull’identificazione della fede come spiritualismo con conseguenti considerazioni sulla pluralità delle religioni e sulla loro indistinzione.

Moreno Morani15 analizza la questione linguistica: una serie di mutamenti sono resi evidenti in contesti successivi. L’attenzione è volta non all’ambito semantico, già indagato nel contributo pubblicato negli Atti del Seminario che ha preceduto gli sviluppi presenti in questo volume,16 ma alla “crisi” del latino stesso. La sintesi dei significati assunti dal termine greco e da quello latino e, successivamente, dalle lingue moderne, mostra una profonda differenziazione che lo studioso aveva ulteriormente rilevato tramite la controprova della modalità di comprensione attuale di una serie di espressioni negli autori antichi recepite nelle traduzioni come “crisi”. E’ importante considerare la valenza di indagini linguistiche in funzione della conoscenza storica. M. Morani afferma che i mutamenti della lingua latina fra un registro alto e un uso colloquiale, non grammaticalmente corretto, già attestati a Roma nel periodo repubblicano, diventano più marcati in epoca imperiale. Lo studioso, procedendo nella sua disamina puntuale, nota che l’avvento del cristianesimo influisce ulteriormente all’allontanamento dalla forma classica:17 la possibilità di essere compresi da tutti rende necessaria la scelta consapevole talora di solecismi. Conseguente è il disprezzo da parte dei ceti colti, secondo quella modalità polemica e oppositiva che nel rapporto fra pagani e cristiani non è certo limitata al linguaggio, ma ha segnatamente riferimenti nell’espressione. A fronte di un dibattito e soprattutto di una profonda afflizione per la perdita dell’idioma di un tempo ormai generalizzata, se si deve ammettere un uso sempre più stravolto, in particolare anche nella forma scritta, bisogna riconoscere nel contempo che il latino non sarà annoverabile fra le lingue morte. La riforma carolingia lo riporterà, per quanto riguarda la scrittura, alla forma perduta. Ne emergerà una lingua cristallizzata ma in grado di esprimere il sapere in vari campi culturali e quindi creativa.

Alfredo Valvo18 esamina le crisi di legittimità dell’esercizio del potere nella storia di Roma. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica, l’ascesa di Augusto, la presa di potere di Costantino costituiscono fasi cruciali, in cui la solidità delle istituzioni sembrò vacillare o disintegrarsi. Fondamentale, già nel periodo monarchico, fu l’accordo dei patres delle diverse stirpi che superò gli ostacoli derivati da basi di diritti gentilizi differenti. Il consesso dei patres, il senato, è stato poi il depositario del potere gestito sotto varie forme, fra cui la più rilevante è stata l’imperium. Tale consesso ha avuto una continuità notevole e, anche se nel tempo è stato privato di talune prerogative ad opera degli imperatori, ha rappresentato comunque un segno della legittimità dello stato romano. Augusto, per dare valenza al mutamento politico, mise in contrasto l’auctoritas con la potestas, rifacendosi al potere dei patres piuttosto che alla volontà popolare, giustificando la sua azione come compimento del volere del popolo stesso. Per quanto riguarda Costantino un elemento focale è dato dall’iscrizione onoraria insita sull’arco a lui dedicato in cui talune espressioni rimandano ai primi due capitoli delle Res Gestae di Augusto. La validità dell’autorità è riconoscibile in forza dell’attribuzione a Costantino dei dati costitutivi del principato: gli elementi ideologici addotti in precedenza sono riproposti in funzione della legalizzazione della gestione del potere. E Augusto identifica successivamente un riferimento basilare, cui si rapporta ideologicamente anche Costantino nella problematica affermazione della propria supremazia.

Nell’esame di contesti religiosi specifici, l’apocalittica giudaica costituisce un ambito di indagine approfondito nel contributo di Maria Vittoria Cerutti19. L’interpretazione tradizionale di tale letteratura, attestata in particolare nei secoli dal V a.C. al II d. C. rende possibile il connettere il significato di crisi, secondo le valenze attribuite anche attualmente al termine, al concetto di krisis, in relazione cioè alla semantica originaria, che giunge al focus inerente alla formulazione del giudizio “ultimo”, alla condanna quindi o alla salvezza escatologica. La studiosa, non potendo svolgere, in un contributo limitato, l’indagine su tutta l’opera che si identifica come appartenente a questo genere e si estende in un lungo arco temporale, considera in modo specifico le formulazioni emergenti dai testi più antichi e da quelli più recenti. Indicativi sono i dati che segnalano, a fronte di contesti storici specifici, la genesi di un processo di elaborazione concettuale rilevante di cui si sottolineano gli elementi finali. Diversa è in primis l’attribuzione dell’origine della negatività nel mondo: imputata inizialmente a entità sovrumane e coinvolgente tutta la storia in una valutazione di condanna, è assegnata successivamente agli uomini, parzialmente o in toto, con conseguente vaglio della singola responsabilità. Il giudizio reiterato alla fine della vita e alla fine del mondo, implicante la permanenza dell’anima in un luogo umbratile di vita-non vita in cui la presenza di Dio non è ipotizzabile, nella cosiddetta terza apocalittica muta con l’individuazione di mediatori – fra cui il Messia – nell’azione giudicante ritenuta terrificante e non ascrivibile esclusivamente a Dio. Inoltre, come criterio di giudizio, la legge di Mosè sostituisce la legge di natura. L’Apocalisse siriaca di Baruch e il 4Esdra, considerati la quarta apocalittica, rivelano l’orientamento del processo storico che, svolgendosi secondo un andamento a spirale, perviene ad un giudizio finale in cui condanna e salvezza, già manifestati in qualche modo, sono resi evidenti ad opera di Dio, e non tramite entità intermedie che scindano le potenzialità del divino.

Gli studi incentrati sull’avvenimento cristiano hanno, come si è già sottolineato, importanza notevole nella determinazione della “crisi” in rapporto alla tradizione culturale e alle teorie filosofiche del mondo antico. Significative sono le diversità emergenti.

Michel Fattal,20 paragonando due ambiti lontani nel tempo ma paradigmatici per la comprensione delle radici della cultura occidentale, analizza due tipi di “logos critico” che in ambiti pagano e cristiano hanno destabilizzato i sistemi di valori vigenti nelle loro epoche. Parmenide di Elea si avvale del linguaggio della sua tradizione per affermare concezioni nuove. All’inizio del suo Poema la dea, protagonista dell’opera, parla al discepolo attestando l’identità fra verità ed essere. Il logos si caratterizza come il discorso “véridique et véritatif” sull’essere in opposizione al discorso ingannatore concernente il non-essere. Gli uomini confondono l’essere con il non-essere, procedono per opinioni e non hanno capacità di discernimento. Il filosofo, che usa il principio logico dell’identità, è in grado di giungere alla krisis, a quell’unica scelta che è propria dell’essere. Tramite il giudizio del logos è promossa la conversione filosofica, un cambiamento radicale di concezioni e di vita in funzione positiva. Il passaggio si configura come abbandono del non-essere, del falso (epos), dell’apparente, del molteplice, del divenire, della parola vuota (glossa). Lo studioso segnala l’importanza del pensiero di Parmenide per lo sviluppo della cultura occidentale: sulla discriminazione operata dal logos, si fonda il costituirsi di quelle gerarchie ontologiche e gnoseologiche proprie della metafisica greca classica e, inoltre, sull’esortazione del discepolo a esprimere un giudizio personale su quel rifiuto del non-essere della dea della verità si genera il processo di personalizzazione impresso dalla stessa autorità suprema. A queste riflessioni lo studioso accosta considerazioni sul logos in Paolo di Tarso. La I lettera ai Corinti denuncia una “crisi” negativa presente nella comunità cristiana cui segue il giudizio suscitato dal logos pneumatico di Paolo. La predicazione di alcuni missionari rischiava di trasformare in setta o in partiti legati a concezioni ideologiche diverse, l’unione di persone che si era formato in virtù dell’annuncio cristiano. Paolo risponde a questioni etiche, liturgiche ed ecclesiali la cui formulazione risentiva di influssi politeisti, critica le pretese intellettualistiche e le confusioni dottrinali, determinate da pratiche retoriche e filosofiche non condivisibili, e afferma che la sapienza ha il suo fondamento in Cristo. Il problema è antropologico: gli uomini carnali che non accettano i doni dello Spirito di Dio hanno provocato le divisioni ecclesiologiche. L’uomo spirituale invece che ha fede non solo è salvato ma è in grado di giudicare tutto perché ha conosciuto e possiede il criterio del discernimento: il νοῦς del Signore, il νοῦς di Cristo e lo Πνεῦμα. Paolo riprende in Efesini 4,23-24 queste annotazioni parlando dell’uomo nuovo, di colui che è stato trasformato dallo Spirito. Questi doni che l’uomo spirituale riceve devono essere comunicati; l’apostolo è chiamato ad insegnare attraverso il suo logos che è informato dallo spirito. La differenza fra il logos filosofico di Parmenide e il logos pneumatico di Paolo è evidente: nell’uno la capacità di giudizio nasce dall’uomo stesso che si rende autonomo dalla stessa autorità, per l’altro la ragione naturale è limitata e può ingannarsi e il criterio per valutare tutto è trascendente, spirituale. L’apostolo non disconosce la natura umana, ma la pretesa di autoreferenzialità. Nel processo di cambiamento notevole importanza è attribuita anche all’agape.

M. Fattal considera come questo contrastante orizzonte sia presente in epoca contemporanea in cui valori relativi, immanenti, umani siano attestati in contrasto a quelli assoluti, trascendenti, superiori.

Interviene ancora sul fondamento del logos in funzione della formulazione di quella krisis che ha per obiettivo il superamento della crisi Giulio Maspero21 iniziando con l’osservare il punto di vista platonico e giungendo all’orizzonte specifico dei Padri. Lo studioso esamina tre paradigmi diversi sia per il contesto che per le problematiche presenti ma convergenti in un’unica tradizione. In primis è considerata la nascita della metafisica: Platone tramite il logos elabora miti che rimandano ad un oltre nel tentativo di cogliere l’Essere e il Bene. È in atto nell’interpretazione del mito una ricerca critica del significato profondo, della verità universale insita nella narrazione. L’evento cristiano introduce una krisis di carattere metafisico. Gesù Cristo è persona e insieme è Dio. I Padri affermano la radicale diversità della rivelazione rispetto al mito. Origene non si ferma alla dialettica, interpreta la Scrittura alla luce e della storicità e di contenuti morali che hanno una profondità ontologica poiché «la dimensione spirituale è la cifra stessa della divinità e della sua presenza nella storia». È necessario procedere e cogliere nella storia quel dato, comprensibile anche ai semplici, che è costituito dalla tipologia. La krisis non è pronunciata solo sul testo ma sul significato di ogni cosa e si fonda sul logos, che è Dio e quindi essenzialmente spirituale e, nel contempo, mediatore di sé secondo la configurazione graduata costitutiva del divino. La problematica riflessione del rapporto delle persone della Trinità determina l’affermarsi e il diffondersi delle concezioni ariane. Gregorio di Nissa, attestando la totale trascendenza di Dio rispetto al mondo e individuando l’immanenza del Figlio e dello Spirito nella sostanza divina del Padre, pone le tre Persone divine nello stesso piano dell’Essere. La distinzione delle persone nella Trinità non è data dalla diversa partecipazione, ma dalla diversa relazione. La dinamica relazionale è impressa nel tempo, nel momento in cui avviene il contatto fra il divino e il mondo. La chiara distinzione fra la natura umana e la natura divina di Cristo, fra le opere compiute dall’uomo o esclusive di Dio, fra economia e immanenza, richiede nell’interpretazione della Scrittura la krisis che è operata dal logos e riguarda la natura dello stesso Logos. L’esegesi comporta infatti un giudizio ontologico, non può fermarsi solo alla lettera. Attraverso la cognizione delle tracce della presenza trinitaria nel testo biblico si impara a conoscere l’intervento di Dio nella vita umana e nel tempo storico. L’esegesi di Gregorio è un’esegesi prevalentemente cristologica e esegesi ontologico-trinitaria perché il Nisseno riconosce nella Trinità il fondamento dell’essere e l’elemento di comprensione della storia e della realtà esistente. Il senso spirituale di cui parla Origene non è superato ma assume in sé la corporeità. La krisis proviene da un oltre ma si realizza come dialogo con il Dio fattosi carne, quindi la comunicazione, non esprimibile con parole, è formulata, per esigenza di comprensione, con termini noti che devono essere verificati. Esiste, in conclusione, una nuova ontologia che nasce dalla rivelazione trinitaria: testo scritturistico e realtà sono compresi alla luce della relazione trinitaria che nel Logos incarnato fonda per sempre l’unità con la storia.

E ancora sull’elaborazione “critica” come evento cristologico, nella distinzione con la tradizione filosofica, sono enucleabili, nel tempo, ulteriori elementi di cognizione. Nel saggio Potestas, Statuto critico e crisi della ragione nei Dialoghi di Sant’Agostino, Giuseppe Fidelibus22 riflette sulla posizione di Agostino che verifica le questioni nodali inerenti alla ragione filosofica proprio nel momento in cui abbraccia la religione cristiana. È nella chiesa stessa, Christi auctoritate, infatti che la ragione trova la sua legittimazione. Nei tre Dialoghi di Cassiciaco Agostino sviluppa le tre questioni proprie della tradizione antica inerenti alla verità, al sommo bene e all’ordine del mondo, svolgendo un lavoro critico sull’intero campo di competenze filosofiche alla luce della ragione. Nel Contra academicos egli afferma l’importanza della sapientia che comporta il godere della ragione nell’esistenza umana e, in seguito, il parteciparne definitivamente da Dio e in Dio. Nel rapporto fra sapientia e philosophia, a fronte delle istanze accademiche e stoiche ben attestate nel contesto storico, Agostino, pur criticando il dogmatismo delle prime, senza cadere nel materialismo stoico, adotta una formula probabilista che in qualche modo lascia intravedere un apporto condivisibile: non si tratta di possedere la verità ma è significativo essere costretti a dare alla verità un probabile assenso. Il criterio di verità non si situa né nel sensibile né nel sovrasensibile. È l’originaria apertura della ragione alla realtà che rende ricettivi all’accoglimento della verità in cui i due piani si compongono in unità. Ma per poter mantenere tale condizione occorre l’auctoritas Christi: la ragione riceve la potestas in funzione dell’esercizio critico non da processi dialettici e ascensivi ma per beneficio dall’abbassamento della verità stessa. Il dogmatismo e lo scetticismo sono quindi superati. In De vita beata il tema della felicità ripropone la necessità del filosofare come luogo di accesso alla beatitudine. Ma non è l’uomo che impone il suo progetto, egli riceve la verità dalla persona di Cristo in una relazione con il divino segnata dall’amore. Nell’opera De ordine Agostino afferma che la legge di Dio sovrintende alla legittimazione degli ordinamenti concernenti la vita e la cultura propri della ragione. L’autorità divina si rivela come tale, mentre “si fa mettere in crisi” dall’umano intelletto: non si tratta di un’ingerenza ma di considerazione della capacità di giudizio della ragione. Le due auctoritates sono rapportabili in unità nella persona di Cristo che riceve legittimazione dalla paternità divina.

Affermata nel rapporto con Dio che è relazione e pronunciata nella storia tramite il Logos incarnato, la krisis corrisponde alla realtà antropologica ed è resa evidente nell’orizzonte esistenziale della persona e della comunità. Il saggio di Leonardo Lugaresi23 si sofferma sulla rilevanza profonda della krisis identificabile nella forma del rapporto che i cristiani dei primi secoli instaurarono con la cultura dominante. Non prevalse la condanna né l’apertura indiscriminata ma il valore di una distinzione basata su un criterio fondamentale. La krisis infatti, scrive lo studioso precisandone il dinamismo, «è il giudizio che destruttura i sistemi chiusi, ne fa emergere le tensioni e le contraddizioni latenti, trasforma le relazioni interne tra gli elementi che li compongono e mette in discussione le regole del loro funzionamento: in una parola li verifica e li apre al cambiamento». L’incarnazione del Figlio di Dio, principio e fine dell’uomo e della storia, asserisce altresì Lugaresi, costituisce il dato basilare su cui si innesta la critica. L’opera di Tertulliano può essere considerata indicativa del processo di verifica e di sollecitazione riflessiva (la retorsio), attuata da una comunità numericamente esigua, nei confronti del contesto politico, sociale e culturale della sua epoca. Basilare, anche per il giudaismo, è il richiamo alla legge divina che precede quella mosaica ed è connaturata alla creatura. La concezione antropologica infatti costituisce il punto di riferimento per l’acquisizione di tale conversione: la presenza di evidenze elementari nella coscienza umana rende possibile la comprensione e l’attuazione del giudizio. L’anima è volta alla verità e Tertulliano può quindi definirla naturaliter christiana. L’ecumenismo del cristianesimo sconvolge il particolarismo giudaico e le pretese universalistiche dell’orizzonte politeistico dell’impero romano, generando un cambiamento culturale e religioso e, di conseguenza, inevitabilmente, imponendosi.

Manifestazione del dinamismo “critico” in atto è il processo di spiritualizzazione del linguaggio ad opera dei cristiani che Christian Gnilka24 esamina. I cristiani sono consapevoli che tutto quello che gli uomini possono pronunciare concernente le realtà visibili è in relazione con realtà più alte: le parole comunicano una trasparenza. La ricerca della profondità del linguaggio nasce dalla cognizione che Dio si è degnato di esprimersi secondo la lingua degli uomini, ha adattato la Sua parola al linguaggio umano, come si rileva dalla presenza di simboli nella Sacra Scrittura. Gli Atti dei martiri sono particolarmente significativi: non indicano l’origine del cambiamento ma manifestano il mutamento avvenuto e la problematica ricezione. Il martire pronuncia le espressioni secondo determinati significati e, nel contempo, comprende le possibili interpretazioni, il giudice non coglie il senso delle affermazioni enunciate dal cristiano e solo in qualche caso denuncia l’oscurità del linguaggio. Nei resoconti verbali dei processi o nelle annotazioni che possono essere state aggiunte sono chiare le accezioni assunte da termini in ambito cristiano e il continuo equivoco che ne deriva. Da un punto di vista retorico lo studioso precisa che si attua la reflexio poiché ogni interlocutore dà alle stesse parole un senso diverso (distinctio). Ma questo conflitto semantico permane anche nella tradizione? Il ripresentarsi dà ulteriore prova della rilevante fisionomia delle origini. C. Gnilka esemplifica soffermandosi sui racconti inerenti al martirio di San Lorenzo. L’equivoco si ritrova non solo nelle parole, ma nelle azioni: l’elemento scenico è in qualche modo paragonabile anche alla narrazione del passo di Giovanni riguardante la passione di Cristo. In Prudenzio lo scontro assume una tensione notevole.

L’immagine iconografica della festa della Pentecoste di tradizione bizantina indica il manifestarsi, in un altro linguaggio, della krisis come giudizio ultimo. Giovanni Manabu Akiyama25 interpreta la figura di un uomo incoronato presente nella parte centrale dell’icona come il vegliardo di cui parla Daniele. La scena, che rappresenta la discesa dello Spirito Santo, rivela, secondo lo studioso, il compimento della vittoria e della giustizia dei santi dell’Altissimo di cui parla il profeta, è, cioè, identificabile con il giudizio escatologico. G. M. Akiyama, che cita alcune definizioni di altri esperti che nel vecchio incoronato riconoscono il mondo, afferma invece che si tratti di Dio Padre. Il fr. 24 di Clemente Alessandrino, che fa riferimento a Daniele, e Ippolito confortano tale ipotesi, così come Giovanni Crisostomo che parla di Dio. L’icona raffigura l’incontro della comunità cristiana, il corpo risorto di Cristo, con Dio Padre da cui riceve un potere eterno. La croce di Cristo risorto è, pur non visibile, sullo sfondo. In relazione a passi vetero e neo-testamentari e ai Padri, Akiyama richiama l’esperienza di Mosé per comprendere altri elementi delle icone: Gesù, risorto dalla croce, attira Mosè nel seno del Padre, l’invisibile e l’ineffabile, rappresentato dalla tenebra, che, nel contempo, può essere interpretata anche come «“l’incredulità e l’ignoranza dei più”, secondo un ulteriore passo di Clemente, in cui Mosè “è costretto ad entrare”, nella meditazione impenetrabile e senza luce intorno all’essere, cioè intorno all’intenzione di Dio». Lo Spirito Santo, disceso sugli Apostoli corrisponde alla gloria di Dio che Mosè aveva chiesto di vedere, allo zampillo di acqua e sangue uscito dal corpo di Cristo sulla croce, al compimento della giustizia descritto nel Libro di Daniele. Dall’intimo di Gesù crocifisso, al di là della ferita del Suo fianco c’è il Padre che invia in modo non visibile lo Spirito che si rende visibile sugli apostoli, ristabilendo il rapporto fra Dio e gli uomini. La passione del popolo, di Mosè, di Cristo nell’escatologia, diventa “nulla”. È indicativo che l’icona abbia una profonda corrispondenza con la celebrazione della Trinità che segue immediatamente la festa di Pentecoste in alcune tradizioni.

Un’analisi esegetica condotta dai Padri su testi evangelici controversi chiarisce i criteri per l’esercizio del giudizio pronunciato all’interno della realtà ecclesiale. A tema c’è una krisis significativa, considerata perlopiù necessaria nei confronti di persone (scismatici ed eretici in primis) che operano pur essendo in dissidio con la comunità, una krisis comunque ritenuta parziale in relazione a quella che sarà pronunciata definitivamente. Alessandra Di Pilla26 propone un’indagine sulle interpretazioni in ambito patristico di due citazioni di Marco e di Luca: “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40; Lc 9,50) e di Matteo (e Luca): “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde” (Mt12,30; Lc 11,23). Le accentuazioni sono diverse e riguardano contesti differenti: l’una implica inclusione, l’altra esclusione rispetto ad un’appartenenza. Nei primi due secoli non ci sono commenti specifici sui brani. Origene collega i due passi: rapporto ecclesiale, eresia e falsi profeti sono gli argomenti sviluppati in relazione all’esegesi. Cipriano fa riferimento più volte a Mt 12,30 per affermare che coloro che sono nella chiesa saranno salvi in opposizione agli scismatici e agli eretici. Gli autori del IV e V secolo, pur non confluendo in un’unica interpretazione, accentuano l’importanza dell’apertura nei confronti di coloro che aderiscono in modo non manifesto per mancanza di risolutezza o operano segni senza appartenere. Agostino si sofferma prendendo in esame i vari testi evangelici e ne deduce che la possibilità di dare i sacramenti da parte degli eretici non è fattore di rimprovero: ciò che deve essere condannato è la mancanza di partecipazione alla comunione ecclesiale e quindi l’allontanamento dalla verità. L’essere favorevole determina un rapporto potenziale. È necessario correggere la modalità non adeguata e valorizzare gli elementi che accomunano. Cassiano propone una serie di distinzioni fra coloro che operano signa: non tutti sono uomini santi, la carità li contraddistingue. Il giudizio finale farà la cernita definitiva; i carismi infatti sono temporanei, l’elezione è definitiva. Anastasio il Sinaita infine sollecita a dare alle opere miracolose la giusta prospettiva e Beda riafferma la valorizzazione del positivo come richiamo ad acquisire ciò che è veramente importante.

Mark Julian Edwards27 esamina la personalità di Dionigi di Alessandria che fu al centro di dibattiti complessi nelle testimonianze di Eusebio di Cesarea, Atanasio di Alessandria e Basilio di Cesarea. Il contesto in cui si svolge la vita di Dionigi è segnato dalle persecuzioni di Decio e di Valeriano. Dalla narrazione dello storico che cita varie lettere, il vescovo, che non fugge davanti alle prove e che riporta le testimonianze dei martiri, ha comunque un punto di vista conciliante a fronte della questione dei lapsi e ammonisce il rigorista Novaziano nella controversia con Cornelio, vescovo di Roma. Eusebio condivide tale punto di vista e, riportando i termini dell’invettiva di Dionigi contro Sabellio, non fa cenno a concezioni che possono essere collegate all’arianesimo. La persecuzione di Valeriano è argomento trattato in alcune epistole citate: la posizione che si evince può essere precisata come profonda fedeltà alla chiesa e lealtà verso Valeriano e Gallieno, sempre con modalità che non comportino compromissioni nel rapporto con Dio. Atanasio difende Dionigi da coloro che, contrastando le dichiarazioni di Nicea, si avvalgono delle tesi del vescovo sul concetto di omoiusios per confermare autorevolmente l’attendibilità delle loro errate concezioni. Egli adduce vari elementi per supportare le posizioni assunte dal suo predecessore. La non destituzione da parte degli altri vescovi, anche se problematica, in relazione agli avvenimenti di cui fu protagonista lo stesso Atanasio, è considerata una prova della fondatezza delle attestazioni. Le formulazioni in vari scritti di Dioniso sono infatti inconfutabili, quelle oggetto di maggiori contestazioni devono essere lette in relazione all’esigenza della comprensione da parte di coloro ai quali sono indirizzate e del tentativo di affermare il vero secondo modalità successive. La cognizione della presenza della stessa ontologia del Padre nel Figlio non ha incertezze. Anche la concezione trinitaria è stata enunciata secondo una terminologia adeguata. Basilio di Cesarea non tende a fare un’apologia di Dionigi, non conosce tutti i suoi scritti ma ritiene che alcune affermazioni siano errate: ponendo delle differenze fra le ipostasi, il vescovo ha trascurato l’unità dell’ousia. Atanasio, a suo parere, cita solo i punti di vista ortodossi. Con Basilio siamo in un’epoca in cui le segnalazioni critiche o le condanne sono manifestate in modo esplicito.

Il contributo di Mattia Agostinone28 si incentra sulla teologia trinitaria di Basilio formulata come risposta alla crisi ariana del IV secolo. Occasione in qualche modo positiva, tale controversia genera la riflessione espressa nel Contra Eunomium, in cui, sviluppando teorie sui nomi, Basilio designa Dio come Padre e introduce quindi la relazione non solo come fattore di distinzione ma come ontologia stessa, come fonte di ogni relazione dall’eternità. Indicativo è il termine ipostasi che identifica la stessa sostanza secondo una relazione diversa. Ciascuna persona non è un’apparenza di una stessa realtà, non è una sostanza a cui si aggiunge la relazione. La Divinità è un unico essere presente in toto in ciascuna ipostasi o, meglio, ciascuna Persona è identificata nella divinità a partire dalla relazione con l’altra alla quale rimanda. Il termine Padre è significativo per l’accentuazione dell’amore come elemento fondamentale dell’essere e per il riconoscimento dell’identità personale, dotata di volontà e libertà. La distanza dall’Uno-Bene del neoplatonismo e dal Motore immobile dell’aristotelismo è evidente in tale concezione in cui la paternità del Principio, individuato come dono gratuito di sé al Figlio, comporta l’essere Amore, pienezza dell’Entità stessa. Da una formulazione dialettica si passa ad una modalità dialogica, ad un interscambio dinamico in cui unità della Trinità e coappartenenza si connettono.

Sincero Mantelli29 approfondisce il giudizio a fronte di un tema etico. Esamina il testo pseudo-ciprianeo De singularitate clericorum che, riferendosi alla prassi di convivenze di sacerdoti, chiamati al celibato, con vergini, ne stigmatizza la deprecabile consuetudine. Il vescovo, certamente un rigorista, afferma di parlare perché richiesto da una rivelazione privata del Signore, secondo modalità attestate nella Scrittura. In primis è sottolineata la necessità di evitare le occasioni. La donna, sin dall’origine del genere umano, è emblema della connessione con il male. Il significato della scelta celibataria è enunciato con chiarezza: la totale dedizione alle cose celesti e la testimonianza di virtù sia ai fratelli che ai pagani sono i presupposti fondamentali. Occorre comunque tenere una posizione equilibrata sui rapporti fra i due sessi. Se la convivenza con le vergini è deprecabile, la presenza di donne nei riti è invece appropriata: nella liturgia si realizza infatti quella condizione angelica che il battesimo inaugura e che per il chierico, diversamente dai fedeli che ne hanno esperienza limitata, è habitus permanente, in grado di anticipare la realtà escatologica. La definizione di neutrum genus sottolinea la mancanza di necessità della procreazione che distinguerà la realtà ultraterrena ed è sperimentabile già nel mondo solo da chi è entrato nella pienezza della vita battesimale. L’autore del testo precisa che il suo giudizio non coincide con quello di coloro – per lo più eretici – che condannano il matrimonio. A fronte di varie questioni addotte come repliche, l’autore afferma che la morale non può adattarsi continuamente alla situazione. Il valore dell’autorità, la coerenza razionale delle formulazioni, l’amore alla verità e l’uso dei mezzi adeguati per raggiungere lo scopo devono essere osservati con la consapevolezza che è la grazia, la vita di Dio in noi attraverso lo Spirito, a condurre la vita umana alla dignità di figlio di Dio.

Testimone della crisi che si svolge nell’ambito della tradizione culturale romana è, nel contesto del IV secolo, l’opera di Saturninius Secundus Salutius, Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, che risponde al tentativo di ridare contenuto significativo all’adesione alla religione politeista, minata dalla presenza ormai affermata della religione cristiana. Quale consapevolezza specifica emerge in questo saggio dei mutamenti in atto? Particolarmente legato a Giuliano, Salustio probabilmente faceva parte di quel gruppo senatoriale pagano di cui esponenti famosi furono Vettius Agorius Pratextatus e Virius Nichomacus Flavianus. Giovanni Assorati30 si occupa di questo testo che si pone in continuità con quella tradizione che da Giamblico a Giuliano arriva a Proclo. Salustio spiega come si possa conoscere il mondo seguendo la via della Virtù e dando credito a quelle nozioni comuni insite nell’uomo sin dall’origine. Oltre ad esaltare il mito, il trattato si sofferma sulla descrizione del Kosmos, struttura della realtà in ordine al piano spirituale in costante dinamismo, governato dalla Pronoia divina. Le anime che, attraverso la virtù si sono congiunte agli dei e collaborano al governo del Kosmos o comunque sono radicate in un’etica positiva, raggiungono la felicità. La finalità antropologica si collega con le linee politiche dell’ideologia romana imperiale: è infatti attestata una sorta di corrispondenza tra le forme di governo e l’anima, entrambe tripartite e con aspetti positivi e negativi. Fondamentale è la concezione della Provvidenza.

1Si consideri, fra l’altro, la mostra che si è svolta a Roma, nei Musei Capitolini nel 2015 e il catalogo il cui titolo è emblematico: L’Età dell’Angoscia. Da Commodo a Diocleziano (180-305 d.C.), a cura di E. La Rocca, C. Parisi Persicce, A. Lo Monaco, MondoMostre, Roma 2015. L’intestazione trae spunto, si precisa nel saggio di C. Parisi Presicce, Ansia e angoscia. L’arte per l’individuo dai Severi a Diocleziano, 13-25, in partic. 14-15, dal poema che aveva tematizzato il dramma esistenziale nel periodo della Seconda guerra mondiale, The Age of Anxiety di V. H. Auden, e dal saggio storico di E.R. Dodds Pagan and Christian in an age of anxiety: some aspects of religious experience from Marcus Aurelius to Costantine, dedicato al III secolo, a sua volta in rapporto con il poema. Secondo il curatore della mostra, che nota l’esistenza di un unico termine in inglese e in tedesco e la distinzione dei concetti di “angoscia” e di “ansia” nella lingua italiana, l’angoscia, come attestava M. Heidegger, rivela il niente, è conseguenza dell’allontanarsi dell’ente, nella sua totalità, della privazione di qualsiasi sostegno. Anche E. La Rocca apre il contributo L’età dell’angoscia o, forse, dell’ambizione, 27-45, in partic. 27, considerando queste tematiche e, soffermandosi in modo specifico sui testi di V.H. Auden e di E.R. Dodds, introduce anche il termine di crisi. Nella presentazione si sottolinea generalizzando che il collasso dei sistemi di riferimento sia sociali che economici hanno sempre compromesso l’esistenza delle persone che, di conseguenza, si sono trovate ad affrontare la realtà con angoscia. Si tengano presenti altresì le attestazioni dell’uso frequente del termine “crisi” in ambito politico (“Discorso di fine d’anno” del Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano nel 2008) e le comparazione fra mondo antico e contemporaneo proposta anche nel” Discorso natalizio del 2010 alla Curia romana” di Benedetto XVI si legge “Viviamo la crisi che fu dell’Impero Romano”.

2La diversità di significato e di prospettiva sono chiari in questa citazione in cui si auspica un passaggio: «C’è la crisi economica, che ha contraddistinto l’ultimo decennio, c’è la crisi della famiglia e di modelli sociali consolidati, c’è una diffusa “crisi delle istituzioni” e la crisi dei migranti: tante crisi, che celano la paura e lo smarrimento profondo dell’uomo contemporaneo, che chiede una nuova ermeneutica per il futuro. Tuttavia, il termine “crisi” non ha una connotazione di per sé negativa. Non indica solo un brutto momento da superare. La parola crisi ha origine nel verbo greco crino (κρίνω), che significa investigare, vagliare, giudicare. Il nostro è dunque un tempo di discernimento, che ci invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è dunque un tempo di sfide e di opportunità» (“Discorso del Santo Padre Francesco ai capi di stato e di governo dell’unione europea, in occasione del 60o anniversario della firma dei Trattati di Roma” 24 marzo 2017).

3«La crisi non è congiunturale e non coinvolge certo solo il piano economico. Siamo su un crinale della storia» è la conclusione espressa da G. Vittadini dopo una disamina di interventi che affrontano in sintesi il tema della crisi in ambiti politici, economici e culturali (Introduzione a Borghesi, Magatti, Rondoni, sapelli, Simoncini, Vittadini, Alle radici della crisi Le ragioni politiche, economiche e culturali di un processo ancora reversibile, a cura di G Sapelli e G. Vittadini, BUR Rizzoli, Milano 2013, 20). G. Imbriano e S. Rodeschini in Introduzione in R. Koselleck, Crisi Per un lessico della modernità, ombre corte, Verona 2012, 7-29, in partic. 19, affermano, citando vari passi nel testo, che per Koselleck, “crisi” è diventata una “parola d’ordine”, il “tratto distintivo dell’età moderna”, un “concetto epocale”.

4Ibidem.

5R. Koselleck, Il vocabolario della modernità, Il Mulino, Bologna 2009, 47 (orig.Begriffgeschichten, Frankfurt a.M. 2006).

6Umanesimo e crisi dello sguardo nella società digitale. Alcune idee per ripensare l’icona, 393-409.

7Si veda la voce κρίνω in GLNT III, coll. 1023-1026.

8Crisi, 34.

9 Ibidem, 36-52.

10Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 2012 (3a ed.), 35 (orig. Essai sur le mystère de l’Histoire, Édition du Seuil, Paris 1953).

11In Ibidem, 33-36, J. Daniélou affronta il tema “Storia sacra e storia profana” e coglie, in riferimento specifico al cristianesimo, la relazione inerente alla presenza del cristianesimo nella storia e della storia nel cristianesimo.

12Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, (II ed.) Cantagalli, Siena 2005, 64.

13Il concetto di crisi nella cultura antica e in quella moderna e contemporanea: elementi di continuità e discontinuità in A.M. Mazzanti (a cura di), Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico, Bononia University Press, Bologna 2015, 105-111.

14Dodds revisited : Païens et chrétiens dans un âge d’angoisse, 373-391.

15Percezione della crisi nel divenire delle lingue con particolare riferimento al latino cristiano, 33-50.

16Il linguaggio della crisi fra mondo classico e cristianità dei primi secoli in A.M. Mazzanti, Crisi e rinnovamento,13-22.

17Indicativo è il rilievo attribuito al linguaggio nell’A Diogneto (V,1) come elemento di individuazione della comunanza dei cristiani con gli altri uomini insieme ai luoghi di abitazione e agli abiti. L’assunzione degli idiomi non comporta certo l’invariabilità in campo semantico e nella struttura linguistica.

18Crisi e legittimità a Roma, 77-86.

19Crisi e krisis nell’apocalittica giudaica, 51-75.

20Aux origines de la crise. Parménide d’Elée et Paul de Tarse, 87-109.

21Metafisica ed esegesi patristica come risposta alla crisi, 263-295.

22Potestas. Statuto critico e crisi della ragione nei Dialoghi di sant’Agostino, 331-352.

23Cottidie obsidemur. Vivere da cristiani in un mondo non cristiano: la proposta di Tertulliano, 169-214.

24Il nuovo senso delle parole: giudice e confessore negli Atti dei martiri, 215-240.

25Il significato della «giustizia resa ai santi dell’Altissimo» (Dn 7,22) nell’interpretazione di Giovanni e di Padri greci, 149-165.

26«Chi non è contro di noi, è per noi»: un criterio di misura provocante. Note sull’esegesi di Mc 9,38-40 e Lc 9,49-50 nella patristica greca e latina, 111-147.

27Dionysius of Alexandria in and out of his time, 241-261.

28Dio perché Padre. La rivoluzione metafisica del cristianesimo alla luce della teologia trinitaria di Basilio Magno, 297-313.

29Ne clerici cum feminis commorentur. La crisi della disciplina e la disciplina come risposta alla crisi, 353-369.

30Salustio: un senatore romano di fronte alla crisi del paganesimo nel IV secolo, 315-330