Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica
Metafisica ed esegesi patristica come risposta alla crisi
Giulio Maspero
Pontificia Università Santa Croce
1 Introduzione
Tra il V e il IV sec. a.C. il pensiero filosofico sviluppò la metafisica come risposta alla crisi causata dall’attacco alla narrazione mitologica portato dalla sofistica. La verità dell’essere era indicata come autentico criterio ermeneutico di tali narrazioni.1 Nel IV sec. d.C., l’arianesimo pose una sfida fenomenale all’esegesi cristiana, che richiese un passo ulteriore rispetto alla distinzione tra senso letterale e senso spirituale, sviluppata in analogia all’interpretazione letteraria morale pagana. Ora la determinazione del senso delle Scritture richiedeva un approfondimento propriamente ontologico della divinità della seconda Persona della Trinità. Sia al momento della nascita della metafisica sia nella risposta teologica alle obiezioni ariane, il “giudizio” era operato su una tradizione la cui interpretazione richiedeva una distinzione, realizzata mediante il ricorso a una forma specifica di logos.
Il punto è determinare quale logos è impiegato nell’operazione della krisis che permette di superare la crisi. Si proporranno tre esempi fondamentali, scelti perché, almeno da una determinata prospettiva, si può dire rappresentino tre momenti di un’unica tradizione. Infatti, dopo l’esempio dell’esegesi mitologica di Platone ci si muoverà nell’ambito cristiano presentando uno schizzo dell’esegesi biblica di Origene.
Questi è nello stesso tempo un rappresentate della tradizione platonica e un suo critico.2 Il pensiero dell’Alessandrino è estremamente rilevante sia per la sua cultura sia per il suo ruolo fondamentale nella storia dell’interpretazione scritturistica cristiana. Nell’esposizione, necessariamente essenziale, si cercherà di far emergere l’intima relazione tra esegesi e concezione ontologica ad essa sottostante, insieme alla connessione di tale relazione con la krisis stessa operata da Origene a tutto campo, dal livello filologico a quello filosofico e teologico di fronte alle critiche pagane e al confronto con la gnosi e lo stoicismo dell’epoca.
Tale connessione sarà ancora più evidente nell’ultimo esempio proposto, cioè nella presentazione dei principi ermeneutici della Scrittura di Gregorio di Nissa. Questi è profondamente debitore a Origene stesso ed è chiaramente inserito nella linea di sviluppo del platonismo cristiano. Eppure la sua elaborazione ontologica è più profondamente segnata nella sua dimensione critica dal logos teologico. Il riflesso esegetico di questo permetterà di apprezzare come la crisi ariana ha obbligato a una ulteriore krisis nella quale l’identificazione dell’Essere con la Trinità beatissima offre una nuova prospettiva che non nega, ma porta a compimento i passi della critica metafisica precedente.
2 Metafisica e mythos: Platone
A prima vista potrebbe sembrare che esegesi e metafisica siano prospettive completamente estranee l’una all’altra. La prima riguarderebbe l’ambito religioso nel quale sorge la necessità di interpretare un testo rivelato, la seconda, invece, sarebbe relativa all’indagine razionale del mondo con la forza della sola ragione.
Dal punto di vista qui proposto la domanda sulla krisis illumina questa presunta opposizione, mostrando come essa pecchi di anacronismo, in quanto proietta categorie moderne sul pensiero antico, caratteristico di un’epoca nella quale la filosofia stessa aveva la funzione di aiutare nella ricerca della salvezza, in modo tale da svolgere un compito propriamente religioso. Si tratta sostanzialmente dello stesso anacronismo che rischia di intrappolare chi vuole approssimarsi alla krisis a partire solo dalla semantica contemporanea. Invece, il riferimento etimologico di questo termine al giudizio implica un criterio del giudizio stesso, quindi la presenza di un logos che permetta di distinguere secondo verità ciò che si sta giudicando. Tale giudizio è salvifico, come dimostrano le mirabili pagine dell’Eutifrone, dove Platone presenta la metafisica come necessaria opera di purificazione della tradizione mitologica classica. Se gli dèi litigano fra di loro in modo feroce, come è possibile che siano d’accordo su ciò che è santo e quindi vero e bello? La domanda corre sul filo del momento supremo della vita di Socrate, che sta per essere giudicato colpevole proprio per questa opera di purificazione.3
Qui è fondamentale il contributo di Werner Jaeger, il quale ha mostrato come la metafisica è nata proprio come esegesi del mito. Di fronte all’attacco sofista, che, da una posizione opposta rispetto ad Eutifrone stesso, mirava a spazzare via ogni pretesa veritativa, sbarazzandosi contemporaneamente sia della forma sia del contenuto della tradizione religiosa che sosteneva la polis, Platone sviluppa la seconda navigazione, come vaglio del mythos alla ricerca della verità autentica di cui esso era gravido. Per questo la maieutica è l’arte dell’ostetrica (maia significa madre) e il compito del filosofo è quello che identifica Eros, cioè il generare nel bello.4
Il logos metafisico è, dunque, ciò che permette la krisis, che qui ha una dimensione propriamente esegetica, in modo tale che da sotto la forma contingente emergesse il contenuto veritativo eterno. Dal punto di vista del valore della storia, ciò assume una rilevanza fondamentale, in quanto la temporalità e la narrazione ad essa corrispondente vengono così relegate a un secondo piano, nella ricerca del vero. Esse sono solo involucro del reale, il quale, invece, di per sé è statico, universale ed eterno. Così nel Timeo si parla del tempo come immagine mobile dell’eterno, dove la dimensione di immagine implica sempre degenerazione.5
I miti platonici, dalla caverna a Er, dal carro alato del Fedro a Eros, hanno sempre valore solo nella misura in cui rimandano ad un oltre che il logos del filosofo deve cogliere e trasmettere, come nel passaggio dalle ombre nella caverna stessa alla realtà fuori di essa.6 Così quest’ultimo mito contemporaneamente traccia una descrizione del compito del filosofo e presenta la necessità della critica metafisica. L’essenza di tale ricerca è il superamento della dimensione meramente fenomenica, per risalire a ciò che veramente è. Quindi, la krisis platonica conduce all’identificazione dell’Essere e del Bene come archê di tutto ciò che esiste.
Da tale prospettiva l’insieme della metafisica di Platone può essere riletta a partire dalla sua interpretazione dei miti da lui narrati e reinterpretati. Il Simposio presenta Eros7 come ulteriore determinazione della possibilità stessa della filosofia in termini di metafisica graduata, sulla quale il demone che rappresenta il compimento dell’atto filosofico sa muoversi. La ricerca della sapienza richiede la compresenza di mancanza e possesso, in quanto per desiderarla bisogna conoscerla, ma nello stesso tempo non si tende se non a ciò di cui si manca. Si tratta, dunque, di una mixis di essere e non essere. La scala ontologica graduata, che troverà nel libro Lambda della Metafisica di Aristotele la sua concettualizzazione più compiuta, è già presente. Lo stesso demiurgo, che crea plasmando la materia preesistente a partire dalla sua contemplazione delle Idee,8 evidenzia la funzione fondante del Bene rispetto alla realtà e la presenza di un intermediario metafisico.
Emergono così tre tratti fondamentali della metafisica platonica:
- La struttura graduata dell’essere;
- Un fondamentale dualismo ontologico;
- La necessità di una mediazione ontologica.
Quest’ultimo tratto è quello che riconcilia la dinamica, di cui si fa carico il mediatore, con la dimensione statica del fondamento.
Nel riflesso antropologico il dualismo metafisico è ancora presente, come nel mito del carro alato del Fedro9 e nell’escatologia dell’anima proposta nel racconto di Er.10 Qui il destino ultramondano narrato dal valoroso soldato figlio di Armenio, dopo essersi risvegliato dalla morte proprio sulla pira funebre, mostra ancora la fondamentale duplicità del destino umano e il ruolo della dea Ananke, madre delle Moire. Così il passato, il presente e il futuro dell’uomo sono ricondotti alla necessità, in quanto rispettivamente Lachesi, Cloto e Atropo tessono il fuso posato sulle ginocchia della loro genitrice.
Da qui emerge il ruolo fondamentale della scelta e della memoria. L’essere, infatti, secondo Platone è a priori, è dato, e l’accesso alla verità passa attraverso il ricordo. Così anche il mito di Theuth può essere riletto nei termini indicati dalla interpretazione delle dottrine nascoste, dove memoria e dualismo giocano il ruolo fondamentale della costruzione metafisica. La scrittura stessa sarebbe, per questo, pericolosa come spiega il sovrano egizio Thamus allo scopritore della scrittura, dal quale il mito prende il nome, perché spingerebbe a ricordare dal di fuori e non dal di dentro, avvicinando all’apparenza piuttosto che alla verità, quindi all’opinione piuttosto che alla sapienza.11
Dunque la metafisica stessa può essere collegata all’esegesi mitologica operata da Platone, in quanto ricerca critica del significato profondo della narrazione che allude attraverso un’immagine o un enigma a una verità universale cui rimanda la struttura necessaria del mondo. La risposta alla domanda “Che cosa veramente è?” passa attraverso la ricerca del Bene come strato più profondo dell’essere, per far emergere da esso il significato di tale risposta per il cosmo, l’anima e ogni aspetto della vita dell’uomo, come avviene nel progetto politico di Kallipolis illustrato ne La repubblica.
3 Esegesi e spirito: Origene
3.1 Essere
Nel passaggio alla prospettiva cristiana la crisi è provocata dalla Rivelazione, la quale esige un giudizio, cioè una krisis, di carattere propriamente metafisico. La domanda “cosa è Gesù?” non poteva essere evitata, per il semplice fatto che la ragione della crocifissione era la pretesa risposta a tale domanda da parte di Gesù stesso e perché la risurrezione implicava la validazione proprio della sua pretesa di essere Dio.
La differenza radicale rispetto alla religione pagana era la dimensione storica di questa risposta: colui che diceva di essere il Primo Principio nello stesso tempo era una concreta persona storica, una esistenza individuale che in tutto aveva dimostrato di essere un uomo, cioè di appartenere a una categoria diversa nella risposta alla domanda metafisica. Eppure la sostanza Gesù non poteva essere solo un uomo, ma gli eventi che costituiscono la sua storia richiedono che lui, seppur diverso come chi dal Padre, sia in qualche modo la stessa cosa con o in Lui.
Su tale filo corre la discussione teologica dei primi secoli, nel doppio versante ontologico ed esegetico. Così in questa prima fase i Padri, come Giustino, Ireneo e Atenagora, marcano in modo radicale la differenza della narrazione scritturistica rispetto a quella mitologica.12
Diversa è la posizione di Origene, perché il suo confronto con il paganesimo sia a livello ermeneutico sia filosofico non può più limitarsi alla posizione dialettica, ma è obbligato a operare una krisis, appunto, per rispondere alle domande che il testo rivelato pone. Per approssimarsi alla posizione teologico-trinitaria del grande Alessandrino è essenziale tenere presente la questione fondamentale che egli cercava di affrontare. Infatti, tutto il suo pensiero gira attorno alla spiritualità di Dio.
L’affermazione “Dio è Spirito” in Gv 4,24 non era così semplice a livello interpretativo, in quanto pneuma nella filosofia stoica aveva una valenza inequivocabilmente materiale. Nel Commento a Giovanni l’esegesi di Origene a questo passo dimostra immediatamente la dimensione ontologica richiesta dall’interpretazione scritturistica:
Mi pare che qualcosa di simile valga anche per «Dio è Spirito». Infatti, per quanto riguarda la vita media, quella più comunemente detta vita, noi siamo vivificati dallo pneuma, quando si riversa in noi il nostro pneuma che è chiamato in senso più fisico alito di vita (cr. Gn 2,7). In questo senso ritengo si dica che Dio è pneuma, poiché ci porta alla vera vita. Infatti la Scrittura dice che lo Spirito dà la vita, mostrando che è vivificatore (cfr. 2 Cor 3,6) non nel senso della vita media, ma in quella più divina: la lettera uccide e porta morte, non nel senso della separazione dell’anima dal corpo, ma come separazione dell’anima da Dio e dal suo Signore e dallo Spirito Santo.13
Così, nella teologia trinitaria del grande Alessandrino la pura spiritualità delle tre Persone divine svolge un ruolo essenziale, nel senso che determina proprio la distinzione metafisica radicale rispetto alle creature, che sono sempre dotate di un corpo materiale, seppur sottile, come nel caso degli angeli e delle anime perfette.14 Ciò ha una funzione anche antignostica, in quanto gli pneumatici non possono essere considerati consustanziali (homousioi) a Dio, poiché Questi è l’unico ad essere eterno ed immutabile.15
Origene non dispone ancora di un armamentario ontologico simile a quello che si svilupperà nel sec. IV, proprio grazie alla sua riflessione e alla krisis operata da Atanasio e i Cappadoci sulle tensioni di cui la sua eredità era portatrice, come la crisi ariana dimostra. In assenza di una autentica risemantizzazione del concetto di physis è lo spirito a svolgere il ruolo metafisico di individuazione della dimensione propriamente divina, cioè di cosa è Dio.
Questo implica che la concezione ontologica origeniana può conservare una componente di gradualità, cui faranno poi appello in modo improprio gli ariani. Infatti, la differenza tra il Padre, il Figlio e lo Spirito non è espressa in termini personali e relativi, poiché in questa fase hypostasis e ousia sono ancora sinonimi. Così il Logos e lo Spirito sono assolutamente diversi rispetto alle creature, ma nello stesso tempo sono ontologicamente inferiori al Padre, con il quale, però, condividono la dimensione puramente spirituale. Il Padre è più al di sopra delle altre due Persone divine rispetto a quanto Queste lo siano in rapporto alle creature.16
Così il Figlio è la gloria del Padre ma non è la stessa cosa del Padre17 e riceve più gloria da Lui in confronto a quanta ne restituisce a Colui che lo genera.18 Allo stesso modo lo Spirito dipende dal Figlio nella sua partecipazione agli attributi divini.19 Ciò significa che la distinzione personale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito è espressa in termini di partecipazione ontologica.20
È evidente la tensione tra la metafisica classica di stampo platonico e la necessità di una krisis ontologica che permetta di elaborare nuove categorie o ampliare lo spettro semantico delle vecchie. Così Origene afferma una forma di partecipazione intratrinitaria, ma nello stesso tempo dichiara:
Nella Trinità non si deve parlare di più o di meno, in quanto l’unica fonte della divinità regge ogni cosa col Verbo e con la sua ragione, santifica le realtà che ne sono degne (quae digna sunt) con lo Spirito della sua bocca, come è scritto nel salmo: “dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera” (Sal 32,6).21
L’affermazione dell’assenza del più e del meno nella Trinità rappresenta una vera e propria formula metafisica che escluderebbe ogni forma di differenza accidentale tra le tre Persone divine. La tensione ermeneutica è qui evidente. Ma quello che risalta dal contributo di Origene è come l’esegesi stessa richieda un lavoro ontologico che non può essere spostato su un piano diverso rispetto alla krisis resa necessaria dalla rivelazione trinitaria.
Tale concezione ontologica si riflette necessariamente nella comprensione del rapporto tra le Persone divine e il mondo:
Infatti, ritengo che certamente l’operazione del Padre e del Figlio avvenga sia negli uomini santi che nei peccatori, negli uomini dotati di ragione e negli animali privi di favella, e perfino nelle realtà inanimate, e in tutto ciò che esiste; ma l’operazione dello Spirito Santo non può per nulla incidere nelle realtà prive di anima o in quelle che sono di natura animale, ma sono incapaci di parlare, e nemmeno essa si ritrova in coloro che, pur essendo razionali, sono dedicati alla malizia e in nulla rivolti verso le realtà più elevate.22
Da tale prospettiva la gradazione interna alla dimensione divina puramente spirituale si riflette nell’agire divino, in modo tale che alla discontinuità ontologica interna alla divinità corrisponde una differenza nel raggio di azione delle Persone della Trinità all’esterno. Ciò determina una concezione divisiva, diversa rispetto a quella fissa e necessitante di marca gnostica, ma ancora insufficiente per sciogliere la tensione tra il completo darsi di Dio all’uomo in Cristo e la pura spiritualità della vita eterna di Dio in cui consiste la salvezza.
Quindi, in sintesi, la concezione metafisica di Origene è caratterizzata da:
- la distinzione di due ordini ontologici diversi, fondata sulla pura spiritualità esclusiva di Dio, mentre l’eternità caratterizza anche le anime e gli angeli;
- la struttura graduata nella dimensione puramente spirituale costituita dalla Trinità;
- il riflesso di questo nell’individuazione del collegamento tra Dio e il mondo nel Logos inteso come mediatore e intermediario ontologico.
Da questo punto di vista, quegli ambiti che successivamente verranno chiamati economia e immanenza non risultano propriamente distinti, in quanto la gradazione partecipativa interna all’Essere divino si riflette sulla mediazione ontologica delle Persone inviate nella storia.
3.2 Scrittura
La crisi della lettura origeniana della Scrittura nasce, infatti, dal confronto con gli elementi filosofici del tempo e con la critica mossa al cristianesimo da tale prospettiva.23 Il grande Alessandrino, quindi, rinfaccia a Celso il credito da questi assegnato alle narrazioni mitologiche, ponendosi nella stessa linea dell’Eutifrone platonico.24 L’interlocutore pagano, da parte sua, non accettava la storia biblica criticandola per la sua dimensione figurativa e allegorica.25 Origene si difende attraverso la proposta metodologica di un confronto tra la Legge mosaica e i poemi di Lino, Museo, Orfeo o gli scritti di Ferecide. Il criterio della decisione in tale confronto deve essere, secondo lui, l’utilità morale del testo:
Comparando storie con storie e discorso etico con leggi e comandamenti, vedi, [o Celso,] quali sono più adatti a convertire, anche di colpo, quelli che ascoltano e quali di essi possono danneggiare l’ascoltatore.26
Quindi il punto di partenza non è la dimensione storica in quanto tale, che di per sé a volte è impossibile da provare.27 Al di là di quello che possono credere ingenuamente le persone che non hanno conoscenza, il punto essenziale della critica è la determinazione dell’intentio auctoris:
Ed abbiamo detto ciò come anticipazione all’intera storia riportata nei Vangeli riguardo a Gesù, non per incitare le persone più acute d’ingegno ad una fede ingenua ed irrazionale, ma con l’intenzione di mostrare che, per coloro che leggono, sono necessarie molta prudenza e molta ricerca e, per così dire, è necessario penetrare nella volontà di coloro che hanno scritto, per scoprire con quale intenzione ciascuna cosa è stata scritta.28
Chiaramente il valore della dimensione storica non viene messa in dubbio, in quanto i luoghi citati nelle narrazioni evangeliche sono ancora visitabili.29 Così la differenza tra la risurrezione di Cristo e i miti pagani che narrano la discesa all’Ade di certi eroi è radicale.30 Anzi, proprio il loro accostamento fa emergere la verità della prima rispetto alle favole pagane, perché il suo significato morale è assolutamente superiore.31 Nel pensiero di Origene la dimensione morale ha una profondità ontologica, proprio perché la dimensione spirituale è la cifra stessa della divinità e della sua presenza nella storia. Così, parlando dei protagonisti delle narrazioni mitologiche, egli scrive:
Poiché nella vita di quegli uomini non si riscontra nessun segno della divinità che la narrazione attribuisce loro, mentre nella vita di Gesù [si trovano] le riunioni di coloro che erano stati beneficati, le profezie pronunciate su di lui, le guarigioni realizzate nel Suo nome e la Sua conoscenza in sapienza.32
Così nel corpo della storia, cui corrisponde l’esegesi letterale del testo, traspare la potenza dello spirito divino, che rivela la teologia. La storia pagana, invece, con le diverse teogonie e le storie dei dodici dèi, si trova al di fuori del Logos divino.33 La storia autentica, ontologicamente rilevante, è invece quella che è simbolo (σύμβολον) della realtà superna, in quanto mostra che gli uomini sono anime eterne che rinviano alla dimensione intellegibile:
Gli eventi accaduti a Gesù e posti per iscritto non contengono nella mera lettera e nella narrazione tutta la comprensione della verità. Infatti si dimostra che ciascuno di essi è anche simbolo (σύμβολον) di qualcos’altro per coloro che sanno interrogare più intelligentemente la Scrittura.34
Rispetto a ciò che possono comprendere le persone più semplici, il senso più profondo va rintracciato dal vero gnostico nella dimensione simbolica, alla quale rinviano anche gli scandali e i paradossi che una lettura meramente letteralista rinviene.35
La forma storica è, dunque, reale e fondamentale, ma solo in quanto spinge oltre se stessa:
È sufficiente presentare secondo la forma storica i significati nascosti espressi in forma di storia, affinché quanti possono raggiungano da soli il significato del passaggio.36
Il vero esegeta deve spingersi nella sua lettura in tale dimensione attraverso l’interpretazione tipologica37che si fonda sulla ricerca dell’autentico scopo (σκοπός) dell’autore divino:
Dunque, mentre tali e simili verità sono state proposte dallo Spirito che illumina le anime dei santi ministri della verità, un secondo scopo, destinato a coloro che non possono sopportare lo sforzo per giungere a verità così elevate, era celare la ragione di quanto detto in espressioni che presentano una narrazione contenente la descrizione delle creature sensibili e la creazione dell’uomo e dei fatti succedutisi dai progenitori fino alla moltiplicazione degli uomini, come pure in altre storie che parlano delle azioni dei giusti e dei peccati da loro talvolta commessi.38
La storia nel suo contenuto letterale costituisce addirittura un velo che protegge quella dimensione dove solo coloro che si lasciano guidare dallo Spirito possono penetrare, al di là della apparenza corporea. Solo il discepolo più ingenuo39 si ferma alla narrazione della dimensione corporale, come avviene per Gn 3,8, dove si narra che Dio passeggiava nel giardino del Paradiso alla brezza del giorno:
Non penso che qualcuno dubiterà del fatto che ciò riveli un qualche mistero in forma allegorica (τροποκῶς) mediante una storia apparente, non avvenuta corporalmente (σωματικῶς).40
Si vede qui in azione il sostrato ontologico, per il quale l’unica dimensione autenticamente divina può essere quella spirituale, in modo tale che la corporalità ha un valore ma non in sé.41 Essa funge da velo che basta solo ai semplici, mentre il vero esegeta deve compiere una krisis, a partire dalla crisi di senso che il significato letterale stesso causa, per spostarsi al piano puramente spirituale. Si giunge, così, a quello che può essere definito il principio esegetico fondamentale di Origene:
Infatti non bisogna pensare che le realtà storiche sono figure di realtà storiche e che le realtà corporali sono figure di realtà corporali, ma le realtà corporali sono figure di realtà spirituali e le realtà storiche di realtà intellettuali.42
Come è immediatamente chiaro, la grammatica ontologica dell’Alessadrino è chiaramente in azione nella operazione critica di esegesi. La crisi di significato che la lettera presenta, richiede una forma di giudizio non solo sul testo, ma sul senso di ogni cosa e su ciò che veramente è, quindi una krisis basata su un logos che nella lettura metafisica di Origene è veramente Dio, ma nello stesso tempo è mediatore in sé, cioè per la sua stessa posizione ontologica nella scala graduata che caratterizza la dimensione puramente spirituale di Dio. La corporalità si trova ancora in una posizione dialettica rispetto a Dio, nel Quale la distinzione stessa non può essere fondata se non sulla degenerazione ontologica della struttura partecipativa. Quindi, secondo l’esegesi origeniana la prospettiva autenticamente corretta è quella della dimensione puramente intellegibile:
Occorre intendere la Sacra Scrittura in modo intellettuale e spirituale: infatti la conoscenza sensibile secondo la storia non è vera.43
Ciò induce una tensione che, come detto, esploderà nel sec. IV con la crisi ariana, tra l’identità della divinità delle tre Persone divine e l’affermazione della loro distinzione personale. Tale tensione si riflette immediatamente nella problematicità della concezione del rapporto tra Dio e il mondo, in quanto l’incarnazione con il passaggio attraverso la carne del Cristo e la dimensione propriamente corporale non è vincolante per accedere alla dimensione spirituale. In altri termini, si può dire che Origene rimane ancorato ad una concezione dell’essere come identità con l’intellegibile. Tale approccio ontologico, radicato nella tradizione platonico-aristotelica, implica, ad esempio, che l’Eucaristia è necessaria solo al popolo che non riesce a giungere a Dio attraverso l’esegesi della Scrittura.44
4 Ontologia e mystêrion: Gregorio di Nissa
4.1 Essere
Passando al sec. IV, ovviamente, la situazione teologica cambia notevolmente. Tutto il secolo è sostanzialmente una profonda disputa sull’eredità origeniana e sull’esegesi del Prologo giovanneo. Il contributo di Atanasio ha permesso di spostarsi da una grammatica teologica fondata sul ruolo di intermediazione metafisica del Logos a una “architettura” ontologia fondata sulla differenza di natura tra Dio, l’unico eterno, e le creature, tutte segnate nel loro inizio dalla temporalità. Origene si muove in un modello misto, dove la struttura a due gradini, che differenzia il Creatore dal mondo in base alla pura spiritualità del Primo, è accostata alla scala graduata partecipativa che caratterizza i rapporti tra le tre Persone divine.
Gregorio di Nissa è, invece, molto chiaro nel porre la distinzione fondamentale dell’essere tra il creato e l’increato.45 Ciò costituisce una novità assoluta rispetto alla tradizione filosofica greca, una vera novità nella concezione metafisica, pregna di profonde conseguenze.46 L’assenza di qualsiasi grado intermedio ontologico tra Dio e il mondo è affermata con radicalità assoluta:
Infatti, la ragione riconosce che non c’è nulla di intermedio (μέσον) tra di essi, in modo da ritenere che ci sia una qualche particolarità di natura nella frontiera (ἐν μεθορίῳ) tra il creato e l’increato, concepita tra (μεταξὺ) di essi, in maniera tale da partecipare di entrambi senza essere perfettamente nessuno dei due.47
Dio è totalmente trascendente ed eccedente rispetto al mondo. È interessante notare come la forma espressiva contemporaneamente richiami l’eredità platonica ma ne neghi la sostanza. La concezione graduata è assolutamente esclusa, in modo da sciogliere la tensione insita nel sistema misto di Origene fatta saltare dalla crisi ariana. Qui il Nisseno si trova obbligato, insieme agli altri Cappadoci, ad operare una krisis, nel senso della scelta di escludere uno dei due elementi compresenti nella concezione dell’Alessandrino. Ciò sarà realizzato rileggendo la distinzione immanente alla Trinità in termini puramente relazionali, giungendo in questo modo a una nuova declinazione del rapporto tra Dio e il mondo, tra lo Spirito e storia, declinazione che nello stesso tempo ha causa e riflesso immediati nell’esegesi.
Così Gregorio esclude ogni forma di partecipazione del Figlio e dello Spirito rispetto alla divinità del Padre, individuando un’immanenza nella sostanza divina:
Principio di ogni cosa è il Padre (ἀρχὴ δὲ τοῦ παντὸς ὁ πατήρ). Ma si proclama che anche il Figlio è in questo principio (ἐν τῇ ἀρχῇ ταύτῃ) poiché Egli è per natura (κατὰ τὴν φύσιν) ciò che è il principio. Infatti, Dio è il principio (θεὸς γὰρ ἡ ἀρχη) e il Verbo che è nel principio è Dio (ὁ ἐν τῇ ἀρχῇ ὢν λόγος θεός ἐστιν).48
Tale dimensione immanente si trova su un nuovo piano ontologico dove l’essere in non indica più l’aspetto accidentale, ma quello propriamente relazionale, che è ora sorprendentemente riconosciuto a livello dell’unica natura eterna e increata, che è la Trinità stessa. Non si ha, dunque, più spazio per una doppia articolazione metafisica, ma tra Dio e il mondo si ha un abisso ontologico assoluto, che obbliga a porre le tre Persone divine perfettamente sullo stesso piano dell’Essere:
Infatti, come il Figlio è congiunto con il Padre e, pur avendo da Lui l’essere, non gli è inferiore secondo la sostanza, così a sua volta anche lo Spirito Santo è unito all’Unigenito, che è considerato prima dell’ipostasi dello Spirito solo dal punto di vista del principio della causa: non c’è spazio per le estensioni temporali nella vita eterna. Cosicché, escluso il principio della causa, la Santa Trinità non è in nulla discorde (ἀσυμφώνως) da sé stessa.49
Tale assoluta unità del Padre, del Figlio e dello Spirito si traduce nella loro identificazione con gli attributi divini. E tale identificazione è spiegata proprio in termini di abitazione dell’immanenza. Così, parlando della seconda Persona, Gregorio scrive:
essendo nel Padre, Egli non è in Lui per un solo aspetto, ma tutto ciò che il Padre è riconosciuto essere, quello stesso per ogni aspetto è in Lui il Figlio. Così Questi è incorruttibile perché è nell’incorruttibilità del Padre, buono perché è nella Sua Bontà, potente perché è nella Sua potenza, e poiché Egli è tutti quegli attributi che si predicano del Padre secondo il meglio, egli è anche eterno nella Sua eternità.50
Allo stesso modo la gloria che le Persone divine si scambiano non subisce una diminuzione ontologica procedendo nell’ordine trinitario, ma Ciascuna riceve e restituisce alle Altre l’infinita e assoluta gloria che costituisce il loro Essere:
Vedi la circolazione della gloria attraverso i medesimi movimenti ciclici? Il Figlio è glorificato dallo Spirito; il Padre è glorificato dal (ὑπό) Figlio. E reciprocamente, il Figlio ha la gloria dal (παρά) Padre e l’Unigenito diventa gloria dello Spirito. Infatti, in che cosa sarà glorificato il Padre, se non nella vera gloria dell’Unigenito? Ed a sua volta, in che cosa sarà glorificato il Figlio, se non nella grandezza dello Spirito? Così anche il pensiero (ὁ λόγος), inserendosi in questo movimento circolare, rende gloria al Figlio attraverso (διά) lo Spirito e al Padre attraverso (διά) il Figlio51.
La differenza rispetto a Origene è qui molto netta, in quanto la distinzione tra le Persone non è più data in termini di partecipazione, pur nella perfetta e assoluta identità della dimensione spirituale, ma è fondata nelle differenti relazioni che caratterizzano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. E il logos umano, applicandosi alla rivelazione e alla storia della salvezza, può percorrere tali relazioni, portando a compimento l’atto teologico nella sua dimensione latreutica.
Il salto rispetto alla teologia alessandrina, chiaramente, implica una novità ontologica che si traduce nell’affermazione netta dell’apofatismo:
Nonostante le caratteristiche proprie di ciascuna persona, grazie alle quali si riconosce la distinzione delle ipostasi, per quanto riguarda invece l’immensità, l’ineffabilità, etc., non c’è diversità alcuna nella natura vivificante, cioè nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo (…) In loro si dà un mistero ineffabile di comunione e di distinzione. La differenza delle ipostasi non rompe la comunione di natura, e la comunione di ousia non confonde le caratteristiche personali.52
L’ineffabile unione è fondata contemporaneamente sull’identità sostanziale e sulle relazioni immanenti che determinano la differenza delle caratteristiche di ciascuna Persona divina. Queste vengono contate tra i relativi:
Questo Logos è distinto da Colui del quale è Logos: in certo modo anch’esso appartiene all’ambito della relazione (τῶν πρός τι λεγομένων), poiché è assolutamente necessario intendere con il Logos anche il Padre del Logos: non sarebbe infatti Logos, se non fosse Logos di qualcuno.53
La krisis qui si fonda non più sul Logos mediatore metafisico che caratterizzava il pensiero di Origene, ma su un nuovo Logos-relazione, che abita l’immanenza dell’Assoluto. In questo modo, all’interno dell’unico ordine ontologico eterno che è la natura divina, si può riconoscere una distinzione fondata nei rapporti di origine e nelle “posizioni” reciproche delle Persone nella “dinamica” intratrinitaria. Così la lettura relazionale si estende anche alla terza Persona:
Se poi si accuserà falsamente il ragionamento di presentare una qualche mescolanza (μίξις) delle ipostasi ed uno stravolgimento per il fatto di non accettare la differenza secondo natura, risponderemo a tale accusa che, affermando l’assenza di diversità della natura, non neghiamo la differenza secondo ciò che causa e ciò che è causato. E possiamo concepire che l’uno si distingue dall’altro unicamente perché crediamo che l’uno è ciò che causa e l’altro ciò che deriva dalla causa. Ed in ciò che è originato da una causa concepiamo ancora un’altra differenza: una cosa, infatti, è l’essere immediatamente (προσεχῶς) dal primo, un’altra l’essere mediante (διά) ciò che è immediatamente dal primo. Così che l’essere Unigenito permane incontestabilmente nel Figlio e non si dubita che lo Spirito è dal Padre, perché la mediazione (μεσιτείας) del Figlio mantiene in Lui l’essere Unigenito e non esclude lo Spirito dalla relazione (σχέσεως) naturale con il Padre.54
Quindi, il Nisseno riconosce due ordini ontologici assolutamente distinti, cioè la creazione e la Trinità. Questa ha un’immanenza, dove la perfetta identità di natura, intesa in senso numerico, si dà propria nella mutua correlazione relazionale delle Persone, la quali si distinguono proprio per i diversi rapporti di origine. In termini sintetici si potrebbe dire che Gregorio compie un’operazione ontologica che equivale a porre le proposizioni all’essere o ad avverbializzarlo:
E lo Spirito Santo, che nella natura increata è in comunione (κοινωνίαν) con il Padre ed il Figlio, se ne distingue però a sua volta per le sue note proprie. Nota e segno suo più proprio è il non essere nulla di quanto la ragione contempla propriamente nel Padre e nel Figlio: la sua proprietà distintiva rispetto alle precedenti non consiste nell’essere in modo non generato (ἀγεννήτως), né in modo unigenito (μονογεν ως), ma nell’essere in modo da costituire un tutto (εἶναι δὲ ὅλως).55
I tre avverbi finali esprimono il modo di sussistere in divinis nella distinzione data dalle processioni e dalle conseguenti “posizioni” relazionali che da esse emergono. In particolare, se il Padre è Dio in modo assolutamente ingenito e il Figlio è Dio in modo unico perché, appunto, procede come Unigenito, lo Spirito Santo è la Persona come unisce le prime due, come gloria e potestà regale che Esse eternamente e perfettamente si scambiano,56 ed è, per questo, Colui che unisce in Sé la Trinità stessa e la porta a perfezione come un tutto.
Tale coincidenza di unità e distinzione si riflette nell’azione divina e, quindi, riverbera nella storia della salvezza e nella creazione stessa. Le Persone non sono divise nell’agire, né si muovono in ambiti diversi, come Origene lascia intendere,57 ma l’unità d’azione delle tre Persone divine è chiaramente affermata insieme alla distinzione relazionale che esse imprimono in tale unità energetica:
Dunque, conformemente a quanto detto, la Santa Trinità non compie ogni attività separatamente secondo il numero delle Ipostasi, ma si genera un unico movimento ed una unica comunicazione del buon volere, che dal (ἐκ) Padre attraverso (διά) il Figlio si dirigono allo (πρός) Spirito. Perciò non diciamo tre Esseri vivificanti Coloro che attuano l’unica Vita (ζωήν), né tre Esseri buoni Coloro che contempliamo nella medesima Bontà, né nominiamo al plurale tutti gli altri attributi. Allo stesso modo non possiamo nemmeno chiamare tre Coloro che attuano unitamente ed inseparabilmente, con azione reciproca, questa potenza e attività divina o di supervisione, sia in noi che in tutta la creazione.58
La relazioni di origine e i rapporti stessi del Padre, del Figlio e dello Spirito si riflettono nella dinamica relazionale che l’eterno imprime nel tempo quando essi si toccano. Questo è proprio il punto dove il contatto tra ontologia ed esegesi emerge prepotentemente.
Così, la prospettiva di Gregorio di Nissa comprende:
- due ordini ontologici assolutamente distinti: la Trinità, sola eterna, e la creazione;
- una dimensione immanente alla Trinità stessa segnata dalla distinzione relazionale;
- la conseguente ricomprensione del rapporto tra Dio e il mondo, in termini relazionali, a partire dalla traccia personale nell’economia.
In questo modo tutta la storia, anche nella sua dimensione materiale, è toccata dalla salvezza. Di più, essa è l’unica via d’accesso alla salvezza, in quanto il Cristo è l’unica via alla Trinità, perfino per gli angeli.59
4.2 Scrittura
La krisis sull’ontologia era dettata immediatamente dall’esegesi e a sua volta alimentava l’esegesi stessa.60 Infatti, la distinzione tra economia e immanenza ha in primo luogo un’origine scritturistica. Uno degli elementi più fondamentali del filo teologico che collega Basilio a Gregorio è proprio questo. Ad esempio, nell’interpretazione di At 2,36, il Nisseno ripercorre il cammino tracciato dal fratello,61 dicendo:
Chiunque presti anche solo un po’ di attenzione al senso del testo apostolico può riconoscere che questo non ci tramanda una forma della teologia, ma propone le ragioni dell’economia. Infatti dice che “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36), appoggiandosi chiaramente al pronome dimostrativo per indicare il suo essere uomo e visibile a tutti.62
L’argomentazione è centrale63 perché mostra la chiara distinzione tra la natura umana e quella divina del Cristo. Alcune azioni da Lui compiute sono proprie di un uomo, altre esclusive di Dio, in modo tale da porre il pensiero in una crisi che richiede una krisis nel senso di distinzione operata dal logos qui proprio sulla natura del Logos stesso. Quindi, la questione esegetica in gioco è essenzialmente un giudizio ontologico.
La separazione greca tra storia e metafisica è radicalmente riletta alla luce della Rivelazione. Per questo il Nisseno ripresenta i sei giorni della creazione come un vero e proprio albero di Porfirio, dove le suddivisioni operate dal logos corrispondono a concreti momenti storici. Così la sequenza storica della narrazione – cioè l’akolouthia – assume un valore ontologico. Infatti, nell’ambito delle nature corporee alcune sono prive di vita e altre sono dotate di essa. Tra queste ultime alcune sono prive di capacità sensoriale, altre sono caratterizzate da essa. Queste ultime si distinguono ulteriormente in razionali e irrazionali. In tal modo la successione narrativa, che riporta prima la creazione degli esseri inanimati quali il sole e le stelle, per poi introdurre la vita vegetale e solo infine l’uomo, esprime una gerarchia ontologica.64
Il riferimento ai sei giorni della creazione è estremamente significativo perché proprio nell’Hexaemeron Gregorio difende l’opera del fratello accusato di letteralismo. Ed Eunomio, l’avversario principale nella disputa teologica, ha infatti una posizione letteralista.65 Così il Nisseno richiama la sua esegesi al principio paolino:
è possibile cambiare il tono della voce secondo il nobile esempio dell’Apostolo (cfr. Gal 4,20) e comprendere allegoricamente il senso della storia, anche se chiaramente rimane valida la verità storica.66
Gregorio si riferisce qui a Gal 4,20, passo fondamentale per la comprensione della sua concezione esegetica. Lí “Paolo annuncia che cambierà la propria voce quando si accinge a trasporre la storia in interpretazione figurativa”67 È questa la fonte dell’esegesi nissena, che non si lascia facilmente classificare all’interno dello schema antiocheni-alessandrini.
Per il Nisseno gli eventi sono reali, ma di essi va compreso il senso profondo: “i fatti stessi hanno un di dentro; essi sono già, nel tempo, carichi di eternità”.68 Egli è equidistante sia dall’eccesso allegorizzante, che svilisce e strumentalizza la realtà storica, sia dal letteralismo pedissequo, che non sa scorgere lo spirito al di là della lettera. Per questo Gregorio dice ad Eunomio: “quando sento parlare della croce, penso alla croce”,69 ben conscio del fatto che in Cristo senso letterale e senso spirituale coincidono.
Così il principio ermeneutico fondamentale di tutta l’esegesi nissena è l’amore di Dio per gli uomini, vera ragione dell’essere:
La Scrittura ispirata da Dio, come la chiama il divino Apostolo (2 Tm 3,16), è scrittura dello Spirito Santo e la sua intenzione è l’utilità degli uomini.70
Lo scopo dell’Autore è ammaestrare, correggere ed educare gli uomini, in modo tale che il velo di cui parlava Origene, e che già era alla base della ricerca metafisica platonica, permane:
Eppure tale guadagno non è immediatamente comprensibile ai lettori, ma l’intenzione divina è nascosta come da un velo dal corpo della Scrittura, poiché una legge o una narrazione storica sono state poste davanti a quanto si considera con la mente.71
Il principio paolino “la lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6) implica la necessità di approfondire l’interpretazione più immediata, attraverso un vero e proprio cambiamento di sguardo, una liberazione che permette di cogliere la gloria contenuta nello scritto, spogliato della maschera che ne impediva la visione.72
La preoccupazione di Gregorio prima che morale è ontologica, nel senso che l’intima connessione ontologica fra Bene ed Essere lo porta a scorgere, dietro la lettera del testo, una realtà profondamente teologica, in senso greco:
E l’Apostolo dice che ciò che si trova mediante una considerazione più elevata è il Signore, cioè lo Spirito. Infatti dice che, quando ci si converte al Signore, viene tolto il velo: il Signore è lo Spirito (cfr. 2 Cor 3,13-14). E dice ciò contrapponendo la signoria dello Spirito alla schiavitù della lettera. Infatti, come contrappone ciò che dà la vita a ciò che dà la morte, così oppone il Signore alla schiavitù.73
Per il Nisseno, il processo esegetico è in primo luogo un atto propriamente teologico in quanto si tratta di andare oltre la superficie del testo per attingere la profondità ontologica. Infatti, la realtà nascosta che aspetta ogni cristiano al di là dell’apparenza letterale è Dio stesso, cioè lo Spirito di Cristo:
Se viene rimosso il velo corporeo della parola, quello che rimane è Signore e Vita e Spirito, sia secondo il grande Paolo che secondo il detto evangelico.74
Dietro la lettera è la Divinità stessa che attende l’uomo e ciò si rivela nel momento in cui si osserva l’insieme della narrazione sacra, cioè quando ci si rivolge ad essa tenendo conto delle relazioni che ne costituiscono la trama più profonda la quale attraversa e unisce i secoli. In Cristo, infatti, tutta la Sacra Scrittura ha avuto il suo compimento, come dice mirabilmente Gregorio, in un brano nel quale riprende la tradizionale suddivisione dell’Antico Testamento:
Infatti, anche se sono molti e diversi i nomi con i quali la Divinità viene indicata nei libri Storici, nei Profeti e nella Legge, Cristo Signore li ha tralasciati tutti e ci propone piuttosto queste parole come più capaci di condurci alla fede riguardo Colui che è, rivelando che è sufficiente per noi attenersi all’appellativo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per conoscere Colui che veramente è, che è uno e non è uno.75
Si tratta di un brano di particolare bellezza, in quanto evidenzia che la pienezza della rivelazione trinitaria in Cristo è il culmine e il senso di tutta la Rivelazione. Così la fonte ispiratrice dell’esegesi nissena è proprio il fine – σκοπός – di Dio che si rivela nel tempo come archê Uno e Trino. E tale principio ontologico è attingibile non con il solo intelletto, secondo quanto affermava la tradizione platonica anche cristiana, come visto in Origene. Ma l’intelletto che interpreta è chiamato a fondare il ragionamento sulla trasformazione ontologica che è al cuore della vita cristiana:
Infatti abbiamo appreso dal Signore una volta per tutte ciò a cui è necessario che miriamo con la mente, mediante il quale avviene la trasformazione della nostra natura dalla mortalità all’immortalità: cioè il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.76
Nella prospettiva platonica la divinizzazione, l’ὁμοίωσις θεῷ, era ottenuta mediante l’anamnesi, in quanto data in parte a principio e riconquistata attraverso un processo dialettico sul piano puramente gnoseologico. Nella prospettiva di Gregorio, invece, la distanza tra Dio e l’uomo è infinita, in modo tale che solo il dono autentico di sé compiuto da Dio può portare a superare l’abisso ontologico infinito che separa il Creatore dalla creatura. In questo modo la divinizzazione non è il termine dell’atto teologico e, quindi, del processo esegetico, ma piuttosto ne è l’inizio, in quanto la mente non può conquistare la familiarità con Dio, ma può riconoscere il dono.
Leggere nella Scrittura che a Osea nacque un figlio da una prostituta (cfr. Os 1,2), o che Isaia si unì alla profetessa (cfr. Is 8,3), oppure conoscere l’esempio di Davide (2 Sam 11,1-7), non avvicina di per sé a Dio.77 Invece proprio nella narrazione sacra si rinviene la traccia dell’azione trinitaria nel mondo, in modo tale che attraverso di essa si può giungere a riconoscere la presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita e nella storia. È questo il contenuto del mysterion, che ha anche una dimensione essenzialmente sacramentale:
Infatti [lo Spirito] traspone il concetto che appare assurdo e sbagliato in significati più divini. E sappiamo che anche il Verbo stesso, che riceve l’adorazione di ogni creatura, quando, in forma e figura d’uomo, trasmetteva attraverso la carne i divini misteri, ci rivelava i significati della Legge. Così diceva che i due uomini la cui testimonianza è vera (cfr Gv 5,31-37) sono Lui e il Padre, ed interpretava il serpente di bronzo levato in alto (cfr. Gv 3,14), che era per il popolo rimedio contro i morsi letali, nel senso dell’economia realizzata per noi mediante la croce.78
La vita di Cristo ha una profondità ontologica infinita, proprio perché la sua natura umana è inscindibilmente unita a quella divina. Ciò implica che la sua stessa vita terrena è costituita da misteri che sono l’unica via per avere accesso al Mistero costituito dalla Vita infinita ed eterna della Trinità stessa. I sacramenti e la Scrittura sono così inseparabili perché mettono ontologicamente in rapporto alla vita stessa del Cristo. La fonte dell’esegesi, allora, non è semplicemente la dottrina di Paolo, ma l’esempio del Verbo incarnato, la Sua lettura della storia e dell’uomo, addirittura l’ontologia da Lui proposta ai suoi ascoltatori. L’incomprensione di cui Egli soffrì durante la sua predicazione fu dovuta, tra l’altro, proprio al differente modo in cui Egli leggeva l’Antico Testamento e alla scandalosa risposta da Lui data alla domanda su chi e cosa Lui è. In termini moderni si può dire che, in un certo senso, la sua croce fu frutto della sua esegesi.
Il fenomeno si presentava anche nella cerchia degli apostoli, che intendevano troppo letteralmente le sue parole. Basti pensare, come esempio, al lievito dei farisei (Mt 16,6-7; Mc 8,15-16) o all’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).
L’esegesi di Gregorio vuol, dunque, essere prolungamento dell’esegesi di Cristo. È, in questo senso, esegesi eminentemente cristologica, come dimostra il brano appena citato, ed esegesi ontologico-trinitaria, nel senso che riconosce nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo il fondo stesso dell’essere e, quindi, la chiave di comprensione della storia e di tutto ciò che esiste.
Ciò nasce proprio dalla necessità di distinguere le due nature del Cristo, quindi dalla krisis che riconosce la differenza tra economia e immanenza:
Tu vedi come Colui che sostiene ogni cosa con la parola della Sua potenza porta Egli stesso il peso delle nostre croci ed è innalzato dalla croce, Lui che porta come Dio ed è portato come agnello. E così lo Spirito Santo distribuisce tipologicamente il grande mistero all’uno ed all’altro: al Figlio diletto e all’agnello presentato come esempio, così da manifestare nell’agnello il mistero della morte e nell’Unigenito la Vita non spezzata dalla morte.79
Il Figlio e l’Agnello rappresentano le due nature dell’unica Persona del Cristo, indicate tipologicamente dallo Spirito. È qui chiara la tecnica esegetica di Gregorio che legge la narrazione biblica alla luce della connessione tra economia ed immanenza trinitaria, rivelata nell’unione ipostatica. Il mistero narrato è manifestamente ontologico, in quanto l’evento realizzato è l’unione del Divino e dell’umano.
E in tale unione la dimensione storica è assolutamente preservata e vincolante per l’interpretazione, così come le due nature devono essere riconosciute contemporaneamente:
E perciò nessuno, interpretando erroneamente la narrazione evangelica, pensi che nel Cristo la nostra natura mutasse e divenisse a poco a poco più divina, secondo un processo di crescita successiva. Infatti l’espressione “crescere in sapienza, età e grazia” (Lc 2,52) viene riferita dalla Scrittura a prova del fatto che veramente il Signore è nato nell’impasto della nostra argilla, per non lasciare alcuno spazio a quelli che insegnano che, invece dell’autentica manifestazione divina, sia stata generata una falsa visione rivestita di una forma corporale. Per questo la Scrittura riferisce di Lui senza vergognarsene tutto quello che è proprio della nostra natura: il mangiare, il bere, il dormire, lo stancarsi, l’essere allevato, la crescita dell’età fisica, tutto quanto caratterizza la nostra natura, tranne la tendenza al peccato.80
Cristologia e ontologia sono qui unite mostrando come l’esegesi nissena non miri al superamento ma piuttosto al compimento della storia: le realtà nascoste nella storia sono gli eventi del Nuovo Testamento e il loro prolungamento temporale nei sacramenti e nella Chiesa. Il senso spirituale è, così, sempre intrastorico, in quanto la salvezza divina è entrata nella storia facendosi storia ed abitando in essa. Il senso spirituale è, allora, in continuità con la concezione origeniana, ma essenzialmente diverso da essa. Si tratta, infatti, nel caso di Gregorio, di un senso spirituale profondamente corporale, in quanto il Divino si è fatto Uomo, in anima e corpo.
Per l’Alessandrino l’interpretazione è essenzialmente verticale, nel senso che si tratta di superare e abbandonare il velo corporeo per raggiungere quella dimensione spirituale che è autentico dono, ma che di per sé non rimane in rapporto autentico e perenne con la materia e la storia. Gli eventi concreti hanno valore solo in quanto rinviano ad un oltre spirituale. Gregorio, invece, riconosce un valore in sé ai diversi momenti della vita terrena, tanto che alla dimensione verticale si affianca una prospettiva orizzontale sia in Dio sia nell’uomo, in quanto le relazioni trinitarie sono il senso ultimo delle relazioni intrastoriche che il Cristo nella sua infinita profondità ontologica unisce tra loro.
Ad esempio, secondo l’esegesi nissena dell’Esodo, è possibile individuare senza sforzo una corrispondenza tra la sequenza storica (τὴν τῆς ἱστορίας ἀκολουθίαν) ed il senso spirituale (τῇ κατ΄ ἀναγωγὴν θεωρίᾳ),81 che sfocia naturalmente nell’interpretazione sacramentale, come nel caso della manna:
Certamente comprendi, mediante la realtà simbolica presentata dalla storia, qual é questo vero cibo, poiché il pane disceso dal Cielo non è qualcosa di incorporeo.82
Il testo è seguito dalla commovente interpretazione mariologica della manna, cibo non prodotto da mani d’uomo e dato dal Cielo all’uomo stesso, perché si possa nutrire nel suo peregrinare nel deserto, così come la purissima Vergine generò il Verbo divino fattosi carne. L’interpretazione spirituale della manna consiste, dunque, nella generazione virginale del Figlio di Dio, manifestatosi all’uomo in un autentico corpo, che ha avuto origine dallo stesso corpo di Maria. In questo modo:
Tutte le meraviglie che la narrazione storica riferisce riguardo a quel nutrimento sono insegnamenti per la vita virtuosa.83
Il fine morale che caratterizzava l’esegesi di Origene è ancora presente, ma dalla prospettiva nissena gli eventi storici puntano verso altri eventi storici, i quali sono nello stesso tempo spirituali e corporali, come Cristo è perfetto uomo e perfetto Dio. Così non c’è una possibilità di accedere direttamente a Dio, e quindi alla pienezza dell’essere, senza passare attraverso la storia. L’economia è la via all’immanenza, in modo tale che la conoscenza della Trinità e la salvezza dell’uomo passano necessariamente attraverso la storia e il corpo di Cristo:
Eccoti il sabato benedetto della prima creazione del mondo, riconosci per mezzo di quel sabato che questo sabato è il giorno del riposo, che Dio benedisse più di tutti gli altri giorni. Infatti in questo giorno veramente riposò da ogni Sua opera l’Unigenito che è Dio, celebrando il sabato nella propria carne, mediante l’economia secondo la sua morte, e tornando nuovamente, in forza della resurrezione, ad essere ciò che era, risollevò con sé stesso tutto quanto giaceva morto, divenendo vita e resurrezione e alba, aurora e giorno per coloro che erano nella tenebra e nell’ombra di morte. Anche la storia[sacra]è piena per te della benedizione corrispondente: il padre di Isacco non risparmia quel suo figlio diletto e l’Unigenito diventa offerta e sacrificio e l’agnello sacrificato al suo posto. È infatti possibile vedere nella storia [sacra] l’intero mistero della pietà.84
L’ultima frase del testo citato può essere considerata il canone dell’esegesi nissena, in quanto la profondità ontologica del mistero, che nel Cristo unisce l’uomo al Dio uno e trino, è accessibile attraverso la storia, cioè attraverso la vita terrena di Cristo e quella della Sua famiglia e del Suo popolo. Così perfino gli elementi mitici non sono letti in prospettiva dialettica, ma la Scrittura può ricorrere ad essi mettendoli a servizio dello scopo della narrazione,85 come avviene per il corno di Amaltea relativo ad una delle figlie di Giobbe secondo la versione dei LXX di Gb 42,14.
La radicalità della concezione nissena si rivela chiaramente nell’interpretazione del talamo ombreggiato di cui si parla in Ct 1,16. L’espressione viene letta come riferimento all’incarnazione senza la quale non sarebbe stata possibile l’unione con la natura di Dio pura e inaccessibile. La positività della dimensione storica e materiale è evidenziata radicalmente dall’affermazione che solo attraverso di essa è possibile l’accesso all’Altissimo e quindi alla pienezza della vita. Così il velo, paradossalmente, rivela:
Quindi continua: “presso il nostro letto ombreggiato” (Ct 1,16). Cioè: la natura umana ti ha conosciuto [Signore] o certamente ti conoscerà in quanto divenuto ombreggiato nell’economia. Per questo il testo dice: “sei venuto mio diletto, grazioso e sei divenuto ombreggiato presso il nostro letto”. Se infatti non ti fossi ricoperto d’ombra, velando da te stesso il puro raggio della Divinità con la forma del servo, chi avrebbe potuto sostenere la tua apparizione? Poiché nessuno vedrà il volto del Signore e continuerà a vivere (cfr. Es 33,20).86
Per coloro che vivono nelle tenebre non sarebbe stato possibile guardare il sole accecante se il velo del corpo non si fosse interposto, in modo tale che il corpo e la storia sono riletti in senso relazionale alla luce della risemantizzazione della relazione, categoria che è al cuore dell’ontologia nissena.87
Ronald Heine rinviene una ragione ontologica alla base della differenza sostanziale dell’allegoria nissena rispetto a quella di Origene,88 ma il riferimento a Giamblico pare non sufficiente per dare ragione della positività della dimensione storico-materiale e della connessione dell’esegesi stessa con l’architettura teologica di Gregorio.
5 Conclusione
Ripercorrendo i tre esempi proposti, si può notare come in Platone la separazione tra la forma mitologica contingente e il contenuto veritativo assoluto era operata dal logos ut ratio, cioè da un pensiero fondato sulla causalità necessaria. L’esegesi trinitaria cristiana si appoggia, invece, su una ulteriore dimensione del logos, che può essere definita logos ut relatio, in quanto attinge la dimensione dell’essere segnata dalla relazione e dalla libertà. Ciò permette il discernimento tra un’interpretazione che individui il senso della Scrittura a un livello propriamente teologico-trinitario e una che, invece, rimanga sottomessa a una metafisica che non riesce a distinguere pienamente il mondo e Dio. Tale passaggio permise di rinvenire una nuova concezione della storia che rese possibile rileggere il chiaroscuro che da sempre la caratterizza in termini drammatici, ma non più tragici. La verità, in questo caso, viene da dentro la storia e non solo da fuori di essa, in modo tale che l’universale e il concreto non si oppongono più dialetticamente. Così il messaggio salvifico portato dall’incarnazione cambia il senso della storia, che ora può essere riconosciuta come sorgente di autentica novità, come luogo dell’incontro personale con l’Essere in sé, il Quale non solo si rende presente nelle storia, ma si fa storia stessa. Per questo il riconoscimento della storia come criterio di giudizio non precede, ma segue l’incontro con la salvezza. La crisi, intesa come giudizio, qui non dipende solo dal riferimento ad una dimensione astratta e universale, ma essa si realizza piuttosto come dialogo con la Verità stessa che si è fatta carne. La possibilità di esprimere e comunicare la novità rivelata, operazioni richieste dal suo contenuto stesso, si deve, quindi, confrontare con un paradosso formidabile: proprio perché la rivelazione viene da un oltre rispetto alla storia e alla creazione, non esistono parole che possano esprimerla compiutamente, ma nello stesso tempo solo le parole già note possono essere comprese dai destinatari del messaggio. Questo implicò una crisi nel duplice senso di incapacità di affrontare il paradosso e come giudizio che permise di accostare fra loro i termini antichi perché da essi emergesse un significato nuovo. Il contenuto del messaggio è di per sé relazionale, per cui è congruente che la sua espressione si possa dare solo come fenomeno emergente di una relazione nuova che può essere espressa anche dall’unione di termini antichi. Così lo Spirito Santo è una formula composta da termini già noti, che acquistano però un significato unico, nuovo e specifico, nel loro accostamento. E a livello più generale, il riferimento teologico dell’epoca patristica a forme filosofiche diverse non è un mero artificio eclettico, ma è lavoro critico di ricerca dei riferimenti concettuali che nel loro rapporto possano essere in grado di lasciar emergere un nuovo significato in riferimento alla rivelazione trinitaria. E tale significato è dato proprio dalla relazione che l’operazione critica cerca il modo di far emergere. L’esegesi patristica manifesta da tale prospettiva una portata universale, pur occupandosi di una storia concreta e particolare. Alla crisi sperimentata e compiuta dall’operazione metafisica corrisponde, così, una crisi sperimentata e compiuta dallo sviluppo di una nuova ontologia fondata sulla rivelazione trinitaria, che legge contemporaneamente il testo sacro e il mondo alla luce della relazione eterna tra il Padre e il Figlio, Logos che si è fatto carne nascendo nella storia e unendosi per sempre ad essa.
1Cfr. W. Jaeger, Humanismus Und Theologie, F.H. Kerle, Heidelberg 1960. Si veda anche A. Valvo (a cura di), Werner Jaeger. Cristianesimo primitivo e paideia greca, Bompiani, Milano 2013.
2M.J. Edwards, Origen Against Plato, Ashgate, Aldershot 2002.
3Cfr. Platone, Euthyphron, 6.d-7.e.
4Cfr. Idem, Symposium, 206.e; 208.ab.
5Cfr. Idem, Timaeus, 37.d.
6Cfr. Idem, Res publica, 514.b-520.a.
7Cfr. Idem, Symposium, 203.b-206.a.
8Idem, Timaeus, 28.c.
9Idem, Phaedrus, 246.ab.
10Idem, Res publica, X, 614.b e seguenti.
11Cfr. Idem, Phaedrus, 274.c-275.b.
12Ad esempio, si veda Giustino, Apologia prima, 21, 4, 1-2 e 22, 4, 1-2: Th. Eques de Otto, Wiesbaden 1969-1971, 66 e 70. Nel dialogo con Trifone le somiglianza con i miti sono ricondotte all’intervento demoniaco: Idem, Dialogus cum Tryphone 69, 2, 8; 246-248.
13Origene, Commentarii in evangelium Joannis, XIII, 21, 140, 1-12: SCh 222, 106.
14Cfr. Idem, Commentarii in evangelium Joannis, II, 23, 144, 6-7 (SCh 120, 302) e II, 23, 146, 6-7 (SCh 120, 304). Il tema è chiaramente filoniano: cfr. Filone, De Gigantibus 16.
15Cfr. Idem, Commentarii in evangelium Joannis, XIII, 25, 148-150: SCh 222, 110-112.
16Ibidem, XIII, 25, 151, 6-153, 8: SCh 222, 114.
17Si veda C. Blanc, Jésus est fils de Dieu: L’interprétation d’Origène, «Bulletin de littérature ecclésiastique» 84 (1983) 5-18.
18Cfr. Origene, Commentarii in evangelium Joannis, XXXII, 29, 364: SCh 385, 344.
19Cfr. ibidem,II, 10, 76, 2-7: SCh 120, 256.
20Cfr. D.L. Balás, The Idea of Participation in the Structure of Origen’s Thought. Christian Transposition of a Theme of the Platonic Tradition, in Origeniana I, 257-275, qui 263.
21Origene, De principiis,I, 3, 8; Koetschau, GCS 22, 60.
22«Arbitror igitur operationem quidem esse patris et filii tam in sanctis quam in peccatoribus, in hominibus rationabilibus et in mutis animalibus, sed et in his, quae sine anima sunt, et in omnibus omnino quae sunt; operationem vero spiritus sancti nequaquam prorsus incidere vel in ea, quae sine anima sunt, vel in ea, quae animantia quidem sed muta sunt, sed ne in illis quidem inveniri, qui rationabiles quidem sunt sed ’in malitia positi’ nec omnino ad meliora conversi.» (Ibidem, I, 3, 5; Koetschau, GCS 22, 56)
23Sull’esegesi di Origene, si vedano M. Simonetti, Lettera E/O Allegoria: Un Contributo Alla Storia Dell’esegesi Patristica, Studia Ephemeridis Augustinianum 23, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 1985; H. Vogt, Origenes Als Exeget,F. Schöningh, Paderborn 1999; K.J. Torjesen, Hermeneutical Procedure and Theological Structure in Origen’s Exegesis, Patristische Texte Und Studien 28, W. de Gruyter, Berlin; New York 1986; A. Monaci Castagno, Origene predicatore e il suo pubblico, F. Angeli, Milano 1987.
24Cfr. Origene, Contra Celsum,I, 14, 7-9; SCh 132, 114.
25Cfr. ibidem, I, 17, 3-5; SCh 132, 120.
26Ibidem, I, 18, 4-7; SCh 132, 122.
27Cfr. ibidem, I, 42, 1-5; SCh 132, 186.
28Ibidem, I, 42, 24-30; SCh 132, 188.
29Cfr. ibidem, I, 51, 11-17; SCh 132, 214.
30Cfr. ibidem, II, 56, 10-18; SCh 132, 418.
31Cfr. ibidem, III, 23, 1-4; SCh 136, 52-54.
32Ibidem, III, 33, 8-12; SCh 136, 76-78.
33Cfr. ibidem, IV, 36, 1-2 e 42, 19-20; SCh 136, 272 e 294.
34Ibidem, II, 69, 3-7; SCh 132, 446.
35Idem, De principiis, IV, 2, 9, 1-9; GCS 22, 321.
36Idem, Contra Celsum, V, 29, 52; SCh 147, 88.
37Idem, De principiis, IV, 2, 6, 43-44; GCS 22, 317-318.
38Ibidem, IV, 2, 8, 1-9; GCS 22, 320.
39Cfr. Idem, Commentarium in evangelium Matthaei XI, 6, 25; SCh 162, 296.
40Idem, De principiis, IV, 3, 1, 10-12; GCS 22, 324.
41Ha scritto H. De Lubac: “S’il fallait résumer d’un mot l’esprit de cette exégèse, nous dirions qu’elle est un effort pour saisir l’esprit dans l’histoire, ou pour assurer le passage de l’histoire à l’esprit.” (H. de Lubac, Histoire et esprit, Aubier, Paris 1950, 278)
42Origene, Commentarii in evangelium Joannis, X, 18, 110, 4-6; SCh 157, 448.
43Idem, Expositio in Proverbia, PG 17, 221C.
44Cfr. J. Daniélou, Origène, La table ronde, Paris 1948, 74-79.
45Cfr. Gregorio di Nissa, Oratio catechetica magna, GNO III/4, 99-103.
46Cfr. A. Mosshammer, The created and the uncreated in Gregory of Nyssa: “Contra Eunomium I” 105-113, in L.F. Mateo-Seco – J.L. Bastero (Eds.), El “Contra Eunomium I” en la producción literaria de Gregorio de Nisa, Pamplona 1988, 353-380. Si veda anche la recente preziosa analisi in X. Batllo, Ontologie scalaire et polémique trinitaire. Le subodinatianisme d’Eunome et la distinction ktistn/ktiston dans le Contre Eunome I de Grégoire de Nysse, Jahrbuch für Antike und Christentum, Ergänzungsband Kleine Reihe 10, Aschendorf Verlag, Münster 2013.
47Gregorio di Nissa, Adversos Macedonianos, GNO III/1, 104, 8-12.
48Idem, Contra Eunomium III, 6, 22,1-4: GNO II, 193, 23-26.
49Idem, Contra Eunomium I, 691,3-10: GNO I, 224, 23-225, 5.
50Idem, Contra Eunomium III, 6,10,7-12: GNO II, 189,17-22.
51Idem, Adversos Macedonianos, GNO III/1, 109, 7-15.
52Ps-Basilio (Gregorio di Nissa), Ep. 38, PG 32, 332. Cfr. G. Maspero, Who wrote Basil’s Epistula 38? A Possibile Answer through Quantitative Analysis (con M. Degli Esposti e D. Benedetto), in J. Leemans – M. Cassin (eds.), Gregory of Nyssa’s Contra Eunomium III. Proceedings of the Twelfth International Gregory of Nyssa Colloquium (Leuven, 14-17 September 2010), Brill, Leuven 2014, 579-594.
53Gregorio di Nissa, Oratio cathechetica magna, GNO III/4, 11, 1-4.
54Idem, Ad Ablabium, GNO III/1, 55, 21-56, 10.
55Idem, Contra Eunomium I, 279,4-280,3: GNO I, 108, 7-13
56Cfr. Idem, In Canticum, GNO VI, 467, 2-17.
57Si veda il testo di De principiis I, 3, 5 a §.
58Gregorio di Nissa, Ad Ablabium, GNO III/1, 48, 20-49, 7.
59Cfr. Idem, In Canticum, GNO VI, 182,10-183,5.
60Sull’esegesi di Gregorio di Nissa, si vedano M. Canévet, Grégoire de Nysse et l’herméneutique biblique, Etudes Augustiniennes, Paris 1983; M.N. Esper, Allegorie und Analogie bei Grergor von Nyssa, Habelt, Bonn 1979; M. Harl (Ed.), Écriture et culture philosophique dans la pensée de Grégoire de Nysse, Actes du colloque de Chevetogne (22-26 septembre 1966), Brill, Leiden 1971.
61Cfr.Basilio, Adversus Eunomium, PG 29, 577A.
62Gregorio di Nissa, Contra Eunomium III, 3, 16, 10-17,1; GNO II, 113, 1-9.
63Ibidem, 3, 12, 3-8; GNO II, 111, 14-19.
64Cfr. Idem, De hominis opificio, 8: PG 44, 145BC.
65Si tenga presente che Gregorio considerava Eunomio un letteralista: cfr. R.E. Heine, Gregory of Nyssa’s Apology for Allegory, «Vigiliae Christianae» 38 (1984) 365.
66Gregorio di Nissa, Contra Eunomium II, 2, 85, 1-4; GNO I, 251, 22-25.
67Ibidem, 3, 1, 25, 3-5; GNO II, 12, 13-15.
68“Les faits eux-mêmes ont un dedans; ils sont déjà, dans le temps, chargés d’eternité” (H. de Lubac, Catholicisme, Cerf, Paris 1952, 111).
69Gregorio di Nissa, Contra Eunomium II, 3, 4, 55, 1; GNO II, 155, 10.
70Ibidem, III, 5, 8, 3-5; GNO II, 163, 3-5.
71Ibidem, III, 5, 9, 1-5; GNO II, 163, 9-13.
72Cfr. ibidem, III, 5, 11, 1-5; GNO II, 163, 28-164, 4.
73Ibidem, III, 5, 11, 5-12, 3; GNO II, 164, 4-11.
74Ibidem, III, 5, 15, 5-8; GNO II, 165, 14-17.
75Idem, Refutatio Confessioni Eunomii, 5, 8-6, 1; GNO II, 314, 19-26.
76Ibidem, 4, 10-5, 1; GNO II, 314, 9-12.
77Cfr. ibidem, 7, 2-4: GNO II, 315, 10-12.
78Ibidem, 7, 14-8, 6: GNO II, 315, 20-25.
79Ibidem, 275, 6-11.
80Idem, Epistula 3, 16, 1-17, 6; GNO VIII/2, 24, 6-19.
81Cfr. Idem, De vita Moysis, II, 136, 1-2: SCh 1, 190.
82Ibidem, II, 139, 1-3; 192.
83Ibidem, II, 141, 1-2; 194.
84Idem, De tridui spatio, GNO IX, 274, 12-275, 4.
85Cfr. Idem, In Canticum, GNO VI, 288, 6-10.
86Ibidem, GNO VI, 107, 9-108, 4.
87Cfr. G. Maspero, Essere e relazione, Città Nuova, Roma 2013.
88“In this sense even his allegorical interpretation, derived from Origen, has been modified by the Iamblichian tradition of holistic exegesis. His allegory, it can be said, is always controlled by the σκοπὸς of the Psalter” (R.E. Heine, Gregory of Nyssa’s Treatise on the Inscriptions of the Psalms, Clarendon Press, Oxford 1995, 49).