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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Umanesimo e crisi dello sguardo nella società digitale. Alcune idee per ripensare l’icona

Marcello La Matina

Università di Macerata

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Considero un privilegio poter parlare per ultimo, dopo avere ascoltato tutte le relazioni di questi giorni; questa posizione mi consente di fermare la mia attenzione sul reticolato che tiene insieme le diverse forme della κρίσις emerse dai discorsi che ho fin qui sentito. Non cercherò, lo dico subito, improbabili sistematizzazioni; né presumo che la filosofia, debba assegnarsi un ruolo demiurgico. Piuttosto, tenterò di ripensare le vostre parole, rincorrendo la melodia che esse han lasciato nel mio cuore e costruendo, sull’impronta di questa, un’armonizzazione che non snaturi il tema, ma che lo lasci emergere in una luce diversa. Ho veduto confrontarsi incessantemente due sensi principali della parola. Da una parte porrei la κρίσις intesa come certezza di un giudizio, come apparato critico della società, come esercizio di un sapere che divide escludendo. Dall’altra parte metterei la κρίσις pensata come incertezza, come eventualità che questo giudizio non si dia, che non arrivi a essere formulato. Se potessimo pensare questi due sensi – rivolgendoli l’uno contro l’altro, come in un acceleratore di particelle – emergerebbe forse qualcosa come una grammatica. C’è un modo attivo, che declina il giudizio come un dispositivo oggettivante; e c’è un modo che vorrei chiamare deponente, nel quale si manifesta piuttosto la soggettività, l’incertezza con cui il giudizio è atteso, temuto o evitato. La tarda Antichità e la tarda Modernità di cui è qui questione sono tenute insieme dall’alternanza di tali modi. Il Cristianesimo, così come poté essere pensato nella sua profondità di “vita filosofica”, ha posto incessantemente la questione della κρίσις e torna oggi a interrogare la filosofia proprio nel momento in cui questa appare disorientata, priva, cioè, di una orienza alla quale rivolgere lo sguardo, per sfuggire al relativismo imperante. I Padri Cappadoci, punto di svolta tra due antichità dialoganti, sono ancora oggi un modello prezioso per chi ama e pratica la vita al modo dei filosofi. Prima di entrare nel groviglio delle tematiche, però, lasciate che io faccia un po’ di analisi della parola e del concetto di κρίσις nei due sensi ora distinti.

1. ΚΡΙΣΙΣ come giudizio

῾Η κρίσις πολλαχῶς λέγεται, si vorrebbe cominciare: crisi si dice in molti modi, e la storia del termine lo testimonia. L’ellenista Salvatore Nicosia ne ha ricostruito le nervature in un corposo articolo;1 l’approccio linguistico risale il corso di un fiume semantico ampio e complesso, sfociante per noi nei moderni concetti di “giustizia” e di “crisi”. Sia la parola, tuttavia, sia il senso germinale dal quale altri sensi via via si specificano, fanno riferimento a un unico gesto assai antico che ancora si può osservare nella vita delle società cerealicole.2 In un passo omerico,3 viene menzionata la “spulatura”, la separazione del grano dalla paglia, ottenuta affondando la vanga, e poi lanciando in aria i chicchi commisti alla pula, così che il vento (o, presso i Greci, Demetra) possa liberarli dalle impurità. Il verbo greco κρίνω significa inizialmente “separo”; il crivello, o cribrum, è lo strumento di questa separazione, dalla quale maturano tutti gli usi che κρίσις ha assunto nelle forme del processo antropogenetico; e la κρίσις è il giudizio, l’atto del giudicare. Il giudizio nasce come separazione o liberazione di qualcosa da qualcos’altro; è un dispositivo che mostra, o attualizza, una divisione del lavoro linguistico. C’è il giudice e c’è il giudicato; c’è chi giunge a soluzione (colui, che nel giudizio è solutus, liberato) e chi invece subisce la condanna, il damnatus.

Ciò che anzitutto è in questione nel giudizio è la separazione tra un piano che andrà oggettivato e uno che sarà lasciato cadere fuori. L’oggetto, il prodotto dell’atto di giudicare, è l’enunciato, la sententia che assegna un predicato a un soggetto. L’operazione del giudicare pone prima qualcosa come un sostrato, e poi lo assoggetta al predicato. In questo senso proposizionale, la κρίσις ha effetti su tutto ciò che cade sotto il controllore predicativo. Inoltre, così come assegna una proprietà, il giudizio può toglierla, negarla. Potremmo chiederci ora: chi è l’agente che opera il giudizio? Se consideriamo autore del giudizio il soggetto dell’enunciazione, allora va detto che l’enunciato assertorio, la sententia nella sua forma canonica, non esprime tale soggetto dell’enunciazione. Al contrario, l’enunciato lascia cadere le dinamiche dell’enunciazione consegnandole al punto cieco dell’occhio linguistico. Usando una terminologia filologica, diremmo che il giudizio, la sententia, pone il soggetto in una condizione di atetèsi; impedendo a un qualsivoglia soggetto di rivendicare il contenuto della sententia, la lingua fa dell’enunciato il luogo stesso dell’oggettività del giudizio. Talché, solo una volta espunto il soggetto dall’enunciato, diviene possibile costruire le scienze, le leggi, le regole morali. Solo separando il prodotto dal produttore, il conoscente dal conosciuto, può prendere forma qualcosa come un pensiero teorico. Il giudizio si esercita nella vacanza del soggetto.

Tuttavia, il lavoro dell’enunciato non consiste solo nell’occultamento del soggetto, nella “spulatura” della paglia dal grano del sapere, comunitario o collettivo. L’enunciato è anche il luogo della divisione – la διαίρεσις, nel senso che Platone dava a questa operazione – e il μερισμός, la distinzione delle parti in cui l’enunciato può essere articolato.4 Non è il caso di introdurre qui una discussione sui temi della predicazione o della forma dell’enunciato: esistono lavori che lo hanno già fatto in modo egregio.5 Qui vorrei sottolineare due fatti. Il primo, sintattico, riguarda il punto di applicazione del giudizio. Quel che nel giudizio viene articolato, o separato da altro, non è l’oggetto come Ding an sich: per questo sarebbero sufficienti i nomi propri o le descrizioni definite. Nel contesto della proposizione, l’oggetto figura come parte solo in quanto è pensato attraverso i predicati che gli si applicano. Questo principio è presente nelle discussioni dei filosofi da Platone in poi, ma è stato codificato definitivamente dal logico Gottlob Frege.6 È il predicato che rende possibile il funzionamento dell’enunciato, applicandosi ai termini singolari nella sua qualità di termine concettuale: sempre Frege lo chiamava Begriffswort o Begriffsausdruck, cioè ‘parola-concetto’ o ‘espressione-concetto’. Il giudizio, dunque, è l’applicazione di un apparato concettuale non ad oggetti dell’esperienza, a cose, ma ad oggetti conosciuti dal linguaggio e già presenti in esso come Bedeutungen di termini singolari. Del pianeta Venere si possono dire tante cose: che è luminoso, che è lontano un numero n di anni luce, che è disabitato. E le stesse cose, o cose simili, potrebbero dirsi del corpo celeste che chiamiamo “stella della sera”. Tuttavia, potremmo non sapere che Venere e la stella della sera sono uno, e un solo corpo celeste. Pertanto, non attribuiamo etichette al pianeta Venere tout court, ma all’oggetto culturale “Venere”, così com’è conosciuto nel linguaggio che parliamo: è questo oggetto culturale che viene collocato dal giudizio nella posizione di un item capace di ricevere predicazioni.7

A questo si lega la nostra seconda considerazione. La totalità delle predicazioni impiegate nella lingua che parliamo non è una lista casuale di etichette verbali, ma l’espressione di un sistema di categorie. È stato Aristotele a mostrare la costituzione sistematica dei modi con cui categorizziamo e giudichiamo l’esperienza. Giudicare significa dire che cos’è, qual è quella talcosa, dove o in qual modo quella cosa è: questo è troppo noto perché ci si debba tornare. Tuttavia, si può chiedere da dove provengano queste categorie. Nelle Categorie di Aristotele compare un elenco di dieci nozioni: dieci categorie sono per lui dieci predicati possibili. È nota l’osservazione di Theodor Gomperz, secondo cui «Aristotele immagina un uomo fermo davanti a lui, mettiamo al Liceo, e passa in rassegna, una dopo l’altra, tutte le domande e le risposte che si potrebbero avanzare al suo riguardo. Tutti i predicati, continua Gomperz, che potrebbero essere assegnati a questo soggetto cadono sotto l’una o l’altra di queste dieci categorie, partendo dalla principale di esse, la più esteriore: Che cos’è l’oggetto che è qui percepito?, fino a domande come la seguente, che mette capo alla mera esteriorità: Che cos’ha indosso costui?».8 Occorre qui esplicitare un caveat: queste categorie – come ha ragionevolmente argomentato il linguista Emile Benveniste – non sono indipendenti dal sistema linguistico in cui Aristotele pensava e scriveva: il Filosofo «pensava di definire gli attributi degli oggetti; ma pone soltanto degli enti linguistici: è la lingua che, grazie alle proprie categorie, permette di riconoscerli e specificarli».9

Se le categorie con cui giudichiamo sono le categorie della lingua greca, allora il giudizio affetta non tanto le cose ingenue, quanto le cose che sono già parlate, o almeno parlabili, wortbar. Volendo fare uso del linguaggio tecnico dei filosofi, si dirà che le cose, di cui è questione nel giudizio, non sono Dinge, bensì Gegenstände, oggetti già sempre collocati dentro la lingua. Pretendere una “verginità” categoriale della filosofia è tanto ingenuo quanto pensare che il giudizio possa fare a meno della sua formulazione linguistica; o, all’inverso, pensare che il giudizio si esaurisca nella sua formulazione linguistica. Di questo parleremo nella parte che segue.

2. ΚΡΙΣΙΣ come incertezza

Il trionfo del giudizio è per noi il trionfo del kantismo. La distinzione dei giudizi in analitici e sintetici, per un verso, e in giudizi a priori e giudizi a posteriori, per altro verso, sancisce il primato del dispositivo giudicante, che aspira al riconoscimento del proprio ruolo nomenclatore. Nessuna incertezza accompagna il filosofo che assoggetta le cose in base alla sua lingua di concetti, sorta di apparato prensile rivolto verso le cose che potremo incontrare. Nessun ornitorinco, per tornare al bel libro di Eco, potrà mai sottrarsi alla categorizzazione linguistica. Almeno, fintanto che Kant avrà ragione su Hamann e la Critica del Giudizio prevarrà sulla “Metacritica del purismo della ragione”10 o su ogni altra filosofia che ne contesti lo schematismo.

In verità, molta buona filosofia del Novecento ha preso strade diverse da quelle tracciate nelle critiche kantiane. Per restare in tema, ricorderò le critiche di Willard Quine alla distinzione kantiana del giudizio in «analitico Vs sintetico», che egli considera uno dei dogmi del positivismo;11 Questa critica sancisce una svolta nella ‘svolta linguistica’ della filosofia analitica. Ma è soprattutto con la filosofia francese che la certezza del giudizio sembra rompersi audacemente, complice il dissodamento operato dal pensiero di Martin Heidegger. È doloroso per me non poter trattare questo tema con dovizia di particolari, ma ritengo che anche pochi accenni servano a presentare il problema e avviarci a una conclusione del discorso.

Abbiamo detto all’inizio che il giudizio pone il suo luogo nell’enunciato; Per presentarsi come oggettivo, esso deve lasciar cadere ogni rivendicazione soggettiva. Il giudizio si costituisce come un oggetto sociale ponendo in atetèsi il soggetto e il piano ‘ingenuo’ del mondo della vita. Volendo semplificare, direi che il giudizio può essere esercitato solo a patto che il soggetto rinunci al suo sguardo. Questo toglimento dello sguardo emerge ovunque il soggetto si costruisca: nella scienza, nel pensiero filosofico e, in certo senso, anche nelle riforme musicali e artistiche. Si pensi, ad esempio, alla logica dei Protokollsätze del Circolo di Vienna, al matematicismo o al metodo dodecafonico di Arnold Schönberg e della sua scuola. Queste tendenze abbracciano tutti i campi della cultura europea del Novecento e determineranno, di lì a poco – quasi una reazione chimica – la “crisi del giudizio”, che si tradurrà in una epoché, in una sospensione del giudizio. Nel positivismo scientista le cose non sono guardate che per formulare campi teoretici; i suoni del compositore moderno sono espressioni di una sintassi astratta, combinatoria, nella quale conta la forma, e dove il corpo sonoro è ridotto a mero veicolo di significazione. Le stesse teorie del linguaggio, l’antropologia, la semiotica, tenderanno sempre più a diventare modelli di scientificità asettica. E però, gli oggetti, cui la scienza si urta, sono termini e non cose. Mediante le sue proposizioni lo scienziato giudica solo i termini, non già le cose. La scienza approda così a un nihilismo dal sapore nominalistico, al quale si addice bene il detto del poeta: «nomina nuda tenemus». Un verso, questo, non a caso posto alla chiusura del più nominalista fra i trattati di filosofia del linguaggio: il romanzo Il nome della rosa, di Umberto Eco. L’enunciato, insomma, la sententia che esprime il giudizio può fare a meno delle cose, perché nessuna scienza può costituirsi sulle nude cose.

Rispetto a questa assenza di sguardo ha qualcosa da dire la filosofia francese. Jean Paul Sartre, per esempio, richiama l’attenzione sullo sguardo dell’altro: è questo sguardo che, nel momento in cui mi sorprende, mi fa sentire giudicato; Maurice Merleau-Ponty riscrive il campo percettivo, rovesciando i suoi fattori in una prospettiva già presso che ontologica: le cose ci guardano. Lo sguardo ricompare come il giudizio cui il soggetto è sottoposto dalle cose stesse. È tuttavia con l’opera dello psicanalista Jacques Lacan che sguardo e giudizio tornano a essere coniugati. Lacan torna sulla pagina di Sartre, per osservare con finezza che «questo sguardo che mi sorprende, questo sguardo che io incontro è, non già uno sguardo visto, ma uno sguardo immaginato».12 Non il giudizio proposizionale, ma l’immagine, l’icona è il luogo del rapporto con le cose che incontro, con Autrui; anzi, precisa Lacan «Lo sguardo di cui si tratta è proprio presenza di altrui come tale. Ma questo vuol forse dire che in origine è nel rapporto da soggetto a soggetto, nella funzione dell’esistenza di altrui in quanto colui che mi guarda, che cogliamo ciò di cui si tratta nello sguardo?»13

La risposta è positiva: nello sguardo non è il soggetto che cerca un oggetto su cui formulare un giudizio percettivo; il soggetto sorge quando emerge il Significante, sorge come luogo della relazione fra significanti, non come sostrato o come soggetto che assegna (cui sono assegnate) delle predicazioni. La dimensione ottica, scopica, è una via per impostare nuovamente il tema del giudizio. Il richiamo alla dimensione propriamente iconica è prossimo a trovare le sue parole. «È attraverso lo sguardo che io entro nella luce, ed è dallo sguardo che ne ricevo l’effetto. Da cui risulta che lo sguardo è lo strumento attraverso cui la luce si incarna».14 Il soggetto per Lacan nasce diviso: c’è una schisi che articola lo sguardo e la forma che si offre alla sua vista. Il campo scopico così disegnato è realizzato soprattutto nella pittura, nel quadro: guardato dal soggetto, il dipinto finisce con il contenere il soggetto. In un senso che Lacan spiegherà molte volte, il dipinto contiene il soggetto che lo guarda. Come era apparso nella fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, anche qui il soggetto è in quanto raggiunto dal riferimento del Significante, è visto, guardato dai dispositivi significanti nei quali egli investe il proprio desiderio. Accade così di trovare il modello del giudizio non nella proposizione dichiarativa, ma nella pratica della connoisseurship rivolta alle opere d’arte, laddove il critico o il pittore soffermano l’occhio sui tratti che la tela mostra e che essi sono chiamati a giudicare. Questo pone la domanda: Come si giudica un dipinto? Che cosa vuol dire formulare un giudizio che riguarda una distesa di colori e linee, sulle quali non solo la mente o la lingua, ma perfino la mano del pittore esita?

Lacan ricorda le lente pennellate di Matisse o di Cézanne, i lievi tocchi di colore che si susseguono apparentemente senza giudizio, mentre un operatore riprende al rallentatore i gesti del pittore. E li interpreta come l’istallazione di una schisi del soggetto, come “il primo atto della deposizione dello sguardo” del soggetto. V’è una teoria a sorreggere quei tocchi? È all’opera una concezione della materia o della forma o di entrambe? E, se sì, come assegnarle la forma di un giudizio? E può un dipinto essere bello, artistico, vero, senza che esprima un punto di vista sull’arte, sul linguaggio, sulla materia? Eppure, quei gesti veloci del pittore, quelle pennellate irriflesse non paiono che automatismi, movimenti dettati dalla confidenza, dall’abito. In essi, però, Lacan scopre una dimensione temporale, un guardare che rivela nel tempo la soggettività velata:

Al ritmo in cui, dal pennello del pittore, piovono quei piccoli tocchi di colore che arriveranno al miracolo del quadro, non si tratta di scelta, ma di qualcos’altro. Questo qualcos’altro, non possiamo cercare di formularlo? La questione non è forse allora da prendere quanto più vicino possibile a ciò che ho chiamato la pioggia del pennello? Se un uccello dipingesse, non lo farebbe forse lasciando cadere le sue piume, un serpente le sue squame, un albero sfrondandosi e facendo piovere le sue foglie?

Il giudizio, par dire Lacan, non è un atto del pittore, ma un gesto: non è un giudizio rivolto a un oggetto (materia o forma che sia) al fine di conferirgli qualità o valori; piuttosto, il giudizio è un riconoscimento del significante operante nel campo dell’Altro: il soggetto, scriverà più volte Lacan, sorge quando per la prima volta si manifesta il significante nel campo dell’Altro.

Se è così, allora la frizione del soggetto e del significante diviene giudizio perché resta nell’ambito del rispetto reciproco; diventa giudizio perché non giudica riducendo l’altro a un oggetto, il colore a materia, il volto umano a forma, e così via. L’umano che è dato nel dipinto è la pioggia del pennello che incontra la materia e si pone in ascolto di essa. Il giudizio pittorico non è il campo del soggetto kantiano che parla attraverso le forme della sua soggettività travestita. E’ piuttosto un luogo dove il significante ascolta il significante, dove il logos delle cose può essere convocato dall’artista e ascoltato. Questo giudizio ha le forme misteriose di una relazione con l’Altro.

Nel suo saggio sulla tragedia greca, Nicole Loraux esamina questo sguardo in una sorta di archeologia della voce.15 Cosa determinò, si chiede la studiosa, un così benevolo accoglimento de I Persiani di Eschilo rappresentati ad Atene nel 472? Forse il successo fu determinato dalla rappresentazione dei lutti inflitti dagli Ateniesi ai Persiani solo pochi anni prima?16 Ma, se è così, perché quella tragedia non fece scuola? Perché le tragedie successive abbandoneranno il plot storico, preferendo tornare all’intreccio basato sui μῦθοι della tradizione? Ma è poi vero, si chiede Loraux, che gli spettatori Ateniesi abbiano gioito dinanzi alla rappresentazione delle sofferenze dei Persiani? In altre parole, era lo sguardo dei Greci uno sguardo di autocompiacimento? Ovvero è accaduto in quella unica rappresentazione qualcosa come il riconoscimento di sé nel dolore dell’altro? Nel primo caso, la scena avrebbe funzionato come uno schermo, mentre nel secondo caso, la scena sarebbe stata come uno specchio. Il riconoscimento avrebbe per noi un senso assai simile allo stade du miroir introdotto nella teoria psicanalitica da Lacan. Nicole Loraux ritiene che I Persiani abbiano potuto introdurre una forma di pietà o di empatia nella dialettica, assai viva ad Atene, tra Ateniesi e altri, tra il senso del Sé e il sentimento dell’Altro. Se ha ragione la studiosa, allora occorre segnare l’anno 472 come una tappa della lunga storia del concetto di κρίσις, perché il sentimento di pietà suscitato dalla scena ha fatto girare a vuoto il sistema delle categorie (Greci Vs Barbari), sospendendo la dialettica culturale a vantaggio di una ridefinizione del concetto stesso di ἄνθρωπος.

Qualcosa di molto simile avviene con l’avvento del cristianesimo. Gesù davanti a Pilato, gli apostoli davanti ai loro giudici, i martiri davanti ai loro persecutori: tutte queste scene di giudizio sono permeate da una grammatica di sguardi che ora accusano e ora perdonano. In questi giorni abbiamo sentito Gnilka ricordarci opportunamente che il giudizio di Pilato verte sulla regalità, sulla verità della nozione di re. Nella pericope evangelica due modelli del regno sono contrapposti e il concetto di βασιλεύς viene risemantizzato. Gnilka si sofferma poi sulle scene di martirio contenute negli Acta Martyrum e le accosta persuasivamente al modello della passio Christi.17 La relazione che gli Acta esibiscono è una risemantizzazione: «Negli interrogatori dei martiri emerge continuamente un peculiare conflitto semantico: il cristiano riprende un concetto impiegato dal giudice, ma lo usa in un senso nuovo, che il pagano non comprende». Questa trasposizione dei significati può servire anche a descrivere il contributo del cristianesimo alla filosofia del linguaggio. Il cristianesimo, infatti, ha rivelato al mondo che il modello profondo della predicazione (ossia l’attribuzione di un predicato a un soggetto) è un modello giudiziario: predicare qualcosa di qualcuno e accusare qualcuno di qualcosa si dicono in greco con le stesse parole.18

La giustizia nell’Antichità veniva amministrata alla presenza delle icone del sovrano. E, come sappiamo, l’icona ha lo stesso contenuto dell’archetipo per il quale sta. Il giudizio avviene sotto lo sguardo delle icone, perché esse sono, in un senso diverso da quello ontico, il sovrano stesso nel cui nome il giudizio si svolge. La κρίσις è la rivelazione della violenza insita nel linguaggio. Questa violenza non è immediatamente percepibile, poiché si trova consegnata al piano dell’enunciazione. Le categorie pongono in essere il giudizio, ma nascondono all’occhio lo sguardo torvo degli accusatori. Nell’omelia De Pauperibus amandis,19 Gregorio di Nissa racconta ai suoi ascoltatori l’impressione assai viva e formidinosa che egli ha appena provato alla lettura della pericope evangelica, dove è annunciato il giudizio (Mt 25, 31-46). Gregorio si sente ancora avvinto dallo sguardo che promana da quella scena: «῎Ετι πρὸς τῷ θεάματι τῆς φοβερᾶς τοῦ βασιλέως ἐπιφανείας εἰμί, ἣν ὑπογράφει τὸ εὐαγγέλιον· ἔτι κατέπτηχεν ἡ ψυχὴ πρὸς τὸν φόβον τῶν εἰρημένων ἐνατενίζουσα c kajorsa trpon tin atn te tn ornion basila». Che intende dire con le parole “c kajorsa trpon tin atn te tn ornion basila”? Non vuole forse mettere in risalto la potenza iconica della scrittura?

Ora, “trovarsi in un certo qual modo come rivolto verso lo stesso re celeste” non significa forse che la rappresentazione del vangelo funziona come una icona. Il potere delle icone è così forte che Gregorio stenta a tornare alla dimensione testuale, quasi fosse trattenuto “in mezzo agli accadimenti narrati nel testo”, al punto da non riuscire a vedere altro: «Οὕτω δέ μοι τῆς ψυχῆς πρὸς τὸν τῶν ἀνεγνωσμένων φόβον διατεθείσης, c prc atoc doken enai toc prgmasi ka tn parntwn paisjnesjai mhdenc, οὐδεμίαν ὁ νοῦς ἄγει σχολὴν πρὸς ἄλλο τι βλέπειν τῶν προκειμένων εἰς ἐξέτασίν τε καὶ θεωρίαν τῷ λόγῳ». Lo sguardo del giudizio è lo sguardo del testo, quando questo funziona iconicamente, ossia quando rende presente lo sguardo dell’archetipo. Il contenuto di questo sguardo non è però ontico, ma ontologico: esso richiede che lo sguardo umano sia rivolto all’altro non così come egli è in senso fenomenico, ma come è nella verità della condizione umana stabilita dal giudizio. Sicché, dice Gregorio, occorre evitare di comportarsi come il levita e come il sacerdote che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, lasciarono quel povero viandante nella condizione in cui i ladroni lo avevano lasciato. Essi non guardarono cioè a quel che l’uomo è, ma a come quell’uomo apparve ai loro occhi. Il vangelo mette sotto gli occhi la condizione dell’uomo e prescrive di non trascurare la nostra somiglianza con i caratteri della natura comune (τὸ μὴ ἀλλοτριοῦσθαι τῶν κοινωνούντων τῆς φύσεως). Lo sguardo non deve cogliere il fenomeno, ma la verità che, nonostante il fenomeno, si preserva ontologicamente. Anche lo sguardo che Gregorio chiede ai suoi ascoltatori di rivolgere verso i poveri che hanno davanti tutti i giorni possiede questo contenuto ontologico. “Non consideri”, egli dice al suo ascoltatore, chi è colui che si trova in questa condizione? È un uomo, fatto a immagine di Dio, con tutto quel che segue (οὐ λογίζῃ τίς ὁ ἐν τούτοις ὤν· ὅτι ἄνθρωπος, ὁ κατ΄ εἰκόνα θεοῦ γεγονώς, ὁ κυριεύειν τῆς γῆς τεταγμένος, ὁ ὑποχείριον τὴν τῶν ἀλόγων ὑπηρεσίαν ἔχων). Proprio perché sfigurato, quest’uomo ti si presenta come un dato fenomenico di difficile interpretazione (οὗτος εἰς τοῦτο συμφορᾶς καὶ μεταβολῆς προῆλθεν, ὥστε ἀμφίβολον τὸ φαινόμενον εἶναι); non puoi effigiarlo come un membro del consesso umano, ma non puoi neppure assegnare i suoi tratti a una qualche specie di viventi diversi dal vivente che è uomo greco di Gregorio abbonda di termini relativi alla sfera semantica del vedere, del ritrarre, del raffigurare: «ἐὰν πρὸς ἄνθρωπον εἰκάσῃς, ἀρνεῖται τὴν ἀμορφίαν ὁ χαρακτὴρ ὁ ἀνθρώπινος· ἐὰν πρὸς τὰ ἄλογα τρέψῃς τὴν εἰκασίαν, οὐδὲ ἐκεῖνα τὴν ὁμοιότητα τοῦ φαινομένου προσίεται».

3. Rilievi conclusivi

Se il nostro discorso ha una qualche plausibilità, allora forse possiamo estrarne qualche suggerimento che ci permetta di pensare insieme la crisi dello sguardo causata dal cedimento di una visione attiva, positiva, del giudizio. Il giudizio è legato alla concettualizzazione e all’esercizio del potere di discriminare. Il suo modello profondo è, per un verso, quello delle civiltà raccoglitrici. Esse hanno la loro forza nella cernita degli elementi nutrienti, che vengono mantenuto puri da elementi di disturbo. In questa immagine della “spulatura”, possiamo scorgere un carattere tipico delle civiltà orali: il carattere dell’amnesia strutturale. Queste civiltà selezionano le memorie e le separano costantemente da tutto quello che disturberebbe l’omeostasi con l’ambiente o fra i membri della comunità. Il giudizio è in questa fase dell’antropogenesi un dispositivo concreto, il cui valore è soggetto a una ratifica sociale legata al cibo, al nutrimento, al ciclo del grano. Più avanti, con l’adozione della scrittura, il giudizio si installa nel prodotto più potente della scrittura: l’enunciato. Questo, infatti, permette di separare il contenuto semantico da conservare, liberandolo dalla contingenza del portatore, del parlante che proferisce questo o quell’altro enunciato. In questo modo, l’enunciato compie il giudizio, scartando come fosse pula il piano dell’enunciazione, ovvero il piano della soggettività. Il giudizio diviene allora oggettivante. Tuttavia, già nella tradizione greca, questa forma attiva di giudizio è sottoposta a una reazione contraria di pari, se non maggiore, forza. Emerge, soprattutto nella cultura teatrale dei Greci, una concezione deponente del giudizio: il sé si specchia nell’altro, il greco nel barbaro. Emerge un’entropia del giudizio come dispositivo di controllo delle differenze. Il teatro, questa sorgente di pietà, capace di canalizzare la paura e la compassione, diviene il mezzo che fa emergere l’umanità al posto della cittadinanza, la comunità al posto della società. Quando si sviluppa il cristianesimo, esso annuncia qualcosa che è bensì una novità, ma che può penetrare le coscienze, in virtù della diffusione di una sensibilità ‘empatica’ conosciuta nel mondo ellenizzato e da lì irradiata in tutta l’ecumene. Questo è il quadro, necessariamente disegnato per grandi linee, che io propongo per la tarda antichità. Oggi, la presenza dei media sociali, delle tecnologie che assumono lo sguardo per piegarlo a logiche di distanziamento, torna un modello di giudizio che mira a degradare l’altro, ad assimilarlo in modo vampiristico e non altruista. Il Novecento ha lasciato aperta la questione del giudizio, spaccandosi in due tronconi: la scienza, coi suoi protocolli quasi automatizzanti, da una parte; e dall’altra, quel complesso di fenomeni che John Rawls ha con cattiveria definito comprehensive doctrines: religioni, credenze, mitologie, e perfino la filosofia continentale potrebbero arricchire questo ambito.

Tuttavia,20 Rawls ha mostrato di avere scarse capacità di previsione. Il che è piuttosto limitante per uno che si considera uno studioso di scienze sociali. Quel che non ha previsto è il prepotente emergere della questione del giudizio su un piano squisitamente religioso. Insieme a tanti cultori del liberalismo e del positivismo relativista, Rawls ha creduto che il fondamento di una ragione pubblica (public reason) avrebbe condotto le società moderne fuori dalla presa delle comprehensive doctrines. Invece, è accaduto che il villaggio globale ha preso una strada diversa. Cosa questo comporterà, non sappiamo. Tuttavia, sembra oggi farsi strada una contrapposizione accesa tra sostenitori del giudizio attivo e sostenitori di una versione deponente del giudizio. I primi sono eredi di un modello forte della razionalità, prevalentemente centrato sul ruolo del linguaggio come sistema marcante. Gli altri sono, per esclusione, tutti quelli che hanno cercato modelli alternativi al primo. In questo secondo gruppo io collocherei i sostenitori della crisi del giudizio come via d’uscita rispetto alla disumanizzazione delle scienze umane; e mi spingerei a sostenere che il modello di ragione che emerge dai loro sforzi è, grazie all’apporto della civiltà cristiana della tarda antichità, un modello che coglie nell’icona la più valida alternativa alla sterilità del concetto. L’icona, come ho cercato di dire, è una via non del tutto visibile nella storia europea recente, ma che ha salde radici nella cristianità orientale e che attraverso Bisanzio ha saputo trasmettersi a popoli diversi per lingue e per etnia: nessuna lingua avrebbe saputo essere più comunicabile di un linguaggio iconico. Ora, e concludo, l’iconicità del cristianesimo riprende virtuosamente l’iconicità delle antiche civiltà teatrali, senza scadere, però, nella finzione nel gioco illusionistico della scena. Il giudizio può essere una categoria centrale per il mondo globalizzato. Esso è chiamato a vincere sfide importanti. E in questo cammino la strada indicata dai Padri della Chiesa, dai Cappadoci e non solo, può rivelarsi un prezioso antidoto contro le frustrazioni della ragione e contro i miti che essa alimenta quando è idolatrata. Se sapremo rinunciare a vedere nel giudizio (separante e divisivo) il nostro vitello d’oro e accetteremo di recare culto in spirito e verità al Dio vivente, allora vorrà dire che la passione iconofila dei padri di Nicea II ci è servita a liberarci dal pericolo di idolatrare – senza neppure rendercene conto – il più assetato degli dèi: la ragione umana.

1S. Nicosia, Sul concetto di ‘giudizio’ (krsic) in Grecia. Un approccio linguistico, in Id., Ephemeris. Scritti efimeri, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, 215-228. Per una discussione a più voci sul tema del giudizio, cfr. gli Atti del Convegno svoltosi a Palermo nel 1997 in S. Nicosia, a cura di, Il giudizio. Filosofia, teologia, diritto, estetica, Carocci, Roma 2000; il volume contiene anche la prima versione del testo di Nicosia.

2Nicosia, Ephemeris, 218, ritiene non più dubitabile che «a fondamento della radice *krei-/*kri- di κρίνω ci sia l’atto di ‘separare’ materiali diversi, e che tale ‘separazione’ sia quella, fondamentale e primaria delle società cerealicole, consistente nel liberare i cereali, attraverso un’opera di continua approssimazione, dalla paglia, dagli involucri, dalle impurità, fino al conseguimento di un frutto commestibile».

3Homeri Ilias, V 499-501: «ὡς δ΄ ἄνεμος ἄχνας φορέει ἱερὰς κατ΄ ἀλωὰς / ἀνδρῶν λικμώντων, ὅτε τε ξανθὴ Δημήτηρ / κρίνῃ ἐπειγομένων ἀνέμων καρπόν τε καὶ ἄχνας», «come nelle sacre aie il vento trasporta la pula / mentre gli uomini spagliano, allorché la bionda Demetra / separa sotto l’impulso dei venti il prodotto dalla pula…» trad. Nicosia.

4È questo ciò che i linguisti anglofoni dicono parsing, ovvero quella parte dell’analisi linguistica che provvede al riconoscimento delle partes orationis, o μέρη τοῦ λόγου. Cfr. J. Lyons, Semantics:1, Cambridge University Press, Cambridge, Uk, 1977.

5Cfr., e.g., D. Davidson, A Unified Theory of Thought, Meaning and Action, in Id., Problems of Rationality, Oxford University Press, Oxford – New York 2004, 152-166.

6È il cosiddetto Kontext-Prinzip o principio del contesto. Esso recita che non si deve mai indagare il significato di un termine isolato: il significato va cercato nel contesto della proposizione. Cfr. G. Frege, Begriffsschrift, eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reinen Denkens, Halle a. S.: Louis Nebert, 1879.. Un’affermazione analoga troviamo nella logica antica. Platone distingue nel Sofista (261d) un’analisi dei termini prescindendo dalla loro connessione sintattico-semantica nell’enunciato (ἄνευ συμπλοκῆς) e un’analisi che segue da tale congiunzione (μετὰ συμπλοκῆς). Similmente farà Aristotele nell’Organon. Il tema è stato affrontato in modo analitico e in prospettiva storica dal filosofo Donald Davidson in uno dei suoi ultimi lavori: cfr. D. Davidson, Truth and Predication, Oxford University Press, Oxford – New York 2005. Circa l’importanza della predicazione nell’ambito della filosofia Patristica greca, con particolare riferimento a Gregorio di Nissa, mi permetto di rimandare il lettore a M. La Matina, God is not the Name of God. Some Remarks on Language and Philosophy in Gregory’s Opera Dogmatica Minora. In: Volker Drecoll, Margitta Berghaus(eds). Gregory of Nyssa: The Minor Treatises on Trinitarian Theology and Apollinarism, Leiden – Boston, Brill, 2013, pp. 315-335.

7Dal punto di vista semiotico, il problema delle categorie diventa quello dei cosiddetti giudizi percettivi, la cui importanza è stata scoperta da Peirce. Cfr. C. Sanders Peirce, Semiotica, I fondamenti della semiotica cognitiva, a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino, 1980. Una rivisitazione delle categorie peirceane – definite da Peirce “faneroscopiche” – è offerta da U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1994, 59-81. Anche qui un punto di vista semiotico è offerto dallo studioso alessandrino, in rapporto al cosiddetto “Albero di Porfirio”, cfr. Eco, L’antiporfirio, in G. Vattimo e P.A. Rovatti, a cura di, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983, 52-80. Questi problemi semio-filosofici sono assai attraenti per lo studioso di Patristica, soprattutto perché sia Eco, sia molti dei semiotici che trattano di categorie e tipi cognitivi sembrano ignorare la filosofia dei Padri Cappadoci, che sul punto avrebbe molto da dire al concettualismo occidentale. Ho brevemente trattato questo tema nell’articolo: La Matina, Trinitarian Semantics, in G. Maspero and F.P. Mateo-Seco, eds., The Brill Dictionary of Gregory of Nyssa, 99; Brill, Leiden – Boston, 2010, 743–748. 

8[Traduco] Theodor Gomperz, in: Aristotle, The Categories, edited by Hugh Tredennick, Loeb, London – New York 1962, vol. I, 2.

9[Traduco] Emile Benveniste, Problèmes de linguistique générale, 1, Gallimard, Paris, 1966, 70.

10Scriveva Johann Georg Hamann, a proposito della Tavola delle Categorie di Kant e in riferimento alla impossibilità di pensare il giudizio senza un adeguato trattamento dell’ “impurità” dovuta all’essere ogni giudizio sempre formato nella lingua: «If then a chief question indeed still remains—how is the faculty of thought possible? The faculty to think right and left, before and without, eith amd beyond experience?—then no deduction is needed to demonstrate the genealogical prioriy of language, and its heraldry, over the seven holy functions of logical propositions and inferences. Not only is the entire faculty of though founded on language, according to the unrecognized prophecies and slandered miracles of the very commendable Samuel Heinicke, but language is also the counterpoint of reason’s misunderstandings with itself, partly because of the frequent coincidence of the greatest and the smallest concept, its vacuity and its plenitude in ideal propositions, partly because of the infinite [advantage] of rhetorical over inferential figures, and much more of the same». Hamann, Writings on Philosophy and Language, edited by Kenneth Haynes, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, 211. Corsivo mio.

11Willard Van Orman Quine, Two dogmas of Empiricism in Idem, From a Logical Point of View, Cambridge University Press, Cambridge (Massachusetts), 1953, 47-64.

12Jacques Lacan, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Nuova edizione, Einaudi, Torino, 2003, 83.

13Ibidem.

14Ibidem, 105.

15Nicole Loraux, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca, Einaudi, Torino 2003, 72-86.

16Così parrebbe doversi concludere, almeno se diamo credito a quanto Aristofane fa dire al personaggio di Dioniso nelle Rane (la commedia fu rappresentata nel 405 a. C.): «{ΔΙ.} ᾿Εχάρην γοῦν, ἡνίκ’ ἐκώκυσας περὶ Δαρείου τεθνεῶτος, / ὁ χορὸς δ’ εὐθὺς τὼ χεῖρ’ ὡδὶ συγκρούσας εἶπεν· ᾿Ιαυοῖ»; «Ho gioito, certo, non appena ho udito i lamenti su Dario morto! Il coro subito scoppiò in un battimani, esclamando ‘Iauoi’», vv. 1028-1029.

17Cfr. Christian Gnilka, Il nuovo senso delle parole: giudice e confessore negli atti dei martiri, in questo stesso Volume, §§.

18Cfr. exempli gratia questa espressione usata in Aristoteles, Categ., 3 a 19-20: τὸν γὰρ τοῦ ἀνθρώπου λόγον κατὰ τοῦ τινὸς ἀνθρώπου κατηγορήσεις καὶ τὸν τοῦ ζῴου.

19Gregorii Nysseni, De pauperibus amandis orationes duo, ed. A. van Heck, Brill, Leiden 1964.

20Rawls ha precisato il suo punto di vista in proposito in un lungo saggio, che andrebbe letto insieme all’opera maggiore: J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, in “The University of Chicago Review”, 64 (1997), 3, 765-807.